Magistratura democratica

Spunti sugli scenari prossimi della formazione permanente dei magistrati

di Guglielmo Leo

La formazione dei magistrati si trova, una volta ancora, ad un punto di svolta, soprattutto per quanto riguarda l’offerta mirata, in forma permanente, a favorire nei fruitori la capacità di agire con consapevolezza ed efficacia nel sistema della giurisdizione, a prescindere dai mutamenti del proprio ruolo funzionale.

Due fattori su tutti interrogano sulle possibili linee di sviluppo: la tensione tra esigenze di quantità sempre più marcate e la necessaria assicurazione di livelli qualitativi elevati, anche in punto di innovazione dei metodi e dei contenuti; la fine della fase istitutiva e sperimentale della Scuola superiore, con la possibilità di valutare gli obiettivi conseguiti e quelli da perseguire, anche in rapporto ad una rinnovata attenzione dell’autogoverno per il proprio ruolo istituzionale nell’ambito, appunto, della formazione.

Nelle note che seguono, alcuni spunti sulle linee auspicabili per la soluzione dell’ennesima crisi di crescita d’un sistema ormai irrinunciabile di presidio della professionalità dei magistrati.

1. Il concetto non è nuovo, ma, specie questa volta, sembra particolarmente vero ed attuale. La formazione dei magistrati affronta una crisi di crescita, un momento evolutivo che può segnarne la progressione verso risultati sempre migliori oppure la stagnazione, verso un malaugurato destino di mero passaggio rituale nella vita professionale dei magistrati, tributo formale ad un “dover essere” ormai (fortunatamente) cristallizzato nella normativa primaria e secondaria, ma svuotato di contenuti concreti ed efficaci.

L’istituzione della Scuola superiore ha rappresentato, in termini generali (e cioè a prescindere dalle pur discutibili scelte attuative del legislatore), il successo di un movimento nato proprio dentro la magistratura, nei suoi ambiti istituzionali ed associativi, e la premessa per una stabilizzazione dei risultati ottenuti mediante il lavoro del Consiglio superiore e delle sue strutture tecniche di supporto. L’esperienza gestionale del primo triennio ha confermato la centralità della formazione nella vita professionale dei magistrati, come singoli e come comunità retta dal modello costituzionale dell’indipendenza (interna ed esterna) e dell’autogoverno. Qualunque peso voglia darsi alle difficoltà registrate, inevitabili per un epocale passaggio di consegne, i dati disponibili indicano con chiarezza che i magistrati non intendono rinunciare a questo loro patrimonio e ne apprezzano fortemente l’utilità: le valutazioni concernenti i singoli corsi  sono quasi sempre più vicine ai massimi che alla sufficienza, e le domande di accesso alla formazione permanente sono aumentate anno dopo anno, fino quasi alla soglia delle 9.000 unità per il 2016.

Non è solo questione di qualità dell’offerta (comunque alta, nella generalità dei casi). Il fatto è che proprio il successo dell’attività formativa quale elemento fondante della professionalità ha indotto, al fianco di una “spontanea” adesione degli interessati, scelte di forte valorizzazione normativa del diritto-dovere alla formazione, spinta fino al sanzionamento dell’eventuale inerzia dei singoli al proposito. Basti pensare all’ipertrofica frequenza stabilita per i magistrati in tirocinio di corsi da istituire presso la Scuola od alla partecipazione a corsi dedicati, anch’essa ormai obbligatoria, che viene richiesta a coloro i quali aspirano a ruoli direttivi. E non basta, perché la prescrizione di partecipare almeno ad un corso ogni quattro anni (che per i magistrati più giovani è spinta fino a prevedere almeno un corso all’anno: art. 25, commi 1 e 4, del d.lgs n. 26 del 2006) rappresenta un fattore certo non secondario tra le cause di innalzamento della curva delle domande di accesso.

