Magistratura democratica

Terrorismo e diritti della persona

di Andrea Pertici

1. Il terrore e la sicurezza

Il terrorismo, inteso come attività volta a procurare terrore per ragioni politiche o comunque ideologiche[1], ha assunto, in questo secolo, una maggiore diffusione a livello internazionale, con particolare riferimento a quello di matrice islamista. Le manifestazioni di esso sono ormai numerose: dall’attentato al World trade center di New York l’11 settembre 2001, a quelli di Madrid (11 marzo 2004), Londra (7 luglio 2005), Parigi (7 gennaio 2015 e 13 novembre 2015), Bruxelles (22 marzo 2016), ma la lista è certamente ben più ampia[2].

Il terrorismo incute, appunto, paura, sentimento dal quale – afferma il Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (secondo considerato) – gli esseri umani devono essere liberi. Anzi, un mondo in cui tutti possano essere liberi dalla paura e dal bisogno e godere della libertà di parola e di credo è considerato la «la più alta aspirazione dell’uomo», al fine di raggiungere la quale sono proclamati i diritti fondamentali che seguono nella stessa Dichiarazione.

Quindi, la libertà dalla paura si realizza con il riconoscimento e la tutela dei diritti degli Stati, a partire dalle loro Costituzioni, e da parte della comunità internazionale, con le proprie organizzazioni (a partire, appunto, dall’Onu) e le proprie carte fondamentali, che garantiscono così la sicurezza delle persone sottoposte alla loro giurisdizione.

2. La garanzia della sicurezza e la tutela dei diritti: una falsa contrapposizione

La contrapposizione tra la tutela dei diritti e la garanzia della sicurezza delle persone, quindi, sembra essere frutto di un equivoco, talvolta alimentato dagli stessi governi degli Stati al fine di limitare alcune libertà individuali[3] o – sul piano internazionale – da alcuni Stati al fine di accrescere o consolidare la propria potenza, sottraendosi alle limitazioni poste dalle stesse Convenzioni internazionali.

La sicurezza è, infatti, anzitutto, «sicurezza dei diritti» e il «diritto alla sicurezza», al quale fanno riferimento alcune Carte internazionali (in particolare, l’art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e l’art. 5 della Cedu) unitamente al «diritto alla libertà» è da intendere come garanzia da «arbitrarie interferenze della pubblica autorità nella libertà di un individuo»[4]. In Italia, parte della dottrina ha individuato il «diritto alla sicurezza», come diritto costituzionale che assume oggi (sembrando dover essere quindi inserito tra i diritti «nuovi») «uno status giuridico in parte autonomo – come diritto a un’esistenza protetta, indispensabile ad altri diritti di cui un soggetto è titolare – e in parte indiretto, nel senso che è complementare agli altri diritti, ovvero come istanza radicata nella nozione di benessere e di qualità della vita, collettiva e individuale»[5]. E ciò proprio in ragione del fatto che la società contemporanea è sempre più a rischio.

In realtà, sembra che la sicurezza, nello Stato democratico costituzionale, non integri un diritto autonomo, ma rappresenti la condizione necessaria all’esercizio dei diritti, consistendo, in ultima analisi, nella protezione dei principi e i diritti sanciti dalla Costituzione (rigida), attraverso i quali è assicurata la tutela dei beni (a partire dalla vita per proseguire con gli altri, materiali e immateriali: sono infatti riconosciuti il diritto alla vita e all’incolumità personale, la libertà e la sicurezza personale, il diritto di proprietà, ma anche – quanto ai beni immateriali – la libertà di manifestazione del pensiero, il diritto alla riservatezza, quello di professare liberamente la propria fede ecc.) e che quindi sia più corretto parlare, piuttosto che di «diritto alla sicurezza», di «sicurezza dei diritti»[6], anche riprendendo quanto affermato dalla Corte costituzionale sin dalle sua più risalente giurisprudenza, quando definì la sicurezza, appunto, come «situazione nella quale sia assicurato ai cittadini, per quanto è possibile, il pacifico esercizio di quei diritti di libertà che la Costituzione garantisce con tanta forza»[7].

Piani o azioni violente, in particolare se condotte con modalità terroristiche, possono rischiare di mettere a repentaglio i diritti ed i beni sottesi, o – detto altrimenti – minare la sicurezza degli stessi, e questo può determinare, da parte degli Stati e delle organizzazioni internazionali alle quali essi partecipano[8], particolari, straordinarie, reazioni, con la previsione di norme eccezionali[9].

Questo – in uno Stato di diritto costituzionale – deve avvenire, a nostro avviso, sempre e comunque nel rispetto della Costituzione, che è – afferma la Corte Suprema nella decisione ex parte Milligan del 1866 – «una legge per i governanti e per il popolo sia in tempo di guerra sia in tempi di pace e copre con lo scudo della sua protezione tutte le classi di uomini, in ogni tempo e in ogni circostanza. Mai fu concepita dall’intelletto umano una dottrina con conseguenze più deleterie di quella che implica che ogni sua disposizione possa essere sospesa nell’ambito di una qualunque emergenza di rilievo dal governo […] la teoria della necessità su cui si fonda è falsa: la Costituzione, infatti, conferisce al governo tutti i poteri che gli occorrono per garantire la propria sopravvivenza»[10].

In effetti, a fronte di azioni terroristiche, spesso sono invocate l’eccezionalità, l’emergenza e la necessità di conseguenti poteri straordinari, in alcuni casi paragonabili a quelli normalmente riservati a situazioni di guerra, nonostante concordiamo con la necessità di mantenere una chiara distinzione tra le due ipotesi[11], a differenza di quanto sia avvenuto a partire dall’11 settembre 2001, soprattutto con l’impostazione impressa dal presidente George W. Bush, con la global war on terrorism, combattuta dagli Stati Uniti e dai loro alleati, e continuino a ritenere, con sconcertante approssimazione, alcuni capi di Stato e di Governo[12].

Ora, fermo restando che può essere necessario porre in essere azioni specifiche e di prevedere norme meglio in grado di fronteggiare l’emergenza o comunque una situazione eccezionale, sulla base di quanto poco sopra detto, tutto questo deve avvenire nei limiti della Costituzione (eventualmente come operanti in ragione dell’inserimento dello Stato nell’ambito del contesto internazionale[13]), il superamento dei quali costituisce un rovesciamento dello stesso ordinamento, proprio mentre lo si dovrebbe proteggere con particolare cura, attenzione e forza. Solo rispettando questi limiti si può riuscire a perseguire lo scopo di tutela della sicurezza (dei diritti e dei beni ad essi sottesi). Infatti, come è stato recentemente ben detto, «il terrorismo difficilmente può giungere a rovesciare un regime democratico. Più facilmente la necessità di difendere la democrazia contro la minaccia di un pericolo esterno e misterioso può facilitare l’ascesa al potere di chi avrebbe dovuto difendere le istituzioni»[14].

