Magistratura democratica

Le nuove sfide della formazione

di Piergiorgio Morosini

“Indottrinare” i magistrati. Ritorna il passato. Si salda con l’idea della “giustizia-azienda” e con il “giudice bocca della legge”. Ma è una visione anacronistica della formazione. Sono cambiati il ruolo della giurisdizione nel circuito istituzionale e nella società, i “signori del diritto”, la natura delle domande di giustizia. La Scuola oggi deve sviluppare: l’approccio critico alle questioni tecniche e valoriali; la capacità di costruire legami ed ordini su dati, emozioni, richieste, pressioni che sono il “contesto” dell’attività giudiziaria. Obiettivi ambiziosi. La Scuola deve coltivare in autonomia, nel rispetto degli atti di indirizzo del Consiglio superiore della magistratura. Per farlo, ha bisogno del pluralismo delle iniziative nei distretti. Queste restano il “cuore” della formazione e fanno comprendere che occorre andare oltre il “culto dell’efficienza”. Perché oggi c’è una nuova priorità. Le “gerarchia” e “carriera”, riproposte dalle riforme del 2006-2007, mettono i magistrati a rischio di mutazione genetica. La Scuola deve lavorare soprattutto sul valore della “indipendenza interna”.

1. Agli onori della cronaca

È accaduto di recente. La notizia dell’invito di due ex brigatisti, Adriana Faranda e Franco Bonisoli, ad un corso della Scuola di Castel Pulci ha aperto un vero e proprio “caso istituzionale”. Sono fioccati attacchi di ogni tipo. Nel clamore mediatico, non sono mancate semplificazioni demagogiche, invettive strumentali e calcolate omissioni. Nelle mailing list dei magistrati si è parlato, persino, di «criminali in cattedra», di operazioni di giustificazionismo o revisionismo sugli anni di piombo. Mentre i più pacati hanno lamentato una certa tendenza alla «spettacolarizzazione» dei corsi, lontani dai problemi della realtà giudiziaria e di scarsa utilità per i magistrati. Solo alcune voci hanno cercato di chiarire gli effettivi contorni della iniziativa della Scuola oggetto di contestazioni. Si trattava di un corso sulla giustizia ripartiva con un programma articolato. In tale ambito, erano stati invitati, oltre ai due ex brigatisti, anche tre familiari delle loro vittime, ossia Agnese Moro, Sabrina Rossa e Manlio Milani. Ai magistrati si voleva offrire la rappresentazione di un «esperimento di riconciliazione» durato otto anni, promosso con metodi scientifici e lontano da ogni clamore mediatico da criminologi e educatori. Dopo una dura presa di posizione di alcuni familiari delle vittime (che non avevano condiviso il percorso di riconciliazione) e le inedite pressioni del Comitato di presidenza del Csm sul Comitato direttivo della Scuola, l’esperimento è stato annullato. Tuttavia, “restano in campo” alcune questioni “cruciali”. Cosa significa formare i magistrati? Quali sfide per la Scuola? Di quale grado di autonomia deve essere dotata nella scelta di metodi e contenuti? Quali rapporti con il Csm? Quali idee-forza per la formazione di oggi?

2. Le nuove sfide della Scuola

Lo si è detto a sazietà in ogni sede istituzionale. E lo si è ribadito anche nell’incipit della delibera del Csm sulle linee guida per la programmazione della Scuola del 2016. Per ogni magistrato la formazione costituisce una delle condizioni di legittimazione del suo operato e della sua indipendenza. Non solo. Con il sistema delle valutazioni di professionalità, le procedure disciplinari e con i criteri di organizzazione del lavoro all’interno degli uffici, la formazione contribuisce a delineare il modello di magistrato e quindi la qualità della giurisdizione.

I compiti dei formatori di oggi paiono particolarmente delicati. Basta scorrere i repertori giudiziari, per comprendere il mutamento della natura delle domande di giustizia. Da oltre trenta anni, la magistratura italiana è fisiologicamente chiamata ad intervenire in settori nuovi, non necessariamente disciplinati da norme specifiche (ad es. sui temi eticamente sensibili); a risolvere conflitti sociali di particolare complessità; ad incidere su situazioni incancrenite dall’inerzia di altri poteri.Sempre più di frequente a procure e tribunali sono affidate scelte tradizionalmente di competenza di altre istituzioni, sulla carta in grado di garantirne preventivamente la conformità alla legge. Scelte che espongono la magistratura, sovente rimproverata di protagonismo, di condizionare la discrezionalità politica e le scelte economiche. Scelte che, al netto delle strumentalizzazioni, impongono ai magistrati un “salto di qualità” non solo sul piano della specializzazione, ma anche della cultura e dell’etica.