Le previsioni appena richiamate hanno recepito un’idea fondante della nostra elaborazione collettiva circa il ruolo della formazione. Non si tratta – o, meglio, non si tratta solo – di supportare i magistrati nell’acquisizione di competenze “nuove”, non ancora sperimentate, come tipicamente avviene per il tirocinio iniziale o per l’accesso alla dirigenza, o ancora, mutatis mutandis, per la formazione di riconversione. Si tratta anche, e soprattutto, di offrire strumenti affinché la professionalità del magistrato si orienti costantemente secondo il modello imposto dalla Costituzione e dalle Carte dei diritti umani. Un modello che non concerne gli orientamenti, ma gli atteggiamenti, il metodo di approccio ai problemi propri della giurisdizione: la capacità di percepire i fenomeni sociali ed umani, di coglierne il dinamismo, di rapportare ad essi norme e procedure correttamente studiate ed apprese, di garantire la legalità sostanziale (presidio della libertà e dell’uguaglianza) e quella processuale, di affermare i diritti inviolabili dell’uomo.

Da questo punto di vista, la formazione permanente costituisce il cuore dell’attività di ogni Scuola di magistratura. Non si tratta solo dell’ovvia preminenza in termini quantitativi. Va colta l’immanenza del processo formativo lungo l’intero corso della vita professionale di ciascun magistrato. La formazione permanente è tale perché viene offerta stabilmente, per tutti e per ciascuno, senza soluzione di continuità, a prescindere per ognuno dalle variazioni che possono occorrere riguardo all’oggetto ed alla qualità della funzione esercitata.

Tutto ciò comporta, virtuosamente, una pressione per l’incremento quantitativo dell’attività, e dunque, nell’attualità, una specifica crisi di crescita. Crisi cui contribuisce, d’altronde, l’impatto traumatico ed ancor recente dell’effettiva istituzione della Scuola e del corrispondente decremento del ruolo consiliare nell’attività di formazione dei magistrati. Anche in questo senso il percorso richiede ponderate iniziative di adeguamento al novum.

 

2. È dunque la stessa idea di permanenza del supporto formativo ad esigere un numero adeguato di iniziative. Con effetto sinergico, le norme già richiamate comportano vincoli quantitativi piuttosto cogenti per le Istituzioni formative, cui spetta almeno di garantire agli aventi diritto la partecipazione ai corsi obbligatori per legge, e di assicurare, comunque, che tutti i magistrati possano avvalersi di una offerta congrua con frequenza accettabile.

Nella sua breve storia, la Scuola ha risposto alla sollecitazione mediante una crescita esponenziale del numero delle iniziative proposte (per limitarsi ai corsi ordinari di formazione permanente, 76 incontri nel 2013, 91 nel 2014, 106 nel 2015, 112 nel 2016). I dati nazionali andrebbero letti tra l’altro in unione a quelli, pur disomogenei, delle strutture distrettuali o interdistrettuali, che illuminano un panorama disseminato da incontri per centinaia di unità all’anno.

Ora, è banale l’osservazione che una curva di crescita siffatta impone una peculiare vigilanza sui profili qualitativi dell’offerta, ad evitare un rischio di decrescita che potrebbe spingersi fino ad un sostanziale snaturamento dell’idea stessa di formazione. Sono molti i fattori che incidono ed incideranno sull’evoluzione del fenomeno (non ultima la risoluzione dei problemi istituzionali, ed al fondo politici, che si trovano attualmente sul tappeto). Ma v’è certamente uno stretto rapporto tra risorse disponibili, dimensione quantitativa dell’impegno e qualità del prodotto formativo, in sede di concezione ed in sede di attuazione.

Le necessità organizzative, quando pressanti, favoriscono naturaliter il ricorso a schematismi ed automatismi, che si impongono quasi irresistibilmente come strumenti per assicurare il funzionamento complessivo dell’attività. E soluzioni del genere sono state certamente già adottate dalla nostra Scuola.

