Magistratura democratica

Lotta al terrorismo e ruolo della giurisdizione. Dal codice delle indagini preliminari a quello postdibattimentale

di Massimo Donini

1. Definizioni e strategie: nemici, criminali, Stato di diritto

Il terrorista, come l’immigrato, come l’esponente irriducibile della criminalità organizzata, è un prototipo di quello che può essere o diventare un diritto penale del nemico[1].

Rispetto al significato generico che questa espressione poteva assumere nel contrattualismo del Settecento[2], o nell’Ottocento[3], quando il criminale in quanto tale era visto come un nemico della società; oppure rispetto all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, quando si discuteva del delitto politico e dei suoi caratteri già allora evidenti di possibile prevalenza antiumanistica della ragion di Stato su quelle di garanzia dello Stato di diritto[4], oggi la categoria del diritto penale del nemico, che ha conosciuto un dibattito internazionale notevole negli ultimi lustri[5], la possiamo intendere in tre possibili e principali significati assai più specifici, e non escludentisi:

  1. perché sembra possibile disciplinare (i fatti commessi o realizzabili da) quelle tipologie di autori solo mediante un diritto dell’esclusione o della neutralizzazione, in quanto non si pongono come destinatari dei precetti penali in funzione dialogica: non recepiscono il precetto, delinquono per convinzione, o costituiscono tipi d’autore con i quali la società non intende e non potrebbe dialogare. Quindi non si applicano a tali tipi d’autore (espressi nei fini che perseguono) strumenti dialogici di prevenzione generale positiva, né strumenti di “reinserimento” sociale o rieducazione, per impossibilità o difformità rispetto allo scopo: rimane la sola neutralizzazione. Le misure che a essi si confanno, dunque, sono ai limiti e oltre i limiti di tutti i principi costituzionali: no tendenza rieducativa, no temporaneità di pene e misure, no controlli giurisdizionali (o controlli ritardati ed eventuali, dimezzati, incerti), rifiuto di considerare l’umanità del diverso-nemico, essendo una macchina per il male, puramente da sconfiggere, no terzietà della giurisdizione quando essa interviene, essendo il giudicante impegnato nella lotta radicale “in atto” contro il fenomeno e i suoi esponenti;
  2. perché nei loro confronti se non si intendono adottare strumenti di guerra, non riconoscendone lo status di belligeranti legittimi, ad un tempo li si tratta come nemici-criminali; la «criminalizzazione del nemico»[6] implica che le ragioni della sua condotta non vengono considerate dalla politica, che è una politica di pura risposta punitiva: il problema sono loro, la risposta è perciò contro i singoli che delinquono. Il fenomeno può rimanere sullo sfondo come questione forse risolvibile, forse non ancora risolubile, ma in ogni caso l’unica vera risposta è quella penale. Però escludente, in quanto con i nemici si può trattare, ma con i criminali-nemici no: rigore sanzionatorio sproporzionato (per es. terzo strike, pena di morte, sanzioni indeterminate, regime penitenziario duro), oppure tortura, segregazioni di fatto, trasformazione della pena in misura di sicurezza, o anche esclusioni dal contesto sociale (come le politiche di espulsione quale scopo primario della stessa minaccia della pena). Sotto il profilo processuale, si chiede al giudice di farsi carico delle tesi dell’accusa: chi le contrasta si schiera dall’altra parte. Vietato il garantismo, che vale solo per i cittadini che riconoscono il sistema e appare altrimenti come solidarietà col nemico, va così perduta la terzietà della giurisdizione. Proliferano dunque le sanzioni orientate alla pericolosità, dalle misure di sicurezza a quelle di prevenzione a quelle para-penali, ma formalmente amministrative, le black lists prive (a lungo) di veri controlli giurisdizionali, i moderni lager, ben oltre i centri d’identificazione ed espulsione, cioè Guantánamo et similia, con subappalto fuori territorio dopo qualche volo segreto o qualche estradizione;
  3. perché prevale il diritto penale d’autore rispetto al diritto penale del fatto e l’attività giurisdizionale assume verso di loro le funzioni di una macchina da guerra o di contrasto. Non può per definizione essere terza se è dalla parte di uno Stato che formalmente non è in guerra ma di fatto lo è: dunque o prevalgono soluzioni occulte di fuga dalla giurisdizione, oppure, quando la risposta è giudiziaria, la reale funzione è di escludere un diritto penale della colpevolezza o della inclusione o della rieducazione. La giurisdizione dunque non può dialogare con questi soggetti, neppure a pena espiata, neppure se hanno già svolto programmi di mediazione penale e di giustizia riparativa. Come non riesce neppure oggi a dialogare bene, a pena espiata, con i terroristi “interni”, quelli ormai sconfitti degli anni Settanta.

Contro questo scenario, ben noto, e dal penalista tedesco Günther Jakobs descritto da molti anni come orizzonte normativo del presente, purtroppo anche al fine di legittimare la giuridicità del trattamento neutralizzante di “non persone”, senza distinguere tra diritto vigente e diritto valido[7], la quasi totalità dei penalisti è insorta per ripudiarlo come inesistente in quanto diritto, oppure come illegittimo, o come non diritto[8]. A fronte di esso, dunque, esiste la risposta politically correct dello Stato di diritto[9]:

  1. nessuna legge eccezionale (ma è vero? ed è possibile?), nessuna deroga ai principi costituzionali (ma è vero?), nessuna trasformazione del processo penale in quello di un tribunale militare di guerra, nessun cedimento rispetto alle garanzie processuali di tutti (ma è vero e possibile?), nessun uso del processo per scopi di mera neutralizzazione (finché non esplodono bombe sotto casa nostra), conservazione di una lotta contro autori irriducibili attraverso gli strumenti del diritto penale del fatto (ma è vero?), apertura della pena a tutte le sue tradizionali funzioni (ma ci crediamo?);
  2. una risposta fondamentalmente giurisdizionale al fenomeno, vale a dire piena e permanente sua criminalizzazione, con mancato riconoscimento dell’esistenza di “Stati” islamici belligeranti e risposta individualizzante-criminalistica verso gli agenti del terrore. Nessuna guerra, nessun provvedimento che prenda atto del “fenomeno politico” retrostante, con misure o atti giuridici di tipo dialogico, o implicante un qualche “riconoscimento”: il criminale è lui il problema, mentre il problema dal quale nasce la sua criminalità non entra nel momento giurisdizionale che è solo individualizzato. E nel frattempo continuiamo a essere tra i maggiori esportatori di armi da guerra nel mondo, con specifico riferimento anche ai Paesi arabi e africani dove è più acuta la guerra armata al terrorismo;
  3. la trasformazione di ogni tipo di “lotta” in contrasto giurisdizionale, e dunque, peraltro, in lotta giudiziaria: ciò che comporta una sovraesposizione della magistratura, anche se non è certo essa un obiettivo specifico del terrore, a differenza che negli anni ’70, quando si trovò in prima linea rispetto al terrorismo interno, e anche quando le manifestazioni, le radici, le culture, le geografie, le economie e le politiche del fenomeno sono chiaramente internazionali e sovranazionali.