Per queste ragioni, gli organi preposti all’adempimento dei compiti di formazione non potranno limitarsi a puntare sulla adeguata preparazione tecnico-giuridica dei magistrati e sulle tecniche operative e organizzative. Dovranno farsi carico anche della “consapevolezza” di un ruolo sempre più delicato, per gli effetti dell’agire giudiziario sulla società e sull’intero circuito istituzionale.

In altri termini, il circuito della formazione sarà chiamato a coltivare delle doti non suscettibili di essere affidate alla facoltatività della iniziativa individuale, ma che vanno necessariamente collegate ad una ampia e rigorosa comunicazione organizzata di conoscenze teoriche, pratiche, e deontologiche, che si aggiungono a quelle fornite dal concreto operare. Su queste premesse, del resto, si concentrano, da anni, una miriade di documenti non solo nazionali in materia di formazione dei magistrati. Tra questi anche la Raccomandazione CM/Rec (2010) 12 del Consiglio d’Europa. E tale idea di fondo viene condivisa dalla delibera del Csm sulle «linee guida» per la programmazione della Scuola relativa all’anno 2016.

3. Cosa significa formare i magistrati

La scelta del modello di formazione dei magistrati e dei relativi metodi didattici dipende dagli obiettivi perseguiti dall’organo chiamato a gestirla. Gli obiettivi, a loro volta, sono condizionati da diversi fattori. Tra i più rilevanti, come si evince da un dettagliato studio comparativo della seconda metà degli anni novanta[1], ci sono: il modo di concepire la cultura giuridica in una determinata realtà storica; i principi costituzionali in materia processuale; l’opzione tra struttura gerarchica e organizzazione paritaria dell’ordine giudiziario; il grado di indipendenza interna e esterna della magistratura; il diverso modo di declinare metodo democratico nel circuito istituzionale e principio di separazione dei poteri dello Stato.

Formare i magistrati italiani, quindi, vuol dire “insegnare” loro come si interpreta e si applica la legge? Travasare dall’ “alto” al “basso” un sapere? Questa idea non è così rara nel circuito politico-istituzionale e all’interno della stessa magistratura. In fondo, esprimeva la filosofia del “progetto Castelli”, poi trasfuso nel decreto legislativo n.26 del 2006. E rivestiva una importanza strategica in un più ampio progetto di riduzione della autonomia e delle indipendenza dei magistrati, coniugandosi coerentemente con i principi che informano la disciplina della progressione in carriera per concorso e dell’assunzione degli incarichi direttivi e semidirettivi. Si prevedevano solo “corsi abilitanti”, dominati dai magistrati della cassazione (nel comitato direttivo dovevano essere membri di diritto il Primo presidente e il Procuratore generale), per il superamento di tutte le tappe della carriera. La commistione tra formazione e valutazione di professionalità tradiva l’esigenza di perseguire la “certezza del diritto” attraverso l’imposizione del sapere. E ciò si saldava con la previsione di un illecito disciplinare legato alla attività di interpretazione in caso di «grave violazione di legge» (art.3 d.lgv sul disciplinare) e con il ripristino del principio gerarchico nell’assetto delle procure della repubblica.

Ebbene, quell’idea di formazione è stata bocciata dalla legge n.111 del 2007. Ma ancora oggi trova pugnaci sostenitori. Si coniuga bene con la visione “aziendalistica” della giustizia che indica come valore assoluto la «uniformità» degli orientamenti giurisprudenziali e auspica un ritorno al «giudice bocca della legge».