3. Il contrasto alla violenza terroristica: gli “stati d’eccezione” e la limitazione dei diritti

In effetti, a fronte della straordinaria violenza del terrorismo, capace di mettere a rischio i diritti posti a tutela dei beni della vita, gli Stati hanno reagito con misure eccezionali, a loro volta incidenti negativamente sulla definizione, l’applicazione e la tutela dei suddetti diritti, o almeno su alcuni tra questi. Ciò è avvenuto secondo modalità contestabili – come vedremo meglio – da diversi punti di vista a partire da quelli della attualità del pericolo e della proporzionalità[15] e ragionevolezza della reazione (che talvolta, trattandosi, appunto, di misure preventive, non può probabilmente neppure definirsi propriamente tale), in violazione non solo della legge (nei casi di decisioni adottate con atti che alle stesse debbono attenersi) ma anche delle Costituzioni, delle tradizioni costituzionali comuni e delle Carte internazionali.

Ora, come noto, c’è un’ampia letteratura che, facendo riferimento agli stati “di necessità” o “di emergenza”, ritiene che, a fronte di questi, i pubblici poteri possano assumere determinazioni volte a sospendere e/o a derogare l’ordinario esercizio dei poteri e il rispetto dei principi fondamentali e dei diritti della persona previsti dall’ordinamento.

Senza pretesa di ripercorrere qui tutte le delicate questioni che si sono poste in merito[16], sia sul piano teorico che poi nelle concrete applicazioni che si sono storicamente realizzate, ci pare di dover premettere che gli ordinamenti contemporanei sono normalmente a Costituzione rigida (a differenza di molti nei quali gli stati di emergenza o di eccezione sono stati dichiarati nel corso della storia). In presenza di una Costituzione rigida non è possibile fare ricorso a uno “stato di eccezione”, come, ad esempio, lo “stato d’assedio” del periodo del Regno d’Italia, capace di travolgere l’ordinario assetto dei poteri (e in particolare della separazione tra questi) e la tutela (costituzionale) dei diritti fondamentali, se non eventualmente – e con tutti i limiti che vedremo – quando (e nella misura in cui) ciò risulti espressamente contemplato dalla Costituzione stessa. D’altronde, fonti subordinate potranno adottare misure eccezionali che rispettino i limiti della Costituzione stessa.

Ove deroghe (in quanto tali temporanee e legate ad un’eccezione) siano autorizzate dalla stessa Costituzione si pongono ad ogni modo problemi di determinatezza della situazione in cui ciò possa verificarsi: infatti, naturalmente, è lo stesso concetto di «eccezione» a non consentirne agevolmente una precisa delimitazione[17], che tuttavia dovrà essere quanto più possibile definita per non risolversi in un lasciapassare al rovesciamento dell’ordinamento costituzionale, seppure temporaneo[18].

In proposito, deve tuttavia precisarsi che, in alcuni ordinamenti, è prevista – normalmente a livello costituzionale[19] – la possibilità di proclamare, in presenza di situazioni impreviste ed imprevedibili o comunque emergenziali, uno “stato d’eccezione”[20] (variamente denominato e declinato[21]), che altera – temporaneamente e in deroga – le normali modalità di esercizio dei pubblici poteri, con differenze a seconda di quanto previsto nei singoli ordinamenti, anche a detrimento dello stesso principio democratico (in assenza del quale lo stesso ragionamento sulla tutela dei diritti si sviluppa difficilmente), tanto che è stato affermato che con la sua adozione lo Stato nega se stesso[22]. In proposito, lo “stato d’eccezione” può essere meglio armonizzato con un ordinamento democratico se la sua previsione costituzionale prevede comunque la presenza di limiti invalicabili all’esercizio dei pubblici poteri anche nell’emergenza[23], da un punto di vista sostanziale stabilendo, ad esempio, che sia in ogni caso necessario rispettare determinati diritti, come è stabilito anche nell’art. 15 della Cedu, e dal punto di vista sostanziale regolando precisamente le procedure di avvio e conclusione del periodo di eccezione e prevedendo la presenza di istituzioni in grado di controllare chi ha poteri eccezionali.

In sostanza, una situazione eccezionale da un punto di vista di fatto è resa rilevante in diritto da una previsione normativa (tendenzialmente di livello costituzionale[24]), al fine di consentire forme di esercizio del potere diverse rispetto a quelle ordinarie e conseguentemente di offrire ai diritti, anche fondamentali (o ad alcuni di essi), una tutela differente – e più limitata – rispetto a quella generalmente stabilita, essendo questa comunque la migliore che l’ordinamento costituzionale (“deformato” dallo “stato d’eccezione”) può garantire alle persone soggette alla propria giurisdizione nella situazione data, onde evitare il rischio che i diritti stessi siano compromessi dall’esercizio – con successo – della violenza terroristica. Naturalmente, se questa alterazione nell’esercizio dei poteri e nella tutela dei diritti divenisse stabile, lo Stato risulterebbe sconfitto, essendo riuscito il terrorismo ad alterare (almeno in parte) il carattere (pienamente) democratico dell’ordinamento con la conseguente (piena) tutela dei diritti, tanto che in alcuni casi episodi terroristici potrebbero essere posti in essere anche proprio al fine di arrivare all’esercizio di poteri eccezionali[25].

