Magistratura democratica

Terrorismo e guerra

di Roberta Barberini

1. Daesh controlla il 50% del territorio siriano; il Califfato ha una capitale – Raqqa – un ordinamento, una divisa ed una bandiera.

Si parla di una guerra mondiale in miniatura. Il conflitto siriano è, propriamente, un conflitto interno e quindi non è tecnicamente una guerra[1], ma vede il coinvolgimento di potenti attori statuali stranieri: Stati Uniti e Russia, Arabia Saudita, Turchia, Iran e Unione europea.

Essi intervengono, ufficialmente, a sostegno dell’uno o dell’altro contendente, ma in realtà sono lì per combattere Daesh: la cosiddetta guerra è contro Daesh, è lo spettro del Califfo che spaventa l’occidente.

Nessuno riconosce a Daesh la dignità non diciamo di Stato, ma neppure di formazione irregolare legittima (di «guerriglieri» nel senso voluto dal primo Protocollo di Ginevra) e coerentemente lo stesso appellativo «Stato Islamico» è ripudiato – giustamente – dai più.

E tuttavia, a leggere i giornali e a sentire i capi di Stato, quella contro Daesh è una  «guerra», così come, secondo il presidente Bush, l’abbattimento delle Twin Towers era un atto di guerra, ed i prigionieri di Guantanamo «nemici combattenti», e non criminali comuni.

Questa confusione nell’uso delle parole, prima ancora che nelle nozioni, ha una spiegazione.

È anzitutto indubbio che guerra e terrore abbiano molti punti in comune.

È difficile immaginare una guerra che non causi paura estrema nella gente, e spesso ciò è qualcosa di più di un effetto collaterale della violenza. È l’obiettivo principale.

Anticamente, il saccheggio delle città catturate era pianificato al fine preciso di intimidirne gli abitanti, che fossero o meno combattenti; più recentemente, i bombardamenti aerei strategici si fondavano su di una teoria psicologica: si riteneva che minassero il morale della popolazione nemica.

I bombardamenti della Raf britannica su Dresda furono «bombardamenti terroristici» non solo nella retorica del Ministero della propaganda di Goebbels: si trattò di attacchi deliberati contro non combattenti. Anche i bombardamenti aerei in Iraq, Afghanistan e Siria hanno provocato terrore e morte tra i civili.

Se, d’altra parte, il terrorismo è l’uso sistematico del terrore al fine di ottenere un risultato politico, qualunque esso sia, questa definizione in qualche modo si attaglia anche alla guerra e, più in generale, anche agli Stati .

La parola terrorismo, anzi, fu coniata proprio con riferimento ad una forma di terrorismo di Stato: il periodo di Robespierre chiamato appunto «il Terrore».

Va, poi, considerato che l’approccio tradizionale, di tipo criminale, al fenomeno del terrorismo è andato in crisi: vi è una evidente insufficienza della legge penale a disciplinare le complesse situazioni generate in situazioni di conflitto armato e di vere e proprie occupazioni di territori statali da parte di gruppi organizzati, come è il caso di Daesh.

Ciò corrisponde ad una più generale crisi della nozione stessa, tradizionale, di terrorista.

Da fenomeno eversivo esclusivamente interno, il terrorismo ha lentamente mutato faccia: l’azione terrorista si lega, oramai, a qualsiasi possibile obiettivo, ideologia e fondamentalismo: può riferirsi ad un determinato territorio o nazione, e rappresentare il braccio armato di movimenti di liberazione nazionale, ovvero assumere le caratteristiche di rete terroristica o cupola transnazionale non solo islamica.

Gli Stati hanno perso il monopolio della minaccia ad altri Stati: grazie ad una serie di nuovi fenomeni e condizioni, tra cui il progresso tecnologico, l’integrità degli Stati è minacciata non da altri Stati, ma da individui e reti che agiscono a livello sub–statuale e non territoriale.

Fu in base a queste, o simili, considerazioni, che negli Stati Uniti, un mese dopo l’attacco dell’11 settembre, entrò in vigore il famigerato Patriot Act, intitolato alla mobilitazione contro il terrorismo secondo una logica amico/nemico, e fu battezzato l’ibrido senza diritti del combattente nemico, il prigioniero in tuta arancione cui tutto è negato: la certezza della pena, il giusto processo, la data verosimile della fine dell’espiazione.

 

2. Che cosa è quindi che distingue un terrorista, e cioè un criminale, da un guerriero o quanto meno da un guerrigliero e quindi da un legittimo combattente?