Può essere ad esempio citata la progressiva omologazione dei tempi di durata degli incontri di studio (quattro sessioni nell’arco di tre giorni), maturata per facilitare la programmazione di due corsi la settimana nella struttura di Scandicci e per abbattere lo sforzo organizzativo ed economico connesso alla logistica (ad esempio, movimenti sincronizzati per le presenze alberghiere, concentrazione dei servizi per lo spostamento, ecc.). Automatismi del genere, non privi di riflessi sulla stessa conformazione dei programmi e delle relative metodologie, possono ostacolare la modulazione fine dell’offerta, con riguardo alla specificità dell’obiettivo formativo di volta in volta perseguito, della platea dei fruitori, della materia trattata e della miglior prospettiva di approccio alla medesima.

Più in generale, l’urgenza che nasce dalla quantità può certamente alterare il corretto bilanciamento tra fattori che devono tutti concorrere all’efficacia del lavoro formativo. La reiterazione di esperienze virtuose è auspicabile, ed anzi, forse, si può dire che la Scuola non è ancora pervenuta a dotarsi degli strumenti più utili alla loro corretta individuazione ed alla conseguente attuazione (discorso lungo: criteri per la valutazione, conservazione dei dati, loro valorizzazione ai fini di programmazione futura). Nondimeno, il ricorso eccessivo alla reiterazione di schemi programmatici sarebbe gravido di implicazioni negative: rischia non solo di implementare il “danno” connesso ad una proposta infelice (o comunque non particolarmente felice); rischia soprattutto, sul piano generale, di deprimere il tasso di innovazione nell’offerta (a livello di individuazione dei bisogni e di rinnovamento delle metodologie e dei contenuti), che costituisce invece un connotato forte ed essenziale della formazione per i magistrati.

La pratica della formazione, presso il Consiglio superiore prima, e presso la Scuola poi, ha implicato il ricorso a strumenti e metodologie astrattamente capaci di indurre qualità ed innovazione (valutazione ed autovalutazione del lavoro formativo, laboratori, gruppi di lavoro, interviste multiple, tavole rotonde). Occorre vigilare affinché l’enunciato approdo alle metodologie evolute non si riduca ad un mero stilema. Il ricorso rituale ed indifferenziato a determinate sequenze modulari (relazione, gruppo di lavoro, tavola rotonda) sarebbe invero strumento inidoneo a produrre una complessiva innovazione metodologica, in quanto indifferenziato, appunto, e quindi insensibile, sul piano dei fatti, alle peculiarità dell’obiettivo di formazione. È vero senz’altro quanto spesso si legge nei documenti di analisi prodotti fin qui, e cioè che i magistrati esprimono particolare apprezzamento per metodologie che consentano confronto e discussione, e finalizzino sul piano pratico la riflessione sollecitata da relatori e coordinatori. È vero anche – qui sta il punto – che la mera enunciazione del metodo, attuata mediante una programmazione costantemente rivolta ai “gruppi di lavoro” od alla previsione di “spazi di dibattito”, può risolversi in un fatto rituale, in una consuetudine di impronta burocratica, se non accompagnata dallo specifico impegno necessario per la realizzazione dell’offerta. Un solo esempio, fra i molti possibili, e per la verità ovvio. Il lavoro su “casi pratici”, le cui potenzialità sono enormi, richiede la preparazione di fascicoli virtuali o comunque di materiali dedicati: una preparazione intesa non solo quale attività materiale, ma anche e soprattutto come ideazione o individuazione di situazioni paradigmatiche, idonee a porre in luce difficoltà, problemi, sequenze di approccio utili alla soluzione. Tutto ciò, naturalmente, richiede una matura consapevolezza delle questioni, astratte e concrete, e la capacità di utilizzarla a fini di corretta applicazione del metodo. Quando queste condizioni vengono meno, lo spreco di potenzialità risulta evidente, e non mancano casi di aperta degenerazione verso una “corruzione” del modello formativo (ad esempio, gruppi di lavoro che si risolvono in discussioni estemporanee od in lunghi monologhi del coordinatore).

