Magistratura democratica

L’esperienza della storia italiana, antica e recente

di Adriano Prosperi

Cercherò di rispondere in qualche modo all’invito che mi è stato fatto nell’unico modo possibile per me: sono un non addetto ai lavori che deve offrire agli esperti qualche spunto derivante dal suo mestiere di storico, una qualche considerazione che aiuti a ricollocare nel tempo storico il problema che agli esperti del diritto si pone nella dimensione della fattispecie cioè del presente e del ripetitivo.

Se c’è una caratteristica della storia è quella di sfuggire alla nitidezza del diritto inteso come luogo di definizione della norma da seguire e delle pratiche da evitare. Quel che accade nel tempo della storia segue il percorso imprevedibile, complicato e contraddittorio di un mondo reale dominato spesso dal principio dell’eterogenesi dei fini. Questi, in estrema sintesi, mi sembrano i caratteri desumibili dalla mia esperienza della ricerca storica. Nel richiamare l’attenzione su questi aspetti mi propongo un solo compito: distrarre l’attenzione dalla tendenza ricorrente a calare i problemi del terrorismo nello schema generale del conflitto di civiltà: una formula infelice che suggerisce continuamente applicazioni inesatte o fortemente viziate da presupposti ideologici. A quel tipo di schema si sono richiamate anche alcune affermazioni che si sono ascoltate in questa sede. Ho sentito un procuratore della Repubblica sostenere come di per sé evidente l’esistenza di una distinzione netta e insuperabile tra europei e islamici come tra “noi” e “loro”. È una resa alla propaganda dei terroristi, che si presentano come i portatori della intera tradizione religiosa e storica dell’Islam e pretendono così una rappresentatività che non hanno. Ma intanto e prima di tutto: chi sono “loro”, degli estranei totali, degli sconosciuti che vengono da lontano o non piuttosto dei “noi” più sfortunati che vengono dalle periferie dei Paesi coloniali europei dove sono stati costretti a crescere in condizioni di marginalità e di assenza di identità totale, assistendo alle umiliazioni dei loro genitori e respirando della cultura “nostra” solo la sopraffazione del danaro? Lo hanno mostrato tante inchieste giornalistiche, lo ribadisce ora Alain Badiou[1]. Intanto la ricerca attenta di un giornalista molto avvertito, Alessandro Leongrande, ci spiega perché la parte più disperata, più violenta dell’Africa è proprio quella Eritrea lasciata dal colonialismo straccione e assassino dell’italico impero mussoliniano in condizioni tali da alimentare un mezzo secolo di guerra[2]. E tale è il ricordo lasciato dagli italiani che i migranti da quell’area che riescono, superando prove atroci, a toccare terre europee si dirigono senza incertezze verso il nord. Questi “altri” li abbiamo creati noi. Un po’ di letture storiche e di reportages – non quelli della poverissima stampa periodica italiana – ci aiuterebbero a riconoscere qualche brandello della realtà e a evitare schemi prefabbricati creati solo per proteggerci. E poi, che cosa caratterizzerebbe “noi” in questa opposizione? Forse la religione cristiana? Ma dove andrebbero a finire le differenze profondissime che nella storia si sono scavate anche all’interno dei fedeli del cristianesimo tra orientali e occidentali, tra cattolici e luterani e riformati o calvinisti, per non parlare delle varie e diversissime sètte radicali? Sarebbe troppo ingenuo opporre a questa convinzione quella uguale e opposta di chi crede che l’uguaglianza in umanità coincida con l’assenza di differenze storiche e culturali. L’alterità esiste come dato storico, ogni tappa importante della storia che abbiamo alle spalle ha dovuto confrontarsi su che cosa sia l’altro da sé: così, ad esempio, quando gli scopritori dell’America incontrarono “l’altro” e lo catalogarono nella forma estrema del selvaggio. E tuttavia dobbiamo pur ricordare che una grande tappa della maturazione culturale europea fu raggiunta quando nel 1537 si stabilì solennemente che quegli altri erano a tutti gli effetti degli esseri umani. Ma che cosa è legittimo fare degli esseri umani da parte di altri esseri umani? La risposta fu quella della differenza dei diritti sulla base della differenza delle appartenenze religiose: la messa in stato di schiavitù, la vendita e lo sfruttamento economico o sessuale dei corpi vennero arginati nel mondo cristiano dalla distinzione fra battezzati e non. Ecco uno dei tanti punti in cui le presunte differenze tra “noi” e “loro” si liquefanno. Oggi la nozione convenzionale di umanità è quella definita nella dichiarazione di San Francisco del 1948 sui diritti umani come norme valide in universale. Fu la risposta all’abisso in cui i sistemi totalitari e quello nazista in specie avevano fatto precipitare l’umanità. Di fatto, da allora sappiamo che la difesa dei diritti umani è un dovere assoluto perché l’offesa subìta da uno solo dei nostri simili è una minaccia che grava sulla sicurezza di tutti . Ma questo non ha impedito che si riaffacciasse sommessamente e poi sempre più apertamente il termine e l’idea di “identità”. Questa parola reca con sé un marchio storico che finora non è stato adeguatamente denunziato: quello della propaganda di massa nazista nella Germania dopo la presa del potere di Hitler. Come ha ricostruito lo storico francese Johann Chapoutot, si svolse allora una vera e propria fase di imbonimento sul tema dell’esistenza di una identità germanica che doveva essere tenuta al riparo dalla mescolanza con quelle altrettanto chiuse e immutabili di cristiani e ebrei. La campagna ebbe successo: il risultato fu una specie di desensibilizzazione della popolazione intera davanti alle sofferenze e all’eliminazione fisica in massa degli ebrei[3]. L’idea che ci siano identità umane diverse, eredi di un patrimonio trasmesso col sangue, incompatibili fra di loro, si è ripresentata nei nostri tempi anche se in forma per ora mitigata, cioè senza l’affermazione della superiorità naturale di una identità sulle altre. È una prova della pesantezza della storia, quella del passato: non perché il presente ne sia una ripetizione. In realtà il mutamento continuo oggi ci fa assistere a una terza guerra mondiale in atto come ha osservato l’acuto comunicatore che siede sulla cattedra di San Pietro: e ci mostra un misto di tradizione e innovazione nei meccanismi e nelle forme con cui è ripresa nel Mediterraneo la tratta degli schiavi mentre in Europa rinascono i lager e le barriere di filo spinato. Naturalmente ci sono differenze tra passato e presente: gli schiavi oggi attraversano a loro rischio il mare per venire a lavorare da noi. E nei lager attuali non si uccidono le persone ma si lucra su chi vi viene rinchiuso. Un misto di nuovo e di vecchio, come sempre è il presente. Ma questo presente è diverso da tutti gli altri che lo hanno preceduto per la carica esplosiva delle differenze creata dalla distribuzione dei beni. E dunque può valere la pena di riflettere su ciò che ci arriva dall’epoca del passato prossimo, ma anche su quella del passato remoto – l’epoca lontana che possiamo definire come quella databile a “prima dei diritti”.