C’è una enorme differenza tra le due categorie, non solo dal punto di vista morale, e cioè della giustificabilità della violenza, ma anche, ciò che qui più interessa, dal punto di vista della reazione da parte dello Stato: come ci ha ricordato Luigi Ferrajoli[2], ad un atto di guerra si risponde con la guerra; a un crimine, se pure gravissimo, si risponde con il diritto, cioè con l’accertamento e la punizione dei colpevoli.

E tuttavia questa logica è già saltata, nel caso del terrorismo: da tempo si ritiene legittimo, per uno Stato, reagire con la guerra ad un crimine.

Già ben prima delle guerre in Iraq ed Afghanistan si era ritenuto che un attacco terroristico – e non, quindi, di un altro Stato - legittimasse il ricorso all’uso della forza da parte dello Stato attaccato, configurato come esercizio del diritto di autodifesa previsto dall’art. 51 della Carta delle nazioni unite.

Fu dopo il raid in Libia del 14 aprile 1986 che gli Stati Uniti, chiamati a giustificare l’uccisione di 5 terroristi e 37 civili e la violazione del territorio di uno Stato sovrano, sostennero per la prima volta nella storia del diritto internazionale che un attacco terroristico - nella specie il rapimento, per due anni, di diplomatici americani - potesse fondare l’esercizio del diritto di autodifesa e quindi il ricorso all’uso della forza da parte dello Stato attaccato.

La reazione statunitense fu, all’epoca, condannata, ma suscitò una quantità di questioni di diritto internazionale: se gli atti di terrorismo siano in sè “illegali’’ secondo il diritto internazionale, e su quali basi; in quali circostanze uno Stato vittima possa legalmente rispondere con le armi ad atti di terrorismo e nei confronti di chi: terroristi individuali, Stati che sostengono i terroristi o semplicemente li tollerano.

Tutto ciò che attiene, in generale, all’uso legittimo della forza in campo internazionale.

La questione, come è noto, fu poi esplicitamente affrontata dal Consiglio di Sicurezza nel caso Lockerbie: il Consiglio di Sicurezza, con la risoluzione 748 del 1992 impose sanzioni contro la Libia per la connessione con attività terroristiche e per il rifiuto di estradare due cittadini libici accusati di aver partecipato, nel 1988, all’attacco contro il volo Pan Am 103 sopra Lockerbie, Scozia.

In tale occasione il Consiglio di Sicurezza affermò che gli Stati che sostengono terroristi violano l’art. 2.4 della Carta («Gli Stati debbono astenersi dall’uso della forza contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di altri Stati»’) e che, pertanto, la reazione nei loro confronti si qualifica come legittima difesa.

In proposito, va ricordato che anche l’occupazione dell’Iraq e dell’Afghanistan furono espressamente configurate, dal Consiglio di Sicurezza che autorizzò le due operazioni militari, come esercizio del diritto di autodifesa (preventivo nel caso dell’Iraq) contro l’Iraq di Saddam Hussein e l’Afghanistan dei Talebani[3].

Quindi sono state le Nazioni Unite, per prime, ad elevare una organizzazione criminale al livello di uno Stato in guerra, con tutte le conseguenze che ne sono derivate

 

3. È fin troppo facile escludere che Daesh o Al Qaeda siano legittimi combattenti – nel senso voluto dal diritto umanitario – e riconoscere che, invece, sono sanguinose organizzazioni terroristiche

Rimanendo al caso Siria, intanto va osservato che si tratta di un conflitto interno, e non internazionale[4]; poi, che Daesh non è, propriamente,”parte in conflitto”, poiché persegue obiettivi egemonici suoi propri e poiché, inoltre, per Daesh il “nemico” è una qualunque minoranza, non solo religiosa, che rifiuta di piegarsi alla sua totalizzante logica radicale; che, comunque, i metodi adottati, o meglio il tipo di violenza esercitata, e gli obiettivi scelti – civili non combattenti – non rendono neppure ipotizzabile l’attribuzione di una qualche forma di legittimazione della violenza esercitata[5].

Perfino il soldato regolare, armato e in divisa, impegnato in un conflitto armato del tipo disciplinato dal diritto di Ginevra, deve limitare la sua”violenza” agli atti cd. di belligeranza, cioè agli atti tipici del combattimento.

Esulano dal concetto non solo condotte come stuprare, torturare e trucidare barbaramente intere fette di popolazione civile (in una vera guerra sarebbero crimini di guerra) ma anche semplicemente condotte non tipiche del combattimento, come l’addestrare combattenti, fornire armi, sabotare o distruggere opere militari, fare opera di spionaggio: questi non sono atti di belligeranza, anche se hanno a che fare con un conflitto.