Questo rischio di spreco sarebbe fortemente accresciuto da una moltiplicazione non governata delle offerte formative. Le risorse tendono con naturalezza a concentrarsi sulla realizzazione di molteplici incontri (attuata spesso recependo la disponibilità di sempre nuovi formatori), con una diluizione proporzionale dell’impegno applicato alle singole iniziative, in termini di preparazione, di conduzione, di documentazione successiva, di valutazione. L’innovazione – è risaputo – chiede tempo ed energie dedicate.

 

3. Alle sollecitazioni per un incremento dell’attività, che preservi l’essenza e l’efficacia del lavoro formativo, non potrebbe farsi fronte in base ad una mera (ed assolutamente ipotetica) espansione delle risorse disponibili.

La formazione necessita di coerenza, negli indirizzi e nelle metodologie, per la sua qualità di strumento utile all’omologazione verso l’alto dei livelli professionali (omologazione – inutile forse ricordarlo – che riguarda non gli orientamenti, neppure quelli strettamente interpretativi, ma il metodo di approccio ai profili umani, sociali e giuridici delle fattispecie che sollecitano la giurisdizione).

È vero d’altra parte che, secondo una riflessione ormai risalente (e certamente attuale), la pluralità dei contributi di “docenza” è condizione imprescindibile di qualità dell’offerta formativa, perché la varietà delle prospettive ed il pluralismo culturale non sono soltanto doveri di ogni istituzione che operi in contesto democratico, ma sono appunto strumenti e condizioni imprescindibili per l’efficacia del lavoro di formazione. È questione però, ancora una volta, di bilanciamento. Un “corpo sociale” relativamente ristretto, come quello dei magistrati professionali ed onorari, non può esprimere un numero illimitato di formatori di livello adeguato, fermo l’ovvio rilievo che il lavoro di formazione presuppone competenze giudiziarie (certamente diffuse) ma esige anche abilità aggiuntive. È noto, ancora, come le abilità in questione si acquisiscano in larga parte mediante l’esperienza, che deriva anche dalla reiterazione, ciò che vale pure per formatori di professione (cioè docenti universitari o metodologi), in rapporto alle specificità tipiche di una platea di fruitori con elevato livello proprio di competenza professionale. Il discorso vale in misura particolarmente evidente per i cosiddetti esperti formatori, cui di fatto viene affidata la programmazione di dettaglio dei corsi: persone cui si chiede un impegno di rilevantissima portata, la cui esperienza “professionalizzante”, se felicemente attuata, costituisce una risorsa dell’intera comunità dei magistrati, e non solo (né principalmente) un personale incremento di professionalità.

Sarà chiaro il senso del discorso. La spinta quantitativa, nella misura in cui fosse fronteggiata mediante una larga diffusione degli incarichi, rischierebbe a sua volta di alterare il corretto bilanciamento tra i fattori che condizionano la qualità dell’offerta formativa.

 

4. I criteri per sciogliere la fatale tensione tra qualità e quantità, che contrassegna (non a caso) l’intera materia del lavoro giudiziario, non possono essere individuati senza interrogarsi, come ai tempi dell’avvio, sul ruolo della formazione quale asse portante della giurisdizione. Quindi, in ultima analisi, sulla funzione istituzionale e sul modo di essere della giurisdizione.