Il punto di riferimento più immediato che si offre a un osservatore italiano è sicuramente quello degli “anni di piombo”, come con definizione prestata dalla Germania si indicano di solito quelli del terrorismo e del contrasto al terrorismo del secondo ‘900. Allora si parlò di anni di piombo. Oggi si parla di “Terrore”. Allora si trattò di una vera, grave crisi della società italiana. Oggi abbiamo a che fare con un’entità inafferrabile, fantasmatica, almeno in Italia. Eppure in nome della difesa contro il Terrore si avanza un sentimento di allarme che rischia di produrre lesioni concrete nel sistema dei diritti. È sotto gli occhi di tutti il panorama di un Mediterraneo trasformato in un grande cimitero di bambini, di donne e di uomini di nulla colpevoli salvo l’essere nati in Paesi sconvolti e resi trappole mortali dalla politica di un Occidente che dopo la dominazione coloniale ha creato il sistema del neocolonialismo e tutto subordina al potere di sfruttamento delle risorse petrolifere. Ed è per il sospetto di infiltrazione di attentatori jahdisti che si alzano muraglie in tutta Europa e ritornano d’attualità modi di dire e di pensare che credevamo di avere lasciato alle nostre spalle fin dai tempi dell’assedio ottomano di Vienna del 1683.