Alcuni ordinamenti prevedono varie forme di “stato d’eccezione”[26], sconosciuto alla Costituzione italiana del 1947, che pure non ha poi introdotto l’esplicito divieto di stato d’assedio che era stato previsto, in sede di Assemblea costituente, da parte della I sottocommissione, nella seduta dell’11 gennaio 1947. Il divieto inizialmente previsto era risultato dalla discussione circa la possibilità di introdurre lo “stato d’assedio”, contemplato in Italia in base alla legge di pubblica sicurezza del 1926 e poi ripreso dal testo unico del 1931, ma utilizzato già in precedenza, pur senza una espressa previsione di legge. Contro questa possibilità deponevano sia l’esperienza della Costituzione di Weimar, in cui la previsione di attribuzione al presidente del Reich del potere di adottare tutte le misure necessarie per ristabilire la sicurezza e l’ordine pubblico aveva «spianato la via alla dittatura»[27], sia il timore che la recente esperienza nazionale ingenerava rispetto a qualunque misura che potesse prestarsi a legittimare comportamenti arbitrari del Governo[28]. Alla fine, la Costituzione repubblicana ha quindi limitato le ipotesi derogatorie rispetto alla ordinaria distribuzione delle funzioni allo “stato di guerra” (nel qual caso, peraltro, con la deliberazione del Parlamento, vengono conferiti al Governo i poteri “necessari” e non “pieni poteri”[29]) che tuttavia sembra da considerare attivabile soltanto in caso di veri e propri conflitti bellici tra Stati[30], e l’ipotesi del decreto legge, adottabile dal Governo in (non meglio definiti) casi straordinari di necessità e urgenza, senza che tuttavia questo possa determinare alcuna sospensione delle libertà fondamentali riconosciute e tutelate dalla Costituzione[31] (almeno nei limiti in cui esse sono ivi direttamente disciplinate)[32]. Mentre il primo non è mai stato utilizzato, al secondo si è fatto ricorso così di frequente[33] da non coglierne più la portata effettivamente eccezionale, che mette nelle mani del Governo italiano uno strumento di cui gli altri Esecutivi non dispongono (e che pure anche la legge costituzionale in attesa di essere sottoposta – per la conferma o no – a referendum popolare ha deciso di mantenere, pur attribuendo al Governo anche un vero e proprio strumento di legislazione accelerata come quello del voto a data certa).

Tra i casi di dichiarazione dello “stato di emergenza” assume oggi particolare rilievo quello francese. Infatti, in quest’ordinamento l’état d’urgence può essere dichiarato, per il caso di un pericolo derivante da gravi violazioni dell’ordine pubblico, in base alla legge n. 55-385 del 3 aprile 1955. Rispetto a questo quindi non vi è alcuna previsione nella Costituzione, che pure non lesina, in altre circostanze, il ricorso a poteri eccezionali[34], seppure sia stato compiuto un tentativo di costituzionalizzazione[35], al quale, tuttavia, il presidente Hollande ha recentemente deciso di rinunciare in quanto in merito vi erano divisioni tra maggioranza e opposizione ritenute da evitare in sede di revisione costituzionale, tanto più in un momento indubbiamente delicato proprio a causa dei ripetuti attacchi terroristici (e anche – si potrebbe aggiungere – considerato che la legge ordinaria aveva comunque superato anche il controllo del Conseil constitutionnel, investito della questione dal Consiglio di Stato: sent. n. 2015-527, ciò escludendo la necessità – nel caso di specie – di una costituzionalizzazione, che tuttavia, una volta introdotta avrà l’effetto di escludere per il futuro[36], magari in caso di applicazione meno incontestata, ulteriori controlli di costituzionalità).

In base alla legge sull’état d’urgence, infatti, i prefetti e il ministro dell’Interno possono limitare alcune libertà fondamentali, come quelle di riunione, circolazione e soggiorno ed espressione, nonché la stessa libertà personale, con arresti e perquisizioni domiciliari. La legge n. 2015-1501 del 20 novembre 2015, di proroga dello “stato d’emergenza”, dichiarato a seguito degli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, ha stabilito ulteriori restrizioni in merito alla libertà personale e di circolazione e di soggiorno e a quella di espressione, essendo stata prevista, ad esempio, la possibilità di interrompere ogni servizio di comunicazione on line nel caso di incitazione al terrorismo o sua apologia. E se è vero che lo “stato d’eccezione” dura di per sé dodici giorni è altresì vero che esso è prorogabile, appunto, con legge del Parlamento, che dopo averlo disposto – il 20 novembre 2015 – per ulteriori tre mesi, l’ha ulteriormente prorogato fino al 26 maggio[37], quindi fino al 26 luglio e poi – anche a seguito dell’attentato di Nizza del 14 luglio 2016 – al 26 gennaio 2017 (prevedendo di nuovo il ricorso alle perquisizioni amministrative, non presenti, invece, nella precedente proroga)[38].

Se lo “stato d’eccezione” o “d’emergenza”, come abbiamo detto e ripetuto, consente di assumere decisioni in deroga, ciò riverberandosi – spesso – in una minore tutela dei diritti, anche costituzionalmente garantiti, può constatarsi come, tuttavia, negli anni più recenti – e in particolare in risposta al fenomeno del terrorismo internazionale che qui ci occupa – tale obiettivo sia stato raggiunto anche in assenza di una dichiarazione in tal senso, seguendo procedure “ordinarie”. Ciò, in effetti, sembra essere risultato agevole anche per l’ampia convergenza spesso riscontrata in proposito tra le forze politiche (almeno “tradizionali”) di destra e sinistra, come proprio l’esperienza degli Stati Uniti, con il compattarsi anche dei democratici rispetto alla global war on terrorism di Bush ha dimostrato in modo evidente.

3.1. I “controlimiti” alla limitazione dei diritti in situazioni eccezionali

Le suddette limitazioni dei diritti della persona possono essere – come l’esperienza dimostra – di varia entità. Certamente deve rilevarsi come in non poche occasioni, proprio per perseguire un intento dimostrativo, si sono registrate vere e proprie palesi violazioni di diritti che si ritenevano acquisiti alle tradizioni costituzionali comuni degli ordinamenti di derivazione liberale, non solo nell’immediatezza di un evento terroristico, ma anche a notevole distanza dallo stesso, quando non come misura del tutto precauzionale rispetto al pericolo che, considerato il carattere internazionale del terrorismo islamista, viene ritenuto sussistente anche a fronte di episodi verificatisi in altri Stati (cosa che, infatti, ha determinato l’assunzione di misure di contrasto anche a livello internazionale).

La reazione determinatasi attraverso l’adozione di norme, provvedimenti e decisioni, da parte di organizzazioni internazionali, a partire dall’Onu, come da parte dell’Unione europea o degli Stati (anche in esecuzione delle prime) risulta talvolta davvero preoccupante perché finisce per comprimere – fino a rinnegare – alcune libertà fondamentali che fanno parte del patrimonio costituzionale comune delle democrazie stabilizzate di derivazione liberale. Assistiamo così a limitazioni della libertà di circolazione e di espressione piuttosto che della privacy di tutti, generalmente accettate dalle persone in nome di una protezione di cui non si intende certamente negare l’importanza, ma alla quale lo Stato dovrebbe essere in grado di provvedere senza compromettere i propri stessi fondamenti.   

In sostanza, pur non potendosi sottovalutare le situazioni di rischio che il terrorismo (in particolare islamista) oggi provoca, è necessario che le eventuali limitazioni dei diritti che da ciò discendano siano a loro volta sottoposte a dei “controlimiti”.

