Magistratura democratica

Note sparse a partire dalle interviste ad un campione di ex-Mot

di Daniele Cappuccio

L’informale interlocuzione con alcuni giovani magistrati che hanno svolto il tirocinio iniziale dopo l’istituzione della Scuola superiore della magistratura fornisce il destro per mettere a fuoco, innanzitutto nella prospettiva dei destinatari dell’intervento formativo, i punti forti del nuovo sistema e quelli per i quali possono ipotizzarsi correzioni di rotta.

Dalla durata alla metodologia, dai contenuti alla valutazione, dalla logistica ai rapporti tra le istituzioni coinvolte, stella polare della riflessione è l’indagine sulle finalità della formazione e sugli obiettivi da perseguire in via prioritaria, individuati nell’apertura culturale ed ideale del magistrato, nel rifiuto della concezione burocratica del ruolo, nella coscienza del rango costituzionale della funzione.

Premessa

Giovanna Ichino ed Ernesto Aghina hanno offerto, in altro articolo pubblicato sul presente numero di Questione Giustizia, un quadro completo delle attività svolte dalla Scuola superiore della magistratura nell’espletamento dei compiti connessi alla formazione dei magistrati ordinari in tirocinio.

Con il presente intervento, si intende tornare sul tema – o, meglio, su alcuni suoi profili – analizzandolo da una prospettiva parzialmente diversa, che, in forza dell’applicazione del metodo induttivo ed in ossequio ad un metodo di lavoro che è stato trasversalmente applicato dai redattori ai vari ambiti della formazione (iniziale, permanente, dei dirigenti), muove dagli esiti di colloqui informali – ed ovviamente privi di qualsivoglia pretesa di scientificità – con un campione di magistrati che hanno vissuto in prima persona l’esperienza del tirocinio iniziale post entrata in funzione della SSM.

Dalle sensazioni, dalle indicazioni e dai suggerimenti dei giovani chiamati a riflettere, a posteriori, sul tirocinio iniziale si sono prese le mosse per alcune riflessioni critiche, specificamente in ordine al ruolo che, in questo ambito, gioca il Consiglio superiore della magistratura e, più in generale, alla luce del quadro normativo primario e secondario, anche in vista di una sua possibile modifica.

Un contributo, dunque, a carattere marcatamente induttivo e frammentario, cui corrisponde un procedere per flash che non ambisce in alcun modo a connotarsi per esaustività.

1. La durata del tirocinio

Il primo dato che emerge dalle interviste è il giudizio a tutto tondo positivo sulla Scuola come luogo di condivisione e di confronto collettivo. La previsione di periodi di tirocinio residenziale comune a centinaia di magistrati che vivono, alle più diverse latitudini, esperienze apparentemente omogenee – ma sostanzialmente, ed in alcuni casi anche formalmente, disomogenee – ha costituito, per quanto unanimemente riferito, preziosissima occasione di arricchimento, specie in chiave di revisione e ripensamento critico di quanto, negli stessi mesi, i Mot andavano sperimentando nelle rispettive Corti di appello di assegnazione.

Ciò ha consentito loro, tra l’altro, di leggere in un’ottica di contesto ed in termini di più spiccata autonomia l’azione formativa fruita sul territorio, sì da evitare il rischio di fenomeni distorsivi destinati ad incidere negativamente sul prossimo esercizio delle funzioni giurisdizionali[1].

Tanto, in un clima di solidarietà umana prima ancora che professionale che ha favorito il consolidamento di relazioni destinate a protrarsi ben al di là del tirocinio e che, tuttavia, non ha escluso (né si è contrapposta a) momenti di franca dialettica in seno ai gruppi, parimenti utile ad assecondare un fecondo processo di crescita.

Se l’alternanza, con costante collegamento tra i settori di volta in volta coinvolti, tra i periodi di tirocinio trascorsi presso, rispettivamente, la Scuola e le sedi di assegnazione costituisce dato ormai acquisito[2], meno consolidato appare, invece, lo status quo con riferimento alla durata complessiva del tirocinio iniziale.

Essendosi, di fatto, rivelata impossibile la pedissequa attuazione del dato normativo, che vuole i Mot impegnati presso la Scuola per un semestre complessivo, anche non consecutivo, una significativa porzione di tale lasso temporale è stata destinata all’esperienza degli stage (sulla quale si avrà modo di tornare più avanti), condotti perlopiù su base locale e computati all’interno della quota di tirocinio svolta presso la Scuola.

