Magistratura democratica

Giudici, popolo e populismi

di Nello Rossi
Non ci sarà retorica populista che possa far dimenticare ai magistrati italiani che nelle aule di tribunale il giudice ed il pubblico ministero affrontano “casi” e giudicano “persone”, senza che vi sia spazio né per “amici del popolo” sottratti al giudizio in virtù del consenso popolare né per “nemici del popolo” oggetto di aprioristiche condanne popolari.

1. Il populismo e il giudiziario

Il populismo è un fenomeno estremamente variegato, da tempo al centro di complesse analisi degli scienziati della politica e di tentativi di definizione quasi mai appaganti[1].

Sono state queste difficoltà ad indurre più di uno studioso ad optare per il plurale, sostituendo i “populismi” alla categoria unitaria di “populismo” e operando distinzioni non solo tra le diverse versioni del populismo ma anche tra i populismi tradizionali manifestatisi in passato e il nuovo populismo, esploso di recente su scala mondiale[2].  

È a quest’ultima, più recente dimensione del fenomeno ed alla relativa letteratura[3] che si farà principalmente riferimento in questo scritto, richiamando, in termini generali, le straordinarie tensioni che esso sta determinando in ogni ambito della vita economica e sociale e della sfera pubblica e concentrando poi il fuoco dell’attenzione sull’impatto che in Italia il populismo potrà avere sul “giudiziario”.

È facile constatare che nel nostro Paese i magistrati entreranno continuamente in contatto, nello svolgimento del loro lavoro, con le politiche legislative di una maggioranza parlamentare e di un esecutivo che rivendicano apertamente il loro carattere populista.

Pochi e parziali esempi basteranno per dare l’idea dell’ampiezza e profondità di un tale impatto.

Ai magistrati spetterà decidere le inevitabili controversie sul diritto a percepire il reddito di cittadinanza e sulla possibilità di ottenere la pensione alle nuove condizioni fissate dai recenti provvedimenti legislativi.

Saranno i magistrati che dovranno applicare le severe sanzioni per le false dichiarazioni e l’utilizzazione di «documenti falsi o attestanti cose non vere» al fine di ottenere il reddito di cittadinanza o di impedire la revoca o la riduzione del beneficio[4].

Ai giudici toccherà gestire le nuove procedure in materia di diritto di asilo e l’emergenza sociale di una gran massa di immigrati che è illusorio pensare di poter rinviare agevolmente nei Paesi di provenienza – come ha sperimentato il Ministro dell’interno che questo aveva promesso agli elettori in campagna elettorale – ma che è insensato e pericoloso lasciare a vagare nel Paese, senza programmi di insegnamento della lingua, senza alcuna politica di integrazione, senz’altra prospettiva che non sia la disperazione sociale[5].

Ancora: sarà compito dei giudici garantire un carcere nel quale non si “marcisca” e si viva privati della libertà ma non della dignità e di una seria prospettiva di riscatto e di recupero alla società. 

E l’elenco potrebbe continuare, estendendosi ai temi da sempre tormentati del diritto e del processo penale, della sicurezza, del contrasto alla grande criminalità ma anche dell’illegalismo diffuso – che spesso i partiti populisti per spirito demagogico tendono a sottovalutare – di chi si arricchisce non pagando i contributi ai lavoratori, violando le norme sull’edilizia e sull’ambiente, evadendo le tasse[6].

Una vicenda fisiologica, si potrebbe dire, giacché sempre i magistrati sono direttamente chiamati in causa nell’applicazione di nuove normative.

Ma il punto è che un tale intenso “coinvolgimento” avviene in un contesto culturale e politico nel quale i leader populisti affermano incessantemente di essere gli unici e più fedeli rappresentanti della genuina volontà del “popolo” o dei “cittadini” italiani e, in virtù di tale investitura, si dimostrano spesso insofferenti al sistema di limiti, contrappesi e garanzie che caratterizzano il nostro come altri Stati democratici di diritto.

Come ha osservato Marcello Clarich «il populismo nella versione più pura (ideal-tipica) avanza la pretesa di una rappresentanza diretta ed esclusiva del popolo, inteso come categoria astratta»[7]. E l’esaltazione di questo tipo di rappresentanza si accompagna alla svalutazione dei percorsi e dei metodi della democrazia rappresentativa (in favore di forme di democrazia diretta); all’ostilità nei confronti delle élite tradizionali, considerate corrotte e lontane da popolo; alla rilettura del conflitto sociale e politico in chiave di scontro tra amici e nemici (del popolo) piuttosto che di competizione tra avversari.

Operando in questo ambiente politico ed istituzionale – particolarmente problematico come si dirà per la giurisdizione – i magistrati, anche se volessero, non potrebbero rimpicciolirsi, non potrebbero mettersi di lato, schivando problemi e pericoli.