2. Sed contra ... Tre premesse di politica del diritto e di sincerità nelle risposte

La separazione lineare delle risposte appena tracciate s’incrocia con argomenti e vicende che riguardano la durezza dei fatti i quali infrangono le schematizzazioni e le dicotomie, comprese quelle che, per non rischiare che si arrivi al diritto penale del nemico, neppure ammettono che esista un diritto penale di lotta[10], così lasciando al giurista di occuparsi con sicurezza e buona coscienza solo di furti in stato di bisogno, omicidi passionali, diffamazioni, usurpazioni di titoli e onori, reati della “gente per bene” etc.: fenomeni contro i quali non ha senso che lo Stato usi il diritto penale in funzione di vero contrasto, come invece fa tutta la politica criminale contemporanea … a cominciare da quella europea, che ha codificato addirittura nei Trattati dell’Unione la funzione di “lotta” del diritto e di quello penale[11].

1. Una premessa di senso comune, rispondente al più classico dei principi di sussidiarietà è che i macrofenomeni, ancor più se internazionali, non vengono “risolti” con risposte giurisdizionali punitive, tanto più se queste sono nazionali. Direi che i macrofenomeni in generale (per es. economici, sociali) non sono risolvibili mediante la giurisdizione, anche se ogni condotta oggi, anche degli Stati, è sottoposta alla giurisdizione. Una risposta giurisdizionalmente conforme non significa pertanto che la soluzione sia giurisdizionale. Sarà essa (solo) un contributo alla soluzione. Premessa tanto ovvia quanto illuminante. Di fronte alla tentazione di nuovi e illusori protagonismi giudiziari, possiamo dire ai crusading judges  che non si tratta neppure di una risposta chirurgica, che taglia dal corpo sociale le parti infette, perché non sa e non è interessata a sapere come nasca e si sviluppi l’infezione. Il terrorismo internazionale contemporaneo non può essere ridotto a “una” questione criminale, perché chi lo dice o lo pensa maschera col lato “garantista” della soluzione l’esistenza di una guerra feroce in corso, in altri territori (“non ci sentiamo in guerra” perché la lasciamo fare agli altri), e non fa i conti con la presenza di un retroterra culturale islamico che ripudia il terrorismo, ma non lo Stato islamico come concetto politico o ideale (l’Islam che non accetta un silenzio connivente col terrore, ma vuole che giurisdizione si eserciti in nome di Allah, deve essere maggiormente coinvolto e conosciuto)[12]. Una cosa è il versante interno del terrorismo, dunque, e una cosa quello internazionale.

2. Se gli attentati di Parigi del 2015, o quelli di Bruxelles 2016, si fossero verificati a Roma, il clima, politico, ermeneutico, giudiziario etc. sarebbe differente. Non so se avremmo chiesto anche noi, come la Francia, di sospendere le garanzie della Cedu, ma di diritto o di fatto, il clima di garantismo giurisdizionale che complessivamente respiriamo oggi, non ci sarebbe. La stampa e l’opinione pubblica chiederebbero ai giudici da che parte stanno, e loro forse non sempre saprebbero rispondere, secondo il “modello Barak”: stiamo dalla parte del diritto e comunque delle garanzie costituzionali[13]. Quest’osservazione è banale, ma vuole far comprendere che la situazione nella quale si svolge il nostro dibattito non è “ideale”; è semplicemente “astratta” da una realtà concreta come quella che esiste in molte parti dell’Europa, dell’Asia o dell’Africa dove il terrorismo è diversamente all’opera. Non sostengo che le condizioni più vere per la risposta siano quelle dove il fenomeno è attuale nelle sue manifestazioni tipiche del terrore. Però dobbiamo figurarci di attualizzare quello che diciamo anche per un clima assai più fosco e drammatico, perché esso mantenga un senso di aderenza alla verità del fenomeno.

3. I tipi d’autore responsabili, ma “immotivabili dal diritto”, rispetto ai quali non è possibile una prevenzione generale o speciale positiva, né è possibile il dialogo, esistono veramente. Qui la stessa pena applicata – l’unica pena vera sul piano giuridico, essendo quella minacciata una pena non giurisdizionale, ma ancora politica[14] – può solo svolgere una funzione di contrasto e neutralizzazione. Queste fenomenologie soggettive interessano parti del pianeta criminologico del terrorismo e della criminalità organizzata, oltre alla classe di soggetti le cui condizioni individuali siano segnate da specifiche patologie criminali. Sono a volte le espressioni pure del male che il diritto penale continua ad annoverare al suo interno così vario e differenziato[15]. O sono tipologie di delitti politici ben diverse dal passato. Un tempo il delitto politico esprimeva anche una forma di delinquenza “per convinzione” che si riteneva meritevole di benevoli trattamenti penali[16]. Oggi il terrorismo di matrice islamica (e non solo) certo non ispira il riconoscimento di nessuna attenuante dovuta a motivi di particolare valore morale o sociale. Il suo attentare ai diritti fondamentali dell’uomo, il suo colpire ciecamente vittime innocenti e su larga scala, rende impossibile il riconoscimento culturale dell’interlocutore, o un qualsiasi mutuo feedback cognitivo[17], e rende anzi possibile il suo inquadramento tra i crimini contro l’umanità del diritto penale internazionale.

3. Il gioco dei ruoli e la giurisdizione-ostacolo. Chi “paga il biglietto”, tra campioni e free riders della sicurezza

Riassumiamo che cosa è successo dopo l’11 settembre 2001.

È diffusa la convinzione che l’Europa abbia adottato una risposta giurisdizionale prevalente, mentre gli Usa abbiano visto nella giurisdizione un ostacolo[18]. Però Stati Uniti e Europa hanno svolto ruoli che, se diversi, sono stati convergenti[19]. E la matrice politica degli interventi, in ogni caso diversa, tuttavia in entrambi i casi non è stata certo liberal[20].

Negli Stati Uniti l’azione effettiva dello Stato non è stata affidata principalmente al diritto penale[21], ma a misure di polizia, intercettazioni di massa, a norme di eccezione solo in parte sostanzialmente penali (in quanto privative o limitative della libertà o di altri beni fondamentali), ma formalmente amministrative, ad azioni di guerra, ai servizi segreti e all’esercito. Sono questi i meccanismi tipici che hanno portato a Guantánamo e altri simili luoghi segreti di detenzione, alle cd. extraordinary renditions, ai voli segreti della Cia, etc.[22].

