Magistratura democratica

Il terrorismo e le politiche migratorie: sulle espulsioni dello straniero sospettato di terrorismo

di Luca Masera

1. Premessa

L’argomento assegnatomi coinvolge due temi che rappresentano oggi i maggiori motivi di allarme nel dibattito pubblico europeo: proprio i timori legati al radicamento del terrorismo islamico in Europa, da un lato, ed al massiccio afflusso di richiedenti asilo provenienti da zone di guerra, dall’altro, sono all’origine di una crisi di fiducia senza precedenti in alcuni degli ideali fondativi dell’Unione europea (su tutti la libera circolazione delle persone ed il rispetto dei diritti fondamentali), che vengono ormai esplicitamente messi in discussione da partiti politici o addirittura da Governi di diversi Paesi europei.

Considerata la vastità del tema, è indispensabile scegliere una prospettiva in cui affrontare i rapporti tra i due fenomeni oggetto del mio intervento, e tale prospettiva non può che essere quella propria di chi vi parla, che di professione insegna diritto penale, e ha avuto modo di occuparsi in diverse occasioni della tutela dei diritti fondamentali dei migranti. Senza quindi negare la legittimità delle esigenze di tutela della collettività che stanno a fondamento degli istituti che si andranno ad analizzare, la prospettiva seguita sarà esplicitamente “di parte”, cioè sarà volta a verificare se ed in che misura queste esigenze vengano perseguite nel rispetto dei diritti fondamentali.

La prima parte del mio intervento intende analizzare la questione di come la disciplina (penale ed amministrativa) di contrasto al terrorismo interferisca con quella in materia di immigrazione. Vedremo in che modo (da un punto di vista normativo, non criminologico) la circostanza che il soggetto coinvolto in attività terroristiche sia uno straniero rilevi al fine del suo trattamento giuridico, e ciò ci porterà a concentrarci sull’istituto dove le due materie si intersecano, quello dell’espulsione dello straniero condannato o sospettato di attività terroristiche: istituto che, come vedremo, risulta quanto mai problematico nell’ottica del rispetto dei diritti fondamentali.

Nella seconda parte l’attenzione sarà invece dedicata ad una vicenda che non riguarda il tema del terrorismo, ma quello del rispetto dei diritti fondamentali dei migranti irregolari nelle prime fasi successive al loro arrivo in Italia. Il 22 giugno 2016 si discuterà presso la Grande Camera della Corte Edu (caso Khlaifia c. Italia: il collega Stefano Zirulia ed io siamo i rappresentanti dei ricorrenti) una vicenda che riguarda la legittimità del sistema di accoglienza a Lampedusa nel 2011, sotto il profilo in particolare del rispetto della libertà personale dei migranti: daremo brevemente conto della vicenda, e vedremo come la decisione che assumerà la Corte rilevi non solo in relazione ai fatti del 2011, ma anche all’attuale gestione degli arrivi in Italia ed in Europa.

2. L’espulsione dello straniero coinvolto in attività terroristiche

Quando il soggetto coinvolto in attività terroristiche non è cittadino italiano, oltre agli strumenti sanzionatori applicabili in generale (le sanzioni penali previste dalla diverse norme incriminatrici in materia di terrorismo, e le misure di prevenzione per gli indiziati di terrorismo), un ruolo centrale ricopre l’istituto dell’espulsione dal territorio dello Stato, che nel nostro ordinamento può rivestire diverse forme.

Le espulsioni in materia di terrorismo si distinguono innanzitutto a seconda che vengano disposte dal giudice penale, o dall’autorità amministrativa[1].

Per quanto riguarda le espulsioni del primo tipo, l’ipotesi è quella dell’espulsione a titolo di misura di sicurezza prevista per i reati in materia di terrorismo dall’art. 312 cp, ed applicabile tanto agli stranieri extracomunitari che a quelli comunitari (per questi ultimi l’istituto prende il nome di allontanamento, invece che di espulsione, ma la differenza è meramente terminologica). Quando lo straniero viene condannato ad una pena detentiva per un reato di terrorismo, e risulti socialmente pericoloso, il giudice penale, nella sentenza di condanna, è tenuto ad applicare la misura di sicurezza dell’espulsione, che sarà eseguita al termine dell’espiazione della pena, a condizione che, a giudizio del magistrato di sorveglianza, lo straniero risulti ancora pericoloso.