Meglio, dunque, avviare una riflessione aperta e problematica su alcuni aspetti specifici delle politiche populiste ma anche sui tratti generali del fenomeno populista e sulle sue complesse ripercussioni nel nostro ed in altri Paesi. 

Una riflessione da svolgere con la consapevolezza di vivere nel Paese dei due populismi. Una peculiarità, questa, che fa dell’Italia quasi un unicum nel panorama mondiale, giacché sinora solo in Francia si sono verificate convergenze in qualche modo analoghe a quelle in atto in Italia, convergenze peraltro bloccate sul nascere dal sistema elettorale francese.  

Il caso italiano e la singolarità assoluta del populismo double face meriteranno, dunque, considerazioni particolari.  

2. Un fenomeno di portata mondiale

La peculiarità italiana del duplice populismo non deve oscurare il fatto che gli avvenimenti del nostro Paese sono parte di un fenomeno di portata mondiale.

Dopo una lunga incubazione, dopo anni di presenza minoritaria, marginale o folkloristica sulla scena sociale e politica, i movimenti di segno populista sono venuti prepotentemente alla ribalta, con un’accelerazione propria delle fasi storiche rivoluzionarie.

Le più antiche democrazie del mondo, che per secoli abbiamo considerato come esempi e modelli nonostante le loro imperfezioni, hanno decretato la prepotente affermazione di leader e di movimenti populisti e sono percorse da spinte popolari che hanno rimesso in discussione politiche economiche e sociali, alleanze internazionali ed assetti istituzionali consolidati. La presidenza Trump e la Brexit sono questo.

Giovani democrazie, come quelle di molti Paesi dell’Est europeo, dall’Ungheria di Victor Orban alla Polonia, sono state rimodellate nel giro di pochi anni in senso autoritario, nel nome di una democrazia dichiaratamente illiberale, gerarchica, propensa a divorziare dalle libertà e dalle garanzie dei diritti individuali.   

Come estrema convulsione, Paesi che sembravano incamminati sulla via della democratizzazione ed erano considerati esperimenti di positivo connubio tra islamismo e principi democratici sono precipitati nell’abisso di dittature odiose e della repressione più feroce. È il caso della Turchia, dove tra le prime vittime del nuovo corso figurano giudici, avvocati, giuristi.

È doveroso ricordare che si tratta di fenomeni molto diversi tra di loro, che prendono forma e ricevono alimento dalla storia e dalle peculiarità dei Paesi nei quali si sviluppano.

Eppure non è impossibile rintracciare, nelle differenti esperienze, tratti comuni, percorsi ricorrenti, affinità spesso sorprendenti e desideri di imitazione, capaci di dar vita ad una ideologia e ad una prassi del populismo che si insinuano nelle pieghe di società diversissime per storia, cultura, grado di sviluppo economico e tradizioni istituzionali.

È quest’aria di famiglia che, autorizza a porsi, con spirito critico ma senza pregiudiziali, più ampie e comuni domande sul populismo.

Da quale nodo di problemi irrisolti, da quale grumo di ansie, di pulsioni, di sofferenze e di insofferenze scaturisce l’esplosione populista?

Da quale magma sociale nascono le accuse di fallimento e l’ostilità verso la politica tradizionale e le élite, che spesso hanno come paradossale corollario una sorta di generalizzata revoca di fiducia verso la cultura, la scienza, le competenze in nome di una genuina coscienza e volontà popolare?

Ed ancora: il fenomeno populista può condurre ad una divaricazione tra democrazia e il sistema di libertà e di garanzie sinora considerato componente essenziale dello Stato democratico di diritto? C’è, in altri termini, il rischio di una cesura tra democrazia e liberalismo[8]?

Ed infine: a quali nuove tensioni sarà sottoposto il giudiziario, l’istituzione di garanzia per eccellenza, nell’età del populismo?

Sono interrogativi che stanno di fronte ad ogni cittadino attento alle vicende collettive. Ma sono domande ineludibili per magistrati di orientamento democratico.

La magistratura di orientamento progressista ha infatti iscritto l’aggettivo “democratico” nella sua ragione sociale.

Così è per “magistratura democratica” e così è per “area democratica per la giustizia”.

Nel chiamarsi entrambe “democratiche”, queste realtà collettive hanno voluto dire subito, già nel nome, che il rapporto con il demos, il dialogo con il popolo, l’attenzione alle istanze popolari sarebbero  stati la loro stella polare nel pensare i temi dell’assetto istituzionale e della giurisdizione.

Il contrario, dunque, di ogni atteggiamento elitario, di superiorità, di aristocratico isolamento. E nessun desiderio di rinchiudersi di nuovo nella “torre” infranta molti anni addietro contestando l’autoreferenzialità del giudiziario.