Credo che sia non inutile richiamare quel tempo e quelle culture perché rischiamo oggi di dimenticare davanti all’emergenza per ora poco più che teorica del Terrore internazionale quello che fu il Terrore italiano: un’esperienza che può offrirci uno specchio attraverso il quale guardare al presente. E devo dire per incominciare che sono stato colpito dal veder comparire su di un libro di storia – quello di Mirko Dondi – il titolo: Storia della strategia della tensione 1965-1974[4]. Chi non è giovane ricorderà come con questa espressione fosse indicata allora dalla sinistra extraparlamentare la strategia perseguita da forze oscure reazionarie ed eversive che si immaginavano allora all’opera dietro le bombe e gli attentati, quella strategia che valse alle bombe della strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 – un anno epocale della storia italiana – la definizione di «strage di Stato». Ebbene oggi il lavoro dello storico permette di affermare che chi parlava di «stragi di Stato» nella seconda metà del secolo scorso si sbagliava in una cosa sola: parlava di uno Stato unilateralmente schierato contro le classi lavoratrici e i giovani di estrema sinistra. In realtà l’analisi di Dondi mostra come sia sostenibile la tesi di due Stati o due forze politiche dai legami internazionali in lotta tra di loro. La nostra fragile unità statale che non era riuscita a consolidarsi davanti alla prova di una uscita dalla guerra fredda e dallo spettro dell’anticomunismo e aveva mancato col primo governo di centro-sinistra l’appuntamento delle riforme che si dicevano di struttura, fu scossa allora da forze contrapposte alimentate da alleati potenti al di fuori delle nostre frontiere. Se la strage fu indubbiamente di «Stato», non si trattava dello Stato italiano: non c’era uno Stato criminale italiano dietro quella strategia; ce n’erano almeno due: ai quali riconducevano i portatori anonimi e nascosti di interessi contrapposti, servizi segreti e organizzazioni sotterranee dirette dalla politica di una o dell’altra delle due grandi potenze mondiali contro il pericolo o a favore della possibilità di un avvento al governo dell’Italia del partito legato all’altra delle due potenze. Fu in questo contesto, di un Paese diviso per l’ennesima volta tra «Franza e Spagna» che ebbero origine le diverse «Gladio», cioè le organizzazioni segrete che si preparavano a combattere per o contro la vittoria di un regime comunista in Italia[5]. Un’epoca che appare lontana solo perché la caduta del muro di Berlino ha lasciato l’Italia nella dimensione di entità marginale nel gioco mondiale del potere, subalterna a una Germania che domina con la sua forza economica e finanziaria la fragile e inefficace macchina dell’unità europea. Ma non è questo il punto che ci interessa. Un’altra scoperta degli studi storici è stata quella dei fondamenti religiosi che c’erano alla base di alcuni movimenti e gruppi terroristici: una indagine di Guido Panvini ha mostrato come alla genesi del terrorismo di gruppi dell’Italia padana e del Trentino si incontrino dottrine del tirannicidio come diritto della resistenza dei cattolici al potere ingiusto che erano state diffuse nell’epoca delle guerre di religione europee[6]. Dunque la religione – anche quella “nostra”, cioè quella cattolica storicamente dominante in Italia – può rivelarsi fonte di violenza politica organizzata fuori della legge e alimentare pratiche terroristiche non diverse da quelle che ci appaiono oggi nella veste di un’alterità radicale.

Una precisazione linguistica per sgombrare il campo da un fantasma ingombrante: il Terrore è un concetto che non ha nessuna rilevanza in campo giuridico. L’azione del terrorizzare appartiene alla politica: la prima volta che lo incontriamo nella storia è all’altezza della Rivoluzione francese, quando dette il nome a una strategia di controllo della società e di risposta militare a un’aggressione europea. In quella strategia era inclusa la sospensione dei diritti di libertà appena affermati nella Costituzione. È qualcosa che ritroviamo nell’esperienza italiana recente e nella legislazione allora messa in opera contro le brigate rosse. Da lì possiamo capire cosa si muove nel fondo della nostra tradizione quando si comincia a materializzare il paradigma del Terrore. E la prima constatazione è che per garantire la sussistenza dello Stato come garante del monopolio della violenza i primi a entrare in crisi sono proprio i diritti costituzionali. Nascono leggi d’eccezione, c’è una legislazione d’emergenza: i cittadini rinunziano alle loro libertà secondo il modello hobbesiano, perché la loro vita sia garantita. Il che vuol dire che nessun diritto è più garantito. Oggi quel tempo sembra lontano, tanto che nelle diagnosi e nelle prognosi dell’incombente lotta al Terrore non si fa parola di una esperienza che è stata fondamentale per il nostro Paese e una delle più significative del mondo intero: un episodio certo più confortante di quello che è accaduto nel Paese governato dalla legge, come si definiscono gli Stati Uniti, che si è inventato un territorio fuori legge per praticare la tortura. E non riesce a uscire da quella contraddizione.

Si potrebbe dire che, così come la prima vittima della guerra è la verità, allo stesso modo la prima vittima del Terrore è il diritto, o meglio la pluralità dei diritti del tempo di pace. Non è stato per caso che proprio nell’avvio degli anni di piombo un nostro grande storico del diritto penale, Mario Sbriccoli, dette alle stampe un libro dal titolo: Crimen lesae maiestatis. Sbriccoli, risalendo alle fonti originarie del «crimen lesa maiestatis» come reato politico, mostrò quanta ragione avesse Francesco Carrara quando si rifiutava di analizzare per i suoi studenti del corso di diritto penale quella speciale figura di reato – un reato privo di una fattispecie propria, risolto tutto nella volontà del potente, modificabile a piacere dal potere esistente per usarlo contro chiunque ne minacciasse l’arbitrio. Si trattò allora di un fenomeno italiano, anche se non privo di analogie coi problemi che si ebbero allora in altri Paesi (per esempio la Germania). E la stessa legislazione messa in opera si trovò in imbarazzo davanti all’uso della categoria «terrorismo». Come ha osservato Tullio Padovani, la non trasparenza della definizione portò alla necessità di eliminare il termine stesso  nella legge di conversione del decreto legge del ‘79[7]. E poiché è emerso il nome di Padovani, va detto che la sua decisa utilizzazione del saggio celebre di Carl Schmitt (Il concetto del politico) per definire che cosa debba intendersi per terrorismo e per individuare nel terrorista il «nemico» (der Fremde) è un contributo fondamentale per chiunque deve riflettere su questa materia, a prescindere dalle divisioni del lavoro intellettuale.

Certo, oggi il quadro si è profondamente modificato rispetto a quegli anni: il carattere internazionale del conflitto che è stato inaugurato – non dimentichiamolo – dalla sciagurata dichiarazione di guerra all’Irak da parte dell’amministrazione americana di George Bush jr, ha inserito il nostro Paese in un più vasto sistema e il diritto penale del nemico ha finito col costituire l’altra faccia di una guerra guerreggiata. Il risultato è stato quello di rafforzare la stretta parentela fra politica e guerra individuata dalla celebre definizione di von Clausewitz. Questa trasformazione delle dimensioni del terrorismo non sembra aver portato a una alterazione sostanziale della nostra legislazione in materia ma semmai a rendere urgente un collegamento adeguato dei nostri sistemi di informazione e di intervento di tutela con quelli esistenti a livello mondiale e specificamente con quelli dell’amministrazione centrale dell’Europa Unita. Anche perché nell’esperienza quotidiana dei nostri apparati di giustizia si affacciano problemi nuovi in conseguenza delle dimensioni sovrastatali del territorio minacciato da attentati. Abbiamo sentito avanzarsi qui dei dubbi sul da farsi nel caso di comportamenti in sé non terroristici (viaggiatori provenienti dalla Siria, con registrazioni di esecuzioni dell’Isis sui cellulari) ma che potrebbero essere materia per fermi, controlli, interrogatori. E sullo sfondo torna a prendere una qualche forma il problema di fondo antico e moderno: come accertare le intenzioni del sospettato, come entrare nel segreto della coscienza? Si può ricorrere alla forza per esplorare convinzioni e pensieri, per conoscere in tempo utile disegni terroristici prima che si realizzino? Quella che ci sta davanti è la questione della liceità della tortura, o almeno di una sua limitata legalizzazione.

Di fatto ancora una volta l’ombra del Terrore agisce dall’interno dell’elaborazione penalistica configurando di continuo comportamenti da criminalizzare che normalmente apparterrebbero all’esercizio di libertà fondamentali: libertà di viaggiare, di conoscere, di raccogliere informazioni, di entrare in contatto con altre genti e altre culture. Tutte queste sono cose che conosciamo dalla storia. E che si riproducono in forme adattate alle diverse contingenze. L’onda lunga della critica illuministica ha fatto maturare nella cultura europea una critica della tortura che ha portato alla sua abolizione come strumento abituale di amministrazione della giustizia. Ma intanto la tortura torna utile proprio nella lotta contro il Terrore: la proposta più mite è quella di Alan Dershowitz che presuppone per l’uso della tortura una situazione di rischio estremo collettivo – la bomba a orologeria, il ticchettio dell’orologio e l’interrogatorio in atto di un sospetto membro dell’attacco terroristico. Noi sappiamo in realtà che può bastare molto meno: all’epoca del sequestro del generale americano Dozier si fece ricorso alla tortura dell’acqua, il water drowning usato normalmente a Guantanamo e il risultato premiò i torturatori. Scivolare sul terreno dei diritti e imporre la pratica della forza è una tentazione che non trova molta resistenza da noi, anche per la mancata formalizzazione del reato di tortura. Come sappiamo, l’Italia è finita sotto accusa per i ricorrenti abusi delle forze dell’ordine su malcapitati, dal G8 al caso Cucchi agli altri che si sono via via accumulati. Grazie alla condanna della Camera europea dei diritti umani c’è perfino un progetto di legge che si trascina tra i due rami del Parlamento. Non andrà in porto e se lo farà è prevedibile che sarà in forma depotenziata e del tutto inservibile per non urtare i corpi di polizia. E questo ci porta davanti all’altro protagonista antico della realtà statale italiana, insieme al sistema giudiziario e alle garanzie costituzionali. Un protagonista – l’agente di polizia, ogni membro di corpi di ordine pubblico, perfino il medico che opera in ambulatori di carceri – che rassicura il cittadino impaurito perché usa la forza dello Stato e lo fa in modo tanto più efficace quanto meno ostacolato dai diritti individuali.