La soluzione prescelta, adottata nella consapevolezza di non potere in alcun modo comprimere gli spazi indicati dal legislatore e con la condivisibile finalità di porre rimedio, a normazione invariata, a difficoltà altrimenti insormontabili, non è stata, tuttavia, priva, secondo quanto riferito in modo pressoché unanime, dai Mot, di controindicazioni.

Gli stage organizzati nei Distretti sono stati, infatti, generalmente strutturati su base settimanale, quando non addirittura plurisettimanale, la qual cosa, specie per alcuni di essi, si è tradotta in un rallentamento[3] delle cadenze del tirocinio e, in parallelo, nella rarefazione delle esperienze vissute negli uffici di assegnazione, vissuta dagli interessati come un vulnus alle più pressanti esigenze formative.

Al cospetto di vincoli normativi in certa misura ineludibili – e dato atto delle iniziative messe in campo dalla Scuola e documentate nella Relazione del Comitato direttivo sull’attività svolta negli anni 2012-2015, disponibile sul sito web dell’istituzione formativa – la strada auspicabilmente da percorrere pare quella dell’intervento riformatore.

Meritevole di segnalazione è, al riguardo, la proposta avanzata nel 2014 dal Csm che, nell’esercizio della facoltà di cui all’art. 10, comma 2, l. n. 195/1958, si è rivolto al Ministro della giustizia sollecitandolo a promuovere, anche sulla base di indicazioni di carattere comparatistico[4], una modifica del quadro regolativo tesa a «riportare a 18 mesi la sessione presso gli Uffici giudiziari, mantenendo di 6 mesi quella presso la Scuola, al fine di consentire un equilibrato sviluppo e affinamento degli strumenti indispensabili per l’avvio della professione del magistrato».

L’opzione privilegiata dal Csm si pone, peraltro, in rapporto di simmetria con le più recenti evoluzioni della normativa in materia di tirocini formativi e forensi – propedeutici all’acquisizione di due tra i più rilevanti titoli di accesso al concorso in magistratura – che ne hanno fissato in 18 mesi (anziché in due anni, come era previsto in passato per la pratica forense e, ancor oggi, per le Scuole di specializzazione per le professioni legali) la durata, sì da non introdurre, quantomeno sul piano teorico, significative alterazioni nell’individuazione del momento di avvio dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali,

In alternativa, e tenuto conto che ai 18 mesi attualmente previsti va aggiunto il torno di tempo, oggi contenuto nel mese di agosto di ciascun anno solare, in cui vige la sospensione dei termini processuali ed i Mot godono del congedo ordinario (sicché la durata complessiva del tirocinio ammonta quasi sempre a 20 mesi), potrebbe suggerirsi il mantenimento del periodo globale oggi previsto, la riduzione del tirocinio presso la Scuola a quattro mesi, comprensivi degli stage di tipo “giurisdizionale”, con scorporo di quelli esterni (quali, ad esempio, quelli presso Avvocatura dello Stato, Banca d’Italia, forze dell’ordine, uffici finanziari, ecc.) e loro più congrua calendarizzazione.

Tanto, nella consapevolezza che, in ogni caso, l’elasticità e, in ultimo, l’efficienza delle azioni formative gestite presso la Scuola risente di due fattori allo stato ineliminabili, che comprimono non poco i margini di manovra di chi è preposto alla individuazione delle soluzioni ottimali.

L’uno attiene alle modalità di svolgimento del concorso in magistratura, bandito con cadenza annuale e per un numero di posti (in genere, tra 300 e 400) tale da imporre, per necessità, la suddivisione dei vincitori in gruppi e la ripetizione in sequenza delle singole attività. Sotto questo aspetto, la Scuola avrebbe certamente più agio ove fosse chiamata a formare, volta per volta, un numero più contenuto di magistrati in tirocinio, ciò che però comporterebbe diverse – e più onerose – opzioni in punto di organizzazione del concorso di accesso (che dovrebbe essere bandito con maggiore frequenza e minor numero di posti, con conseguente aggravio dell’impegno umano, logistico, finanziario).

L’altro si riconnette alla concentrazione nella sede di Scandicci della quasi totalità dell’attività residenziale della Scuola, circostanza che, ad onta dei meritori accorgimenti messi in campo dal Comitato direttivo e dagli organi amministrativi, impone ai magistrati, in tirocinio e non, provenienti dalle regioni meridionali viaggi lunghi e sovente disagevoli. Tanto va visto in combinazione con l’ulteriore dato relativo alla scissione tra il luogo di svolgimento dell’attività formativa e l’alloggio dei soggetti a diverso titolo coinvolti, dal quale discende la necessità di dedicare, quotidianamente, una rilevante quota di energie e tempo agli spostamenti. È, questo, un tema trasversale ai vari settori di attività della Scuola che porta ad interrogarsi sulla possibilità di introdurre innovazioni finalizzate a migliorare il rapporto tra le risorse impiegate ed il quantum di attività formativa effettivamente posta in essere.