Un modo di essere, questo, che dovrebbe porre al riparo da due reazioni molto diffuse nei confronti del fenomeno populista: l’irrisione e l’indignazione.

Intendiamoci: l’irrisione è spesso pienamente giustificata dalla goffaggine di molti leader populisti e dalle loro improvvisazioni. E l’indignazione è sacrosanta di fronte a talune scelte brutali e controproducenti su temi chiave della società, dell’economia, delle istituzioni. 

Ma né l’una né l’altra di queste reazioni, da sole, consentono di capire quello che sta accadendo, entrambe sono cattive consigliere se precludono lo sforzo di comprensione e di immedesimazione necessario per penetrare le ragioni ispiratrici delle pulsioni populiste.

3. Alle radici del populismo: la crisi economico-finanziaria, la crescita delle disuguaglianze, le migrazioni

Con questo spirito di apertura critica occorre ragionare, sapendo distinguere, all’occorrenza, tra le istanze popolari che stanno alla base del populismo e le politiche populiste, tra un “populismo della domanda” ed un “populismo dell’offerta” politica. 

Naturalmente “comprendere” non equivale a condividere o ad accettare, ma resta la premessa di ogni azione, anche della ricerca degli antidoti più efficaci alla possibile deriva negativa di una democrazia priva di adeguate garanzie dei diritti e limitatrice delle libertà.

Sui principali fattori generatori del populismo c’è ormai un largo accordo tra gli analisti, che li individuano nella lunga crisi economico-finanziaria iniziata nel 2007, nella dimensione assunta dai fenomeni migratori, nell’acuirsi delle disuguaglianze sociali.

E i magistrati? Alcuni dei fattori genetici del populismo i magistrati li hanno toccati con mano nella loro esperienza professionale, altri li hanno visti in anticipo e tempestivamente denunciati, mentre altri – occorre ammetterlo – sono stati per loro imprevisti, sorprendenti ed amari.

Sulla crescita delle disuguaglianze sociali i magistrati democratici, in ragione della loro peculiare sensibilità, hanno prima e più di altri concentrato l’attenzione, individuando in essa una mina sociale da disinnescare con politiche appropriate che sono in larga parte mancate[9].  

Inoltre, come operatori delle patologie e sentinelle del disagio, i magistrati hanno “visto” – anche se non sofferto direttamente – la lunga recessione economica che ha scosso tutte le economie avanzate, esercitando una dolorosa pedagogia su piccoli operatori economici, su modesti professionisti e su ampi settori della forza lavoro meno qualificata. 

La cascata di fallimenti e di chiusure di attività imprenditoriali, commerciali e finanziarie ha “rivelato” che l’economia globalizzata non è sempre e comunque un gioco cooperativo dal quale tutti traggono vantaggi ma un’aspra competizione che riserva ai perdenti – a volte intere regioni e settori produttivi – un presente ed un futuro di declino e di marginalizzazione[10].

In definitiva la crisi economico-finanziaria ha finito con lo svolgere il «ruolo di catalizzatore dei tanti motivi di insoddisfazione, da tempo latenti, nei confronti delle politiche liberiste e degli effetti della globalizzazione soprattutto sulle fasce più deboli della popolazione … e le reazioni in vari Paesi hanno portato all’affermarsi di movimenti e partiti di matrice populista»[11].

Nella stretta della crisi e in assenza di poteri pubblici in grado di controllare gli effetti della globalizzazione, i cittadini più svantaggiati di molti dei Paesi più ricchi del mondo si sono sentiti privati delle antiche protezioni e drammaticamente incerti sul futuro di fronte alla crescita delle tecnologie labour saving, alle diverse forme di delocalizzazione produttiva, allo spostamento dei centri decisionali in colossali società multinazionali  o in istituzioni internazionali e sovranazionali connotate da un rilevante deficit democratico.

Ed è in questo contesto, infine, che la crescita delle migrazioni è stata avvertita dagli strati sociali più deboli come una minaccia insieme economica, sociale, demografica e culturale.

E ciò non tanto e non solo sul versante di una – spesso inesistente – concorrenza per il lavoro quanto sul terreno della fruizione dei servizi sociali, delle politiche di sostegno ai meno abbienti, della vasta penetrazione di stranieri in aree del tessuto urbano, dell’alterazione di stili tradizionali di vita.

Senza una credibile e visibile politica di integrazione dei migranti che già si trovano sul territorio nazionale e senza una programmata politica di gestione dei flussi migratori, questa sensazione di minaccia rischia di far ritenere velleitaria e di travolgere brutalmente ogni idea di accoglienza, generando pulsioni e veleni, come la xenofobia ed il razzismo, che credevamo relegati  in un oscuro passato[12].