L’espulsione amministrativa per ragioni di terrorismo (che prescinde da una condanna in sede penale, e riguarda solo gli stranieri extracomunitari) può poi essere di tre tipi. La prima è quella prevista dall’art. 13 co. 1 d.lgs n. 286/1998 (di seguito: Tui), secondo cui «per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, il Ministro dell’interno può disporre l’espulsione dello straniero anche non residente nel territorio dello Stato». La seconda, sempre di competenza del Ministro dell’interno (o, su sua delega, del prefetto), è prevista dall’art. 3 dl n. 144/2005 (contenente «misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale», e convertito in l. n. 155/2005), e può essere disposta «quando vi sono fondati motivi di ritenere che la permanenza dello straniero nel territorio dello Stato possa in qualsiasi modo agevolare organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali». La terza è quella che, ai sensi dell’art. 13 co. 2 lett. c. Tui (così come modificato nel 2015), viene disposta dal prefetto nei confronti dello straniero che «appartiene a taluna delle categorie indicate negli artt. 1, 4 e 16 del d.lgs 6 settembre 2011, n. 159»[2].

Non abbiamo in questa sede lo spazio neppure per abbozzare un’analisi di tutti i numerosi profili problematici relativi a ciascuno di tali istituti. Ci soffermeremo solo su due aspetti particolarmente delicati sotto il profilo del rispetto dei diritti fondamentali: il primo, comune a tutte le figure di espulsione, relativo al rischio di tortura o trattamenti inumani o degradanti cui può andare incontro nel proprio Paese di provenienza lo straniero condannato o sospettato di terrorismo; ed il secondo, proprio in particolare delle espulsioni ministeriali, relativo al rispetto delle garanzie procedurali nell’esecuzione del rimpatrio.

2.1. Il pericolo di violazione dei diritti fondamentali nello Stato di destinazione dello straniero espulso

La questione che ci interessa è oggetto di una ormai copiosa giurisprudenza della Corte Edu, le cui coordinate sono state tracciate da due notissime sentenze, quella della Grande Camera Chahal c. Regno Unito[3], relativa ad un caso di espulsione verso l’India, e quella sempre della Grande Camera Saadi c. Italia[4], del 2008, relativa al rimpatrio di un cittadino tunisino.

La Corte, nella sua più autorevole composizione, ha ribadito un principio che aveva cominciato ad affermarsi nella sua giurisprudenza dagli anni Novanta[5], quello per cui il rispetto dell’art. 3 Cedu comporta per gli Stati contraenti non solo il divieto di realizzare le condotte ivi proibite, ma anche di espellere lo straniero verso un Paese ove è a rischio di subire i trattamenti in questione.

Nelle sentenze citate, la Corte ha fatto affermazioni molto decise nel contrastare il tentativo di alcuni Governi (specie quello britannico) di sostenere che, mentre sarebbe assoluto il divieto per gli organi dello Stato contraente di ricorrere a tali pratiche, quando si tratta del rischio che uno Stato terzo pratichi tali trattamenti «i diritti del ricorrente devono essere bilanciati con gli interessi della collettività nel suo insieme»[6]: se si tratta di un pericoloso terrorista, insomma, sarebbe possibile accettare il rischio di violazione dell’art. 3 da parte di uno Stato terzo, considerata la minaccia che lo straniero rappresenta per la sicurezza dello Stato.

La logica proposta dal Governo britannico è (in maniera appena più soft) quella che reggeva le tristemente note extraordinary renditions praticate dalla Cia in Europa e nel mondo nello scorso decennio: i Governi occidentali non torturano i terroristi, perché nei Paesi civili queste pratiche non sono tollerate, però si può chiudere un occhio se Governi di Paesi meno civili, nostri alleati, non disdegnano tali pratiche. La soluzione migliore è che le nostre mani rimangano pulite, ed il lavoro sporco lo facciano i “nostri” dittatori. Con una logica tanto pericolosa quanto ipocrita, si mira a conservare la coscienza pulita, di fronte all’opinione pubblica ed alla comunità internazionale, pur essendo complici delle peggiori violazioni dei diritti fondamentali.

Con forza, ed a più riprese, la Corte ha contrastato questa logica, affermando che il tipo di reati commessi dallo straniero non rileva in relazione alla protezione accordata dall’art. 3 Cedu[7], che conserva il suo carattere assoluto anche quando il soggetto sia un terrorista, e anche quando riguardi il pericolo che la violazione sia compiuta da agenti di uno Stato terzo.

Anche nella determinazione dell’onere della prova, la Corte ha mostrato di essere attenta a che la tutela dello straniero sia effettiva, e non soltanto declamata. La questione centrale per determinare in concreto l’ampiezza della tutela è in effetti quella degli elementi su cui la Corte basa la propria decisione. I Governi solitamente adducono, a negazione del rischio di tortura, che il Paese terzo aveva sottoscritto diversi accordi internazionali a tutela dei diritti fondamentali, e spesso producono documenti di varia natura provenienti dal Paese terzo, che rassicurano le autorità dello Stato contraente circa il rispetto dei diritti dello straniero qualora egli venisse rimpatriato. I ricorrenti, invece, sono soliti basare la loro domanda su rapporti di Ong attive nel settore dei diritti umani (in particolare Amnesty International) o di autorità governative (in diversi casi sono citati i rapporti del Dipartimento affari esteri del Governo Usa), che reputano accertato il ricorso alla tortura verso i sospetti terroristi.