2. La lezione frontale: un arnese obsoleto da gettar via?

Assai nette sono, per quanto attiene alla metodologia, le indicazioni provenienti dalla platea degli intervistati i quali, chiamati ad esprimersi in ordine all’ampia gamma di tecniche formative offerte loro nel corso del tirocinio iniziale, hanno mostrato sicura preferenza per quelle più moderne ed ispirate all’interattività (gruppi di lavoro, dibattiti, esercitazioni, simulazioni, ecc.) e meno entusiasmo, a tratti sfociato in vera e propria idiosincrasia, per il più tradizionale strumento della relazione frontale.

Invitati a spiegare le ragioni di tale orientamento, gli ex-tirocinanti hanno, da un canto, stigmatizzato la scelta dei contenuti che, talora, si sono, a loro dire, connotati per eccesso di astrazione e, dall’altro, manifestato perplessità sulle capacità comunicative di singoli relatori.

Il tema si articola, a ben vedere, su una pluralità di piani, che occorre quantomeno delineare.

Le risposte al questionario somministrato riflettono, in questo come in altri passaggi, la tensione, a tratti spasmodica, dei magistrati in tirocinio verso un rapido transito dalla dimensione della riflessione teorica, che ha connotato una fase di preparazione prolungatasi per molti anni, a quella dell’applicazione pratica delle cognizioni acquisite.

L’afflato è comprensibile ma, nondimeno, non può essere inteso in senso assoluto né portato alle estreme conseguenze. Se è vero, infatti, che il sistema universitario e di accesso all’ordine giudiziario si è distinto, sino ai giorni nostri, per una troppo evidente cesura tra lo studio di materie ed istituti ed il concreto utilizzo di nozioni ed abilità in tal modo maturate, non può trascurarsi, per converso, come la missione della Scuola, lungi dall’esaurirsi nel colmare il gap riscontrato, si estenda alla trasmissione, in favore dei magistrati che muovono i primi passi nel mondo della giurisdizione, di un insieme di saperi e, ancor più, valori nuovi e diversi rispetto a quelli che hanno segnato gli anni dell’università e della preparazione al concorso: ne deriva, dunque, la tensione verso la perfetta alchimia sul versante sia dei contenuti che delle tecniche formative.

Chiara eco di quanto appena enunciato si trova, del resto, nelle parole pronunziate[5] dal Presidente del Comitato direttivo della Scuola, prof. Gaetano Silvestri, secondo cui «indipendenza della magistratura, efficienza dell’organizzazione giudiziaria e libertà della cultura e della scienza devono trovare un punto di confluenza e di integrazione in un’attività formativa che si ponga l’ambizioso obbiettivo di fornire ai magistrati strumenti utili non soltanto ad esercitare al meglio le loro funzioni nei diversi settori della giurisdizione ai quali sono dedicati, ma anche ad associare alla loro indispensabile preparazione tecnico-giuridica la consapevolezza del proprio ruolo nelle istituzioni e nella società. Scienza e coscienza sono le premesse indispensabili perché l’indipendenza del giudice non rimanga guarentigia formale dell’ordine giudiziario e dei suoi componenti, ma sia nutrita dal sapere professionale e dall’etica dei comportamenti, entrambi legati e presenti in modo indissolubile in ogni momento delle molteplici attività giudiziarie».

Analizzata da un diverso angolo prospettico, la questione posta dai tirocinanti intercetta il tema della “qualità” dei relatori e, ancor più, della loro attitudine alla comunicazione.

Si finisce con il percorrere, per questa via, un sentiero ormai consueto – e, va incidentalmente notato, non privo di cliché, quale quello che, con operazione di respiro non sempre eccelso, sposta il fuoco dell’attenzione dalla sostanza della comunicazione alle sue forme – lungo il quale ci si interpella in ordine alle condizioni richieste per accrescere il tasso di fruttuosità dell’azione formativa.

Ed invero, se non sono mancati, tra i relatori invitati dalla Scuola a parlare ai Mot, quelli capaci di rapirne l’attenzione parlando a braccio e per un tempo consistente, in alcuni casi il risultato conseguito appare essere dipeso dalla impostazione dell’intervento piuttosto che dalla caratura scientifica e professionale di chi ne è stato protagonista.

Sotto questo aspetto, credo possa trarsi spunto dai colloqui e dalle interviste effettuate per sottoporre al dibattito, senza presunzioni né certezze, l’opportunità di promuovere il ricorso ad alcuni semplici e pratici accorgimenti.