Come abbiamo già detto, infatti, il nostro ragionamento si sviluppa in un contesto di ordinamenti dotati di una Costituzione rigida, in presenza della quale, quindi, qualunque intervento del legislatore deve rispettare il dettato costituzionale, anche ricordando che essa è «una legge per i governanti e per il popolo sia in tempo di guerra sia in tempi di pace e copre con lo scudo della sua protezione tutte le classi di uomini, in ogni tempo e in ogni circostanza».

Qualunque norma o decisione che si ponesse in contrasto con la Costituzione, quale che potesse essere la motivazione (emergenziale) della sua adozione, di fatto sarebbe comunque costituzionalmente illegittima. Così, ad esempio, se nell’ordinamento italiano si prevedesse un fermo di polizia eccedente i limiti di cui all’art. 13, secondo comma, della Costituzione. Una disposizione costituzionale puntuale come quella appena ricordata, infatti, sarebbe eventualmente derogabile da una norma ordinaria soltanto ove questo fosse consentito dalla Costituzione stessa in determinati casi particolari e, in special modo, per quanto interessa in questa sede, di emergenza (terroristica), sempre che ciò non si ponesse in violazione di un principio fondamentale o un diritto inviolabile (al quale, come noto, anche le norme costituzionali sono tenute a conformarsi e che resistono anche alle norme eurounitarie). Tale deroga – come abbiamo visto – dovrebbe conseguire alla dichiarazione di uno “stato d’eccezione” eventualmente previsto a livello costituzionale e potrebbe avere carattere generale o limitato a singoli diritti (sempre con l’esclusione di alcuni e comunque nel rispetto – sia consentito ribadirlo – dei principi fondamentali e dei diritti involabili). In assenza di una siffatta previsione, sulla quale ribadiamo tutte le riserve già esposte e che, in definitiva, rappresenta, da parte della Costituzione, l’ammissione di una propria inadeguatezza, nessun contrasto con una regola di rango costituzionale può essere ritenuta ammissibile.

Tuttavia, i testi costituzionali – come noto – non contengono sempre regole così precise, indicando di frequente principi, che, pur dotati di piena efficacia giuridica, secondo quanto chiarito dalla Corte costituzionale sin dalla sent. n. 1 del 1956, non hanno – come si dice – una struttura condizionale, cosicché rimane maggiore spazio alle valutazioni del legislatore e poi dell’interprete[39]. La stessa flessibilità dei principi, peraltro, dipende dalla loro stessa maggiore o minore determinatezza e, per altro verso, dalla loro qualificazione come supremi e in quanto tali capaci di imporsi sulle stesse (altre) disposizioni costituzionali (secondo quanto affermato dalla Consulta nella sent. n. 1146 del 1988) e anche alle norme dell’Unione europea (rispetto alle quali fungono da “controlimiti”), che sono tenute quindi a conformarsi agli stessi.

Certamente devono essere rispettati – senza alcuna possibilità di deroga – ad esempio, la vita e la libertà personale, la dignità umana, i diritti inviolabili, l’eguale trattamento di fronte alla legge (anche avuto riguardo alle diverse situazioni di fatto), il pluralismo ideologico, la laicità dello Stato, la presunzione di non colpevolezza, la durata ragionevole del processo e così via. Tuttavia, come si vede, il rispetto di questi principi – e di alcuni in particolare – da parte del legislatore presenta una maggiore elasticità rispetto a quanto al medesimo può essere richiesto da una disposizione costituzionale che fissa un numero di ore massimo per il fermo di polizia o che vieta l’estradizione in determinati casi espressamente indicati, piuttosto che il carattere personale della responsabilità penale, l’irretroattività delle sanzioni penali, il termine per la conversione di un decreto legge o quello entro cui le Camere devono essere convocate a seguito delle elezioni, per fare solo alcuni esempi.

Per comprendere meglio la questione, può essere utile fare riferimento, ad esempio, ad un noto caso, giudicato dalla Corte costituzionale con sent. n. 15 del 1982, quando era stata sollevata questione di legittimità costituzionale delle norme sul prolungamento della carcerazione preventiva, disposte con decreto legge 15 dicembre 1979, n. 625, convertito con legge 6 febbraio 1980, n. 15, recante “Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica”. Uno dei giudici a quibus (e precisamente la Corte di assise di Torino), in particolare, lamentava il contrasto delle disposizioni in questione con l’art. 5, comma 3, della Cedu, la quale, anche al di là del valore che le si riconosca[40], vede comunque (generalmente) la formulazione di norme con una struttura simile a quella dei testi costituzionali (cosicché accanto ad alcune regole precise, ne troviamo altre dalla formulazione più ampia e veri e propri principi). In particolare, la disposizione in questione prevede che ogni persona arrestata o detenuta debba «essere tradotta al più presto dinanzi ad un giudice o ad un altro magistrato autorizzato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante la procedura» (corsivi aggiunti). La Consulta evidenzia subito che quella norma «non propone alcun criterio concreto, in quanto si astiene dal fornire una qualsiasi specificazione», a fronte della quale viene compiuto un giudizio di ragionevolezza circa l’allungamento dei termini di carcerazione preventiva come misura urgente «per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica», disposta, nell’ambito della legge che reca appunto tale titolo, a fronte di un «fenomeno caratterizzato, non tanto, o non solo, dal disegno di abbattere le istituzioni democratiche come concezione, quanto dalla effettiva pratica della violenza come metodo di lotta politica, dall’alto livello di tecnicismo delle operazioni compiute, dalla capacità di reclutamento nei più disparati ambienti sociali», in presenza di «obiettive difficoltà degli accertamenti», che rappresentano in concreto, poi, la ragione dell’allungamento dei termini di durata della carcerazione preventiva (corsivi aggiunti).

La Corte, tuttavia, precisa che, anche a fronte di una situazione eccezionale, di emergenza (basata – sia consentito ripeterlo – su concreti elementi di fatto) deve comunque essere compiuto uno scrutinio di ragionevolezza, volto a verificare la «congruità» della disposizione eccezionale rispetto al bene che intende proteggere: non si giustificherebbe, infatti, nel caso di specie, un prolungamento dei termini di carcerazione preventiva «tale da condurre verso una sostanziale vanificazione della garanzia». Si tratta di un punto, a nostro avviso, molto importante, in quanto indica come la valutazione di ragionevolezza (e proporzionalità) – condotta anche alla luce di un bilanciamento tra diritti potenzialmente configgenti – non possa comunque mancare, salvo che la presenza di particolari elementi di fatto, legati anche a circostanze eccezionali (anch’esse effettivamente riscontrate e non meramente paventate), può determinare una modifica dei parametri sulla base dei quali è compiuta.