La Corte non ha mancato occasione per affermare, ribadendo i principi di Chahal e Saadi, che né il dato formale della sottoscrizione di accordi in tema di diritti umani, né generiche rassicurazioni degli organi dello Stato terzo sul rispetto di tali diritti, bastano a rendere l’espulsione conforme al divieto di cui all’art. 3. Al contrario, se i rapporti di fonti autorevoli (governative o Ong) concordemente affermano l’accertamento di casi di violazioni gravi dei diritti fondamentali dei detenuti per terrorismo in un certo Paese, ciò può ritenersi adeguato a fornire prova del rischio di violazione dell’art. 3[8].

Se la Corte Edu è dunque chiara nel porre precisi limiti alla potestà dello Stato contraente di espellere lo straniero verso Stati ove vi è il rischio di tortura, è grave constatare come in più di un’occasione lo Stato italiano abbia violato in maniera esplicita le prescrizioni della Corte. I casi cui faccio riferimento sono relativi all’espulsione di sospetti terroristi tunisini, negli anni immediatamente precedenti la rivoluzione del 2011, anni in cui gli accordi bilaterali italo-tunisini in materia di immigrazione rendevano particolarmente facili i rimpatri dei tunisini. In almeno tre occasioni, a quanto una breve ricerca mi ha consentito di verificare, la Corte Edu, investita del caso secondo la procedura d’urgenza prevista all’art. 39 del Regolamento della Corte, aveva intimato allo Stato italiano di sospendere il rimpatrio di un sospetto terrorista tunisino, e purtuttavia, le autorità italiane avevano proceduto comunque al rimpatrio, in aperta violazione della misura cautelare sospensiva del provvedimento disposta dalla Corte Edu[9].

Si tratta a mio avviso di episodi gravissimi, tanto più considerando che sono tutti successivi alla sentenza Saadi, quando la Corte (nella composizione di Grande Camera) aveva già affermato in modo inequivocabile che le espulsioni di sospetti terroristi verso la Tunisia erano vietate. Di fronte ad un preciso ordine cautelare della Corte Edu di sospendere l’espulsione, l’autorità di polizia (e quella giudiziaria, visto che il provvedimento di rimpatrio era stato convalidato dal giudice di pace) ha deciso di procedere comunque al rimpatrio. Rispetto alle extraordinary renditions,qui il sospetto terrorista non viene rapito per essere inviato nel Paese ove verrà torturato, ma sono le autorità italiane che alla luce del sole, in violazione di un ordine della Corte Edu, inviano il terrorista verso un Paese dove è molto probabile che verrà torturato: una rendition meno extraordinary, ma comunque consapevolmente illegale, e ugualmente lesiva dei diritti fondamentali dello straniero.

Queste vicende impongono una breve riflessione di portata più generale, riguardo all’efficacia delle sentenze della Corte Edu e alla loro concreta applicazione nell’ordinamento interno. In effetti, i casi appena citati hanno suscitato forti prese di posizione da parte del Consiglio d’Europa[10], ma in sede giudiziaria l’espressa violazione dell’ordine cautelare della Corte da parte dell’Italia si è tradotta soltanto (ed altro non poteva essere) nella constatazione che l’Italia ha violato non solo l’art. 3, ma anche l’art. 34 della Convenzione, in quanto ha negato allo straniero la tutela garantitagli dalla Convenzione: davvero troppo poco, ci pare, considerata la gravità di condotte con cui le autorità dello Stato hanno scelto deliberatamente di violare una disposizione cautelare vincolante della Corte Edu, rimpatriando un individuo in un Paese ove la Corte ritiene accertato egli corra un rischio grave e attuale di essere sottoposto a tortura.

In ipotesi di questo genere (come anche nei casi in cui non vi sia stato un provvedimento ex art. 39, e tuttavia il divieto di una certa condotta risulti in modo inequivoco dalla giurisprudenza della Corte), non ci pare da escludere la possibilità di valutare in capo alle persone fisiche che materialmente hanno contribuito all’esecuzione del rimpatrio (in primis il questore che ha eseguito il provvedimento espulsivo ed il giudice di pace che l’ha convalidato) gli estremi di una responsabilità penale (i primi reati che vengono in considerazione sono l’abuso d’ufficio e la violenza privata) o almeno disciplinare. Come non vi sarebbero dubbi che si esponga ad un procedimento penale un agente di pubblica sicurezza che consapevolmente trasgredisca un ordine di un magistrato italiano, non si vede per quale motivo ciò non dovrebbe valere quando ad essere trasgredito è un provvedimento della Corte Edu, considerata la pacifica vincolatività di tali provvedimenti per tutti i pubblici ufficiali degli Stati membri.