Avuto riguardo al naturale scemare, con il trascorrere del tempo, del livello di attenzione, si potrebbe, ad esempio, suggerire di contenere, di regola, in poche decine di minuti il tempo di ciascuna relazione, di accompagnarla con la proiezione di diapositive che, senza riprodurre il testo del discorso, ne agevolino la comprensione e l’assimilazione e di favorire l’interattività dell’incontro, stimolando la partecipazione dell’uditorio.

3. Gli stage

Si è sopra anticipato che la previsione, durante il tirocinio, generico e, in minor misura, mirato, degli stage coniuga l’esigenza di rispettare il dato normativo relativo alla durata della permanenza dei Mot presso la Scuola con la volontà di mettere i magistrati di nuova nomina a contatto con realtà, interne o meno al mondo della giurisdizione, con le quali saranno destinati ad interagire in seguito all’assunzione delle funzioni.

L’obiettivo è, quindi, quello di conoscere il lavoro – in termini di competenze, organizzazione, modalità operative – altrui per meglio apprezzare il contesto nel quale si inseriscono le decisioni che si andranno ad assumere e la portata che esse avranno.

L’iniziativa, vista retrospettivamente dai Mot con i quali Questione Giustizia ha informalmente dialogato, ha senza dubbio incontrato il loro favore, motivato, in primo luogo, dalla consapevolezza di avere fruito di una opportunità che difficilmente si replicherà nel futuro percorso professionale. Talune esperienze, poi, sono rimaste particolarmente impresse nelle menti e nei cuori di giovani magistrati: tra tutte, quella condotta presso gli istituti penitenziari, che li ha introdotti in un ambiente nel quale l’attività di giudici e pubblici ministeri assume importanza fondamentale e del quale, ciò nonostante, si ha una conoscenza spesso superficiale ed indiretta[6].

Naturalmente, non sono mancati appunti critici e suggerimenti, afferenti alla durata dei singoli stage – profilo del quale si è già detto – ed al merito di alcune scelte[7], fattori che, nella loro combinazione, hanno dato la stura a qualche perplessità[8].

Discorso a parte, e qualche ulteriore notazione, vanno fatti per lo stage (la terminologia, in questo caso, rischia di fuorviare, posto che il tirocinio si svolge presso un ufficio giudiziario ed attiene all’esercizio della giurisdizione) svolto presso la Corte di cassazione, salutato con entusiasmo dai Mot i quali hanno, anzi, sottolineato la necessità di incrementare, per il futuro, gli spazi di coinvolgimento per i soggetti in formazione, quali che siano le funzioni loro assegnate nell’immediato.

Il passaggio appare di particolare interesse, non solo perché lambisce il tema del ruolo del giudice di legittimità e della percezione che ne ha quello di merito[9], ma anche in quanto consente, se rettamente decifrato, di svolgere una più generale riflessione in ordine agli obiettivi del tirocinio.

Se, infatti, si concorda sul fatto che, ancora oggi, le esigenze di certezza del diritto e prevedibilità delle decisioni coesistono con il carattere ineludibilmente evolutivo della giurisprudenza e con la continua tensione verso la più piena e soddisfacente tutela dei diritti, vecchi e nuovi, concreta appare la necessità di indirizzare i giovani verso la costruzione di un habitus il più possibile lontano da pigrizia ermeneutica e conformismo.

In questo contesto, fonte di sicuro beneficio si rivela la conoscenza “in diretta” delle procedure e delle dinamiche decisorie della Corte di cassazione dove oggi, anche per ragioni storiche e generazionali, è dato rinvenire, forse anche in misura maggiore rispetto a quanto accade in molti uffici di merito, l’imprinting di una magistratura attenta al diffuso inveramento dei valori costituzionali.

Ciò si palesa tanto più importante in un contesto, quale quello attuale, nel quale affiorano, anche nelle fasce più giovani della magistratura, perniciosi segnali del ritorno ad una concezione burocratica e conservatrice della funzione giurisdizionale, intesa quale strumento del mantenimento, innanzitutto nei rapporti sociali, dello status quo, concezione cui, come accadeva fino agli anni ‘60 del secolo scorso, non può che corrispondere un ordine giudiziario strutturato in forme piramidali e verticistiche.

4. I contenuti della formazione: l’Ordinamento giudiziario

Il tirocinio generico rappresenta, per la quasi totalità dei magistrati, la prima sede nella quale viene affrontata la materia dell’Ordinamento giudiziario[10], la cui conoscenza concorre senza dubbio alla formazione di giudici e pubblici ministeri, i quali tanto più potranno dirsi pronti a confrontarsi con l’agone della giurisdizione quanto più saranno edotti in ordine al proprio status, al coacervo di diritti e doveri che ne derivano, alla posizione della magistratura nell’assetto costituzionale.

È anche per questa ragione, dunque, che i Mot intervistati concordano nel reputare utile ed apprezzabile l’azione formativa svolta sul punto dalla Scuola, i cui riflessi immediati tendono ad individuare in relazione all’imminente assunzione delle funzioni, ovvero all’ingresso in una preesistente struttura, organizzata secondo regole la cui corretta applicazione intendono – nella sovente scomoda veste di ultimi arrivati – essere in grado di vagliare.

Prevale, lungo questa direttrice, l’interesse per alcuni settori della materia ordinamentale (quali, tra gli altri, il sistema tabellare, le valutazioni di professionalità, la responsabilità disciplinare, l’inamovibilità, gli incarichi extragiudiziari) a discapito di quelli di carattere più generale, che si riferiscono alla posizione istituzionale della magistratura (autonomia ed indipendenza esterna, rapporti con gli altri poteri, circuito dell’autogoverno) ma la cui trattazione, nondimeno, va, a parere di chi scrive, incoraggiata perché idonea – specie se opportunamente veicolata – ad infondere nei giovani magistrati consapevolezza circa il senso della funzione, loro confidata nel contesto di un’impalcatura istituzionale che assegna alla giurisdizione spazi di autonomia ed indipendenza di ampiezza e contenuto tali da fare dell’esperienza italiana modello di riferimento per le altre democrazie.

Si palesa, inoltre, la necessità di specifici interventi formativi relativi al ruolo ed all’attività del Consiglio superiore della magistratura, la cui posizione rispetto ai Mot, in conseguenza del transito delle competenze alla Scuola, è mutata, sostanzialmente nel senso di un marcato allontanamento.

Per quanto titolare di fondamentali competenze anche in punto di formazione iniziale, il Csm, con il nuovo assetto, ha perso la gran parte delle occasioni di contatto con i magistrati in tirocinio che, di fatto, incontra, per la prima volta, nella delicata fase dell’individuazione delle sedi di destinazione e nella loro assegnazione, previa formazione della relativa graduatoria.

Non sorprende, in questo contesto, che in qualche circostanza l’atteggiamento dei magistrati di nuova nomina si sia connotato per una, forse involontaria, polarizzazione tra la Scuola, con la cui struttura ed i cui organi si sono progressivamente consolidate consuetudine e solidarietà, ed il Consiglio, istituzione distante, “altra”, in certi momenti[11] financo ostile.

Al riguardo, ancora nelle recenti occasioni di confronto tra Scuola e Consiglio, è stata da più parti evocata l’opportunità di prevenire, per il futuro, siffatti rischi ampliando gli spazi di partecipazione dei protagonisti dell’autogoverno all’attività della Scuola: proposito in sé senz’altro condivisibile che, tuttavia, deve trovare realizzazione in stretta connessione con la precisa e meditata definizione dei relativi contenuti, allo scopo di avvicinare, con modalità virtuose, il governo autonomo ai magistrati e di evitare, per converso, il sempre incombente pericolo di utilizzare strumentalmente il contatto con le nuove leve dell’ordine giudiziario.

Nella medesima ottica, prendendo spunto dall’intento, concordemente manifestato nel corso degli incontri tra Scuola e Csm e già tramutatosi in iniziative concrete, di organizzare presso la sede consiliare di Roma alcuni corsi, sarebbe assai utile consentire ai magistrati in tirocinio – previa loro suddivisione in due o tre gruppi – di trascorrere a Palazzo dei Marescialli almeno una giornata di formazione, dedicata all’illustrazione delle attribuzioni consiliari e della loro concreta declinazione, che trova sintesi conclusiva nelle deliberazioni dell’assemblea plenaria (i cui lavori i Mot potrebbero seguire in video collegamento dalla Sala conferenze).

In questo senso, peraltro, si era già espresso il Csm nel formulare, con delibera del 3 aprile 2014, le «Direttive generali per il tirocinio dei magistrati ordinari nominati con dm 20 febbraio 2014», che, in un passaggio poi rimasto inattuato, prevedevano di demandare alla Scuola, in raccordo con la Sesta commissione consiliare, l’organizzazione di un apposito incontro presso il Consiglio superiore della magistratura, al fine di un primo e significativo contatto dei giovani magistrati con l’organo di governo autonomo della magistratura, nel corso del quale fornire indicazioni sulla struttura e l’organizzazione del Consiglio, sulle competenze e le attività delle Commissioni e del plenum e trattare altresì trattati i temi attinenti all’etica ed alla deontologia del magistrato.

Dal punto di vista logistico-operativo potrebbe, d’altro canto, programmarsi l’attività in oggetto in concomitanza o consecuzione allo stage presso la Corte di cassazione, sì da conseguire, soprattutto per ciò che concerne i Mot provenienti da sedi periferiche, non minimali economie di scala.

Nella medesima ottica e considerato il carattere parzialmente decentrato dell’attività di autogoverno, assai utile si rivela la partecipazione dei Mot, in atto già prevista dai piani di tirocinio, ad una o più sedute del Consiglio giudiziario che, soprattutto se intesa in senso attivo e protagonistico (cioè con la preventiva analisi, da parte dei magistrati in formazione, dell’ordine del giorno e l’esame e studio delle pratiche ivi inserite), asseconda l’acquisizione di familiarità con una materia solo in apparenza accessoria e settoriale.

5. Ancora sul ruolo del Consiglio nella formazione iniziale: brevi notazioni

Dall’informale confronto con una aliquota di Mot é, poi, emerso il sostanziale rispetto delle indicazioni loro fornite dai dirigenti degli uffici di destinazione, in particolare giudicanti (in forza della previsione di cui all’art. 48 della vigente circolare sulla formazione delle tabelle), in merito alle funzioni che, di lì a pochi mesi, sarebbero andati a svolgere, profilo che, in un passato neanche troppo remoto, si era rivelato fonte di disfunzioni, essendo accaduto che magistrati che avevano svolto il tirocinio mirato in determinate materie erano stati, successivamente, destinati a settori della giurisdizione affatto differenti.

Le aree di residuale criticità sembrano riguardare, da un canto, l’assegnazione, nell’ambito del settore civile o, più raramente, penale, ad unità organizzative tributarie di competenze specialistiche anziché genericamente individuate e, dall’altro, alle iniziative messe in campo dai dirigenti a fronte del sopravvenuto mutamento delle condizioni al cospetto delle quali l’indicazione originaria era stata formulata.

Quest’ultimo aspetto rimanda, a ben vedere, alla capacità dei presidenti di prevenire e gestire la circostanza imprevista in maniera tale da contemperare gli interessi concorrenti e, in ultimo, di evitare che gli effetti negativi si concentrino su uno solo dei soggetti coinvolti (di fatto identificato, il più delle volte, nell’ultimo arrivato): argomento, questo, indissolubilmente legato alla vexata quaestio – che esula dall’oggetto delle presenti note ma che, nondimeno, val la pena di evocare – della valutazione delle performance dei dirigenti degli uffici giudiziari e della determinazione delle conseguenze di eventuali loro défaillances.

Quanto alle competenze spettanti a Consigli giudiziari e Csm con riguardo alla selezione dei magistrati chiamati a seguire, quali collaboratori o affidatari[12], i magistrati in tirocinio, va dato atto dell’attenzione riservata ai profili deontologici, che ha, tra l’altro, indotto il Csm ad introdurre speciale criteri nel vaglio dell’incidenza di condanne e pendenze disciplinari[13].

Analoga cura meriterebbe, per come segnalato dal Comitato direttivo uscente della Scuola nella Relazione sull’attività svolta nel quadriennio 2012-2015, la messa in opera del disposto dell’art. 14 del Regolamento sulla formazione iniziale che, invece, secondo quanto confermato dal sondaggio, è rimasto, ad oggi, privo di significativa effettività.

6. La valutazione dei Mot

I giovani magistrati pensano, dal loro punto di vista più che legittimamente, di avere superato un numero finanche eccessivo di esami e valutazioni e manifestano, a tratti, ritrosia a sottoporsi all’ennesimo giudizio; la normativa vigente, d’altro canto, coinvolge – in modo non sempre del tutto lineare – le competenze della Scuola e quelle del Csm.

Se a ciò si aggiunge che la formulazione di giudizi approfonditi trova ostacolo nella brevità del contatto fra i tutori ed i Mot, tale che i primi con difficoltà riescono ad acquisire elementi utili a valutare adeguatamente i secondi, ne discende una evidente standardizzazione delle valutazioni – a fronte della quale, si nota incidentalmente, occorre interrogarsi sulla proporzione tra le energie impiegate e lo scopo raggiunto – che, tuttavia, nella prospettiva dei Mot intervistati, non preclude l’emersione, grazie al continuo e sinergico operare di vari soggetti ed agenzie formative, dei casi problematici e l’apprestamento dei percorsi finalizzati alla loro soluzione.

Più in generale, le resistenze, di ordine culturale prima ancora che psicologico, che una parte dei Mot manifesta davanti alla prospettiva della valutazione vanno lette alla luce del complessivo iter di formazione dei giovani giuristi e di accesso alla magistratura ordinaria che, probabilmente, meriterebbe un profondo ripensamento, a partire dal percorso universitario, a tutt’oggi calibrato essenzialmente sulla dimensione teorica, per finire alla fase della formazione post-universitaria.

A quest’ultimo proposito, deve rimarcarsi come il legislatore abbia proceduto in modo non sempre organico e coerente, privilegiando, dapprima, le Scuole di specializzazione per le professioni legali ed operando, in seguito, una, almeno parziale, virata verso i tirocini formativi, in ogni caso tratteggiando le coordinate di un sistema che, rispetto a quello precedente, sposta in avanti, nella misura di circa 3 anni[14], l’età media di ingresso in magistratura[15].

Non può sorprendere, allora, l’approccio latamente insofferente di neo-magistrati, spesso non più giovanissimi e, al contempo, privi di significative esperienze professionali, cui fa da contraltare quello, più maturo ed equilibrato, di chi, avendo sperimentato diversi – e complessivamente meno gratificanti – ambienti di lavoro, riesce a meglio apprezzare in tutte le sue sfaccettature, il tirocinio iniziale quale irripetibile occasione di crescita ed arricchimento.

7. Un rilievo finale

All’epilogo di questo estemporaneo e sintetico excursus, è maturata l’idea che il successo della formazione dei magistrati, e di quella iniziale in special modo, è indissolubilmente legato alla sua missione, quella di favorire, in uno all’acquisizione ed al consolidamento del confacente bagaglio tecnico, la maturazione della consapevolezza del ruolo che si sta per assumere e delle sue molteplici implicazioni di ordine culturale, sociale, politico.

Sotto questo versante, merita piena condivisione l’assunto di chi rileva come, lungi dal proporre un modello astratto di magistrato, la Scuola deve ispirare alla massima apertura culturale ed ideale la propria attività, conscia che il mito della neutralità è inevitabilmente destinato ad infrangersi contro gli scogli delle scelte di valore.

Per questa via, il tirocinio iniziale deve servire anche a costruire professionalità il più possibile distanti dall’habitus di un magistrato ripiegato su se stesso, privo di curiosità e poco interessato a quello che lo circonda, attento solo alle sue prerogative: obiettivo il cui raggiungimento non può dirsi scontato, a fronte di generazioni cresciute in una temperie talora connotata da sintomi di scollamento con l’architettura costituzionale nella quale si iscrive l’azione, autonoma ed indipendente, della magistratura.

[1] Intendo alludere al pericolo che la stretta relazione tra il tirocinante e l’ambiente locale di riferimento – traducendosi, ad esempio, nell’adesione a prassi non universalmente accettate o anche solo nella fisiologica, ma acritica, assimilazione di metodi di lavoro ed orientamenti dei singoli affidatari – ostacoli il proficuo esercizio, da parte del Mot, delle funzioni giurisdizionali, che non di rado avviene in uffici assai differenti, sotto ogni profilo, da quelli presso cui egli ha svolto il tirocinio.

[2] Val la pena di ricordare, in proposito, che il d.lgs n. 26/2006, nella versione originaria, poi modificata dalla l. n. 11/2007, prevedeva che la sessione semestrale presso la Scuola fosse la prima in ordine temporale e che solo successivamente l’uditore svolgesse il tirocinio presso gli uffici giudiziari.

[3] Sebbene, per completezza, debba aggiungersi che, mentre alcuni stage (in particolare, quelli presso le strutture penitenziarie) hanno avuto contenuto esaustivo dell’intera giornata lavorativa, altri, soprattutto nell’area civile, hanno, invece, impegnato le sole ore pomeridiane e giorni non sempre consecutivi, così da consentire il contemporaneo espletamento del tirocinio negli uffici giudiziari, pure se in un periodo che – per legge – avrebbe dovuto essere “dedicato” alla Scuola.