4. Il populismo non sarà una parentesi

A queste preoccupazioni reali ed angosciose per grandi masse di cittadini, le risposte offerte dai populisti sono apparse tanto più convincenti in quanto presentate come semplici, praticabili, a portata di mano, facilmente risolutive[13]. E comunque le uniche realmente praticabili senza subire l’impasse di estenuanti ed infruttuose mediazioni in ambito sovranazionale o i diktat della finanza e delle potenze economiche operanti a livello globale.

Di qui il successo dell’offerta politica di segno populista in economia, in politica e sul terreno delle misure sociali e per il lavoro.

In economia, la spinta ad un rientro nei confini degli Stati nazione, l’aspirazione a ritornare “padroni in casa propria”, l’insofferenza per uno Stato meramente regolatore[14] e per pubblici poteri incapaci o impacciati nell’intervenire sulle situazioni di crisi economica. Che altro sono le politiche protezionistiche perseguite negli Stati Uniti, l’opzione per il recupero di sovranità nazionale nel Regno Unito, il sovranismo affermatosi in molti Paesi europei, con il corredo di contestazione della Unione europea e della sua funzione regolatrice?

In politica, ci si è trovati di fronte alla riaffermazione dell’identità nazionale di contro alle prospettive di società multietniche e multiculturali ed al ruolo degli organismi internazionali o sovranazionali, tra cui l’Unione europea.

Sul versante sociale, infine, la domanda di protezione economica del lavoro e del reddito è stata indirizzata esclusivamente allo Stato nazionale. 

Sono perciò discutibili ed inappropriate le rappresentazioni unilaterali e talvolta caricaturali del consenso ai populisti che ignorano ogni aspetto strutturale della realtà e si esauriscono nella denuncia di manipolazioni e di operazioni demagogiche, che pure abbondano nell’armamentario populista.

Proprio in ragione delle sue cause strutturali il populismo non sembra destinato ad essere una parentesi, un’ondata che si ritrarrà più o meno rapidamente lasciando riemergere intatto il panorama preesistente.

5. E in Italia? Non uno ma due populismi

E in Italia? In Italia, come si è già accennato, si è di fronte non ad uno ma a due populismi.

Preceduti da una lunga stagione di pre-populismo, di declino o sparizione dei partiti, di trasformazioni della democrazia, di diseducazione alla politica.

Nel vivo delle polemiche politiche quotidiane non si è forse riflettuto abbastanza sul fatto che in Italia, nelle ultime elezioni politiche, i due partiti populisti hanno offerto una risposta alle due domande di fondo che le persone comuni pongono ad una democrazia.

Che cosa chiede, infatti, il cittadino alla democrazia?

Avere la sensazione di poter decidere, attraverso i meccanismi democratici, del destino proprio e della comunità cui appartiene e avere prospettive di un minimo di sicurezza economica e sociale e di miglioramento della propria condizione.

A queste due istanze il populismo di destra ha risposto “sovranismo”, promessa di riduzione del carico fiscale, protezione dei piccoli operatori economici e professionali (il popolo delle partite Iva), accoglimento delle richieste di un’ampia platea di aspiranti al pensionamento.

A sua volta, il populismo left wing ha risposto “democrazia diretta” alla volontà popolare di contare nelle decisioni collettive e “reddito di cittadinanza” alle aspirazioni di protezione economica dei meno abbienti.

In sostanza due vie di uscita diverse dallo status quo, due speranze differenti di cambiamento.  

Naturalmente occorre esercitare l’arte della distinzione tra queste diverse proposte senza mai accomunarle in un unico giudizio.

È infatti sconcertante che una parte della sinistra tradizionale abbia usato, per contestare il reddito di cittadinanza – una misura di politica economica per più aspetti indispensabile e di cui occorre favorire la razionale applicazione – gli stessi argomenti e le stesse “immagini” della destra più conservatrice[15].

Dimenticando, tra l’altro, di aver acriticamente esaltato un’altra misura mirata ad un preciso target elettorale come quella degli “80 euro”, riservata ad una fascia economica intermedia della società e ininfluente sulle forme più estreme di povertà.

Molto si dovrà invece discutere, nel merito, dell’assurda illusione “sovranista” di risolvere i problemi del Paese ponendosi fuori o contro l’Unione europea, offrendo una risposta suicida che nessun deficit di democrazia della attuale Unione può giustificare.

Così come si dovrà affrontare il tema dei limiti invalicabili della democrazia diretta, del suo rapporto con la democrazia rappresentativa e delle materie non sottoponibili a referendum propositivo, prima tra tutte quella penale, a meno di non voler regredire a forme di giustizia di piazza e di persecuzione penale dei nemici del popolo, dei sabotatori, degli untori.