Insomma, perché sia davvero garantita l’esecuzione delle decisioni della Corte Edu, ci pare da prendere in considerazione l’opzione di sanzionare in sede disciplinare gli agenti dello Stato italiano che abbiano fornito un contributo alla violazione del provvedimento emesso in sede europea. Quando poi la condotta del pubblico ufficiale si sia estrinsecata in una condotta costituente gli estremi di un reato, al procedimento disciplinare non potrà non affiancarsene un altro in sede penale, in cui all’autorità giudiziaria spetterà verificare se la violazione che la Corte Edu ha constatato nei confronti dello Stato sia personalmente imputabile ai funzionari dello Stato che tale violazione hanno concretamente posto in essere.

Mi rendo conto che si tratta di una soluzione molto forte, ma credo che il ricorso alla sanzione dei singoli agenti dello Stato responsabili della violazione constatata dalla Corte Edu sia un’opzione che almeno come extrema ratio non può essere esclusa, se si vuole davvero garantire il rispetto delle decisioni di tale Corte, e con esso il rispetto dei diritti fondamentali[11].

2.2. L’espulsione ministeriale ed il rispetto delle garanzie dello straniero

Il profilo relativo al rischio di tortura nel Paese di provenienza è sicuramente quello più delicato dell’istituto dell’espulsione del sospetto terrorista, ma in relazione all’espulsione ammnistrativa disposta dal Ministro dell’interno – che è poi quella nella pratica più frequente – vi è un altro profilo che merita di essere esaminato, relativo alla tutela del diritto alla difesa dell’espellendo.

Le differenze tra tale tipo di espulsione e quella disposta dal giudice penale a titolo di misura di sicurezza sono notevoli. Quest’ultima è eseguita dopo che lo straniero è stato riconosciuto colpevole in sede penale per reati di terrorismo, ed è disposta dal giudice penale con tutti gli ampi strumenti di difesa concessi all’interno del processo penale. L’espulsione ministeriale, invece, viene solitamente disposta quando non vi sono gli elementi neppure per una misura cautelare (l’ipotesi più frequente è quella della misura cautelare richiesta dalla Procura e negata dal Gip nei confronti di uno straniero indagato per reati di terrorismo, cui segue l’espulsione ministeriale dello stesso), ed è disposta dal Ministro con un atto di «alta discrezionalità amministrativa», che riduce la sindacabilità dello stesso in sede di giurisdizione di legittimità[12]; l’eventuale ricorso al Tribunale ammnistrativo competente non comporta poi, per esplicita previsione normativa, la sospensione dell’esecuzione del provvedimento espulsivo[13], con il risultato che l’unica forma di controllo giurisdizionale prima che lo straniero sia rimpatriato è quella garantita dalla necessaria convalida da parte del giudice di pace dell’ordine questorile con cui l’espulsione disposta dal ministro viene concretamente eseguita (il dl del 2005, nel disciplinare l’espulsione ministeriale di cui all’art. 3, aveva addirittura previsto in via transitoria, sino alla fine del 2007, che la convalida del giudice di pace non fosse neppure necessaria).

Altra peculiarità di tale tipologia di espulsione è poi che, a differenza di tutte le altre forme (amministrative o giudiziarie) di espulsione, ad essa non si applicano i divieti di espulsione previsti dall’art. 19 co. 2 Tui: ad esempio possono essere espulsi anche i minori, su decisione però in questo caso del Tribunale dei minori[14], oppure il coniuge o il parente entro il secondo grado di un cittadino italiano.

Non è difficile intuire per quali ragioni questo istituto ponga seri profili di compatibilità con i diritti fondamentali. Un provvedimento così fortemente incidente sui diritti dello straniero viene disposto dall’autorità di Governo sulla base di presupposti quanto mai ampi (l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato, o il sospetto di agevolare attività terroristiche), e la natura di «atto di alta discrezionalità amministrativa» fa sì che il Consiglio di Stato abbia affermato la «limitata sindacabilità in sede giurisdizionale di tale atto, che deve ritenersi limitata al vaglio estrinseco in ordine alla mancanza di una motivazione adeguata o alla sussistenza di eventuali profili di travisamento, illogicità o arbitrarietà»[15].  

Inoltre, il controllo di legittimità, per quanto limitato, avviene comunque dopo che l’espulsione è stata già eseguita, visto l’esplicito divieto normativo che il ricorso sospenda l’esecuzione del rimpatrio; e quindi l’unico controllo giurisdizionale antecedente all’esecuzione del rimpatrio è quello del giudice di pace, che peraltro non può sindacare la fondatezza degli elementi addotti dal Ministro, ma deve limitarsi ad un controllo meramente formale della legittimità dell’atto del questore esecutivo del provvedimento ministeriale[16].