I diritti, in sostanza, nei limiti stabiliti dalla Costituzione, hanno una variabile possibilità di espansione: normalmente possiamo considerare, con Barile, sussistere una «presunzione di massima espansione delle libertà costituzionali»[41], ma, in situazioni eccezionali ed entro i limiti indicati, possono essere previste (con una sostanziale inversione di tendenza) limitazioni delle stesse. In tal senso, infatti, proprio la decisione che ci occupa specifica come, «a partire dal ripristino della vita democratica», si fosse assistito, rispetto alla custodia preventiva, a «riforme in senso nettamente liberale», rispetto alle quali è stata però registrata una «inversione di tendenza a partire dal decreto legge 11 aprile 1974, n. 99 convertito nella legge 7 giugno 1974, n. 220, che veniva adottato appunto in coincidenza con il dilagare della violenza»[42].

Ora, rimane da precisare che una particolare delicatezza, nell’ambito delle deroghe restrittive assumono le norme procedurali – e processuali – il cui rispetto sembra dover essere particolarmente scrupoloso considerato che esse sono idonee a garantire il singolo rispetto all’applicazione delle misure “eccezionali”, con la (conseguente) possibilità di una verifica in concreto della ragionevolezza e proporzionalità delle stesse. Infatti, i diritti sostanziali possono considerarsi realmente esistenti solo ove esistano norme processuali dirette a garantire che essi siano attuati anche in caso di mancata cooperazione spontanea da parte di chi è tenuto a rispettarli: «un ordinamento che si limitasse ad affermare una situazione di vantaggio […] a livello sostanziale, senza predisporre a livello di diritto processuale strumenti idonei a garantire l’attuazione del diritto anche in caso di sua violazione, sarebbe un ordinamento incompleto, monco: sarebbe un ordinamento che non potrebbe essere qualificato come giuridico, perché non garantirebbe l’attuazione del diritto proprio nel momento in cui questo è più bisognoso di tutela, nel momento della sua violazione»[43]. E infatti, secondo quanto evidenziato da Pizzorusso[44], i diritti processuali vengono in qualche modo a incorporare i diritti sostanziali alla cui tutela sono preordinati.

La posizione è stata recentemente condivisa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella quarta sentenza Kadi[45], relativa all’inserimento nelle cosiddette “black list” dell’Onu per il sequestro dei beni delle persone fisiche e giuridiche sospettate di finanziare (o partecipare) a reti terroristiche, in cui la Corte afferma che, l’Autorità dell’Unione europea competente per inserire la persona nell’elenco con il quale sono “recepiti”, a livello europeo, i nominativi degli individui e degli enti inseriti nella “black list” del Comitato per le sanzioni, deve assicurare «il rispetto dei diritti della difesa e del diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva» per cui tale Autorità deve comunicare alla persona interessata gli elementi di cui dispone per fondare la sua decisione o, per lo meno, l’esposizione dei motivi fornita dal Comitato per le sanzioni affinché tale persona possa difendere i suoi diritti nelle migliori condizioni possibili[46]. L’autorità dell’Ue competente a decidere dell’inserimento nella lista deve esaminare le allegazioni del soggetto inserito con cura e imparzialità e la sua decisione può comunque essere contestata in sede giurisdizionale, dove spetterà al giudice chiedere «se necessario, all’autorità competente dell’Unione di produrre informazioni o elementi probatori, riservati o meno, pertinenti per un siffatto esame». Infatti, «è all’autorità competente dell’Unione che incombe il compito di dimostrare la fondatezza dei motivi posti a carico della persona interessata, e non già a quest’ultima di produrre la prova negativa dell’infondatezza di tali motivi». A tal fine «non è richiesto che detta autorità produca dinanzi al giudice dell’Unione tutte le informazioni e gli elementi probatori attinenti ai motivi dedotti nell’esposizione fornita dal comitato per le sanzioni», ma «occorre che le informazioni e gli elementi prodotti suffraghino i motivi posti a carico della persona interessata».

Limitazioni dei diritti della persona in ragione dell’emergenza (terroristica), quindi, trovano come “controlimiti” anzitutto il necessario rispetto delle norme costituzionali (e – ove vi siano, come a livello di Unione europea – equiparate o prevalenti), ed i particolare dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili e in secondo luogo il rispetto particolarmente stringente delle norme processuali poste e garanzia dei diritti stessi. Tuttavia, il “controlimite” che più di ogni altro si lega all’eccezionalità delle circostanze – causate, per quanto in particolare ci interessa, dal terrorismo – è quello della temporaneità della deroga. In proposito, la Corte costituzionale, nella già ricordata sent. n. 15 del 1982, ha molto opportunamente evidenziato questo aspetto, ritenendo la temporaneità un requisito di legittimità costituzionale (da valutare evidentemente in base al criterio di ragionevolezza) delle misure eccezionali. In particolare, infatti, «se si deve ammettere che un ordinamento, nel quale il terrorismo semina morte - anche mediante lo spietato assassinio di "ostaggi" innocenti - e distruzioni, determinando insicurezza e, quindi, l'esigenza di affidare la salvezza della vita e dei beni a scorte armate ed a polizia privata, versa in uno stato di emergenza, si deve, tuttavia, convenire che l'emergenza, nella sua accezione più propria, é una condizione certamente anomala e grave, ma anche essenzialmente temporanea. Ne consegue che essa legittima, sì, misure insolite, ma che queste perdono legittimità, se ingiustificatamente protratte nel tempo» (corsivo aggiunto). Infatti, come abbiamo già accennato, ove queste si stabilizzassero darebbero vita a un’alterazione dell’ordinamento che rappresenterebbe, in ultima analisi, proprio la vittoria delle forze sovversive o comunque terroristiche[47].

4. La reazione degli Stati e delle organizzazioni internazionali alla prova dei “controlimiti”

Come abbiamo avuto occasione di anticipare sia in generale sia richiamando alcuni casi specifici, gli ordinamenti internazionali, sovranazionali e statali hanno posto in essere misure davvero difficilmente compatibili con le tradizioni costituzionali comuni degli Stati dell’Unione europea (come sviluppatesi a partire dagli ordinamenti di derivazione liberale) e più in generale delle “democrazie stabilizzate”, colpendone gli stessi fondamenti dall’interno proprio mentre si diceva di volerli difendere da attacchi esterni.