Ma questi ed altri temi cruciali per la collettività, che dovrebbero essere oggetto di una discussione razionale, sono oggi messi in secondo piano dalla circostanza che la diversità radicale delle proposte politiche non implica affatto una inconciliabilità tra i nostri due populismi.  

6. Contraddizioni ed osmosi tra i due populismi

Forse le contraddizioni tra i due movimenti di ispirazione populista sono davvero insanabili, così che si assisterà ad una sorta di resa dei conti tra le due anime del populismo nostrano.

Per il momento vanno però registrati alcuni fenomeni di osmosi.

Osmosi sul versante delle politiche dell’immigrazione. Coincidenze sul terreno delle polemiche contro l’Unione europea, facile bersaglio, paralizzata com’è tra le deliberazioni spesso ininfluenti della Commissione e del Parlamento e i veti degli Stati o del Consiglio dei ministri. Avvicinamenti e compromessi sul piano delle politiche sociali, caratterizzate dalla pura e semplice sommatoria, magari al ribasso, delle proposte avanzate e delle promesse fatte nell’ultima campagna elettorale.

Ed infine sintonie sul terreno del giudiziario dove trovano eguale accoglimento le pulsioni verso un esercizio della giurisdizione ed un governo della pena più duri e sbrigativi, imperniati su soluzioni violente che vanno dall’enfatizzazione della legittima difesa ad una richiesta di certezza della pena che maschera malamente l’aspirazione alla crescita ed alla generalizzazione della sola pena carceraria.  

Si potrebbe dire: populismi diversi ma potentemente accomunati dalla comune matrice  populista, a dispetto delle originarie differenze di cultura e di impostazione.

7. Lo spazio di riflessione dei magistrati

Non è compito dei magistrati dire se questo processo di parziale osmosi e questa combinazione di politiche diverse produrranno effetti economicamente positivi, esiti socialmente più giusti o genereranno nuove crisi e accentueranno un declino economico e sociale del Paese già in atto da tempo.   

In altri termini: non spetta ai giudici, in quanto tali, dire se il 2019 sarà un anno bellissimo o un annus horribilis, oppure pronunziarsi sulle prospettive del Paese, oggi governato da un esecutivo che per bocca del Presidente del Consiglio si definisce populista.

E ciò anche se nessuno può impedire al giudice-cittadino di leggere i dati della situazione economica e sociale del Paese e di farsi un’idea del corso politico imboccato.

Ma è compito dei magistrati ragionare, senza supponenza e senza pretese di superiorità ma con franchezza delle politiche del diritto in atto, della loro rispondenza ai problemi del Paese, della loro capacità di risolvere le questioni aperte o di aggravarle.

Un lavoro di lunga lena che dovrà impegnare competenze e professionalità diverse operanti nei campi del diritto dell’economia, dell’immigrazione, della tutela del lavoro, dell’ordinamento penale e penitenziario, ragionando delle nuove istanze popolari e delle nuove politiche alla luce del dettato costituzionale e dei principi fondanti del sistema giudiziario.

8. Nelle aule di tribunale né “amici” né “nemici” del popolo

Ci sono però aspetti di fondo della politica e della cultura di segno populista sui quali è legittimo e doveroso che i magistrati di orientamento democratico dichiarino, o meglio ricordino, sin da ora la loro posizione.

Il primo è che non ci sarà retorica populista o appello al popolo – e alla sua volontà interpretata dal leader di turno – che possa far dimenticare ai magistrati italiani che nelle aule di tribunale il giudice ed il pubblico ministero si misurano e continueranno a misurarsi con “casi” e con “persone”, accertando fatti, riconoscendo diritti e valutando responsabilità.

Così che non dovrà esserci spazio né per “amici del popolo” che pretendano di sottrarsi alle loro responsabilità in virtù del consenso o dell’investitura popolare né per aprioristiche condanne di “nemici del popolo” che i magistrati dovrebbero limitarsi a ratificare.

Nelle aule di giustizia entrano solo esseri umani, persone con un comune corredo di garanzie e di diritti e non amici o nemici del popolo.

Non è affatto scontato ribadirlo nel momento in cui siamo freschi testimoni di una vicenda – quella dell’autorizzazione a procedere per una ipotesi di reato ministeriale formulata nei confronti del Ministro dell’interno – che, per il modo in cui è stata affrontata, è riuscita a mortificare insieme il ruolo del Parlamento e del giudiziario.

Una constatazione, questa, che può essere fatta prescindendo dal “merito” della questione giuridica, che resta difficile e controversa, come, se non altro, testimonia la diversità di posizioni assunte da differenti organi come la Procura della Repubblica di Catania e il Tribunale dei ministri.