In questa logica il terrorista è un nemico, prima di essere un criminale, e come tale, prima di venire punito, deve essere innanzitutto neutralizzato. Il sospetto terrorista, parimenti, deve essere neutralizzato secondo una logica di guerra, anche al prezzo di fare alcune “vittime” innocenti, ma al fine di salvare il bene comune. Essendo inopportuno, per tali azioni, il ricorso principale allo strumento penalistico – che non può mettere deliberatamente in conto le vittime innocenti, che contrastano con il suo fine di giustizia –, si è evitato finché possibile il ricorso alla giurisdizione (a parte quella militare, e salvo risposte tardive del sistema, dopo anni di ricorsi): il controllo giurisdizionale era un ostacolo a questo tipo di risposta.

La risposta dell’Europa al terrorismo internazionale è stata condotta secondo le direttrici del diritto penale classico e del diritto internazionale[23]. A parte gli interventi militari, di guerra per alcuni Stati, “di pace” per altri, in Afghanistan, in Iraq, in Egitto, negli Emirati Arabi, etc., si è considerato il terrorismo non già una realtà da combattere con una guerra o con strumenti extralegali, ma con le armi del diritto. Essendo il terrorismo un fenomeno criminale, lo si è inteso quindi «combattere con il diritto penale» (sic). Certo, anche la politica, l’intelligence, gli appoggi militari diretti o indiretti agli Stati Uniti o all’Onu hanno svolto un ruolo importante, tuttavia la differenza qualificante rispetto alla risposta americana è che il terrorismo è stato inquadrato principalmente come l’espressione criminale di un movimento politicamente estremista.

Ciò ha di fatto sbilanciato la magistratura verso una sovraesposizione in funzioni di lotta, per fortuna tanto meno negativa per lo Stato di diritto quanto poco cruente sono state le azioni terroristiche in Italia. Ci siamo anzi segnalati per alcune azioni di particolare cifra garantista della magistratura: dalla vicenda Abu Omar alle letture in chiave di offensività delle finalità di terrorismo (v. infra). Ma non sempre le cose sono andate così.

Nel frattempo, il terrorismo di matrice islamica ha mutato il suo radicamento territoriale e organizzativo: da Al Qaeda a Isis. Ma è cresciuto anche il terrorismo interno (di matrice islamica) agli Stati occidentali.

Dopo Parigi 2015 e  l’intervento militare francese, russo e americano in Siria e contro lo Stato islamico di Isis,molte sono state le pressioni sull’Europa per un supporto bellico, in una situazione che non doveva più fronteggiare l’a-territorialità inafferrabile di Al Qaeda, ma un radicamento geografico preciso di un embrione di Stato. Il presidente americano Barack Obama di recente ha detto che gli Europei sarebbero free riders della sicurezza[24]: che altri pagano il biglietto, ma loro no. In quanto, appunto (ma questo lo aggiunge chi scrive), si limitano alla giurisdizione.

In questa accusa c’è del vero: l’Europa non è una confederazione di Stati, e si compatta, secondo i suoi Trattati, solo per la “lotta giuridica” o per interessi economici (è un po’ schematizzato, ma non lontano dal vero). Però la tutela dei diritti fondamentali di tutti, terroristi compresi, non è mai un lusso. Se l’Europa non paga il biglietto della sicurezza internazionale, gli Usa non pagano il biglietto del controllo giurisdizionale sulle loro azioni di sicurezza nazionali e soprattutto internazionali. La giurisdizione è essa stessa un ‘prezzo’ che deve essere pagato: dagli Stati, che devono sottoporsi ai Tribunali internazionali – e gli Usa, come Cina, Russia e Israele, non hanno mai ratificato lo Statuto di Roma – e dai loro esponenti e funzionari, oltre che dai magistrati. Essa non può avere, peraltro, un ruolo di avanguardia rispetto a un fenomeno siffatto, la cui enormità ed estensione geografica richiedono una gestione pluridimensionale che solo un cieco potrebbe affidare in modo privilegiato o esclusivo al ius dicere dei magistrati. Salvo che per il terrorismo strettamente interno.

Questo a me pare lo stato delle cose.

4. La giurisdizione non è uno strumento di lotta contro fenomeni generali

La verità è che la giurisdizione non è proprio uno strumento di “lotta”[25]. Lo può essere la macchina processuale in alcune sue fasi, l’indagine con misure cautelari, per es., vista dal punto di vista del pubblico ministero, ma non la giurisdizione chiamata a controllare quell’azione. La politica potrà pensare che lo sia il diritto, nella sua funzione generalpreventiva e sanzionatoria connessa. Ma quando dalla dimensione politica del diritto socialmente motivante si passa a quella giuridica della decisione responsabilizzante, l’imperativo di non usare il singolo come mezzo per finalità impersonali (art. 27, co. 1, Cost.) vieta che il momento della lotta contro un fenomeno generale trovi ingresso specifico nella concretizzazione del giudizio di responsabilità individuale. L’inserimento di scopi giuridici di lotta dentro al momento giurisdizionale del diritto vìola l’art. 111, co. 2 Cost.: «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale». Ovviamente per giurisdizione intendiamo soprattutto, in diritto penale, il controllo di una qualsivoglia domanda processuale di una parte (pubblico ministero) nei confronti di una persona indagata, in posizione di terzietà e nel rispetto delle regole e dei principi dello Stato di diritto.

Uno strumento di lotta essa non lo è per molteplici ragioni:

  1. la giurisdizione non è adatta al contrasto contro fenomeni generali. Decide domande sui singoli. Ciò dipende dal carattere individuale del meccanismo giurisdizionale penale e dal principio della domanda. Non ci sono class actions in diritto penale e quando ci sono (per es. i maxiprocessi) esse distorcono di norma le regole della giurisdizione.
  2. La prevenzione generale, in una logica di lotta, divora tipicità (per la tentazione di analogie o forzature ermeneutiche), colpevolezza, proporzione, rieducazione etc., tratta sempre i singoli come mezzi, non come fini, o richiede motivazioni occulte, presunzioni, inversioni di oneri probatori, omessi controlli di garanzia. Tutto questo è una perversione della giustizia penale.
  3. L’uso delle norme come mezzi di contrasto verso fenomeni “generali” trasforma un diritto di giustizia in uno strumento prima di lotta, e poi del nemico: dove il giudicante, quando c’è, è necessariamente parte del conflitto, non terzo imparziale. D’altro canto, giudicare casi che siano espressione di un fenomeno in atto (come certe forme di criminalità organizzata, mafiosa e di terrorismo) è la sfida più grande per la terzietà della giurisdizione, come sa ogni magistrato “in prima linea”.
  4. La giurisdizione penale è invece sottoposta a uno statuto di garanzie che ammettono diverse declinazioni, anche temporanee sospensioni dei diritti (art. 15 Cedu), ma non eccezioni di fondo ai principi generali della sua terzietà, e del rispetto dei principi basilari dello Stato di diritto[26].
  5. L’alternativa conosciuta a un illegittimo diritto penale della pura neutralizzazione è da sempre costituita da altre misure, formalmente non punitive, estremamente problematiche anch’esse, perché tipiche del diritto d’autore: misure di sicurezza, misure di prevenzione, strumenti amministrativi extrapenali, dove in realtà si nasconde spesso il diritto del nemico, formalmente non penale o non punitivo, ma comunque neutralizzante ed escludente.