La Corte costituzionale, chiamata a valutare la legittimità di tale istituto, non ha preso posizione nel merito, valutando inammissibili le eccezioni proposte perché non adeguatamente motivate[17]. Senza qui voler esaminare i singoli profili di possibile incostituzionalità[18], non si può non riconoscere che ci troviamo di fronte ad un istituto che, per le caratteristiche evidenziate sopra, si pone davvero al limite di quanto in uno Stato democratico è concesso all’autorità di governo per tutelare la sicurezza della collettività. Un soggetto, magari sposato con una cittadina italiana, viene allontanato dal Paese sulla base di un sospetto privo di riscontro in sede processuale, e senza che un giudice ordinario abbia la possibilità di valutare la legittimità del rimpatrio, visto che l’unico controllo giudiziale è del giudice di pace, e non riguarda comunque la fondatezza dell’atto ministeriale. 

Forse bisogna riconoscere che, anche in un sistema rispettoso dei diritti fondamentali, è necessario lasciare ai più alti responsabili dell’attività del Governo, in casi in cui è a rischio la sicurezza dello Stato, la possibilità di espellere un sospetto terrorista, senza che in buona sostanza gli venga riconosciuta la possibilità di difendersi davanti ad un giudice. Il fatto però che l’art. 13 co. 1 Tui preveda che il Ministro dell’interno possa procedere all’espulsione «dandone preventiva notizia al Presidente del Consiglio dei ministri ed al Ministro degli affari esteri», è significativo di come tale forma di espulsione comporti una forte assunzione di responsabilità politica da parte del potere esecutivo, e dovrebbe quindi essere limitata a casi di assoluta ed eccezionale gravità.

Il dato quantitativo ci pare decisivo per una valutazione della legittimità politica della misura. Se l’espulsione ministeriale rimane un evento raro se non eccezionale, può essere tollerata in un sistema democratico. Ma se diventa una prassi che, qualora su un sospetto terrorista non vi siano elementi sufficienti per una misura cautelare o per una condanna in sede penale, si proceda alla sua espulsione in via ammnistrativa, ci pare aprirsi uno scenario davvero pericoloso per la tenuta della garanzie.

In un caso di cui ho avuto diretta conoscenza, lo stesso materiale probatorio, relativo a fatti del 2011, che è stato posto a fondamento nel 2015 di una sentenza assolutoria in primo grado da imputazioni di terrorismo, viene utilizzato dopo poche settimane, in mancanza di ulteriori e più recenti riscontri probatori, per motivare l’espulsione ministeriale dello straniero di nazionalità marocchina, coniugato e con figli di nazionalità italiana. L’espulsione è stata impugnata davanti al Tar di Roma, ma nel frattempo lo straniero è detenuto da settimane in carcere in Marocco senza alcuna contestazione formale, e senza la possibilità di avere contatti con i propri legali.

Se casi di questo genere diventano la norma, la situazione non può non apparire preoccupante. È vero infatti che la logica per cui un dato probatorio insufficiente per la responsabilità penale possa invece essere sufficiente per una misura preventiva di natura non penale, altro non è che la logica generale delle misure di prevenzione. Però, in questo caso la misura incide sui beni esistenziali dell’individuo ben più di quanto possano incidere le misure di prevenzione, e non è sottoposta ad un preventivo controllo della magistratura ordinaria come le più gravi tra tali misure.  

È necessario allora vigilare che l’uso dello strumento dell’espulsione ministeriale rimanga una misura eccezionale, altrimenti la complessiva tenuta democratica del sistema di contrasto al terrorismo rischia di entrare in crisi, tanto più che la situazione politica di diversi Paesi di provenienza dei sospetti terroristi (pensiamo tra gli altri all’Egitto, alla Giordania, o al Marocco) non dà oggi grandi garanzie di rispetto dei diritti fondamentali di tali soggetti. Credo che chiedere che tale misura sia sì consentita, ma solo in casi di particolare gravità, e dopo una valutazione preventiva di legittimità da parte del giudice ordinario (e non, come oggi, dopo un mero esame formale del giudice di pace), costituirebbe un ragionevole bilanciamento tra le esigenze di sicurezza dello Stato e quelle di rispetto del diritto di difesa dello straniero.

3. Il caso Khlaifia alla Grande Camera della Corte Edu e l’habeas corpus in Italia

Solo un cenno, infine, ad una vicenda molto importante che non riguarda il terrorismo, ma riguarda i diritti dei migranti che giungono irregolarmente sul nostro territorio ed il ruolo del giudice nella difesa di tali diritti.