Il punto è un altro: affidare ad una consultazione telematica di persone “ignare” dei dati di fatto un giudizio delicato e cruciale come quello sulle condizioni per l’autorizzazione a procedere ha significato in un colpo solo svilire il compito dei parlamentari, chiamati a decidere in scienza e coscienza, ed affermare un temibile principio: che sulle questioni di giustizia si può deliberare e decidere senza conoscere.

Due ferite che ogni persona ragionevole dovrebbe considerare molto gravi per lo Stato di diritto e che è stato folle definire, come pure è avvenuto , una “vittoria della democrazia”.

Neppure è superfluo negare ingresso nella giurisdizione alla categoria degli amici del popolo quando – senza reazione alcuna del Governo e del Ministro della giustizia – si assiste a manifestazioni di protesta anche violenta contro decisioni delle Corti alle quali si addebita di non essersi allineate ad un verdetto popolare già scritto.

9. I giudici nella società delle molte minoranze

Il secondo punto di principio da riaffermare è che, in conformità al ruolo loro assegnato dalla Costituzione, i magistrati saranno chiamati a garantire le libertà ed i diritti fondamentali degli appartenenti alle molte minoranze, per così dire trasversali, che compongono una società che resta pluralista ed articolata come quella italiana.

Libertà e diritti fondamentali non possono essere compressi o negati né in nome del popolo-nazione, inteso come un tutto organico plasmato dalla storia o dalla tradizione, né in nome della “volontà generale”, comunque rilevata o registrata.

Troppo spesso, nella teoria e nella prassi del populismo si sostiene la primazia assoluta ed indiscutibile della volontà del popolo, interpretata dai capi, non temperata da diritti e libertà individuali e destinata a non subire impacci o limiti che non siano letti e condannati come il frutto di resistenze di privilegiati, di manovre antipopolari, di macchinazioni e di complotti.

In questa impostazione c’è evidentemente un pericolo grande per il libero ed imparziale esercizio della giurisdizione e per tutti coloro che, con diversi ruoli, operano nel giudiziario.

Ma vi è anche un’insidia estrema per lo stesso Parlamento, come la prima fase della esperienza populista sta dimostrando, e per altre istituzioni decisive per la vita democratica: la libera stampa, le autorità indipendenti, le istituzioni tecniche, le burocrazie neutrali, tutti coloro che servono la Repubblica e non il Governo di turno e meno che mai i capi populisti.

Questi rischi sono destinati a crescere in modo esponenziale se e quando alcune facili ricette populiste urteranno contro la realtà.

Allora, se non prevarrà la ragione, non si cercheranno le cause degli insuccessi ma i sabotatori, i traditori del popolo.

Ed anche i magistrati potranno essere annoverati, per il solo fatto di fare correttamente il loro mestiere, tra coloro che intralciano e ostacolano la realizzazione della volontà popolare.  

Occorrerà ribadire, anche nel vivo delle più aspre polemiche, che l’esistenza di uno “scarto”, di una divaricazione tra le decisioni dei giudici e il sentire popolare non è un segno di ostilità politica ma piuttosto un’evenienza che l’ordinamento considera possibile e per più versi fisiologica.

Da un lato, infatti, l’esperienza giudiziaria mette il magistrato di fronte alle differenze individuali e gli ricorda che esistono i variegati ruoli sociali, le diverse culture, le personalità, l’infinita varietà delle vicende della vita reale, mettendolo in guardia contro ogni astrazione totalizzante, sia essa rappresentata dai desiderata del popolo nazione o da una presunta volontà generale.

Giudicare è, in ultima istanza, un’arte del particolare che consiste nel dire in concreto come la miriade di fattori racchiusa in ogni caso giudiziario possa essere ricondotta ed inquadrata nei precetti generali fissati dal legislatore.

Dall’altro lato la possibilità di una distonia è anche la ragione fondante della indipendenza e dell’imparzialità del giudiziario giacché l’ordinamento chiede al magistrato di lasciar fuori dalla porta, cioè fuori dal suo campo di analisi e di giudizio, tutte le contingenti pressioni esterne nascenti dalle pulsioni della cangiante e mutevole opinione pubblica. 

È questo che ci ricorda Luigi Ferrajoli quando afferma che i diritti fondamentali della persona sono «diritti universali …. virtualmente contro le maggioranze e i poteri di maggioranza» e che perciò «anche le funzioni e le istituzioni deputate alla loro garanzia devono essere virtualmente contro le maggioranze»[16].

Il giudice è dunque una sorta di vivente antidoto contro ogni pretesa di segno populista di condizionare impropriamente la giustizia e le altre istituzioni di controllo e di garanzia. E tale dovrà rimanere anche nella stagione del populismo trionfante.