Anziché costituire un valido strumento di lotta, la giurisdizione, tutt’al contrario, è oggi un sistema di controllo universale, ormai, anche sulla politica, anche sulla Ragion di Stato: Statuto di Roma, Tribunali internazionali, Corti supreme, Stato di diritto in generale.

Ce n’è quanto basta per ridimensionare le illusioni belligeranti delle Procure della Repubblica, se non fosse che esistono norme incriminatrici che trasformano le Procure in organismi finalizzati alle sole indagini e non ai giudicati, come se fossero organi di Polizia.

5. L’oggettivizzazione normativa dello scopo di neutralizzare soggetti e l’assunzione da parte della magistratura di funzioni di polizia, a fianco delle forme extragiudiziarie di lotta e di guerra

Se la giurisdizione non risolve il problema delle cause del terrorismo, come quasi mai essa risolve quei problemi eziologici, come possiamo ipotizzare che solo con strumenti  giurisdizionali (la criminalizzazione) si debba affrontare il fenomeno[27]?

In realtà, noi ci permettiamo soluzioni soprattutto giurisdizionali perché la magistratura assume anche funzioni di polizia grazie al fatto che le nuove incriminazioni introdotte dopo gli attentati del 2001, del 2005 e del 2015, sono soprattutto preventive, sono fattispecie ultra-preparatorie che oggettivano in forme normative lo scopo di neutralizzare soggetti molto prima dei fatti da quelli commessi. Per prevenire i fatti, non potendo eliminare le cause del fenomeno, non resta che neutralizzare i soggetti, come se le cause fossero loro. È tipico della risposta giuridica fermarsi a un’imputazione dogmatica, anziché estendersi al rerum cognoscere causas. Del resto per il terrorismo interno questo tipo di risposta potrebbe anche sembrare sufficiente.

Le nuove norme, peraltro, non sono meramente ascrittive: servono alle indagini, per smascherare terroristi potenziali o in pectore. Servono per indagarli quando si ha il sospetto che abbiano intenzione di diventare i terroristi che ancora non sono.

Dirò subito che, per quanto vagamente orwelliane, penso che esse abbiano un’utilità indubbia a fronte di minacce gravi per la salus rei publicae, e per impedire che i controlli siano lasciati a forze di polizia o di intelligence sottratte al governo della magistratura.

Noto però, al contempo, che esse tendono a realizzare una trasformazione di una parte del diritto penale in diritto di polizia. Si tratta, infatti, di prendere atto che la magistratura stessa, sia pur con migliori “garanzie” di una volta, sta acquisendo funzioni così anticipate di lotta da risultare simili a quelle di polizia di sicurezza,col risultato che l’esito dell’applicazione di fattispecie preventivo-soggettive sarà quello di servire alle indagini sulle persone e al loro controllo, non all’accertamento della responsabilità per fatti specifici: perché se i soggetti pericolosi sono scoperti e neutralizzati (ben prima della realizzazione di attentati), lo scopo ultimo di questa legislazione “penale” sarà stato raggiunto. Non si tratta, dunque, di legislazione meramente simbolica, come da più parti si è scritto.

Vorrei segnalare che ogni norma incriminatrice può essere vista in una duplice dimensione: quella delle indagini e quella del dibattimento. Come se esistessero due codici penali differenziati per fasi processuali. Per le indagini i fatti tipici in essi previsti sono solo “indizi” o gravi indizi di quei fatti. Sono fatti anticipati.Solo nel “codice per il dibattimento” o per il “giudizio”, quei fatti sono veramente quelli di cui trattano i commenti.Ma le sentenze della magistratura, anche di Cassazione, se emesse nella ‘fase delle indagini’, riguardano fatti indiziati, la cui cognitio semiplena condiziona la stessa struttura dei fatti “tipici per fase”.

Il problema del diritto penale di lotta è di far dimenticare nelle indagini quella che sarà la dimensione finale del giudizio, di indurre a credere che i fatti sufficienti per misure allo stato degli atti siano sufficienti anche per il giudizio. Peggio ancora. La tentazione, cui cedono sovente legislatore e interpreti in prima linea, è di costruire ab origine i “fatti tipici” per adattarli meglio a quelle cangianti e mutevoli fattispecie concrete di interesse processuale, prima che penale.

 

Pochi esempi.