Nel ravvivato dibattito di questi mesi si ripresentano quesiti ormai tradizionali. Ad esempio, ed anzitutto, se la spinta alla specializzazione che deriva dalla complessità della domanda di giustizia (e della società che la esprime), per quanto recepita in modo non sempre lineare dal legislatore, debba orientare l’attività formativa ad incrementare le abilità relative, o se piuttosto il suo compito sia quello di bilanciarne gli effetti, supportando la capacità di seguire fenomeni particolari alla luce dei principi generali e di un’adeguata percezione complessiva dell’evoluzione della società. Ancora, se lo specialismo debba spingersi fino ad isolare comunità di fruitori con compiti identici, o se piuttosto debbano selezionarsi, su temi sostanziali omogenei, platee composte da operatori in diversa posizione funzionale (compresi eventualmente soggetti estranei all’amministrazione della giustizia). E inoltre, nella stessa prospettiva, se la formazione possa davvero rinunciare a momenti di riflessione non specialistica, ed anzi alla contaminazione con saperi diversi da quello giuridico e non strettamente finalizzati all’esercizio quotidiano della funzione, che si avvalgano delle diverse provenienze e delle diverse sensibilità per favorire la diffusione, tra i magistrati tutti, di un comune sentire della giurisdizione. La stessa ricorrente distinzione tra formazione “teorica” e “pratica” – a prescindere dal suo carattere potenzialmente fuorviante (come possono risolversi casi pratici sempre nuovi in assenza d’una comprensione teorica del problema loro sotteso?) – vuole esprimere, magari in modo non particolarmente fine, il bisogno di una strategia metodologica, che si orienti o non, per linee prevalenti, su modelli induttivi di trasmissione e crescita delle competenze.

Sembra chiaro che una formazione matura ed efficace debba comprendere in sé tutto quanto si è indicato, e molto altro ancora. A questa esigenza però, ancora una volta, non potrebbe farsi fronte mediante la semplice implementazione dell’offerta, che pure rappresenterebbe, ed in parte ha rappresentato, la soluzione più istintiva. Le ragioni si sono già indicate.

 

5. La difficoltosa mediazione tra quantità e qualità va condotta anzitutto assicurando nella massima misura possibile l’efficacia delle singole iniziative, così da farne esperienze realmente significative nel percorso professionale dei fruitori.

Ciò che potrebbe partire – in estrema sintesi ed in primo luogo – da una individuazione molto precisa dei bisogni formativi e dunque dell’obiettivo perseguito. Nei prossimi mesi ed anni il lavoro di rilevazione dovrà essere proseguito ed intensificato, attraverso raccordi stabili e finalizzati con le strutture territoriali, attraverso forme di interlocuzione diretta coi partecipanti ai corsi, attraverso lo sviluppo di nuovi strumenti (quali potrebbero essere, in linea per ora del tutto generale, gli strumenti della comunicazione telematica tra gruppi).

La chiara e preliminare individuazione dell’obiettivo di formazione ha rappresentato e sempre più dovrebbe rappresentare il mezzo per scelte adeguate e meditate (dunque non standardizzate) circa il numero e la qualità dei partecipanti, la durata dell’incontro, le metodologie, il livello di approccio alle tematiche tecniche. Quanto più queste scelte saranno chiaramente rappresentate alla platea dei potenziali fruitori, e nel contempo costituiranno un preciso orientamento per i formatori chiamati alla programmazione ed alla conduzione del lavoro formativo, tanto più le singole iniziative risulteranno idonee al fine indicato.

Una strategia siffatta implica l’allocazione di una parte significativa dell’ideazione nella fase di elaborazione del programma annuale della formazione permanente, e dunque in capo alla direzione della Scuola, con effetti di sistema non indifferenti (a cominciare dalla concreta attuazione degli equilibri necessari ed alla coerenza di massima dell’offerta complessiva). Né sarebbe da temere – si ritiene – una riduzione del pluralismo culturale, non solo per gli equilibri che segnano la stessa composizione dell’organismo di direzione, ma per il carattere diffuso che dovrebbe contestualmente segnare la fase di rilevazione dei bisogni e la conseguente discussione. Fase segnata per legge – è il caso di ricordarlo – dal concorso del Consiglio superiore e dello stesso Ministro della giustizia, mediante l’elaborazione di linee guida.