Così, in molti Paesi, sono stati rimessi in discussione diritti faticosamente – ma si riteneva stabilmente – conquistati e anche simbolicamente identificativi degli ordinamenti di derivazione liberale, come appunto la privacy e ancora prima la libertà di manifestazione del pensiero.

D’altronde le stesse basi del diritto penale sono state scardinate dall’elaborazione del cosiddetto «diritto penale del nemico», che si sviluppa a partire dalla identificazione di alcune persone come «nemici» dello Stato, contemplando una prevenzione generale e speciale e avendo come caratteristiche specifiche l’anticipazione della tutela (con un aumento dei reati “di pericolo” presunto), una pena particolarmente afflittiva, sproporzionata e dal valore altamente simbolico (che diviene a sua volta un atto di ostilità, proprio perché rivolta contro l’hostis) e – cosa forse più grave, alla luce di quanto abbiamo detto sopra – un affievolimento delle garanzie processuali, fino ad una degiurisdizionalizzazione nell’applicazione di alcune misure restrittive basate sul sospetto[48]. In questo modo si violano gli stessi fondamenti dello Stato di diritto e attraverso la distinzione tra cittadini e nemici si viola lo stesso principio di uguaglianza, nella sua più elementare definizione, posta alla base del costituzionalismo liberale.

Queste considerazioni assumono certamente maggiore evidenza e concretezza andando a vedere le misure adottate nella risposta che è stata data al terrorismo a partire dall’inizio di questo secolo a livello globale, sulla base della considerazione che non è un singolo Stato ad essere sotto attacco ma – si passi il termine – un’intera civiltà giuridica, con le sue tradizioni costituzionali comuni, di derivazione liberale.

Questo ha determinato l’intervento delle stesse organizzazioni internazionali, a partire dall’Onu, che, con le risoluzioni 1373, del 2001, e 1624, del 2005, ha introdotto la Global Counter Terrorism Strategy, affidando ad un Comitato ad hoc (il Security Council Counter-Terrorism Committee, Ctc) il compito di assistere gli Stati nella lotta al terrorismo, anche al fine di ricondurre nell’ambito della legalità internazionale la global war on terrorism, avviata dagli Stati Uniti a seguito degli attacchi dell’11 settembre. La prima delle due risoluzioni interviene a contrastare le forme di finanziamento del terrorismo mentre la seconda sulla propaganda, e rispetto a queste il Ctc assiste gli Stati che pongono in essere misure interne in materia e individua le best practices in materia, tenendone un elenco aggiornato, con l’effetto di un allineamento tra le legislazioni dei diversi Stati, strumento e metro della collaborazione internazionale.

In Europa, certamente gli strumenti di lotta al terrorismo internazionale si sono sviluppati a partire dal livello dell’Unione europa[49], che prevede la propria partecipazione alla lotta contro il terrorismo sin dal Trattato sull’Unione europea, a partire dalla posizione comune 2001/931/Pesc del Consiglio del 27 dicembre 2001, che, nel colpire soprattutto le risorse economiche per finanziare il terrorismo, si rivolge non soltanto a quello islamista, ma anche a quello per così dire “interno” all’Unione (delle organizzazioni basche e nord-irlandesi). L’Unione è poi intervenuta con la decisione quadro 2002/475/GAI a definire dettagliatamente i reati terroristici facendo riferimento sia a comportamenti obiettivi sia ad elementi soggettivi di dolo specifico che si realizza a fronte dello scopo di intimidire gravemente la popolazione, o di costringere indebitamente i poteri pubblici o un'organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, o di destabilizzare gravemente o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche o sociali di un Paese o un'organizzazione internazionale. L’Unione ha quindi adottato misure volte a consentire un migliore e più armonizzato controllo alle frontiere e di raccolta e scambio di informazioni attraverso varie banche dati settoriali, disciplinate da diversi regolamenti che certamente incidono pesantemente sulla tutela della privacy. Da questo punto di vista, sono state riscontrate misure certamente molto invasive adottate nella collaborazione dell’Unione con gli Stati Uniti d’America, tra cui merita probabilmente di essere ricordato anzitutto l’accordo Pnr (Passenger Name Record), relativo al trasferimento al dipartimento per la sicurezza interna degli Stati Uniti dei dati dei passeggeri in volo da e per gli Stati Uniti stessi da parte delle compagnie aeree[50]. Esso ha previsto, attraverso decisioni della Commissione e del Consiglio modalità di trattamento dei suddetti dati, su cui è intervenuta la Corte di giustizia, con una decisione di annullamento nel 2006[51]. Quindi nel 2007 sono riprese le trattative per un nuovo accordo che è stato concluso nel 2011, con maggiori garanzie rispetto al passato dal punto di vista della protezione dei dati, seppure rimangano insuperate alcune criticità sia dal punto di vista della stessa privacy sia in relazione al fatto che è previsto un sistema pressoché automatico di individuazione di persone pericolose per la sicurezza dello Stato senza che sia loro consentita un’adeguata difesa.

Se non è stato possibile fornire che qualche esempio, pur ritenuto particolarmente significativo, per quanto riguarda le misure adottate in ambito internazionale e sovranazionale che mostrano la forte incidenza su alcuni diritti fondamentali della persona da parte delle misure di contrato al terrorismo, ancora più difficile risulterebbe dare un quadro anche sommario della legislazione dei singoli Stati, su cui, peraltro, non mancano studi specifici che ne hanno potuto fornire un adeguato approfondimento[52]. Per questo ci limiteremo a ricordare brevemente alcune tra le misure maggiormente indicative della compressione di alcuni diritti fondamentali della persona, adottate nel Paese colpito nel modo più eclatante dal terrorismo e che per questo si è immediatamente posto a capo della global war on terrorism, pur non dovendosi trascurare che anche in altri Paesi sono state adottate misure che certamente vanno oltre i limiti che abbiamo ritenuto dover essere rispettati anche da parte di una legislazione emergenziale[53].