  1. La punibilità del mero accordo o dell’istigazione per essere arruolato e addestrato (art. 302 e 304 c.p. in relazione agli artt. 270-quater e 270-quinquies cp). Una possibilità tecnica inusitata è offerta dal combinato disposto dei classici delitti di istigazione e di cospirazione politica rispetto ai delitti contro la “personalità dello Stato”, con le nuove fattispecie di arruolamento, e addestramento, che in effetti, per la loro non sempre chiara formulazione, interferiscono con il sistema codicistico italiano, che già prevede la punibilità di condotte di istigazione e accordo per commettere delitti anticipati (atti preparatori) contro la personalità dello Stato (art. 302, 304 cp). Se l’arruolamento fosse un accordo per compiere atti di terrorismo[28], allora l’istigazione a tale accordo (art. 304 cp) che cosa sarebbe se non la prima manifestazione della volontà di entrare/far entrare nel circuito del terrore? Sono certo misure solo apparentemente simboliche, ma invece “utili” per perseguire a livello di indagini, ma anche penalmente, tipi d’autore sospetti, prima che abbiano commesso qualsiasi fatto di qualche offensività potenziale. Sono però anche norme espressive del commiato dallo Stato liberale e dal diritto penale del fatto: si scrivono ‘fatti’ di reato che dissimulano tipi d’autore. Norme pre-processuali, scritte “per il codice delle indagini preliminari”, non per il codice del dibattimento o del giudizio. Eppure a giudizio ci potranno anche finire qualche volta … e il legislatore ne è ben consapevole, avendo aggiornato l’istigazione ex art. 302 cp col prevedere un’aggravante per lo strumento informatico o telematico.
  2. Se chi si accorda per farsi addestrare, cioè per “diventare terrorista”, o istiga a tale evento anche solo rappresentato da singoli delitti sorretti da quella finalità, è già punito di per sé, dopo la novella del 2015 (dl 18 febbraio 2015, n. 7 conv. nella l. 17 aprile 2015, n. 43), chi si autoaddestra in solitarioè pure punito, ma in tal caso è richiesto che ponga in essere comportamenti univocamente finalizzati (non oggettivamente idonei) a realizzare le condotte tipiche di cui all’art. 270-sexies cp. Si incrimina in ipotesi chi ancora non è terrorista, perché lo vuole diventare con atti preparatori diversi dalla mera manifestazione di volontà[29]. Il principio di materialità non è violato, ma sono fatti espressivi di volontà e fini illeciti: è un diritto penale orientato all’autore pericoloso, alla costruzione del terrorista come macchina da guerra.
  3. Queste attività illecite vanno poi collegate con la possibilità d’intercettazioni  preventive (art. 226 disp. att. cpp) e di misure di prevenzione in materia (art. 4, lett. d) d.lgs 6 settembre 2011, n. 159, cd. c. antimafia)[30], oltre che di misure cautelari personali e reali. A differenza delle misure di prevenzione utilizzabili nel settore della criminalità organizzata mafiosa (art. 4, lett. a) d.lgs n. 159/2011, che possono essere attuate in parallelo, anche a fronte di delitti consumati, nel caso di criminalità non mafiosa è stabilita un’alternatività tra misure di prevenzione e atti esecutivi, essendo quelle misure connesse ad “atti preparatori” obiettivamente rilevanti: non più di fronte a delitti consumati. Peraltro sono misure che si adattano a soggetti che se si accordano o si addestrano per atti preparatori che sono già delitto: dunque si applicano ben prima ….
    Ovviamente tutte queste condotte, consentendo indagini penali (e misure cautelari, o di prevenzione)in presenza di indizidella sussistenza di quei fatti, possono orientare l’attività delle Procure verso persone che non hanno commesso nessun fatto offensivo, ma perseguono temute finalità illecite: indizi di finalità.
    Ciò rappresenta, come anticipato, il perfetto rovesciamento della logica giurisdizionale penale in una logica di polizia di pubblica sicurezza. Che si arrivi a un processo è del tutto irrilevante e secondario, se il tutto sarà servito a neutralizzare soggetti pericolosi.
  4. Dietro tutta questa facciata giurisdizionale non possiamo dimenticare che cosa c’è stato dal 2001 sino a oggi: fatti illegali organizzati dalle diverse ragioni di Stato, da Guantánamo ai voli segreti della Cia e alle forme di extraordinary rendition, e fatti legali come il sistema del listing, che ha costituito una misura penale-amministrativa di rilevante impatto sui diritti, rispetto a situazioni paradigmatiche di sospetto, slegate da specifiche condotte, e fortemente limitatrici dei diritti di libera circolazione, patrimoniali etc.
  5. Imprescindibile e ancipite in tutto ciò il doppio ruolo dell’intelligence e dei servizi segreti, sia per la funzione preventiva e d’informazione, sia per il supporto che hanno dato alle ulteriori e ben distinte forme di contrasto: quelle di lotta armata nelle forme della guerra e perfino di quelle dell’eliminazione diretta dei rappresentanti più pericolosi del terrorismo con strumenti di distruzione a distanza ma anche diretti ad personam, ad opera soprattutto degli Stati Uniti: condotte “di Stato” la cui qualificazione giuridica si colloca probabilmente nell’illecito, ma al di là della giurisdizione.

Il “volto pseudo-giurisdizionale” della soggettivizzazione di un’azione di contrasto vicina alle forme della polizia di pubblica sicurezza, non può dunque essere separato da quello extrapenale ed extragiurisdizionale: entrambi hanno composto insieme il quadro complessivo di una risposta alla quale hanno partecipato Stati e istituzioni, nel rispettivo gioco dei ruoli, che appaiono confliggenti, quando forse sono invece del tutto convergenti, nella logica di chi paga il biglietto e chi no: della sicurezza o della giurisdizione, rispettivamente.

6. La consapevolezza della necessità di una doppia risposta, giudiziaria e non, al terrorismo

Accanto alla magistratura che svolge funzioni di polizia, c’è però il tipico momento giurisdizionale e garantista, allorché le indagini arrivano di fronte a qualche controllo da parte di un giudice terzo o da parte dello stesso pubblico ministero che si preoccupi delle deviazioni anticostituzionali di un sistema di guerra occulta.

Certo il pregio della posizione appena commentata è quella di ribadire che la magistratura dovrà operare secondo le regole anche costituzionali dello Stato di diritto. Ecco perché, come nel caso Abu Omar, la risposta sarà giurisdizionale e non da “Stato di polizia”, come ci avrebbero chiesto gli operatori dei servizi e d’intelligence americana operanti nel nostro Paese, e come ci avrebbe chiesto lo stesso Governo italiano.

Il caso Abu Omar riguarda il rapporto di convergenza tra la soluzione europea e quella americana rispetto al rifiuto del controllo giurisdizionale. Chi (per es. vari Stati europei, per parlar chiaro) adotta soluzioni fondate sulla delega a terzi del lavoro sporco di eliminazione dei nemici, contravviene a un principio che deve sorreggere la condotta degli Stati quando sono in gioco i diritti fondamentali (e nel diritto penale sono in gioco sempre): «Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la cui massima non è compatibile con la pubblicità, sono ingiuste»[31]. Lo contravviene se queste attività non sono palesabili neppure ex post, in quanto sicuramente illecite.

Che ciò sia poi riconosciuto a giochi fatti da una “sanzione simbolica” di un Tribunale supremo (la Corte Edu)[32], poco cambia la realtà delle cose: ci siamo salvati l’anima di giuristi, ma non abbiamo certo cambiato la politica reale.

Del resto anche su altri piani alcune collaborazioni più virtuose, ma non giurisdizionali, non sono evitabili.

Come ai tempi del caso Abu Omar c’erano i voli segreti della Cia, le extraordinary renditions e le black lists, e il Governo o i Governi sapevano, mentre la magistratura operava in parallelo secondo logiche giurisdizionali ritenute a livello politico modestamente efficaci, evidentemente, adesso sappiamo bene che c’è un “biglietto da pagare” per la cooperazione internazionale.

Esso consiste in due percorsi, che in realtà sono assai variegati: in primo luogo, lavorare su fronti diversi da quello della magistratura, del delitto consumato o di attentato, da un lato, e ovviamente non mi riferisco ai voli segreti e a campi di detenzione segreti, ma a cooperazione di polizia e intelligence, e anche molto a cultura politica, informazione e dialogo col mondo islamico nel suo complesso, diffusione dell’idea che un vero contrasto culturale al terrorismo è fondamentale, e in casi estremi l’intervento dell’esercito; e dall’altro, in secondo luogo, si tratta di operare sul fronte interno sempre con questi strumenti. Ed è su tale fronte che il momento giurisdizionale mi pare più significativo, anche in termini di contrasto al fenomeno[33].