Quindi a prescindere dal fatto che in Siria si combatta o meno una vera guerra, i tagliagole dell’Isis non sono legittimi combattenti, su questo non ci sono dubbi.

 

4. La questione della distinzione tra terrorismo e guerra diventa invece più complessa quando ci si riferisce a tipi di combattenti che astrattamente potrebbero rientrare nelle categorie del diritto di Ginevra e che perseguono obiettivi in sé legittimi o anche solo buoni o nobili, primo fra tutti la liberazione dalla dominazione straniera (i combattenti per la libertà)[6].

Qui diventa più difficile dire se un soggetto è un legittimo combattente o un terrorista.

Va detto che negli anni settanta del secolo scorso il tema della differenza tra atti di terrorismo e lotta per l’autodeterminazione, la libertà e l’indipendenza, aveva avuto sostanziali riconoscimenti di principio all’interno delle Nazioni Unite, ed era stato frequentemente ribadito nelle Risoluzioni contro il terrorismo dell’Assemblea generale.

Era in questo clima che al Segretario generale delle Nazioni Unite Kurt Waldheim fu impedito di tenere, nei confronti degli autori del massacro di 11 atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972, la posizione ferma che l’orrore di quell’attentato meritava.

Una minoranza che comprendeva molti Stati arabi, ma anche vari Stati africani ed asiatici, si oppose alla discussione del tema in seno alla Assemblea Generale in quanto «i popoli che combattono per liberarsi dall’oppressione e dallo sfruttamento straniero hanno il diritto di utilizzare tutti i metodi a loro disposizione, inclusa la forza»[7].

Dagli anni ottanta in poi, tuttavia, vi è stata una graduale affermazione della illegittimità assoluta e quindi della ingiustificabilità degli atti di terrorismo, cui corrispose la graduale accettazione del principio da parte della opinione pubblica. Quella occidentale, in particolare, fu, in quegli anni, certamente influenzata in tal senso dall’evoluzione del conflitto mediorientale: gli attacchi contro civili da parte dei palestinesi sempre più sono stati sentiti come ingiustificabili, anche da chi prima considerava legittima la loro resistenza all’occupazione israeliana.

Oggi il principio dell’ingiustificabilità degli atti di terrorismo, qualunque sia l’obiettivo perseguito, è affermato in modo perentorio dalle Nazioni Unite e quindi dal diritto internazionale.

 

5. Troppo a lungo il tabù legato al termine terrorismo si è esteso a proteggere autori di crimini mostruosi, di violenze indicibili contro inermi.

Non è vero che è impossibile distinguere un terrorista da un combattente per la libertà: il punto è che col dire che il terrorista di uno è il combattente per la libertà di un altro, semplicemente si confonde l’obiettivo con l’attività.

Il terrorismo è una tattica, è un modo di raggiungere un obiettivo politico.

Questa tattica può essere utilizzata da individui o gruppi che perseguono qualsiasi tipo di obiettivo finale, ivi inclusa la liberazione nazionale, ed in effetti nella storia ciò è frequentemente avvenuto.

La prima guerra mondiale fu scatenata da un attentato terroristico – l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando – per opera di un nazionalista serbo, che mirava a liberare i Balcani dalla dominazione austro ungarica.

L’ondata di terrorismo che seguì la fine della seconda guerra mondiale era, d’altra parte, associata precisamente alla causa dell’indipendenza nazionale delle colonie rispetto ai poteri europei.

Non sempre la lotta per l’indipendenza assunse allora la forma del terrorismo. Ad esempio, nel 1949, in Indonesia, la lotta armata contro gli olandesi assunse di prevalenza le forme della guerriglia rurale, e non del terrorismo.

Metodi terroristici furono invece notoriamente utilizzati per ottenere l’indipendenza nazionale in Palestina e Algeria.

Non è, pertanto, vero che la guerra è ciò che fanno gli Stati, mentre il terrorismo è il mezzo cui ricorre chi è troppo debole per opporsi apertamente agli Stati: i deboli possono adottare strategie di resistenza anche violente, ma che non comportino metodi terroristici, come la guerriglia.

La guerriglia, benché forma di combattimento non convenzionale, funziona secondo le normali logiche militari, a cominciare dal fatto di impegnare le forze armate dello Stato, se pure in scala minore di una guerra tradizionale. Nella guerriglia, il requisito in base al quale la guerra è solo «la collisione di due forze attive», e non l’azione di «una forza attiva contro una massa inattiva» – come disse Von Clausewitz – è comunque rispettato.

Il processo che definisce la guerra è il combattimento. L’essenza del terrorismo, al contrario, è sicuramente la negazione del combattimento.

 

6. Il terrorismo, poi, è sleale: gli obiettivi sono aggrediti in modo da inibire l’autodifesa. Essi, inoltre, spesso non sono selezionati, sono casuali[8] e questa è in fondo la caratteristica che segna il terrorismo nel pensiero collettivo.

Questa casualità è ingrediente fondamentale del processo psicologico del terrore.

Nel bombardamento indiscriminato di un mercato, un negozio o un bar, c’è il rifiuto di accettare come vincolanti le distinzioni morali – non solo giuridiche – tra belligeranti e neutrali, combattenti e non combattenti, obiettivi legittimi e illegittimi.

Le vittime non si identificano necessariamente con «gli innocenti»: il tentativo di trasferire la nozione di «civili innocenti» dal diritto internazionale dei conflitti allo studio del terrorismo è fallito sul nascere a fronte della constatazione che l’innocenza è un altro concetto relativo ed instabile.

Fu difficile, per coloro che nella seconda guerra mondiale combattevano contro la Germania, accettare l’idea che i civili tedeschi non avessero nessuna responsabilità circa l’esistenza e la condotta del regime nazista.

Meritavano i civili tedeschi la protezione contro l’attacco diretto garantita in linea di principio dal diritto umanitario, o anche solo la protezione – molto meno intensa – contro i danni indiretti o «collaterali»? Non secondo Churchill.

Ma naturalmente i tedeschi erano i primi a non sentirsi sostanzialmente innocenti.

Caratteristica delle vittime del terrorismo è, piuttosto, la vulnerabilità: gli obiettivi possono anche non essere obiettivamente innocenti, ma devono essere praticamente senza difesa, inermi (soft targets).

L’essenza del terrorismo è l’uso della violenza da parte di chi è armato contro l’inerme.

 

7. Quindi il terrorismo è un metodo, una tattica..

Questa tattica può essere ausiliaria – un elemento di una più ampia strategia militare o di guerriglia – ovvero può essere confinata ad obiettivi limitati: vendetta, pubblicità, dichiarazione politica, rilascio di prigionieri, autonomia...

Può anche essere assoluta: il perseguimento di obiettivi politici attraverso l’utilizzo sistematico del solo terrore. Questo è il caso dell’Isis.

È quest’assoluta, indipendente strategia del terrore, piuttosto che l’azione terroristica in sé, che dovrebbe propriamente essere definita “terrorismo”.

 

8. A noi Paesi europei si pone il problema della reazione, che deve essere reazione dell’ordinamento, della civiltà del diritto, e non reazione militare. Di questo parleranno diffusamente altri relatori. Su questo rimando, nuovamente, allo scritto di Luigi Ferrajoli.

Non posso però fare a meno di ricordare, in quest’occasione, la vicenda Abu Omar, che è assolutamente pertinente in quanto – non tutti lo ricordano – essa si inquadra in quella più ampia delle extraordinary renditions e quindi della cooperazione tra americani ed europei nella guerra al terrorismo.

La recentissima condanna subita dall’Italia da parte della Corte europea per aver, nel 2003, consegnato all’Egitto Abu Omar, su iniziativa di agenti della Cia, è relativa a fatti gravissimi troppo presto dimenticati, e ci ricorda quanto insufficiente sia stata, da parte dei democratici governi europei, la revisione critica sulle pratiche adottate nella guerra globale contro il terrorismo.

Di fronte ai parlamenti nazionali, alle opinioni pubbliche e alle stesse istituzioni europee, la vicenda dei sequestri di persona, delle prigioni segrete, dei trasferimenti clandestini verso Paesi che praticano la tortura chiama i governi europei a un approfondito esame di coscienza sulle pratiche adottate nella guerra globale contro il terrorismo.

Il progresso sulla strada della tutela dei diritti dell’individuo è passato storicamente attraverso il rigetto della tortura come metodo d’indagine e all’affermazione del diritto di ogni accusato a un giusto processo dove egli possa presentarsi e difendersi con tutte le garanzie di una legge equa.

La notizia dell’utilizzo di forme di tortura a Guantanamo e Abu Ghraib e della deportazione di sospetti terroristi in Paesi dove si pratica la tortura non ha suscitato proteste di cittadini né le reazioni che il caso avrebbe meritato da parte delle istituzioni internazionali e dei singoli governi.