In questo contesto ben potrebbero convivere iniziative di taglio diverso, secondo un programma (auspicabilmente) razionale, in corrispondenza con le aspettative dei fruitori e con una ridotta incidenza delle variabili insite nell’adozione di modelli generici, che si riempiono di contenuti effettivi con la programmazione di dettaglio, in regime di forte rotazione degli “esperti formatori” e nell’assenza di stabili forme di coordinamento scientifico e metodologico.

 

6. Se considerato strategicamente importante, il recupero di flessibilità dovrà implicare senz’altro un contenimento dell’offerta, nei suoi profili quantitativi, da parte della struttura centrale di formazione. La tendenza varrebbe anche a favorire la migliore attuazione delle procedure operative che sono state elaborate al fine di garantire qualità al lavoro formativo: dalla predisposizione di testi scientifici o giurisprudenziali davvero utili ad approcciare il tema del singolo corso alla cura costante per un deposito tempestivo delle relazioni, dall’approntamento di materiali effettivamente concepiti per il lavoro di gruppo al coordinamento puntuale e serrato della preparazione di interviste e tavole rotonde.

L’aumento di efficacia delle singole offerte formative renderebbe forse tollerabile – in una certa misura – il potenziale decremento dell’offerta nei suoi termini puramente quantitativi. Quest’ultimo potrebbe considerarsi, in ogni caso, un costo accettabile in vista del mantenimento di un adeguato livello qualitativo della formazione, e della possibilità di favorirne uno sviluppo meditato, critico, progressivo.

Non è detto d’altronde che il processo qui sommariamente delineato debba condurre ad una riduzione di fatto dell’offerta formativa, neppure per quanto concerne il livello nazionale (irrinunciabile in sé, ovviamente).

Nel primo triennio di gestione della Scuola sono stati concepiti e talvolta sperimentati strumenti le cui potenzialità, quali fattori di allargamento della fruizione di singole offerte formative e più in generale dell’attività condotta a livello centrale, sembrano davvero suscettibili di uno sviluppo molto intenso.

Si allude, per esempio, alla ripresa televisiva di corsi o di singole relazioni, con documenti accessibili on line. Al momento il materiale è scarso, e risulta consultato in un numero veramente esiguo di casi, ma ciò dipende con buona probabilità dalla fase ancora sperimentale del suo impiego, e forse da una perfettibile comunicazione della Scuola rispetto alle risorse che già mette a disposizione degli utenti. Un discorso analogo va fatto per i materiali predisposti riguardo ai singoli corsi, che deve arricchirsi, con regolarità sempre maggiore, anche delle relazioni prodotte per l’occasione (ed eventualmente di rapporti di sintesi a cura degli esperti formatori o dei responsabili). Anche in questo caso sussistono ampi margini di miglioramento in punto di informazione ed accessibilità, fino all’introduzione di applicativi che possano, in un futuro non troppo remoto, realizzare una vera e propria banca dati. Infine, ma sempre per esempio, si è avviato uno studio per l’eventuale istituzione di servizi di newsletter, se non addirittura di mailing list su base tematica, che possano servire alla Scuola come mezzi di comunicazione dei risultati del lavoro formativo, ed ai magistrati come luoghi di confronto sui temi della professione.

Va considerato d’altra parte il buon successo da riconoscere per il momento – salva la necessità di approfondimenti – ad un modulo che potrebbe risultare decisivo al fine di assicurare continuità dell’offerta di formazione permanente, pur nell’ottica di una riduzione di carico sulle strutture centrali. Si allude ai corsi centrali su base territoriale, cioè organizzati presso singoli distretti di Corte d’appello, in collaborazione tra la Scuola e le strutture del decentramento, con la partecipazione di magistrati provenienti da tutto il territorio nazionale.