Il quadro legislativo articolato e la normativa per clausole generali con cui si confronta quotidianamente la magistratura, il suo assetto ordinamentale e la sua indipendenza da altri poteri dello Stato, nonché il ruolo di quest’ultima nel circuito istituzionale e nella società, impongono un «modello alternativo di formazione». Ma questo “modello”, accreditato da documenti internazionali (sin dal parere n.4 del Consiglio consultivo dei giudici europei adottato a Strasburgo il 27 novembre 2003) e che sta nella stessa tradizione del Csm ante Scuola (nelle sue articolazioni a ciò deputate: Nona commissione, Comitato scientifico e Formazione distrettuale), va alimentato ogni giorno. La Scuola non ammette indottrinamenti. È chiamata a sviluppare un approccio critico alle molteplici questioni, tecniche e valoriali, proposte da una società sempre più complessa. La stessa funzione di aggiornamento su norme e indirizzi giurisprudenziali deve essere finalizzata ad un allargamento della base di riflessione sui problemi. Il tutto, per evitare involontari contrasti giurisprudenziali e per favorire opzioni interpretative destinate ad assicurare la prevalenza delle migliori soluzioni per il caso concreto; nonché per alimentare l’evoluzione del diritto in parallelo a quelle dell’ordinamento e della società.

Questi obiettivi si saldano con l’apertura agli apporti di diverse professionalità e voci, di espressioni culturali provenienti da molteplici settori della società, in modo di arricchire il bagaglio e la sensibilità culturale dei magistrati. Lo si afferma espressamente nella delibera del Csm sulle linee guida per la Scuola relativa all’anno 2016. In altri termini, la formazione dei magistrati è da concepire come un processo orientato ad organizzare la conoscenza, a sviluppare capacità di costruire legami ed ordini, più o meno provvisori, sulla massa di dati, emozioni, richieste, pressioni che costituiscono il contesto in cui si esercitano le funzioni giudiziarie.

4. segue: il caso “Faranda”

Le ultime considerazioni ci riportano al recente “caso Faranda”. È vero che alcuni familiari delle vittime hanno manifestato grande amarezza per l’iniziativa della Scuola.E che vanno profondamente capite, perché a fronte delle tante “verità negate” su quegli anni orribili, restano i “silenzi” dei due ex brigatisti. Ma questo bastava a rendere “impresentabile” l’iniziativa della Scuola? Le istituzioni devono forse evitare ogni forma di contatto con certi criminali, anche solo per ragioni simboliche? Il tema è aperto e problematico. Ma i magistrati non sono alunni di scuola media potenzialmente “sensibili” a suggestioni fuorvianti. Dovrebbero essere tra i più attrezzati «a discernere situazioni e affermazioni», come afferma una lettera piena di amarezza di Agnese Moro, Sabina Rossa, Manlio Milano all’indomani della cancellazione del corso, a cui la stampa non ha dato il giusto peso. In effetti, proprio la Scuola (il circuito della formazione in generale) pare il luogo istituzionale dove “interrogarsi” anche sulle situazioni più spinose, senza pregiudizi e senza tabù. Il lavoro sulla «consapevolezza del ruolo che svolgiamo» ci impone di ragionare sul futuro delle “persone” dopo il processo e la pena. Senza distinzioni per tipologie di reati. Tutto questo si salda, con la richiesta che, nell’affermare l’obiettivo del reinserimento sociale (art.27 comma 3), la Costituzione fa ai giudici di non limitarsi a valutare il passato di autori anche di reati gravissimi. E si salda pure con gli auspici di carte internazionali, tra cui la risoluzione Onu n.66 del 2005, che hanno l’obiettivo di restituire dignità, oltre il processo penale, alle vittime di quella violenza politica che ha colpito al cuore realtà democratiche quali l’Italia degli anni di piombo.

Per questi motivi, l’iniziativa della Scuola sulla giustizia riparativa, tanto contestata per i suoi contenuti, non pare collocarsi al di fuori delle citate linee guida della formazione stabilite dal Csm. Semmai, sarebbe stata opportuna una maggiore interlocuzione preliminare tra Scuola e Csm sui contenuti dell’esperimento che ha fatto tanto discutere. Certe presenze era prevedibile che potessero suscitare polemiche, esponendo l’intera istituzione giudiziaria. E allora, con l’ausilio del Csm, forse andava “preparata” la comunicazione di un certo evento, con le relative precisazioni sulle sue finalità e sul ruolo effettivo delle persone che venivano invitate. Certe polemiche sono figlie anche della disinformazione.