La sentenza Khlaifia del 1 settembre 2015 ha condannato l’Italia su ricorso di tre cittadini tunisini che nel settembre 2011, dopo essere sbarcati irregolarmente a Lampedusa, erano stati trattenuti per diversi giorni nel Centro di soccorso e prima accoglienza (Cspa) sito sull’isola, per poi essere rimpatriati all’esito di una procedura accelerata che prevedeva il mero riconoscimento da parte dell’autorità consolare del loro Paese. La Corte Edu ha ritenuto che il trattamento cui erano stati sottoposti i ricorrenti (che era il trattamento cui andavano incontro tutti gli stranieri che sbarcavano in quel periodo a Lampedusa) violasse una pluralità di disposizioni della Cedu: l’art. 3, per le deplorevoli condizioni in cui versava il Centro di accoglienza; l’art. 5, perché la struttura di accoglienza era stata di fatto trasformata in un luogo di chiuso, in cui gli stranieri venivano trattenuti per diversi giorni, senza che vi fosse alcuna base legale a fondamento di tale privazione di libertà; l’art. 13, per la mancanza di un rimedio effettivo cui gli stranieri potessero ricorrere per far valere le proprie ragioni; l’art. 4 Prot. 4, perché le modalità di esecuzione del rimpatrio violavano il divieto di espulsioni collettive[19].

Come già accennato, il Governo ha chiesto che il caso venisse rimesso alla Grande Camera, e la richiesta è stata accolta. Non abbiamo qui lo spazio per approfondire i diversi profili che sono stati analizzati all’udienza del giugno 2016, dove la questione che è stata oggetto di maggiore attenzione è quella dell’esatta definizione della nozione di espulsioni collettive (questione sulla quale, nella decisione di settembre 2015, vi erano state due opinioni dissenzienti)[20].

La questione sulla quale ora vogliamo soffermarci riguarda il profilo della detenzione illegale, sul quale – considerato anche come sul punto la decisione di settembre sia stata assunta all’unanimità – ci pare estremamente improbabile che la Grande Camera decida in maniera difforme dalla sentenza di settembre. La decisione della Corte ha grandissima importanza, perché come accennato la situazione dei ricorrenti era identica a quella di tutte le centinaia di stranieri che in quel periodo sbarcavano irregolarmente a Lampedusa, e dunque la condanna significa una censura dell’intero sistema di prima accoglienza, che prevedeva come prassi la privazione di libertà dei migranti, al di fuori di qualsiasi forma di controllo da parte dell’autorità giudiziaria.

La Corte europea ha fatto emergere una situazione la cui gravità era stata posta in luce in moltissime occasioni non solo dalle Ong, ma anche da organismi istituzionali (come la Commissione straordinaria per i diritti dell’uomo del Senato, i cui rapporti sono stati ampiamente citati dalla Corte Edu): quello che secondo la legge era un luogo di accoglienza, era stato trasformato de facto in un luogo di detenzione, in cui gli stranieri venivano trattenuti contro la loro volontà al di fuori di qualsiasi garanzia.

Nonostante le ripetute segnalazioni, la magistratura italiana non si è mai attivata per porre termine a questa sistematica violazione dell’art. 13 Cost: le denunce delle Ong, che stigmatizzavano questa illegale privazione di libertà, sono state tutte archiviate con provvedimenti di poche righe, in cui ci si limitava a constatare che formalmente Lampedusa era un centro di accoglienza, senza prendere in considerazione la realtà per cui era un centro chiuso, da cui gli stranieri erano impossibilitati ad allontanarsi[21].

La Corte Edu ha finalmente chiarito che, ai fini dell’applicazione delle garanzie in materia di libertà personale, a nulla rileva la qualificazione giuridica del luogo ove il soggetto si trova, ma conta solo se in tale luogo in concreto si assista o meno ad una privazione di libertà: un principio in realtà scontato (e tutt’altro che nuovo dalla giurisprudenza europea), che tuttavia era stato posto in discussione nella memoria difensiva del Governo italiano, che proprio sulla qualificazione formale del Centro di Lampedusa come luogo di accoglienza aveva fondato la richiesta di non ritenere violato l’art. 5 Cedu.

La prassi di fare dei Centri di prima accoglienza dei luoghi chiusi, in cui viene praticata una privazione della libertà personale priva di qualsiasi base normativa, non è solo un ricordo del recente passato, ma è un problema purtroppo quanto mai attuale. L’“approccio hotspot” di cui tanto si parla negli ultimi mesi – consistente nella creazione di Centri di prima identificazione e smistamento degli stranieri, in cui vengono separati i destini dei richiedenti asilo destinati all’accoglienza, e dei migranti economici destinati al rimpatrio più celere possibile – si fonda proprio sul presupposto di trasformare luoghi formalmente di accoglienza, estranei per la loro natura al controllo del giudice, in luoghi di detenzione, in cui la libertà dello straniero è completamente rimessa all’arbitrio delle forze di polizia. Moltissime fonti indipendenti (peraltro mai smentite dal Governo) attestano come prassi normale di questi Centri sia che, se lo straniero rifiuta di identificarsi oppure non vi è posto in altre strutture di seconda accoglienza, viene trattenuto coattivamente anche per diversi giorni, in mancanza di alcun provvedimento restrittivo della libertà personale.