Il modulo è in corso di sperimentazione (per il 2016 sono state comunque programmate già 19 iniziative del genere). Sul piano teorico esso dovrebbe garantire molti concomitanti obiettivi. A parte lo sgravio delle strutture centrali a parità di numero delle offerte, di cui si è già detto, ne risulta la valorizzazione di risorse aggiuntive, specie per il contributo recato da formatori spesso dotati di rilevante esperienza e capacità. Inoltre, uno scopo tradizionale dell’offerta centralizzata – quello cioè di determinare l’incontro dei magistrati di tutta Italia in una “casa comune” – resta attuato, al tempo stesso favorendosi la partecipazione di coloro che operano nel distretto di volta in volta interessato (ciò che implica, almeno nei casi di distretti con rilevante organico, anche il vantaggio di un abbattimento delle spese di trasporto ed alloggio).

Va subito aggiunto che, affinché il modulo assicuri i vantaggi indicati, sembra necessario un coordinamento puntuale in sede di programmazione e di attuazione delle iniziative nazionali. Modi e tempi del raccordo tra la Scuola e la rete delle strutture territoriali costituiscono oggetto privilegiato, nell’attualità ed in generale, del dibattito sulle direzioni possibili da conferire, per l’immediato futuro,  al lavoro di formazione per i magistrati.

 

7. A prescindere del resto dal suo ruolo di diretto supporto per l’offerta centrale, la rete delle strutture territoriali decentrate rappresenta ormai una realtà consolidata del complesso deputato alla formazione. Ed è una realtà principalmente impegnata nella formazione permanente, salvo il ruolo specifico assunto in materia di tirocinio iniziale e di riconversione, con caratteristiche peculiari di agilità nella programmazione e di elevata sensibilità alle tematiche di interesse locale.

Sarebbe davvero ingeneroso uno sguardo ai profili generali dell’offerta formativa che non considerasse le iniziative completamente gestite a livello distrettuale. Certo, l’esperienza dimostra che v’è molta discontinuità – a livello qualitativo, oltre che quantitativo – nell’offerta che matura nei vari distretti italiani, ed appare ovvio, del resto, come le risorse a disposizione dei formatori locali siano diverse da sede a sede. Il fenomeno è in parte superabile, ad avviso di molti, con un diverso equilibrio tra margini di autonomia delle strutture locali e funzione di coordinamento esercitata dalla Scuola, e naturalmente dimostra, ove mai ve ne fosse bisogno, che una formazione nazionale e comune costituisce un bene irrinunciabile per la magistratura italiana. Ma certo un forte impulso alla formazione decentrata, prestato anche attraverso un più intenso supporto in termini organizzativi, sembra costituire a sua volta una strada irrinunciabile per risolvere la crisi di crescita della quale fin qui si è discusso.

 

8. Il cambio di gestione della Scuola – dopo una prima, pioneristica e meritoria esperienza fondativa – ha seguito di poco l’insediamento di un nuovo Consiglio superiore della magistratura. È forse la ragione concorrente, al di là di occasioni contingenti, dell’intensificarsi di un dibattito che può solo giovare alla maturazione collettiva e ad un indirizzo non burocratico né recessivo del destino delle istituzioni formative.

Nel giugno del 2015 il Consiglio superiore della magistratura ha approvato linee guida per la formazione dell’anno corrente, con un documento di rilevante spessore, niente affatto rituale. Il primo Comitato direttivo della Scuola ha rassegnato, alla fine dello stesso anno, un’ampia relazione sul lavoro svolto, ricca di spunti critici e di valutazioni, ed illuminante riguardo a dati statistici indispensabili per ragionamenti non preconcetti sul futuro della formazione. Un futuro le cui linee essenziali – anche in punto di finalità, contenuti e metodologie – sono state nitidamente illustrate nel discorso tenuto dall’attuale presidente della Scuola, in occasione dell’insediamento del nuovo Comitato direttivo, il 19 febbraio dell’anno in corso.

Sono strumenti per un dibattito che non può esaurirsi, e che sarebbe bene coinvolgesse l’intera comunità degli operatori della giurisdizione.