5. L’autonomia della Scuola è in pericolo

Il “caso Faranda” è stata anche l’occasione per mettere in discussione l’autonomia della Scuola, i suoi metodi, i suoi contenuti. Ora, c’è chi auspica un ritorno al passato, con corsi organizzati e gestiti direttamente dal Consiglio superiore della magistratura. In tale prospettiva, alcuni componenti laici del Consiglio hanno sollecitato l’apertura di una pratica finalizzata a proporre al Parlamento un intervento normativo e a ricostituire la Nona commissione del Csm, che prima della riforma del 2006-2007 aveva la competenza sulla formazione. L’idea trova conforto anche in una parte della componente togata. Si lamenta la scarsa aderenza dei corsi alle esigenze pratiche del quotidiano, una certa autoreferenzialità della Scuola e notevoli difficoltà logistiche per i partecipanti alle iniziative centrali. Si sostiene, inoltre, la scarsa sintonia della autonomia (contabile, organizzativa, giuridica e funzionale) della Scuola con l’art. 105 della Costituzione che attribuisce ogni determinazione attinente alla vita professionale del magistrato alle prerogative del Csm.

Tuttavia, l’idea del “ritorno al passato” non tiene conto dei limiti della esperienza pregressa. In effetti, sin dal 1994, era stato lo stesso Consiglio a sollecitare, con periodiche relazioni inviate alle assemblee parlamentari, l’istituzione di una Scuola per la formazione permanente dei magistrati[2], dotata di una sua autonomia interna sul piano contabile, giuridico, organizzativo e funzionale. Sino alla riforma del 2006-2007, nonostante gli sforzi dell’organo di autogoverno ed i significativi passi avanti in termini di quantità e qualità degli incontri studio, il circuito formativo soffriva di pesanti disfunzioni suscettibili di ripercuotersi sulla professionalità dei magistrati. Tra gli aspetti più critici si registrava: la lentezza delle decisioni sulle specifiche iniziative (corsi), sovente ostacolate da deliberati ostruzionismi frutto dei momenti di crisi della vita consiliare; la difficile programmazione di lungo termine dovuta alla precarietà della struttura portante (i componenti della Nona commissione, del Comitato scientifico e i referenti distrettuali erano soggetti a rapide rotazioni); la fisiologica perdita di specifiche professionalità nella organizzazione della formazione.

Certo, pur nel ritenere necessaria l’istituzione della Scuola, sin dal 1994 gli artefici della proposta sostenevano l’irrinunciabilità della “supervisione” del Consiglio sulla sua attività[3]. E il modello che scaturisce dal decreto legislativo n. 26 del 2006 e dalla legge n.111 del 2007, in effetti concepisce la Scuola come realtà autonoma, ma raccordata rispettivamente, in base alle diverse competenze costituzionali, con il Csm e con il Ministero della giustizia, alla luce degli artt.105 e 110 della Carta costituzionale.

Nei primi anni della Scuola, i problemi sono sorti sull’interpretazione in concreto di tale raccordo. Ma quella fase scontava anche le resistenze istituzionali a una novità che, di fatto, sottraeva al Consiglio la gestione di una delle sue attività più prestigiose.

Sul versante del Csm, la funzione di indirizzo generale non può limitarsi alla enunciazione delle linee guida una volta all’anno, prevista espressamente dalla legge. Se così fosse, si tratterebbe di uno sterile adempimento burocratico. D’altronde, lo stesso decreto legislativo n. 26 del 2006 prevede la trasmissione al Ministro e al Csm di una relazione annuale sulle attività svolte dalla Scuola, chiaramente finalizzata alla attuazione delle direttive. In ogni caso, pare necessaria la realizzazione di momenti di raccordo effettivo e costante tra Scuola e Csm, improntati alla leale collaborazione. L’attuazione delle direttive passa anche per verifiche periodiche sulle modalità della loro implementazione. Il confronto deve avere ad oggetto i metodi, i contenuti dei programmi precedenti e i criteri per la selezione dei formatori. Ciò che sinora è mancato è stata l’istituzione di un tavolo permanente di consultazione tra Scuola, Csm e Ministero, in parte dovuto alle difficoltà contingenti di una struttura, la Scuola, costretta a decollare con significative carenze di risorse e personale ausiliario.

In particolare, per la formazione dei dirigenti e sui temi dell’Ordinamento giudiziario, l’apporto del Csm, in ragione della sua specificità e della posizione di rilievo costituzionale nel governo autonomo della magistratura, è auspicabile che vada oltre la funzione di indirizzo generale. Su tali versanti, deve ricavarsi un adeguato spazio anche di definizione dei programmi e di condivisione nella gestione delle iniziative. Il Consiglio e gli altri attori dell’autogoverno possono offrire un valore aggiunto su quel tipo di offerta formativa e sul suo adeguamento alle concrete esigenze degli uffici giudiziari. Questo anche attraverso la presenza attiva di componenti del Csm e dei Consigli giudiziari.

6. La rete distrettuale: il “cuore pulsante” della formazione

I detrattori della Scuola e gli iper-scettici dell’attuale sistema lamentano una distanza delle offerte formative dalle esigenze concrete dei magistrati. Al netto delle esagerazioni e di giudizi che trascurano l’obiettiva complessità del decollo di una Scuola ancora giovane, occorre tenere conto di un dato. La presenza nel Comitato direttivo della Scuola, oltre agli accademici e ai liberi professionisti, di magistrati che collocati “fuori ruolo” per quattro anni può alla lunga scontare una distanza dalla realtà quotidiana della giurisdizione e accentuare latenti profili di autoreferenzialità.

Ma il sistema della formazione ha tutti gli anticorpi per assecondare le esigenze effettive dei magistrati. In questo deve tenere conto delle indicazioni provenienti dai diversi uffici giudiziari, dalle associazioni di magistrati, dai referenti per l’informatica, dai Consigli giudiziari e, naturalmente, dal Csm.

Una funzione insostituibile in questo prospettiva va attribuita al circuito dei referenti distrettuali, istituito con risoluzione consiliare già nel 1998. Le iniziative decentrate, in questi ultimi diciotto anni, sono state serbatoio di idee, metodi, personalità per la stessa formazione centrale, ne sono diventate il “cuore pulsante”.

Fin dall’inizio, la formazione distrettuale è risultata una risorsa preziosa laddove è spazio di libertà, duttile e creativo, tendente a fornire una risposta immediata alle esigenze professionali dei magistrati che operano nei contesti territoriali, spesso profondamente diversi tra loro. D’altronde, la formazione decentrata ha dimostrato in vari distretti e in molteplici occasioni di saper valorizzare rapporti e legami con il mondo universitario, l’avvocatura, gli enti locali e le diverse realtà associative e culturali. Si tratta di un patrimonio che non va disperso perché può ancora consentire ai formatori distrettuali di sviluppare originali forme di collaborazione in vista del soddisfacimento dei bisogni formativi rilevanti nei singoli distretti.

La rete di formazione decentrata, pur essendo integrata nel circuito facente capo alla Scuola, deve continuare a essere uno spazio di formazione e di autoformazione proprio delle singole realtà distrettuali. In tal senso, alla rete di formazione decentrata deve essere riservata la facoltà di organizzare autonomamente corsi, ferme restando le linee di indirizzo adottate dalla Scuola. In questo ambito rientrano ad esempio: i corsi cd di “emergenza”, per le prime valutazioni operative su novità legislative o giurisprudenziali (che difficilmente possono essere approntati tempestivamente in sede centrale); i corsi a valenza “territoriale”, strettamente peculiari ad alcuni distretti (ad es. nel settore penale, corsi legati alla presenza sul territorio di stranieri nei Centri di identificazione ed espulsione; o nel civile, ipotesi di responsabilità contrattuale o extracontrattuale nelle gestione di impianti sciistici); i corsi di riconversione da una funzione ad una altra, con percorsi ad hoc e forme di “tirocinio mirato”); corsi linguistici, da gestire in autonomia con gli istituti e le scuole presenti sul territorio; i corsi in materia organizzativa che siano collegati a iniziative e progetti di innovazione giudiziaria in sede locale.

Sul versante della formazione decentrata, è auspicabile un intervento organico di indirizzo del Csm. L’ultima delibera risale al febbraio 2013 (n.3/FD/2013) e deve essere aggiornata. Da una parte, la formazione decentrata si presenta ancora “a macchia di leopardo” sul territorio nazionale; dall’altra vi è l’esigenza di valorizzare nuove formule, quali ad esempio gli esperimenti a livello interdistrettuale, di cui si è apprezzata la valenza ad esempio sui terreni della giurisdizione in tema di immigrazione e criminalità organizzata. Solo la stabilità organizzativa della Scuola superiore consente di affrontare le due questioni cruciali: da un canto, la rilevazione, appunto, dei bisogni formativi; dall’altro, la valorizzazione e la piena integrazione delle strutture decentrate all’interno del complessivo circuito della formazione.