10. I punti di forza della giurisdizione

Si può confidare che i punti irrinunciabili del mestiere del giudice saranno anche i punti di forza della giurisdizione e di quanti la esercitano.  

La società delle molte minoranze, che nel giudice ripongono la loro unica speranza; il movimento dei lavoratori nella sua ritrovata unità; la rete pluralistica della società italiana che non accetta di farsi omologare e travolgere nell’indistinto universo populista: queste ed altre realtà collettive saranno il sostegno sociale necessario – insisto “necessario” – alla giurisdizione ed alla magistratura per non farsi snaturare e continuare ad assolvere alla loro funzione in un futuro che si preannuncia difficile.  

Se e quando non basterà citare norme, anche delle leggi più alte, invocare Carte, Convenzioni e precedenti, ricordare gli insegnamenti dei Maestri per far vivere la ragionevolezza del diritto dovrà essere la società che ha bisogno del giudice a proteggerne la funzione, come altre volte è accaduto in passato nei momenti cruciali della storia del Paese.

L’altro punto di forza sarà l’unità interna della magistratura.

Unità della magistratura nel suo complesso, da ribadire dopo che è stata incrinata con incredibile leggerezza da chi ha dimostrato di usare strumentalmente l’associazionismo dei magistrati e da rivendicare sulla base della storia e dei principi dell’associazionismo, anche polemizzando apertamente con chi sembra oggi propenso a svendere questo patrimonio. 

Ma, prima ancora, unità della magistratura di orientamento democratico e progressista che deve essere preservata con un quotidiano esercizio di pazienza ed a prezzo di ogni fatica.

Questa unità, infatti, non è solo un bene prezioso per i magistrati di orientamento democratico ma è, in un certo senso, un bene collettivo che appartiene all’intero mondo del lavoro e delle classi svantaggiate, agli ultimi nella scala sociale ed all’opinione pubblica democratica del Paese.

[1] Nel mondo anglosassone la riflessione sul populismo aveva preso avvio nell’ormai lontano 1968 ad opera di pensatori che già allora avvertivano l’esigenza di analizzare e definire il fenomeno. Si vedano al riguardo gli scritti di Iasaiah Berlin, Richard Hofstader e D. MacRac, To define populism , pubblicati nel 1968 nella rivista  Government and Opposition ed il volume collettivo a cura di Ighita Ionescu e Ernest Gellner, Populism . Its Meaning and National Characteristics, London, 1969 Weidenfeld & Nicolson.

[2] In questi termini Marco Revelli, Populismo 2.0. Einaudi, Torino, che propone di parlare «più che di populismo al singolare di populismi al plurale, data la molteplicità di esperienze che stanno al di sotto del termine» e pone l’’accento su di un populismo di nuova generazione, dai caratteri in parte inediti che chiama appunto «populismo 2.0» (op.cit. p. 3).

[3] In quest’ambito vanno segnalati in particolare due studi recenti ai quali si farà più volte riferimento: Roger Eatwell e Matthew Goodwin, National Populism:The Revolt Against Liberal Democracy, English Edition, Pelican Books  e Yascha Mounk, The People vs. Democracy: Why Our Freedom Is in Danger and How To Save It , English Edition.

[4] L’art. 7 del decreto legge 28.1.2019, n. 4 (al momento in cui si scrive ancora in attesa di conversione) prevede la reclusione da due a sei anni per «chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio» del reddito di cittadinanza «rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute».

È inoltre punita, con la reclusione da uno a tre anni anche «l’omessa comunicazione», entro i termini previsti dalla legge, «delle variazioni del reddito o del patrimonio …. nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio». Graverà dunque sulla polizia e sulla magistratura un compito assai arduo, data l’ampiezza della platea dei destinatari e le difficoltà di scoperta e di accertamento dei reati in questione, mentre, senza mettere in conto queste obiettive difficoltà, la maggioranza parlamentare rappresenta le sanzioni penali come la più sicura garanzia di correttezza delle modalità di erogazione e fruizione del reddito di cittadinanza.

[5] Su questi temi, oggetto della costante attenzione di questa Rivista, cfr. nella Rubrica Diritti senza confini, Gabriele Serra, La Corte di cassazione e l’irretroattività del dl 113/2018: tra decisione annunciata e spunti interpretativi futuri sul permesso di soggiorno per motivi umanitari, ww.questionegiustizia.it/articolo/la-corte-di-cassazione-e-l-irretroattivita-del-dl-_24-02-2019.php; Gaetano Azzariti, A proposito della nuova normativa in materia di migrazioni: le incostituzionalità non discusse, www.questionegiustizia.it/articolo/a-proposito-della-nuova-normativa-in-materia-di-migrazioni-le-incostituzionalita-non-discusse_18-01-2019.php; Daniela Consoli e Nazareno Zorzella , L’iscrizione anagrafica  e l’accesso  ai servizi territoriali dei richiedenti asilo ai tempi del salvinismo, www.questionegiustizia.it/articolo/l-iscrizione-anagrafica-e-l-accesso-ai-servizi-territoriali-dei-richiedenti-asilo-ai-tempi-del-salvinismo_08-01-2019.php.