Siamo davanti a fragilità antiche della nostra società. Fragilità che preoccupano chi pensa che la guerra al Terrore può essere vinta solo grazie a una forte tenuta collettiva ,a una saldezza sostanziale del legame civile capace di isolare e sconfiggere le pulsioni distruttive di minoranze più o meno organizzate. Ed ecco ancora una ragione per ricordare quale sia stata l’esperienza italiana degli anni di piombo. È giusto che la magistratura si fregi dei molti meriti che le spettano a questo proposito: e l’elenco delle vittime del terrore degli anni di piombo riportato in appendice al volume di testimonianza di Armando Spataro parla chiaro in materia[8]. Ma l’analisi di quello che accadde allora ci dice che la minaccia del conflitto armato contro lo Stato fu sconfitta da una resistenza collettiva della società della quale la tenuta speciale dimostrata allora da magistrati e avvocati fu parte significativa, come lo fu quella dei partiti della sinistra e dei sindacati. Solo quando fu chiaro che la partita era perduta cominciarono le defezioni, i pentimenti e il generale senso di guerra perduta che portò la minoranza dei combattenti a uscire dalla clandestinità e a consegnarsi, sia pur patteggiando la resa.

Certo, quella esperienza ha da dirci anche qualcosa di meno positivo. Intanto il vocabolario della giustizia di allora ci pone davanti all’emergere di una strumentazione mentale remota, rimasta sepolta appena sotto la superficie della modernità italiana: quella delle convinzioni religiose e delle pratiche di evacuazione del male dei secoli medievali. Tale fu il caso della elaborazione di una legge per i pentiti e delle forme elaborate per misurare l’efficacia del pentimento, che portò di nuovo in auge termini e modi di pensare che erano nati nei secoli della storia moderna italiana negli spazi coperti dal tribunale ecclesiastico della penitenza e da quello sempre ecclesiastico dell’Inquisizione dell’eretica pravità. Non è questo il luogo per riassumere le tante ricerche storiche esistenti che hanno illuminato l’oscuro fondo da cui sono emersi in un momento di emergenza questi linguaggi. Ricorderò solo che la creazione della Congregazione romana del Santo Uffizio della Inquisizione fortemente voluta dal cardinal Gian Pietro Carafa poi papa Paolo IV dette vita a un tribunale supremo dotato di giurisdizione su tutta la rete dei minori uffici locali dell’Inquisizione nei diversi stati italiani. E fu lo stesso Papa a varare nel 1559 il sistema integrato confessione-inquisizione, che imponeva accanto all’obbligo della confessione sacramentale quello di una interrogazione in materia di libri e idee ereticali che trasformava il cristiano penitente nel segreto del foro confessionale in un delatore. Da allora l’Italia ebbe una sua prima unificazione giudiziaria precedente a ogni altra forma legale e costituzionale di unità politica: un tribunale supremo a Roma a cui i diversi governi statali si inchinarono quando fu richiesto loro di estradare eretici da processare. La speciale natura del dominio papale sull’Italia che Niccolò Machiavelli aveva chiaramente delineato – capace di impedire ad altri di creare uno Stato italiano, ma incapace di unificare politicamente l’Italia – dette alla presenza della Chiesa cattolica nella società italiana quel carattere che Antonio Gramsci definì col termine «egemonia»: un potere fatto di persuasione e di disciplina, di cultura e di identità, mediato dall’alleanza coi poteri politici e sociali, quelli dei sovrani e delle classi dirigenti. La formula inventata da Giovanni Botero nella sua celebrata Ragion di Stato (1584) è degna di essere tenuta ben presente: la religione era utile al principe perché gli legava non solo i corpi ma anche le anime dei sudditi, avanzando così la candidatura dell’altare come alleato del trono. Questa fu la forma con cui la Chiesa cattolica si assicurò l’alleanza coi poteri politici dei Paesi cattolici, mettendo al loro servizio la sua capacità di svolgere un’opera di “disciplina sociale” per un’etica dell’obbedienza al potere. E qui si dovrebbero indicare almeno in sintesi i momenti e le forme del riaffiorare di quel lontano passato e il suo scontrarsi con gli effetti di una apertura al mondo conseguente alla modernizzazione accelerata dell’economia e dei consumi nel dopoguerra. Si è trattato di un processo faticoso e complicato che ha visto momenti di scontro politico e culturale ogni volta che il sistema delle leggi e dei diritti si è dovuto allargare per effetto di un voto referendario che ha imposto all’apparato di governo e alle gerarchie ecclesiastiche sovrastanti dei passi indietro. Ma intanto la resistenza di culture radicate da secoli nel costume italiano ha trovato espressione nel fondo religioso e negli argomenti teologici dei circoli dove maturarono i primi animatori delle BR. E dall’altra parte non si può ignorare del resto che una funzione decisiva nel riflusso del terrorismo e nel recupero  dei terroristi , anche di quelli “dissociati” senza “pentimento”, è stata svolta da personaggi come il cardinale milanese Carlo Maria Martini con l’opera svolta nel segreto delle carceri – un mondo nel quale l’attività di un cattolico di fede come il senatore Mario Gozzini lasciò una traccia fondamentale offrendo la via d’uscita dall’imbarbarimento delle istituzioni.