I dati appena descritti ci avvicinano alla formulazione di una domanda ormai urgente: come possiamo pensare che non si debbano considerare avversari istituzionali, cioè avversari “delle istituzioni” anziché delle singole vittime umane potenziali, che-ancora-non-ci sono, e dunque antagonisti ideologici, anziché meri “criminali”, i guerriglieri di Daesh? Come potremmo escludere soluzioni di tipo militare, del resto già in atto in altri territori[34]? Ma anche soluzioni politiche e culturali diverse da quelle giudiziarie? Solo perché gli attentati non si sono verificati a Roma o in Italia? È essenziale prendere coscienza della relatività della risposta giurisdizionale, ma ad un tempo della necessità che essa non si perverta perché è chiamata a svolgere funzioni che non le sono proprie.

In questo settore non è possibile ragionare secondo il modello della magistratura degli anni Settanta del secolo scorso come se si trattasse delle Brigate Rosse, che pure sono state sconfitte nella coscienza della sinistra (chi non ricorda i discorsi tolleranti sui “compagni cha sbagliano”?) e del Paese, e non solo dalla magistratura.

La doppia risposta, giurisdizionale e non, rappresenta in realtà una risposta plurima, dai molti livelli, ed è funzionale a una soluzione non deresponsabilizzata che giova anche all’autonomia della giurisdizione, al suo non coinvolgimento nella funzione di lotta di qualche nemico. Ogni altra risposta di tipo solo giurisdizionale è sbagliata, inefficace e inquinante.

Ciò non significa che la risposta sia nei droni, ma certo non è nelle sentenze penali, che costituiscono un piccolo tassello del mosaico delle soluzioni del fenomeno[35]. Alcune tra le nuove norme, infatti, non mirano neppure a diventare sentenza, e dunque a essere davvero “giurisdizionalizzate”, ma a raggiungere assai prima il loro obiettivo di neutralizzazione dei soggetti pericolosi. Vediamole.

7. Il versante garantista, e meno garantista, della giurisdizione. Le oscillanti risposte della Corte di cassazione

La magistratura italiana ha interpretato complessivamente in senso garantista le nuove norme antiterrorismo introdotte nel 2001, nel 2005 e nel 2015, tutte dopo attentati clamorosi in altri Paesi. Ciò risente anche del clima di minor aggressione nazionale del fenomeno, come già detto. Ma esistono segnali preoccupanti di un intreccio potenzialmente esplosivo tra la struttura del codice del ’30, le nuove regole e la loro gestione giurisprudenziale. Qualche esempio virtuoso e meno.