Ormai da tempo si parla di una nuova riforma della materia della primissima accoglienza (dopo quella del d.lgs n. 142/2015), con cui si preveda esplicitamente la possibilità di ricorrere in attesa dell’identificazione a forme di privazione di libertà, nei termini previsti all’art. 13 Cost., e si delineino i poteri coercitivi che possono essere utilizzati dall’autorità di polizia per procedere all’identificazione, mediante rilevamento delle impronte digitali, anche quando lo straniero vi si oppone.

La vicenda oggetto del caso Khlaifia, e la prevedibile conferma della condanna dell’Italia per la violazione dell’art. 5 nella gestione del centro di prima accoglienza di Lampedusa nel 2011 (che, lo ribadiamo, non è molto diversa sotto questo profilo dalla situazione attuale nei vari “hotspots” aperti nelle nostre regioni meridionali), rendono quanto mai necessario che tali progetti di riforma, in verità al momento ancora dai contorni molto generici, vengano al più presto discussi in sede parlamentare.

La vicenda di Lampedusa ha posto in luce come nel nostro ordinamento manchi una forma di habeas corpus di portata generale[22], è ciò è particolarmente grave proprio quando la privazione di libertà avviene in maniera del tutto illegale, e quindi al di fuori di qualsiasi procedura giudiziale. De iure condito, l’unica forma di reazione dovrebbe essere l’intervento penale nei confronti dei responsabili politici ed amministrativi di quello che non si può che qualificare come un sequestro di persona (di massa): ma è difficile che una Procura arrivi a contestare un reato di questa gravità ai responsabili (politici ed amministrativi) dei Centri, quando la prassi della detenzione illegale è praticata da anni ed alla luce del sole.

È necessario allora essere consapevoli che, tanto in materia di immigrazione che di terrorismo, il fenomeno più pericoloso cui assistiamo negli ultimi anni è proprio la tendenza alla “fuga dal giudice”, verso meccanismi che consentono (o di fatto, come a Lampedusa; o anche di diritto, come nel caso delle espulsioni ministeriali) all’autorità di polizia di incidere su interessi esistenziali di primaria importanza (la libertà o la possibilità di vivere nel nostro Paese) al di fuori di un reale controllo giudiziale. Non basta impegnarsi perché il sistema penale di contrasto al terrorismo, o il sistema legale di gestione dell’immigrazione, garantiscano i diritti fondamentali; bisogna anche prendere posizione per contrastare questo affievolimento della giurisdizione (che passa anche attraverso la scelta di affidare le scelte in materia di libertà dello straniero ai giudici di pace, spesso inclini ad accogliere in modo acritico le richieste dell’autorità amministrativa), e riaffermare il principio che più di tutti gli altri distingue uno Stato di diritto da uno Stato di polizia, la riserva di legge e di giurisdizione per tutti i provvedimenti che incidono sulla libertà, del cittadino come dello straniero, regolare o irregolare.

[1] Per una complessiva ricognizione della normativa in materia di espulsione degli stranieri, cfr. ex multis Cherchi, L’allontanamento dall’Italia dello straniero e del cittadino europeo, in Immigrazione, asilo e cittadinanza, a cura di Morozzo della Rocca, 2015, 229 ss.

[2] Per quanto qui di interesse, tra i diversi destinatari delle misure di prevenzione di cui al d.lgs n. 159/2011, vedi in particolare i soggetti individuati all’art. 4 co. 1 lett. d. (così come modificato dal dl n. 7/2015, convertito in l. 43/2015), per cui tra i destinatari di tali misure rientrano coloro che «pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale ovvero a prendere parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un’organizzazione che persegue le finalità terroristiche di cui all’art. 270 cp».

[3] Corte Edu, Grande Camera, 15.11.1996, Chahal c. Regno Unito, 22414/93.

[4] Corte Edu, Grande Camera, 28.2.2008, Saadi c. Italia, 37201/06.

[5] Per una breve ricostruzione di tale giurisprudenza, cfr. per tutti Pustorino, Art. 3, in Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a cura di Bartole-De Sena-Zagrebelsky, 2012, 85 ss.

[6] Saadi, cit., § 120. Così viene ricostruita più distesamente nella sentenza l’argomentazione del Governo inglese: «È vero che la protezione offerta dall’art. 3 della Convenzione contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti è assoluta. Tuttavia, in caso di espulsione, questi trattamenti non sarebbero commessi dallo Stato firmatario, ma dalle autorità di uno Stato terzo. Lo Stato firmatario è allora legato da un obbligo positivo di protezione contro la tortura implicitamente dedotto dall’art. 3. Ora, nel campo degli obblighi positivi ed impliciti, la Corte ha ammesso che i diritti del ricorrente devono essere bilanciati con gli interessi della collettività nel suo insieme».

[7] Cfr. in particolare ancora Saadi, cit.,§ 127: «L’art. 3, che proibisce in termini assoluti la tortura o le pene o trattamenti inumani e degradanti, sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche. (..) Essendo il divieto di tortura o di pene o trattamenti inumani e degradanti assoluto, quali che siano i comportamenti delle persone coinvolte, il tipo di reato di cui è ritenuto responsabile il ricorrente è ininfluente ai fini della valutazione di cui all’art. 3».