Di fatto è stato nel momento dell’attacco armato allo Stato, negli anni di piombo che la presenza profonda della Chiesa della Controriforma si è manifestata in molti modi: il più drammatico fu certamente il modo in cui i rappresentanti dei partiti e dei poteri statali si raccolsero intorno al corpo di Aldo Moro per ascoltare la reprimenda di un potere papale tornato a occupare la sua posizione egemonica, di alta sovranità del sistema italico. Ma sarebbe sbagliato trascurare intanto il modo in cui una cultura profondamente controriformistica alimentò allora sia le pulsioni giustizialiste di un movimento giovanile cresciuto in cenacoli cattolici sia le risposte di un sistema giudiziario e poliziesco che riscoprì parole come “ravvedimento”, “pentiti”, e così via. E intanto l’antica pratica inquisitoriale dell’abiura e della delazione si travestì con panni laici ma non riuscì a evitare del tutto i corti circuiti dell’arbitrio e del ricorso alla tortura nel segreto delle carceri.

Molti altri fattori hanno contribuito alla conclusione positiva della più grave crisi italiana del secondo ‘900. Ma la funzione svolta nel sistema dell’ordine pubblico e nel linguaggio della legge dalla religione, quella cattolica controriformistica, ricade in qualche modo all’interno della domanda di Jurgen Habermas: se lo Stato liberale viva di presupposti normativi che esso stesso non è in grado di garantire. Resta ancora la speranza che la pur zoppicante e insoddisfacente Unione europea regali almeno alle nostre istituzioni giudiziarie e alla cultura dei diritti umani del nostro Paese quella spinta che finora le è mancata per collocarsi all’altezza dei problemi della nostra epoca.

[1] Alain Badiou, Il nostro male viene da più lontano, trad. it. Einaudi, Torino 2016.

[2] A. Leongrande, La frontiera, Feltrinelli, Milano 2015.

[3] J. Chapoutot, La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti, trad. it. Einaudi, Torino 2016.

[4] Mirko Dondi, Storia della strategia della tensione 1965-1974, Laterza editore, Roma-Bari 2015.

[5] Giacomo Pacini, Le altre Gladio, ed. Einaudi, Torino 2014.

[6] Guido Panvini, Cattolici e violenza politica. L’altro album di famiglia del terrorismo politico, edizioni Marsilio, Venezia 2014.

[7] T.Padovani, Giustizia criminale, 4. Diritto penale del nemico, Pisa University Press 2014,  p. 262.

[8] A. Spataro, Ne valeva la pena. Storie di terrorismi e mafie, di segreti di Stato e di giustiziaoffesa, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 576.