Eppure la scena della tortura coinvolge le ragioni ultime per cui si parla di civiltà e barbarie, Dove è finita l’ondata di vergogna che per qualcosa di simile travolse le istituzioni della Francia intera ai tempi della guerra di Algeria?

La condanna dell’Italia tutto questo ci ricorda. Al tempo stesso, però, essa vale a ribadire che il punto di crisi della cooperazione tra Europa ed America nella guerra contro il terrorismo risiedeva proprio nella diversa concezione della nozione di “legalità’’.

È questo il patrimonio culturale dell’Europa e tale deve rimanere.

[1] È un conflitto interno (o guerra civile), anche se vede il coinvolgimento di Stati esteri a sostegno dei contendenti. Non è né una guerra, né, comunque, un conflitto armato internazionale – vale a dire fra Stati – nel senso voluto dal diritto di Ginevra. Ciò lo differenzia radicalmente dai conflitti in Iraq e Afghanistan: questi Paesi, nella fase antecedente al 2005 e 2006, quando s’insediarono i governi autonomi, erano ufficialmente sotto occupazione straniera, il che qualificava i relativi conflitti come conflitti internazionali . Ecco perché solo per l’Iraq e l’Afghanistan - e non per Siria – era astrattamente ipotizzabile l’attribuzione della qualifica di legittimo combattente, e quindi di prigioniero di guerra, a coloro che lottavano contro l’occupazione. Com’è noto, gli Stati Uniti rifiutarono tale qualifica ai prigionieri di Guantànamo («nemici combattenti»: categoria intermedia tra i prigionieri ed i detenuti).

[2] L. Ferrajoli, Due ordini di politiche e di garanzie in tema di lotta al terrorismo, in questo e-book.

[3] Risoluzioni 1386 del 2001 e 1483 del 2003. Quest’ultima qualificò espressamente gli Stati Uniti e la Gran Bretagna come potenze occupanti ed autorizzò l’operazione di liberazione dell’Iraq sotto la specie dell’esercizio del diritto di legittima difesa preventiva contro l’Iraq di Saddam Hussein, considerato come Stato canaglia in possesso di armi di distruzione di massa pronte per l’uso.

[4] Solo i protagonisti di un conflitto armato internazionale possono essere considerati legittimi combattenti, e godere del trattamento dei prigionieri di guerra. Nei conflitti interni (o guerre civili ), vale a dire nei conflitti combattuti all’interno di uno Stato, i contendenti – Stato e ribelli – non sono considerati sullo stesso piano: lo Stato è libero di assoggettare i ribelli alla propria potestà punitiva.

[5] Sono espressamente proibiti, dal diritto umanitario, gli atti compiuti contro persone protette, tali essendo non solo i civili, ma anche gli appartenenti alle forze armate avverse che hanno deposto le armi, e quelli fuori combattimento a causa di malattia, ferimenti, prigionia ed ogni altra causa.

[6] Le guerre di liberazione nazionale o conflitti per l’autodeterminazione a rigore sono conflitti interni, ma sono stati assimilati ai conflitti internazionali dal diritto di Ginevra. Qui le norme in materia di legittimo combattente trovano applicazione, in forza del primo Protocollo alle Convenzioni di Ginevra del 1977, come nei conflitti internazionali. In essi un popolo, non ancora costituitosi in Stato indipendente, lotta contro il governo al potere per realizzare il diritto all’autodeterminazione. Il Protocollo fa espresso riferimento alle dominazioni coloniali o razziste. Il metodo della guerriglia, prima sconosciuto, fu qui, a certe condizioni, legittimato, anche se in sede di ratifica la maggior parte degli Stati ha offerto una interpretazione restrittiva del termine guerrigliero. Si noti che, invece, i movimenti secessionisti promossi da minoranze etniche vanno considerati a tutti gli effetti conflitti interni.

[7] Due gli argomenti portati: in primo luogo si disse che tutti i movimenti sono etichettati come terroristici dai regimi contro i quali rivolgono la loro lotta per la libertà (si pensi ai nazisti, che etichettavano come terroristi i membri della resistenza). In secondo luogo si sostenne che non è la violenza in sé da condannarsi, ma le cause ad essa sottese, e cioè «la miseria, la frustrazione, il lutto e la disperazione» che producono gli atti di violenza.

[8] Questa, naturalmente, non è la regola, perché i terroristi prendono, altre volte, di mira, obiettivi di elezione e simbolici, come capi di Stato ecc.