[8] Cfr. ancora, per i necessari riferimenti giurisprudenziali, Pustorino, cit.

[9] Corte Edu, Seconda sezione, 24.2.2009, Ben Khemais c. Italia, 246/07; Corte Edu, Seconda sezione, 5.4.2011, Toumi c. Italia, 25716/09; Corte Edu, Seconda sezione, 27.3.2012, Mannai c. Italia, 9961/10.

[10] Il Segretario generale del Consiglio d’Europa ha in particolare stigmatizzato la condotta dell’Italia in relazione al caso Mannai con una comunicazione del 20 maggio 2010; in relazione invece al caso Toumi, il presidente della Commissione affari legali e quello della Commissione diritti umani dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, in una dichiarazione congiunta dell’agosto 2009, hanno affermato che «è assolutamente inammissibile che uno Stato ignori le misure provvisorie vincolanti richieste dalla Corte Edu. È vergognoso che una democrazia adulta come l’Italia abbia, la scorsa domenica, rinviato Ali Toumi in Tunisia, un caso in cui esiste un pericolo imminente di danno irreparabile per il richiedente».

[11] Per qualche approfondimento sul tema, sia consentito il rinvio a Masera, Il “caso Lampedusa”: una violazione sistemica del diritto alla libertà personale, in Diritti umani e diritto internazionale, 2014, n. 1, 97 ss. (il § 5.3 è intitolato Il rilievo delle sentenze della Corte europea nel sistema penale interno).

[12] In questo senso cfr. per tutti Cons. Stato, 16.1.2006, n. 88, con cui – nel caso dell’espulsione di Fall Mamour, noto come l’Imam di Carmagnola – i supremi giudici amministrativi, proprio invocando l’amplissima discrezionalità politica peculiare di tale categoria di provvedimenti, hanno riformato la decisione del Tar Lazio che aveva annullato il provvedimento ministeriale in quanto non conteneva elementi di fatto sufficienti a provare i requisiti previsti dalla legge per procedere all’espulsione. Per un’analisi di entrambi i provvedimenti, cfr. Savino, Le libertà degli altri – La regolazione amministrativa dei flussi migratori, 2012, 261 ss.

[13] L’art. 13 co. 3 Tui prevede in termini generali che «l’espulsione è disposta in ogni caso con decreto motivato immediatamente esecutivo, anche se sottoposto a gravame o impugnativa da parte dell’interessato»; in relazione poi all’espulsione ex art. 3 dl n. 144/05, il co. 4 di tale disposizione prevede che «il ricorso giurisdizionale in nessun caso può sospendere l’esecuzione del provvedimento».

[14] L’art. 31 co. 4 Tui prevede che «qualora debba essere disposta l’espulsione di un minore straniero il provvedimento è adottato, su richiesta del questore, dal Tribunale per i minorenni». Per uno dei rari casi in cui è stata richiesta l’espulsione di un minore sospettato di terrorismo, cfr. Trib. Min. Sassari, 5 gennaio 2016, in Questione Giustizia on-line, con nota di M. Veglio,www.questionegiustizia.it/articolo/terrorismo-ed-espulsione-di-minorenne_14-03-2016.php (la richiesta del questore è stata respinta dal Tribunale).

[15] Così C. Stato, 16.1.2008, cit.

[16] Per un’analisi dei limitati poteri del giudice di pace in sede di convalida, cfr. in particolare Savino, cit., pp. 337 ss. Per una recente apertura della Cassazione circa la possibilità per il giudice di pace di rilevare la manifesta illegittimità del provvedimento espulsivo (in un caso, peraltro, di espulsione “ordinaria”, e non di soggetto sospettato di terrorismo), cfr. Cass. Civ., sez. VI, 30.7.2014, n. 17407.

[17] Cfr. in questo senso C. cost. 280/2006; C. cost. 111/2008; C. cost. 170/2012.

[18] Per un’analisi di tali profili, con particolare attenzione a quelli relativi alla violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., cfr. ancora Savino, cit., 330 ss.

[19] Corte Edu, Seconda sezione, 1.9.2015, Khlaifia c. Italia, 16483/12, con nota di Savino, L’“amministrativizzazione” della libertà personale dei migranti e del due process dei migranti: il caso Khlaifia, in Dir., imm, citt., 2015, n. 3-4, 50 ss.

[20] La decisione della Grande Camera sarà resa nota presumibilmente a gennaio 2017.

[21] Per una critica nei confronti di tali decisioni (oltre al già citato Masera, Il “caso Lampedusa”, cit.), cfr. Natale, I migranti e l’habeas corpus alla prova delle emergenze: il caso Lampedusa, in Questione Giusizia, 2013, n. 5, 81 ss.

[22] Per qualche riflessione in argomento, cfr. in particolare Natale, cit.