  1. Al versante garantista appartengono le letture degli art. 270-bis e del 270-quater e –quinquies cp, che introducono l’idoneità oggettiva “dentro” al dolo specifico, esigendo che in tutti i casi nei quali è richiesta la finalità di terrorismo (art. 270-sexies) le condotte anche di arruolamento e di addestramento “possano realmente” “arrecare un grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale”: interpretazione restrittiva, adottata comprensibilmente in un caso di contestazione di tale finalità a organizzazione no-Tav per delitti di attentato con finalità di terrorismo (art. 280 e 280-bis cp), ma anche in vari altri, e resa possibile da una certa lettura del principio di offensività o di come è descritta la finalità di terrorismo nell’art. 270-sexies[36]. Non si tratta di lettura imposta, nel senso che si potrebbe declinare diversamente il dolo specifico nel sequestro di persona ex art. 630 cp (rispetto a chi sequestra persona nullatentente per errore, anziché un facoltoso imprenditore), nel falso in scrittura privata ex art. 485 cp, nell’associazione per delinquere ex art. 416 cp, o nell’art. 270-quater. Ci sono diversi beni in gioco, a seconda dei casi, e un’idoneità concreta rispetto a beni di macroscopica grandezza come un Paese o una organizzazione internazionale possono depotenziare molto la forza incisiva di un’incriminazione, oppure servire semplicemente a escludere davvero fatti modesti.
  2. Nello stesso tempo, abbiamo avuto sentenze della Suprema Corte che hanno accresciuto la valenza offensiva del delitto di arruolamento (art. 270-quater, cp), considerandolo un serio accordo per la commissione di atti di violenza o di sabotaggio con finalità di terrorismo: non certo l’ingresso in un’entità prodromica che, non potrebbe essere già partecipazione interna nell’art. 270-bis (che l’art. 270-quater esclude), ma neppure una semplice e inafferrabile tappa intermedia verso l’entrata nell’associazione. Piuttosto, un autonomo ingaggio verso l’esecuzione di atti che di per sé dovrebbero poi condurre all’entrata nell’associazione[37]. La fattispecie sarà integrata ove l'accordo risulti qualificato dalla "doppia finalità" prevista dalla norma incriminatrice, cioè il compimento di atti di violenza o sabotaggio con finalità di terrorismo. Rispetto a entrambe queste finalità compresenti è poi richiesta una specifica idoneità oggettiva dell’accordo a realizzarle[38], come se si trattasse (secondo alcune sentenze) di un tentativo di realizzare quei delitti-scopo e quello scopo ultimo di terrorismo. Ognuno vede che qui, a differenza della maggior parte delle fattispecie a dolo specifico – che sono centinaia nel sistema penale – viene introdotta una idoneità che non è dato riscontrare altrove … e che non può essere uguale a quella del tentativo nelle diversissime fattispecie che contemplano questa forma di dolo e di modalità oggettiva dell’agire orientato a scopi eccentrici. Altrimenti un evento di pericolo esterno alla fattispecie (come è nel dolo specifico, che non è richiesto si realizzi), viene inserita al suo interno: ciò che è consentito fare solo quando il fatto senza dolo specifico risulti inoffensivo: e nei limiti in cui tale operazione è costituzionalmente conforme essa deve essere sostenuta come doverosa. Peraltro sul piano dell’univocità oggettiva le cose potranno essere diverse. Così come l’idoneità dei delitti di attentato non può avere l’univocità oggettiva del tentativo[39].
  3. Fa tuttavia da contraltare a questa lettura in termini di offensività, un contemporaneo e recente orientamento del tutto contrappostoin materia diapplicabilità del delitto tentato (art. 56 cp) alla medesima fattispecie:una condotta di accordo anticipato rispetto a delitti di attentato risulterebbe perciò suscettibile a sua volta di realizzazione tentata[40]. Ognuno vede come qui si ritorni dal diritto penale del fatto al diritto penale d’autore. Un accordo d’ingaggio sembrava una condotta di pericolo già molto anticipata, ma non basterebbe. Anche gli atti idonei e univocamente diretti a quell’ingaggio sarebbero già punibili per chi arruola. Nella parte generale del codice Rocco l’art. 115 cp è un limite al delitto tentato oltre che al concorso di persone. Nella parte speciale c’è la cospirazione politica mediante accordo (art. 304), oltre all’istigazione ai delitti “di attentato” o di “associazione” contro lo Stato (art. 302 cp, rinnovato anche nel 2015). Ma punire il tentativo d’ingaggio monosoggettivo non è venuto in mente neppure al legislatore fascista della parte speciale del codice, che riprendeva tra i delitti contro lo Stato quelli introdotti nel 1926 dalle cd leggi fascistissime, insieme al Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Non c’erano delitti-accordo, ma attentati di cui era punibile l’accordo. Infatti, esistono l’istigazione e l’accordo con altri per commettere delitti contro lo Stato (i citati art. 302 e 304 cp) che non siano (perché non erano) essi stessi di istigazione o di accordo rispettivamente[41]. Tra questi delitti-scopo compare oggi anche l’art. 270-quater, che se è delitto di accordo (come viene inteso) non può ammettere un ulteriore e anticipato accordo. Tuttavia si potrebbe ammettere un’istigazione a terzi: l’istigazione dell’arruolato come rilevante ex art. 302 cp, anche se telematica o informatica, per commettere atti di violenza o di sabotaggio. Siamo già oltre il codice Rocco e le leggi del 1926. Aggiungervi il tentativo quando è punibile l’istigazione appare superfluo, perché l’istigazione è meno di un tentativo, ma è segno indubbio di una magistratura giudicante che ormai è entrata nel diritto penale di lotta, perché il tentativo è condotta non necessariamente istigatoria e tuttavia opera su fattispecie prodromica all’ingaggio. Avevamo gli accordi di attentato nel 1930, ora anche il tentativo di accordo. Ma in realtà, abbiamo ex lege (art. 302 cp e 270-quinquies cp) l’istigazione all’accordo. Dunque pura anticipazione di due livelli di condotte preparatorie (istigazione e ingaggio) ad atti di violenza o di sabotaggio.
  4. Anche rispetto al reato associativo, sempre a rischio di essere anticipato al mero accordo, e reso particolarmente inafferrabile nel terrorismo di matrice islamica per la destrutturazione in cellule del suo operare[42], le delimitazioni in termini di offensività costruite sull’idoneità lesiva richiesta per l’applicazione del dolo specifico di terrorismo, sono in parte neutralizzate da quegli orientamenti che prospettano la legittima persecuzione penale dei soggetti che abbiano uno scopo terroristico soltanto “mediato”[43]: in quanto inseriti in una struttura meramente logistica di dislocazione, senza consapevolezza degli scopi che verranno successivamente indicati. Può così accadere, attraverso la “teoria degli scopi mediati”, che soggetti i quali si sono resi disponibili per singole attività (per es. di falsificazione di documenti), senza nulla sapere del contesto di riferimento di un’associazione superiore o distinta, vengano ritenuti associati in via mediata. E ancor prima, si capisce, indagati e imputati per tale inserimento indiretto in un contesto dal quale la cellula territoriale dedicata ad attività logistiche, pare ancora distante: come se il concorso in reati-mezzo, rispetto all’inserimento nell’associazione, valesse già come partecipazione interna. Ma qual è l’associazione tipica, che neppure il giudicante (come l’associato) deve avere identificato e di cui il partecipe “mediato” non può conoscere gli scopi specifici sul territorio dove opera?
  5. Lo stesso inserimento del requisito legale di “comportamenti univocamente finalizzati” alle attività con finalità terroristiche per punire l’auto-addestramento del cd. lupo solitario (nuovo art. 270-quinquies dopo riforma del dl n. 7 del 2015), sembra limitarecorrettamente la fattispecie a un principio di materialità, altrimenti assente nell’auto-addestramento informativo[44]. Però univocamente finalizzati non significa oggettivamente idonei. E la sua pena, come peraltro anche quella del semplice addestrato “vero” e dell’addestratore che non abbiano compiuto quei comportamenti finalizzati univocamente, è la stessa del partecipe interno: da cinque a dieci anni di reclusione. Un’equiparazione sanzionatoria che dimostra il livellamento punitivo di associato, addestratore, addestrato e auto-addestrato esterno indipendente. Con il che si evidenzia la rottura del valore tipizzante del vincolo associativo, dell’affectio societatis, come già nella lotta alla mafia (concorso esterno). Infatti, se non ci fossero queste tipizzazioni di parte speciale, forse a qualcuno verrebbe in mente di applicare comunque una nuova ipotesi di concorso esterno[45]: dove non sarebbe la condotta tipica, ma la finalità a rilevare. Purché si trovi una condotta finalizzata, anche quella “aperta” del concorso esterno, l’azione verrebbe attratta nella fattispecie: ma qui, per arruolatore e arruolato, addestratore e addestrato, non è richiesta  la prova di un contributo alla vita o all’organizzazione, che magari non è per nulla afferrabile[46]. Ecco perché servono particolarmente fattispecie autonome, funzionali del resto a tipologie associative di incerta struttura organizzativa.
  6. La rottura del ruolo tipizzante del vincolo associativo è del resto già presente nella stessa declinazione della fattispecie dell’associazione per delinquere di tipo mafioso, secondo quella giurisprudenza che attrae dentro all’associazione chiunque abbia la disponibilità ad assumere un ruolo nella stessa[47]: tipologie di “messa a disposizione” che oscillano tra la partecipazione interna e il concorso esterno. Sono forme ermeneutiche di lotta al crimine organizzato che possono facilmente conoscere migrazioni applicative. Si tratta di vedere, sotto le formule, quali fatti vi rientrino, diversi da una connotazione soggettivamente pregnante.

Per carità, conosciamo il principio non costituzionale salus rei publicae suprema lex, però noi siamo distanti da scenari siriani, afgani, iracheni, libici, egiziani, e per fortuna finora anche da scenari americani, francesi o belgi. Questa è dunque la legge di un diritto penale di polizia, dove il fatto è espressione dell’autore. E la magistratura ne interpreta i percorsi per prevenire la consumazione di stragi e attentati. L’abbiamo camuffato da diritto penale del fatto, ma siamo già oltre i suoi confini.

8. The right answer di fronte al diritto di eccezione e la posizione del terrorismo nel diritto penale della sicurezza

Poiché riteniamo di non essere immuni dal rischio di attacchi terroristici, di fronte alla prospettiva di norme di eccezione (siano esse di previsione legislativa o di formazione giurisprudenziale)[48] che già sono presenti nel nostro sistema, non ci sentiamo di accogliere nessuna delle tre posizioni principali che negano la stessa possibilità dell’eccezione[49]: quella dei puristi del garantismo, che sostengono che ogni eccezione sarebbe eccezione ai principi inderogabili, quando ciò è sconfessato dallo stesso principio di uguaglianza che impone il trattamento differenziato di situazioni distinte; quella degli equilibristi del chiaroscuro, che bilanciano così bene ogni principio, da ammettere sempre possibili deroghe allo stesso ‘nucleo’ dei principi, così inevitabilmente annacquati da vedere svanire la loro forza superiore cogente: qui, essendo tutto derogabile, le stesse eccezioni non esistono più; quella infine dei sacerdoti del Leviatano, dei seguaci di Carl Schmitt, che vedono un primato assoluto della politica sul diritto e sulla giurisdizione, e come tali sostengono che sovrano è chi decide lo stato di eccezione, al punto che il diritto dovrebbe sempre cedere al potere politico che lo sovrasta e lo piega a ogni scopo contingente.

Rifiutato l’estremismo di tutte e tre queste posizioni, che nella loro essenza negano l’eccezione, vuoi perché la escludono sempre, vuoi perché la legittimano sempre, sembrerebbe rimanere l’unica soluzione trasparente e corretta[50], quella prevista dall’art. 15 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che in tempi di emergenza prevede deroghe – peraltro temporanee – ad alcuni principi della Convenzione, ma non al nucleo di alcuni divieti o valori, come la vita umana, il divieto di tortura, il principio di legalità penale e il divieto di retroattività. In questo senso, la previsione di una norma costituzionale nazionale sulle condizioni e i limiti temporali di stati di eccezione, o una disciplina sovralegislativa degli atti preparatori, delle forme associative e delle figure di parte generale ad esse applicabili, sarebbe sicuramente un elemento di chiarezza[51].

La nostra storia legislativa ha dimostrato chetutte le deroghe temporanee da noi rischiano di diventare definitive: e forse proprio per questo una previsione costituzionale dei limiti temporali potrebbe contribuire a razionalizzare la disciplina, anziché a stratificare nel sistema tanti microsettori di eccezione, mascherati come regole speciali.

In mancanza di ciò, la soluzione politica più auspicabile, in assenza di eventi che evochino un intervento militare, è di non inserire vere eccezioni temporanee ad alcuni diritti fondamentali (escluse comunque le eccezioni al loro nucleo), ma lasciare gestire dalla magistratura i profili di attuazione legislativa differenziata di principi e regole comuni peraltro già operanti – le norme speciali ritenute compatibili col sistema dei principi altro non sono che regole “differenziate” in nome dell’eguaglianza formale, cioè del trattamento diversificato di situazioni differenti –, nella declinazione dei principi dentro alle norme ordinarie costituzionalmente conformi. Regole “speciali” non di eccezione dunque, piuttosto che eccezioni temporanee non più modificate, o non disciplinate a livello costituzionale.

Ma sono queste distinzioni che tengono veramente? Concettualmente sì, anche se nella prassi esse si prestano a distinzioni fuzzy che rischiano di far sembrare debole o compromissorio l’impianto ricostruttivo.

Insuperabili nel nucleo restano a mio avviso anche i limiti del diritto penale del fatto e non dell’autore (art. 25 cpv. Cost.), della finalità rieducativa-risocializzante, e dunque in linea di principio mai definitivamente escludente, della pena (art. 27, co. 3, Cost.), e la terzietà e imparzialità del giudice (art. 101 e 111 Cost.).

Però abbiamo varie discipline vigenti che si collocano ai limiti di questi principi.

Tutte le deroghe implicite nelle interpretazioni di cui ai punti da c) a f) del § precedente, per es., che si orientano al diritto penale d’autore, devono essere rilette in modo costituzionalmente conforme o dichiarate illegittime.

Tutto ciò rimette in gioco la giurisdizione come ultimo baluardo o debolezza di sistema.

Infatti, come già detto: la giurisdizione è il luogo dove il soggetto giudicante non sta da una parte processuale, ma sta dalla parte dei diritti fondamentali. Di entrambi i soggetti, vittima e autore, Stato e imputato. Lo Stato non s’identifica col diritto, ma il diritto regola lo Stato come regola la condotta del cittadino o la condizione giuridica dell’imputato.

La magistratura, tuttavia, non lavora solo con sillogismi puri senza previa interpretazione, e pertanto dovrà operare bilanciamenti, operazioni come tali non predeterminate in una regola rigida, ma modulabili sulle diverse situazioni, e consentite dall’elasticità di numerose norme di parte generale e speciale[52]. In quest’opera di concretizzazione interpretativa, non è consentito modificare le disposizioni in nuove norme che le “riscrivano” direttamente[53] , ma solo adattare le disposizioni alle situazioni concrete, nel segno non della trasformazione dei tipi, dunque, ma della loro mera concretizzazione sui casi: per es. quali sono le forme di associazione interna e quali gli accordi del semplice arruolato, quali tipologie di fatti integrano il “grave danno” che l’azione terroristica ha di mira, quale lesività oggettiva (tipologie di pericolo) è richiesta per le singole incriminazioni, quale la ratio tipizzante il dolo specifico rispetto alla direzione oggettiva degli atti tipici dei delitti di attentato etc. Il tutto nel quadro di una applicazione costituzionalizzante: tassatività, offensività, colpevolezza, responsabilità personale, eguaglianza/differenziazione, extrema ratio, funzione risocializzante, dignità umana etc. Bisogna ricordarli questi principi, perché non sono mai scontati.

Affidare alla magistratura troppe risposte ne segna inevitabilmente il destino di sovraesposizione istituzionale, funzionale all’assenza di scelte da parte del potere legislativo. Il suo successo, in questo contesto, rischia come sempre di essere direttamente proporzionale alla debolezza della politica. E dunque la sua funzione minaccia di non essere strettamente giurisdizionale, a causa di quella debolezza. La via d’uscita da questo rischioso cortocircuito è data anche da una chiara delimitazione dei compiti della politica e della giurisdizione: il doppio binario di cui abbiamo parlato. Ma a condizione, anche qui, che il livello politico si mantenga nei limiti di un’attività il più possibile compatibile con la pubblicità degli interventi, ex ante o (in caso di misure di intelligence o di accordi internazionali e di cooperazione giudiziaria) almeno ex post, e dunque con la “normale” possibilità delle verifiche anche giurisdizionali proprie dello Stato di diritto.

Quanto al legislatore nazionale, abbiamo visto da tempo che non sta adottando una politica penale nazionale: le principali riforme introdotte nel 2001, nel 2005 e nel 2015 sono largamente condizionate da eventi, convenzioni o accordi internazionali, anche se appaiono in parte differenziate in contesto europeo[54]. Il tema della sicurezza, in quest’ambito, non è gestito dal Parlamento, ma eterodiretto. L’ossessione e le ragioni della sicurezza come orizzonte totalizzante del diritto penale ci portano progressivamente, senza averl