In particolare possiamo ricordare come, negli Stati Uniti soprattutto nella prima fase di “reazione” agli attacchi dell’11 settembre, durante la presidenza Bush, sono stati emanati executive orders presidenziali volti a comprimere i più elementari diritti e in particolare quelli alla libertà personale e a un processo equo: un executive order del 13 novembre 2001, ad esempio, stabilisce che «given the danger to the safety of the United States and the nature of international terrorism, and to the extent provided by and under this order, I find consistent with the Section 836 of title 10, United States Code, that it is not practicable to apply in military commissions under this order the principles of law and the rules of evidence generally recognized in the trial of criminal cases in the United States district courts». Nel gennaio 2002, come noto, fu poi istituito il campo di prigionia di Guantanamo, con la sospensione delle garanzie dell’habeas corpus e del due processo of law (che la Corte Suprema ha provveduto a riaffermare in Hamdan vs. Rumsfeld del 2006 e Boumedienne vs. Bush del 2008), e che non è ancora stato chiuso nonostante ripetuti interventi di Obama che sembravano andare in questa direzione. Ma – anche a conferma che le misure antiterroristiche non sempre vedono una distinzione tra le diverse parti politiche – dobbiamo ricordare che proprio all’Amministrazione Obama si deve la disposition matrix in base alla quale tutte le agenzie di intelligence partecipano alla compilazione di una Kill list di terroristi (tra i quali il Presidente decide chi deve essere eliminato per motivi di sicurezza, con una riaffermazione del “potere di vita o di morte” certamente incompatibile con il patrimonio costituzionale comune che si vorrebbe proteggere dal terrorismo). Del 2001 è anche il Patriot Act, che rafforza i poteri delle forze di polizia e di intelligence, in relazione alla possibilità di effettuare intercettazioni telefoniche, accedere a informazioni personali e prelevare impronte digitali. Inoltre l’Antiterrorism Act del 1996, inasprito dopo i fatti dell’11 settembre, punisce il “supporto materiale” (da notare che su questo si basano ad oggi la maggior parte delle condanne per terrorismo) alle organizzazioni terroristiche, su cui vi è stata una tendenza a espandere il significato ben visibile nella sentenza Holder vs. Humanitarian Law Project (2010) facendovi rientrare – per la prima volta contro la totale difesa del free speech normalmente condotta, con particolare riferimento al contenuto dello stesso – anche «una ristretta categoria di discorso a favore, sotto la direzione e in coordinamento con gruppi stranieri che chi lo pronuncia sa essere organizzazioni terroristiche»[54].

4.1. Il caso italiano

Quando il terrorismo di matrice islamista ha assunto proporzioni particolarmente rilevanti, a seguito degli attentati di New York e Washinton dell’11 settembre 2011, il nostro Paese non era privo si strumenti volti a fronteggiare la violenza terroristica, avendo dovuto già affrontare quella di matrice politica (durante i cd. “anni di piombo”) e quella di stampo mafioso. Quarti strumenti di contrasto, generalmente rimasti, anche se adottati, a suo tempo, in una logica emergenziale, sono stati resi applicabili, anche attraverso alcune integrazioni normative, al terrorismo internazionale la cui differenza rispetto a quello degli “anni di piombo” è in sostanza che il sistema che si vuole sovvertire non è tanto quello del singolo Stato, ma quello di un certo tipo di società, fondata, pur con tutte le differenze sussistenti tra i singoli Stati, su un patrimonio costituzionale condiviso, discendente essenzialmente (e scusandoci per l’approssimazione) dal costituzionalismo liberale.

Fra questi interventi legislativi, si ricordano, in particolare, la legge n. 152 del 1975 (cd. legge Reale), che detta «disposizioni a tutela dell’ordine pubblico» ed è spesso citata, negli ultimi anni, per il divieto di usare caschi protettivi o qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo, ma che incide anche in senso ampliativo sulla custodia preventiva o la possibilità di procedere a perquisizione da parte delle autorità di pubblica sicurezza) ed il decreto legge n. 625 del 1979 (convertito con modificazioni dalla legge n. 15 del 1980, cd. legge Cossiga), che ha tra l’altro introdotto l’art. 270-bis cp, relativo al reato di “associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico”, e introdotto una specifica aggravante per il caso in cui un reato sia commesso per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento democratico.

Ma, anche in Italia, è a seguito degli attentati di New York del 2001 che sono state approvate nuove norme per il contrasto più specificamente al terrorismo internazionale.

Così, il decreto legge n. 374 del 2001, convertito con modificazioni in legge n. 438 del 2001, ha modificato art. 270 bis c.p., per il quale è prevista la nuova rubrica di «associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordinamento democratico», un ampliamento della fattispecie (in particolare inserendo, tra le condotte rilevanti, il finanziamento dell’associazione e, tra le finalità, oltre all’eversione, il «terrorismo», riproponendo i problemi di definizione di cui abbiamo detto in apertura[55]) e la specificazione della rilevanza delle condotte anche quando rivolte contro uno Stato estero o un’organizzazione internazionale[56]. Con lo stesso provvedimento è stato introdotto anche l’art. 270 ter cp che punisce chi dà assistenza agli associati a organizzazioni terroristiche.

Dopo gli attentati di Londra, vi è stato un nuovo intervento, con il decreto legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito con modificazioni in legge n. 155 del 2005, che ha introdotto l’art. 270-quater, sull’arruolamento per finalità di terrorismo, l’art. 270-quinquies, sull’addestramento e l’art. 270-sexies c.p., che qualifica le «condotte con finalità di terrorismo» come quelle che «possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia». Nonostante la formulazione potesse portare a ritenere forse rilevanti anche semplici manifestazioni del pensiero, la giurisprudenza è stata chiara nel considerare necessaria la presenza di un effettivo progetto criminoso[57]. L’ art. 3 dello stesso decreto legge n. 144 del 2005, convertito con modificazioni in legge n. 155 del 2005, ha previsto l’espulsione dello straniero sospettato di terrorismo ad opera del ministro dell’Interno o su sua delega dal prefetto ove la permanenza possa – in qualsiasi modo  – agevolare organizzazioni o attività terroristiche internazionali. La previsione, nella versione in vigore fino al 31 dicembre 2007 (per espressa previsione dello stesso art. 3, secondo comma), risultava in evidente violazione del diritto di difesa. Infatti, il provvedimento di espulsione poteva essere impugnato unicamente di fronte al giudice amministrativo, il quale considerata «l’esigenza di tutelare beni assolutamente fondamentali», procedeva «sulla base di una valutazione effettuata anche solo alla stregua di meri indizi […], che possono essere ravvisati in fatti in sé per sé privi dell’assoluta certezza che detta azione [terroristica, n.d.r.] venga realizzata nell’imminenza, ma che, nel loro complesso, siano tali da fondare un giudizio che tale possibilità possa verificarsi»[58], non poteva peraltro sospenderne l’efficacia (con la conseguenza che il giudizio si sarebbe svolto mentre l’individuo era stato nel frattempo espulso), in contrato con gli artt. 24 e 113 (e probabilmente anche 3 e 13) Cost. nonché con l’art. 13 Cedu (e quindi 11 e 117 Cost.)[59]. In effetti – come è stato da più parti rilevato[60] – il «terrorista» non risulta più titolare degli stessi diritti di difesa di ogni altro straniero, anche con il rischio di essere espulso verso Paesi in cui non vige il divieto di tortura, in violazione dell’art. 3 Cedu, tanto che la Corte di cassazione (sez. IV pen., 28 aprile 2010, n. 20514) ha affermato che, in questi casi, l’ordine di espulsione debba essere sospeso, salva la sottoposizione dello straniero ritenuto terrorista a misure di sicurezza idonee ad impedirne la pericolosità per la sicurezza dello Stato, tanto generiche quanto severe (di cui, infatti, in più occasioni, sono stati posti dubbi di legittimità costituzionale, pur respinti dalla Corte[61]).