La Scuola potrà essere in grado, così, di curare quel costante raccordo con e tra le formazioni decentrate, sin dal momento iniziale della programmazione annuale, individuando proprio con i magistrati referenti innanzitutto la tipologia di interventi formativi da diffondere in modo unitario su tutto il territorio (es. corsi cd di primo livello, idonei a fornire una preparazione basilare per i magistrati); predisponendo, poi, un secondo ambito di corsi duplicati, che valgano, cioè, a riversare in sede decentrata i risultati di incontri centrali di particolare rilievo e/o finalizzati a diffondere percorsi formativi “circolari”, che dal centro si diffondano in periferia per conoscere momenti di sintesi finale (es. corsi sulla giurisdizionalizzazione del processo minorile o sui rapporti tra giurisdizione di legittimità e di merito).

Dalle esperienze dei formatori decentrati e dal loro continuo contatto con le singole realtà giudiziarie, infine, dovranno partire nuovi modelli di rilevazione dei bisogni formativi, in grado di influire (mediante momenti di confronto annuale con il Comitato direttivo della Scuola) sui contenuti specifici della programmazione.

Sempre nell’ottica del rilievo dei bisogni formativi la Scuola potrà pure beneficiare della sinergia che deriverà dalle relazioni con la Rete europea della formazione giudiziaria, della quale la Scuola fa parte. Gli scambi di esperienze e di partecipazione dei magistrati dei vari Paesi membri dell’Unione europea rafforzano le conoscenze del diritto europeo e la completa acquisizione della consapevolezza del nuovo ruolo che ai magistrati spetta nel contesto euro unitario.

7. Una nuova priorità per la formazione dei magistrati italiani?

Il “culto dell’efficienza”. È l’idea-forza della formazione degli ultimi quindici anni, a cui si sono dedicate molte energie. Basta scorrere, non solo i documenti degli Osservatori della giustizia civile e della giustizia penale, ma anche le recenti linee guida del Csm e i programmi della Scuola per rendersene conto. Così, si è andati alla ricerca di soluzioni organizzative in grado di fronteggiare numeri insopportabili che rischiano di snaturare la funzione del giudice e del pubblico ministero. I corsi volti a favorire la diffusione della cultura dell’organizzazione negli uffici giudiziari e dell’auto-organizzazione del lavoro del magistrato sono proliferati. Insieme a questi, le iniziative sull’informatica, quale strumento per agevolare, velocizzare e rendere più efficiente l’operato di ciascun magistrato. Questa esigenza ha, addirittura, inciso sulla nuova grammatica del dibattito interno alla magistratura, oggi molto concentrata su espressioni come: «controllo dei costi», «indicatori di rendimento», «smaltimento flussi», «produttività«. Sia chiaro, sono cose importanti. Attengono alle attese dei cittadini, alla cultura della organizzazione, ai bilanci dello Stato. E quell’impegno asseconda esigenze molto serie, connesse a principi costituzionali di particolare pregio, quale la durata ragionevole dei processi e l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Ma il catalogo delle priorità va integrato da serie emergenze di “sistema”.

Forse è arrivato il tempo che la formazione si occupi in maniera più capillare del senso di indipendenza del magistrato, che rischia di corrodersi per via degli “effetti differiti” delle riforme del 2006-2007. Di fatto sono tornate “carriera” e “gerarchia”. Una miscela insidiosa, coi giudici a rischio di “mutazione genetica”.

L’interesse a diventare “presidente” o “procuratore” può cambiare la mentalità. Le “nomine” non dipendono più dagli automatismi della «anzianità senza demerito». E il Csm, per individuare il «più idoneo allo specifico ruolo», è chiamato a scelte discrezionali. Non è quasi mai agevole. Spesso, le opzioni risultano “scivolose” e “opinabili”. Sovente sono decisivi i “titoli” collezionati negli anni, a partire dalle nomine a presidente di sezione e procuratore aggiunto. “Titoli” che non si conquistano se non si può vantare qualche delega organizzativa particolare, un incarico di referente x, la trattazione di procedimenti particolari e tanto altro. È proprio questo il punto. C’è il rischio di pensare più ai “titoli” che alla giurisdizione. Così, già tra le giovani toghe, c’è chi va a “caccia” di processi di rilievo, deleghe organizzative, incarichi di varia natura. Con quelli si “costruisce il futuro”.

Tutto questo si salda con il ritorno della “gerarchia”. La legge l’ha voluta per le procure, come strumento per dare omogeneità a prassi investigative e accusatorie. Ma è “strisciante” ormai in ogni ufficio come prodotto dei nostri tempi. Il capo, non sempre “illuminato”, è anche “arbitro” della tua carriera. Da lui dipende il tuo status. A sua discrezione offre o nega quei titoli. La ricerca del “suo gradimento” può indurre timidezze e conformismi. Non sono pochi coloro i quali ritengono di dover sempre obbedire agli ordini del presidente di sezione o del procuratore aggiunto anche se in disaccordo, perché sono loro che decidono e fanno pure la valutazione di professionalità. La cultura dell’obbedienza entra sempre di più negli uffici giudiziari. E con essa anche un approccio de-responsabilizzante sempre per effetto della gerarchia. Inoltre, si sta diffondendo l’idea che l’incarico direttivo e semidirettivo non sia tanto un mezzo per migliorare il “servizio-giurisdizione” ma un fine da raggiungere per soddisfare le proprie ambizioni personali. Il piano delle aspirazioni personali spesso si confonde con le esigenze di servizio.

È il ritorno ad un passato che pareva ormai lontano. Se soffre l’indipendenza “interna” del magistrato, le conseguenze si sentono sul piano della qualità della giurisdizione. Come ricorda Luigi Ferrajoli[4], il mutamento e il rafforzamento del ruolo della giurisdizione nel nostro Paese hanno coinciso con le riforme che eliminavano la carriera dei magistrati (cd leggi Breganze degli anni 1966 e 1973). Ne ebbero immediato giovamento la tutela effettiva dei diritti (soprattutto sui versanti dell’ambiente, del lavoro, della riservatezza) e il contrasto giudiziario ai grandi fenomeni criminali (terrorismo, mafia, corruzione). Il valore della eguaglianza dei cittadini davanti alla legge ne trasse nuova linfa. Oggi c’è un concreto rischio di regressione. Alcune contromisure ordinamentali spetterebbero al legislatore. Ma, a legislazione invariata, Csm e la Scuola possono fare tanto: contrastando anche culturalmente il modello di magistrato “direttivo” o “semidirettivo” che gestisce aree di “sovranità” nella gestione degli affari (ad esempio con assegnazioni e revoche immotivate); formando dirigenti che condividano con tutti i magistrati le regole operative e le dinamiche dell’ufficio giudiziario; alimentando la partecipazione di tutti i magistrati ai procedimenti di organizzazione e di controllo incisivo sul rispetto di quelle regole. Il tutto sulla base di una pre-condizione deontologica. Ossia, che dirigere un ufficio è un “servizio alla collettività” più che un “premio alla carriera” o “una tappa della carriera”. Solo così potrà arginarsi quel “carrierismo senza valori” nocivo all’istituzione e ai diritti. E tutto questo è anche compito della formazione.

[1] P.Borgna-M.Cassano, Il giudice e il principe, Roma, 1997, 1-191

[2] Cfr. C.M. Verardi, Il Csm e la formazione dei magistrati: verso una scuola o un mero servizio di aggiornamento professionale?, in Quesione Giustizia, 1999, n.2, 220; M.G. Civinini, L’esperienza della formazione permanente nei lavori del Csm, in Documenti giustizia, 1997, 2543 ss.

[3] Cfr. M.G. Civinini, G. Leo, P. Morosini, P. Profiti, R. Sabato, Idee per l’istituzione di una scuola della magistratura, in Foro it. 2005, V, 212; Parere del Csm sulla riforma dell’Ordinamento giudiziario del 31 maggio 2007, 30 ss in www.cosmag.it.

[4] L. Ferrajoli, La cultura giuridica dell’Italia del novecento, Roma-Bari, 1999, 63.