[6] Sulle forme di illegalismo diffuso come fonte di ricchezza illecita e di disuguaglianze occorrerà, ad avviso di chi scrive, sviluppare una riflessione non settoriale e non episodica che dimostri la fallacia e l’arbitrarietà dell’approccio riduttivo al fenomeno di ampi settori del mondo politico. Basterebbe, al riguardo, compiere un raffronto tra due cittadini, il primo dei quali rispetti le leggi mentre  il secondo ometta di pagare i contributi ai suoi dipendenti, ponga in essere violazioni edilizie ed evada “moderatamente” i suoi obblighi tributari . Al termine di un congruo periodo di osservazione si vedrà che il divario di ricchezza tra i due soggetti sarà divenuto notevolissimo e per più versi incolmabile.

[7] Così, Marcello Clarich, in Populismo, sovranismo e Stato regolatore:verso il tramonto di un modello? Editoriale della Rivista della Regolazione dei Mercati, n. 1/2018 www.rivistadellaregolazionedeimercati.it/index.php/indice-1-2018/editoriale-1-2018.

[8] Significative al riguardo le considerazioni di Yascha Mounk, The People vs.Democracy, op. cit. pag. 5: «Liberalism and democracy, we have long thought, make a choesive whole. It is not just that we care both about the popular will and the rule of law, both about letting the people decide and protecting individual rights. It’s that each component of our political system seems necessary to protect the other. There is indeed good reason to fear that liberal democracy cannot survive if one of its elements is abandoned».  

Due osservatori non antipatizzanti del populismo come Roger Eatwell e Matthew Goodwin, in National Populism:The Revolt Against Liberal Democracy,op. cit. p. 47, affermano che «populism ….is a response to contradictions within liberal democracy, wich on the one hand promises “redemptive” rule by the people, but which in practice is increasingly based on “pragmatic” and technocratic competing elites whose values are fundamentally different from many of those they govern».

[9] Basterà ricordare al riguardo che il congresso di Bologna di Magistratura democratica del 2016, ai cui Atti, pubblicati nel n. 2 del 2017 di questa Rivista si rinvia, www.questionegiustizia.it/rivista/2017-2.php, è stato imperniato proprio sul tema delle disuguaglianze economiche e delle loro profonde ripercussioni in ambito sociale ed istituzionale.

[10] Marco Revelli, in Populismo 2.0, op. cit. offre una accurata analisi delle aree geografiche e sociali che negli Usa hanno decretato il successo elettorale di Donald Trump (Cap. 4, The apprentice) e nel Regno Unito l’affermarsi del Leave nel referendum che ha sancito la separazione dall’Unione europea (Cap. 5, Europa infelix-Brexit).

[11] Così, Marcello Clarich, in Populismo, sovranismo e Stato regolatore:verso il tramonto di un modello? op. cit..

[12] Sul tema dell’hyper ethnic change si soffermamo gli autori di National Populism: The Revolt Against Liberal Democracy, op. cit. pp. 133 e ss. secondo i quali «it is important not to understimate the tensions to which the immigration gave rise, especially when the numbers of incoming migrants were high and the pace of change rapid. Even in the US, the land of melting pot, the epicentre of multicultural immigration, successive waves of immigrants, even European Christians, have long faced a hostile and even dangerous reception».

[13] Su questo aspetto si sofferma Yascha Mounk, The People vs.Democracy, op. cit. p. 9, rilevando come i leader populisti «claim that the solutions to the most pressing problems of our time are much more straightforward than the political establishment would have us believe, and that the great mass of ordinary people istinctively knows what to do».

[14] Sulle complessive difficoltà dello Stato regolatore in un contesto di segno populista si sofferma, con acute osservazioni, Marcello Clarich, Populismo, sovranismo e Stato regolatore:verso il tramonto di un modello?, op. cit.

[15] Sul punto si rinvia alle interessanti considerazioni svolte da Giuseppe (Papi) Bronzini nel libro Il diritto ad un reddito di base. Il welfare nell’era della innovazione, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2017.

[16] Luigi Ferrajoli, Giurisdizione e consenso, in questa Rivista, edizione cartacea, Milano, Franco Angeli, n. 4/2009, www.francoangeli.it/riviste/Scheda_Rivista.aspx?IDArticolo=37314, vedi anche in www.paroledigiustizia.it/archivio_interventi/intervento1.pdf, p. 6.