[4] Si legge nella delibera approvata il 2 luglio 2014: «... La previsione di un periodo di tirocinio di 6 mesi da effettuarsi presso la Scuola, concentrati nella fase del tirocinio generico, su un totale di 18 mesi di periodo complessivo previsto dalla legge, comprime eccessivamente l’apprendistato presso gli Uffici giudiziari, che ha sin qui costituito il valore aggiunto della formazione iniziale dei neo magistrati. Le caratteristiche del concorso in magistratura inducono infatti gli aspiranti a consacrare un tempo significativo alla loro preparazione teorica, che segue gli Studi universitari e la specializzazione post-laurea. Il tirocinio presso gli Uffici giudiziari è, in tale quadro, da privilegiarsi poiché consente di apprendere il mestiere del magistrato e mettere in pratica l’ampio bagaglio teorico conseguito nel corso di lunghi anni di studi. Comprimere di un terzo questo momento centrale, differendo il contatto con la realtà giudiziaria a favore di una formazione effettuata nelle aule della scuola e nei luoghi di stage, rende squilibrato il dosaggio del tirocinio, limitando significativamente e negativamente la possibilità del neo magistrato di apprendere sul campo il “mestiere” al quale è destinato.
In effetti, l’esperienza comparata della formazione iniziale dei magistrati in Europa evidenzia due dati importanti. Il primo è rappresentato dalla durata del tirocinio, significativamente più lunga rispetto a quella prevista dal nostro legislatore. Nelle esperienze straniere, infatti, il periodo di tirocinio non è, mediamente, inferiore ai due anni. Il secondo dato è costituito dalla previsione di un periodo più ampio e continuativo di tirocinio presso gli Uffici giudiziari, nella consapevolezza che esso costituisce il momento qualificante dell’apprendistato…».

[5] In occasione dell’incontro avente ad oggetto Le prospettive della formazione dei magistrati nel quadriennio 2016-2020, svoltosi, alla presenza del Presidente della Repubblica, il 19 febbraio 2016 presso la Sala Conferenze del Csm.

[6] Chi scrive, ad esempio, pur avendo svolto per quasi venti anni funzioni di giudice penale in terra di criminalità organizzata, ha avuto a lungo cognizione del solo ufficio matricola e della stanza dedicata agli interrogatori, ed ha potuto visitare un carcere solo per effetto di una lodevole iniziativa della locale sezione dell’Associazione nazionale magistrati.

[7] Che soffre, come esposto nella Relazione finale del Comitato direttivo uscente sull’attività svolta nel quadriennio 2012-2015, dell’affidamento di notevoli incombenti alle Strutture territoriali (quella che, un tempo, era la “formazione decentrata”), la cui operatività varia da Distretto a Distretto.

[8] Quale quella garbatamente manifestata da una Mot, che si è espressa dubitativamente in ordine alla attitudine formativa dello stage svolto, per una intera settimana, presso l’ufficio di Equitalia ubicato in una città sede di una piccola Corte di appello.

[9] Al quale accenna, con toni icastici quanto calzanti, Matteo Marini in altro intervento pubblicato sul presente numero di Questione Giustizia.

[10] La prova orale del concorso per magistrato ordinario in tirocinio prevede solo, tra le materie oggetto di esame, «elementi di Ordinamento giudiziario».

[11] Si pensi, ad esempio, alle politiche della mobilità, che devono essere attuate tenendo conto, oltre che dei desiderata dei Mot, delle esigenze degli uffici e delle parimenti legittime aspirazioni dei magistrati già in carriera.

[12] Laddove, invece, tutori e docenti sono scelti dalla SSM, sulla quale grava solo un onere comunicativo, funzionale all’apprezzamento, da parte dell’organo di governo autonomo, della sussistenza di eventuali condizioni ostative.

[13] Che danno vita ad un sistema (cfr., tra le altre, le Delibere del 21 dicembre 2011, 27 giugno 2012 e 24 luglio 2014) basato, anziché su preclusioni assolute, sullo iato temporale tra la condanna e l’attribuzione del ruolo di collaboratore o affidatario e, soprattutto, sul giudizio in ordine all’incidenza dei fatti sulla professionalità del magistrato, sui pre-requisiti (equilibrio, indipendenza, imparzialità) e sulla complessiva credibilità del magistrato e il prestigio dell’Ordine giudiziario, giudizio condotto tenendo conto della «gravità del fatto» e della «relazione tra il fatto e la natura dell’incarico», circostanze che peraltro possono motivare la mancata designazione anche oltre i limiti temporali normativamente previsti.

[14] All’innalzamento, da 4 a 5 anni, del ciclo universitario di laurea in giurisprudenza si è aggiunta la necessità di conseguire uno dei titoli di ammissione ai concorsi di accesso in magistratura che, peraltro, mantengono, con qualche preoccupante eccezione, cadenza annuale.

[15] Ciò che, val la pena di notare incidentalmente, sta incidendo sulla composizione, quanto ad estrazione sociale dei suoi componenti, dell’ordine giudiziario, rendendo sempre più difficile, in conseguenza dell’innalzamento dell’età di accesso, quel fenomeno di cd “ascensore sociale” che tanti benefici effetti ha apportato, secondo l’opinione di chi scrive, all’esercizio della giurisdizione.