Un ulteriore intervento si ha di nuovo all’indomani di un attentato particolarmente significativo, quello del 7 gennaio 2015 alla sede del settimanale satirico Charlie Hebdo, a Parigi, con il decreto legge 18 febbraio 2015, n. 7, convertito con modificazioni in legge 17 aprile 2015, n. 43. In proposito pare da sottolineare come l’adozione di ulteriori norme di prevenzione e repressione sia volta, da un lato, all’emergere di nuovi fenomeni, ma, dall’altro, anche dall’esigenza dei Governi di caratterizzare la propria (specifica) politica di contrasto al terrorismo, anche attraverso norme-manifesto che finiscono, in realtà, per risultare sempre più repressive.

Il decreto legge n. 7 del 2015, in realtà, tiene insieme tre aspetti tra i quali è stabilita una correlazione, ma che devono comunque essere considerati distintamente e che sono: a) la lotta interna al terrorismo; b) le missioni internazionali delle forze armate; c) la lotta all’immigrazione clandestina.

Si tratta di un testo normativo, che – come in realtà anche i precedenti appena ricordati – è stato fatto oggetto di forti critiche in relazione a principi basilari del nostro ordinamento, a partire dal principio di legalità, per proseguire con quelli di determinatezza della fattispecie penale e di offensività.

Se questi sono i principali interventi specificamente posti in essere dal legislatore nella lotta contro il terrorismo (si potrebbe dire, nella partecipazione dell’Italia, come alleato degli Stati Uniti, alla global war on terrorism), l’ordinamento italiano comprende comunque ulteriori numerose norme altrimenti previste, ma utilizzate al fine della prevenzione e la repressione del terrorismo internazionale.

A queste norme più specificamente mirate a contrastare il terrorismo, se ne aggiungono poi altre che, pur dettate in altro ambito e magari concepite con finalità differenti, si rivelano molto utili anche nella lotta a questo fenomeno: è il caso, ad esempio, della legge n. 197 del 1991 e successive modificazioni, sull’antiriciclaggio.

5. Conclusioni: dalla protezione alla negazione dei diritti?

Dall’esame condotto sembra emergere come, in realtà, gli interventi normativi per il contrasto al terrorismo (internazionale) e la loro applicazione concreta abbiano finito spesso per produrre un effetto in qualche modo opposto rispetto all’obiettivo prefissato, perseguendo una funzione di pubblica sicurezza con modalità tali da realizzare un vero e proprio sacrificio di alcuni diritti fondamentali che avrebbero dovuto (e – si ritiene – voluto) difendere (con i beni sottesi) dalla minaccia terroristica.

Si tratta di un pericolo che la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha avvertito, ad esempio, nella sentenza 22 febbraio 2008 (ric. n. 37201/06), Saadi c. Italia, nel cui ambito i giudici Myjer e Zagrebelsky hanno espresso una concurring opinion in cui hanno affermato che «Les Etats ne doivent pas recourir à des méthodes qui sapent les valeurs mêmes qu’ils cherchent à protéger»[62].

Per questo ci sembra che l’impostazione più lucida sia, in effetti, proprio quella del Consiglio d’Europa, che ha valorizzato il collegamento tra la lotta al terrorismo e la promozione della democrazia[63] e che, laddove ha cercato di colmare le lacune del complesso intreccio degli strumenti internazionali di lotta al terrorismo, ha rilevato come ciò su cui era il caso di agire era proprio la tutela dei diritti individuali, facendo emergere – proprio come dicevamo all’inizio – la consonanza, anziché la contrapposizione che spesso sembra emergere dalle decisioni degli Stati, tra la lotta al terrorismo e il rispetto dei diritti umani, la cui valorizzazione può divenire uno strumento di lotta al terrorismo, anziché un ostacolo.

A quindici anni di distanza dagli attentati di New York e Washington, infatti, sembra piuttosto evidente come, senza riuscire ad impedire il ripetersi di episodi terroristici anche di forte impatto, vi sia stata una limitazione di alcuni diritti fondamentali delle persone, negli ordinamenti di “democrazia stabilizzata”, per di più in un arco di tempo ormai difficilmente compatibile con la logica dell’eccezionalità e dell’emergenza secondo quanto sopra detto.

Se quindi gli Stati di “democrazia stabilizzata” sono riusciti complessivamente a proteggersi dai loro nemici dichiarati, che li combattono esplicitamente, ciò non significa che la difesa delle tradizioni costituzionali comuni degli ordinamenti di derivazione liberale abbia avuto realmente successo. Al contrario, queste ultime sono state infatti comunque compromesse dall’interno, dove talvolta – come è stato detto da più parti e sopra ricordato – vi sono nemici più subdoli e maggiormente capaci quantomeno di alterare l’effettivo godimento dei diritti delle persone anche attraverso una limitazione della loro effettiva partecipazione alla determinazione dell’indirizzo politico generale, in ragione della presenza di una situazione di “emergenza” che renderebbe – in qualche misura – alcune scelte obbligate.

[1] Per brevità, il presente scritto non si sofferma sulla annosa questione della definizione del terrorismo, su cui, nell’ambito del medesimo seminario, si rinvia alla relazione di Umberto Curi (il testo scritto della relazione non è pervenuto, l’intervento orale può essere ascoltato nella registrazione del seminario effettuata da Radio Radicale, www.radioradicale.it/scheda/469257/terrorismo-internazionale-politiche-della-sicurezza-diritti-fondamentali-prima, n.d.r.)

Altra cosa, naturalmente, è la definizione dei reati terroristici, su cui è intervenuta la decisione quadro 2002/475/GAI, ripresa dall’art. 270 sexies cp, ai sensi del quale «sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un'organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia».