Magistratura democratica

Fra meta-terrorismo e sicurezza algoritmica

di Francesco Strazzari

Quindici anni dopo l’inizio di quella war on terror che gli Stati Uniti proclamarono all’indomani degli attacchi alle Torri Gemelle e al Pentagono non è possibile trarre alcun bilancio positivo della guerra. Dallo Yemen alla Siria, dalla Libia all’Afghanistan, un conflitto porta a un altro conflitto, senza che di alcuno di essi si intraveda la fine. Da un lato il complesso mediatico-diplomatico ripete che non esiste soluzione militare, dall’altro tale asserzione non trova riconoscimento nei fatti: le guerre al terrorismo imperversano e le spese per armamenti sono in crescita ovunque.

Se è vero che la gran parte delle vittime di attacchi terroristi riguardano Paesi in guerra, le mappe della guerra si dilatano e si prolungano attraverso la produzione di spazi di terrore disegnati da attacchi che si spingono fino nel cuore delle città europee: negli ultimi due anni si contano più di 2.000 morti in 140 azioni terroriste rivendicate dal solo “Stato Islamico” in 29 paesi, con 240 vittime degli attacchi nella sola Francia[1]. Il più delle volte si tratta di obiettivi indiscriminati, giustificati dai jihadisti come risposta ai bombardamenti subiti.

Col volgere al termine della presidenza di Barack Obama, quella peculiare forma di contro-Stato che si auto-definisce Califfato arretra territorialmente sotto i colpi della coalizione a guida statunitense: più volte annunciata, la caduta di Mosul, nel nord Iraq, significa il ritorno dell’Isis al rango di insurgency armata, ma non chiude certo i conti col jihadismo mediorientale, stante il fatto che tutte le condizioni geopolitiche che ne hanno alimentato l’ascesa permangono presenti, quanto non esacerbate dall’escalation bellica regionale.

Nel mentre, la comunità internazionale tocca con mano la difficoltà delle leadership di governo a prender parte a larghe coalizioni e/o a rafforzare i meccanismi di integrazione sovranazionale: in affanno lungo la via della ripresa economica, la stessa Unione europea vede la defezione britannica mentre è solcata dal riattizzarsi del nazionalismo, impegnato ad affrontare sfide epocali (afflusso di rifugiati e migranti, globalizzazione economica) attraverso il dispiegamento di un arsenale di trincee, fili spinati e xenofobia.

A fronte di questo scenario, un bilancio critico – si potrebbe dire radicale – appare imperativo.

1. Terrorismo e meta-terrorismo

Nella global information age il terrorismo è più che mai un atto di comunicazione: una strategia comunicativa estrema in cui la violenza è usata strumentalmente per mandare messaggi in diverse direzioni. Molto si è scritto e detto circa come i terroristi comunicano, e circa l’impatto di social media e nuovi applicativi per smartphone. Meno si parla – nel mondo schierato con Charlie dalla parte della libertà di espressione - di nuove forme di sorveglianza e censura. Ma ancor meno attenzione suscitano le modalità con le quali i mass-media riverberano e rielaborano il messaggio violento: corsa all’audience, innovazione tecnologica e proliferazione di immagini hanno portato ormai agli attentati seriali in diretta, con produzione di un genere televisivo vero e proprio. Lo schema è ormai consolidato:si parte con la notizia di “allerta terrorismo a (città X)”, corredata da inviati su uno sfondo di zone perimetrate, polizie pesantemente armate e strade deserte; a seguire, precisazioni da fonti rigorosamente anonime, e commenti di “esperti di terrorismo”, “sicurezza” e/o “geopolitica”[2].

Questo genere emergente può essere ricondotto a un fenomeno specifico, a cui è bene dare un nome: meta-terrorismo. Adam H. Johnson definisce il meta-terrorismo come il terrore propagato dalla replica non-stop di attacchi terroristici passati e dalla continua speculazione sugli attacchi futuri[3]. Il meta-terrorismo si nutre dell’amplificazione dei codici comunicativi che il sedicente Stato Islamico ha essenzialmente mutuato da Hollywood, investendo molto nella post-produzione, nelle strategie di marketing e nel lancio in prime time. In sintesi, il meta-terrorismo consiste nell’usare/replicare/amplificare il potere comunicativo del terrorismo per instillare la paura del terrorismo avanzando obiettivi politici. A livello più profondo, tale modalità comunicativa riflette uno spostamento profondo che avviene nelle fondamenta del modello di sicurezza.

2. La sicurezza algoritmica

Esemplificata dagli attentati di matrice jihadista (sia perpetrati da foreign fighters di ritorno dalla Siria, sia dai cosiddetti terroristi homegrown), la “minaccia terroristica” si caratterizza come esacerbazione del concetto di guerra asimmetrica: colpisce la vita quotidiana della popolazione civile, puntando a massimizzare il numero delle (e/o l’effetto di rispecchiamento nelle) vittime e a guadagnarsi le breaking news.

Sfidata da modalità per certi versi inedite, la risposta degli apparati di sicurezza statali in Occidente si è concentrata sul problema di come identificare il rischio che è presente in una determinata popolazione: ovvero come sia possibile abilitare azione preventiva (leggasi: neutralizzazione) della minaccia ancora in fase di incubazione, tipicamente sulla base di dati ed evidenze mancanti o incomplete: ovvero come sia possibile trasformare l’incertezza in una base di decisione. Il problema ha immediatamente imboccato la strada della identificazione del rischio e della minaccia attraverso la raccolta ed elaborazione di dati, che qui definiremo il modello di sicurezza algoritmica. Nell’affrontare l’emergere di questo modello, Louise Amoore evidenzia come si tratti di tarare il meccanismo su scenari a bassissima probabilità ed altissimo impatto, e vede la saldatura con il settore privato che potremmo definire “industria del rischio”[4]: basti pensare al software Gdelt – impiegato per predictive analytics – o all’intero versante “Silicon valley” per quanto riguarda il lavoro di sorveglianza e ascolto dei social media e dei protocolli di comunicazione informatica.

Al centro c’è il tema del rapporto fra decisioni umane e macchine nell’epoca in cui il progresso tecnologico ha magnificato la possibilità di calcolo. L’uso dell’algoritmo cambia la pratica della sicurezza e lo sguardo sui futuri possibili. A partire dagli Stati Uniti post-9/11 si sviluppa un sistema che ha fame di normal data (il 99.9999% dei dati acquisiti) per trovare anomalous data che segnalano l’esistenza di un profilo di rischio.

Ne nasce un discorso eminentemente tecnico attorno alla politica della possibilità che scrutina comportamenti privati, e – in ultima analisi – riguarda tutti noi. Si tratta di una riconfigurazione significativa: le decisioni vengono prese sulla rischiosità (il profilo di rischio degli individui). Il referente della sicurezza, in questo processo, è nientemeno che il futuro: si tratta di rendere il futuro sicuro. L’incertezza per il futuro non è più un impedimento all’azione ma lo sprone per nuove forme di decisione e azione. Al centro del sistema di politica delle possibilità sono statistici e amministratori: il giudizio politico è rimpiazzato dal computo matematico. L’intero processo - fondato sull’acquisizione e l’accesso ai dati (e in ultima istanza su una forma di “feticismo del dato”) - è sostanzialmente de-umanizzato.

Il modello di sicurezza – occorre sottolinearlo ancora una volta – non è solo basato sul ritorno di strumenti di dissuasione e protezione dei confini quali barriere, le dune e le trincee, ma anche e soprattutto su nozioni quali smart borders: la domanda che ci si pone è come tracciare i terroristi (o – ancor più controverso – i potenziali terroristi) fra i migranti? Quanto grande è il rischio statistico che i foreign fighters di ritorno rappresentino una minaccia, e come arrivare a neutralizzare quelli che effettivamente lo sono?

In assenza di definizioni univoche di terrorismo, è chiaro che l’intero edificio si fonda un uno strato di ghiaccio particolarmente sottile e volubile, a seconda della fase strategica: valga per tutti l’esempio della mobilitazione curda fra Turchia, Siria, Iran e Iraq, che passa attraverso definizioni opposte di terrorismo. A riprova della volubilità e della strumentalità delle dinamiche di criminalizzazione, la decisione della Turchia, pilastro del patto atlantico che, occorre ricordarlo, ha natura politico-militare e dunque investe l’apparato normativo – di concedere l’indulto a 38.000 carcerati, per fare posto agli arresti di massa seguiti al tentato colpo di Stato di luglio 2016[5].

3. Sistemi paralleli

Così come la war on terror ha introdotto figure giuridiche controverse quale quella dell’enemy combatant (distinto dal prigioniero di guerra e rinchiuso a Guantanamo), fra terroristi e migranti/rifugiati la fase di consolidamento del nuovo modello di sicurezza mette sotto pressione gli ordinamenti liberal-democratici, producendo novità controverse sotto il profilo dei diritti fondamentali: difficile concepire diversamente dispositivi quali gli hotspot europei per migranti e richiedenti asilo (privi di fondamento giuridico, e proposti anche in versione di galleggiamento offshore), gli schemi di rimpatrio su Paesi terzi (quale ad esempio quello previsto dall’accordo Ue/Turchia, che prevede uno scambio numerico 1x1 in palese violazione di ogni nozione di diritti individuali), i tribunali specializzati per esaminare le richieste di asilo.

In materia di terrorismo, l’impulso a criminalizzare promana direttamente dal Consiglio di Sicurezza Onu, spintosi a prefigurare un obbligo di riforma del diritto penale degli Stati, e dalla direttiva terrorismo della Unione europea, concepita nel contesto della revisione della Strategia di sicurezza interna, il cui disegno è criticato dalle principali Organizzazioni non governative attive sul terreno dei diritti umani – da Amnesty international alla International commission of jurists (Icj) passando per la Open society justice initiative (Osji)[6]. Incalzato da metaterrorismo e sicurezza algoritmica, il livello di protezione della rule of law pare scivolare verso misure eccezionali adottate con decretazione d’urgenza – il più delle volte consistenti in pratiche di anti-terrorismo che girano al largo della procedura giudiziaria e che non trovano applicazione rispetto a criminali ordinari. Emergono comunità di sospetto, mentre è presente il rischio che sorveglianza, controllo sociale, e tutti i poteri conferiti dallo Stato di emergenza vengano utilizzati in modo selettivo per gestire il conflitto sociale (si veda la richiesta di sospensione di iniziative sindacali in Francia), in primo luogo rispetto a soggettività critiche del mainstream liberale (si pensi all’attivismo ecologista).

Il sistema riposa su un modello commerciale: gestito da Thompson Reuters, il database World-Check vanta più di 300 clienti, fra Stati e organizzazioni di intelligence, oltre a 49 fra le 50 principali banche. Esso include sotto l’etichetta «terrorismo» grandi organizzazioni umanitarie, associazioni religiose dotate di reputazione internazionale e decine di attivisti mobilitati in ambito transnazionale.  Si tratta a tutti gli effetti di un’industria priva di regolazione, che sfugge alle più elementari forme di garanzia[7]. Prescindendo da evidenti problemi metodologici[8], le conseguenze dell’etichettatura alla voce «terrorismo» sono particolarmente severe (es. esclusione dai canali bancari), mentre tale etichettatura sfugge a ogni possibilità di appello.

Pur in assenza di solida evidenza scientifica, è un fatto che sia nata e prosperi una Radicalization / counter-radicalization industry che si propone di identificare i fattori di rischio che alimentano il processo di “radicalizzazione identitaria” degli individui coinvolti in atti di terrorismo. Lungo questa scia, le strategie anti-terrorismo prevedono la ricerca di indicazioni, sia sorvegliando la rete, sia mobilitando canali di ascolto in settori cruciali quali le scuole: nel Regno Unito così come in Francia, sono ormai numerosi i casi di bambini che, fra scuole elementari e asili, sono stati segnalati dagli educatori alla polizia antiterrorismo perché mostravano segni di radicalizzazione, presumibilmente riconducibili all’ambiente domestico. Nel solo Regno Unito circa 4.000 persone sono state trattate attraverso programmi obbligatori di de-radicalizzazione nel solo 2015, con risultati di difficile interpretazione.

Infine, in un più recente passaggio che sembra allungare ed estendere ulteriormente la catena di presunzioni circa le cause, il dibattito pubblico si è spostato da radicalizzazione a estremismo. Avallato dal discorso alla nazione della Regina del Regno Unito, il Counter-extremism and safeguarding bill britannico prefigura una trasformazione della war on terror a guerra all’estremismo, laddove la nozione di «gruppo estremista» resta tutta da definire.

Conclusioni

La war on terror fu disegnata dalle cerchie neo-con (neo-conservatrici) statunitensi, salite al potere con la presidenza di George W. Bush, con l’intento di esportare la democrazia causando un effetto-domino nel Medio Oriente. Paradossalmente, a due mandati presidenziali di distanza dalla sconfitta di questo disegno, sono oggi le élite politiche liberal-democratiche ad estenderne i provvedimenti. Tale estensione – che qui si è provato a tratteggiare solo lungo alcune direttrici – potrebbe a prima vista apparire frutto di una sperimentazione mirante a gestire una fase di crisi acuta, con l’aspettativa di un assestamento nel tempo, e un riassorbimento nell’alveo di un quadro consolidato di garanzie: occorre però notare la tendenza a non prevedere una fase di valutazione degli effetti.Tale circostanza è problematica non solo dal punto di vista delle libertà individuali, ma anche della effettiva efficacia dei risultati perseguiti, tanto nell’ambito domestico quanto in quello internazionale.

La terza estensione consecutiva dell’état d’urgence in Francia a guida socialista, evidentemente voluta dallo Stato Islamico attraverso il bagno di sangue di Nizza il 14 luglio 2016, delinea uno scenario che inquieta chi ha a cuore le traiettorie della democrazia. Non solo il genere mediatico meta-terrorismo in Europa si nutre ormai della costante speculazione attorno ad attacchi futuri ricorrendo al parere dell’ubiquo “esperto israeliano” (es. in materia di sicurezza di spazi pubblici e infrastrutture), ma – in modo più profondo – è evidente che il conflitto Israele-Palestina produce ed esporta modelli di governance della sicurezza la cui traslazione in Europa appare foriera di aspetti problematici: forse vale la pena ricordare che ogni anno dal 1953 il Parlamento israeliano rinnova lo Stato d’emergenza.

Nel frattempo, assorbito dalla ricerca di riscontri relativi ai profili di rischio individuali, il dibattito pubblico europeo è fuorviato rispetto al tema delle conseguenze politiche di scelte di politica estera (es. l’invasione dell’Iraq, gli errori compiuti in Libia da potenze occidentali e alleati del Golfo, il rapporto con il regime egiziano, le derive jihadiste in Africa Occidentale e nel Sahel) ma si incanala lungo i rivoli di questioni secondarie (ad esempio, il ruolo dei parenti dei foreign fighters). Il dibattito è condotto alla ricerca di “zone grigie” di acquiescenza della popolazione musulmana in Europa, ed elude il problema, assai cospicuo, delle zone grigie che caratterizzano le alleanze internazionali.  Questa sottrazione si spinge fino al cuore della rappresentanza democratica, in un’epoca di forte rafforzamento dei poteri esecutivi: le prerogative dei Parlamenti vengono sistematicamente ridotte, fino a negare loro un ruolo in materia di uso dei droni in azioni di proiezione della forza.  

Fondato sull’idea – in larga parte suggerita dai media – che l’Europa stia affrontando una migration crisis e un’offensiva terrorista, il modello di sicurezza emergente induce ad assumere il paradigma della crisi – ovvero di un intermezzo – suggerendo l’idea che i compromessi necessari a farvi fronte (es. sul piano delle libertà individuali) saranno temporanei e prontamente riassorbiti a risultato ottenuto. In realtà tale assunto è arbitrario, i meccanismi di valutazione brillano per assenza, e l’evidenza di cui disponiamo mostra l’elusività dei risultati. Meta-terrorismo e sicurezza algoritmica appartengono al consolidarsi della quarta rivoluzione industriale, segnata da informazione digitalizzata e governo della complessità. La semplice concessione di margini di errore statistico al computo del rischio (ovvero nel prevedere scenari a bassissima possibilità a partire dai dati prodotti da tutti noi), può comportare costi enormi per un sistema fondato su garanzie di libertà: la violenza è matrice di identità politiche, e il modello di gestione dei rischi (attacchi terroristici, meccanismi di risposta) e speranze (fuga dalla violenza, inclusione/esclusione) segna l’identità politica della democrazia.

[1] Barbara Starr,US officials see gains against ISIS, Cnn, 15.08.2016

[2] Davanti ad immagini di violenza raccapricciante prodotte e diffuse con intenti di spettacolarizzazione, la tendenza a interpellare i cosiddetti esperti di terrorismo si verifica a danno di studiosi di sociologia visuale che potrebbero aiutare a decodificare le ambivalenze del messaggio, inserendolo in un contesto interpretativo. Gli ‘esperti’ vengono invece tipicamente interpellati a speculare su scenari tanto implausibili quanto terrificanti: se non a identificare i prossimi bersagli («possiamo stare sicuri?»; «cosa c’è nella mente del jihadista?»), a parlare di armi la cui stessa esistenza è un atto sostanzialmente speculativo (ad es. dispositivi di dispersione radiologica).

[3] Per esempio, Adam H. Johnson, Once Again, Media Terrorize the Public for the Terrorists, Fair (Fairness & Accuracy in Reporting), 24.11.2015.

[4] Louise Amoore, The politics of possibility: Risk and security beyond probability. Duke University Press, 2013.

[5] Turkey to free 38,000 people from prisons to make space for alleged coup plotters, AP/the Guardian, 17.06.2016.

[6] Eu: Proposed new counter-terrorism law: Joint Ngo critique, Statewatch News Online, Marzo 2016.

[7] Il database è stato creato nel 1999, e profila circa 2,7 milioni di individui. Dal 2007 il numero di terror entries è cresciuto del 500%, arrivando a 93.000.

[8] Fra le fonti figurano ad esempio asserzioni apparse su siti e blog quali DanielPipes.org e Investigative Project on Terrorism (Ipt), gestiti rispettivamente da Daniel Pipes e Steven Emerson, che Cambridge University Press Companion to American Islam descrive come «Islamofobi». Emerson, in particolare, appare come esperto di terrorismo per Fox News, ed è assurto all’onore delle cronache per essere stato definito «un completo idiota» dall’ex premier britannico David Cameron.