Magistratura democratica

Crisi del costituzionalismo politico e qualche domanda sul futuro dell’Europa

di Biagio de Giovanni
La crisi del costituzionalismo politico colpisce la democrazia rappresentativa e determina il ritorno ad una nozione identitaria di popolo. A questo stato di cose bisogna opporre la grandezza culturale del progetto europeo, per quello che è e per la potenzialità che contiene, lavorando intensamente a una seria Mediazione tra territorialità e cosmopolitismo, tra nazionale e sovra-nazionale.

1. Si può stabilire un’equazione che può essere formulata così, con buona probabilità di toccare il nervo centrale degli accadimenti che ci circondano: il populismo irrompe, nelle sue varie forme, quando entra in crisi il costituzionalismo politico che riusciva a integrare il popolo nell’ordinamento giuridico-sociale. Lì è il suo punto di origine attuale. Il saggio di Enrico Scoditti (Populismo e diritto. Un’introduzione, in questo fascicolo), che fa da riferimento essenziale della nostra comune riflessione, può essere sintetizzato da questa proposizione centrale. È dunque in essa che si deve provare a scavare, scegliendo una direzione di analisi. La crisi del costituzionalismo politico nasce e si definisce nelle sue varie forme, legate anche a diverse specificità storiche, quando il popolo non si lascia più costruire all’interno di una dimensione politico-costituzionale, ma, liberandosi da essa, torna in campo con la pretesa di una sua identità originaria, innocente, che tutto fa e tutto disfa, legittimato dal proprio interno, nella propria dimensione etnico-culturale, un’immediata originarietà che dà al suo nome compattezza, omogeneità, senso di un destino, immagine di una sovranità riconquistata. Da qui la rottura del rapporto tra popolo e diritto, che si mostrano come due entità estranee, incomunicabili, in grado di mettersi alle spalle il risultato di un’epoca, se l’ordinamento giuridico della storia contemporanea – quella che si distende soprattutto dal secondo dopoguerra in poi – ha segnato, nell’Occidente europeo, la consistenza di una civilizzazione democratica, nascente da una connessione profonda tra politica e ordinamento giuridico, ed è proprio essa in discussione nella sua radice. Molte sono le vie di analisi che si possono scegliere per contribuire a una riflessione che parta da qui. Quella che a mio avviso si deve evitare è la via guidata da una idealizzazione del passato, dal momento che quel passato non è destinato a tornare, e ogni tentativo di farlo tornare attuale, nella riflessione o nell’iniziativa politica, è destinato a rinfocolare e rafforzare proprio quell’idea di popolo che si vuol contestare e combattere.

 

2. Che il costituzionalismo democratico dei tempi appena trascorsi non possa tornare attuale, nella forma che abbiamo conosciuto e vissuto, è proprio la forza del populismo, la ragione principale della sua diffusione, per cui se dovessimo battere su quella possibilità per ricostruire, muovendo da lì, un ordine rinnovato, non faremmo altro che rimotivare il populismo, dargli una forza di resistenza forse superiore a tutto quello che dal punto di vista indicato gli si può opporre. Per dirla ancora più in breve: non gli possiamo opporre ciò che è stato, o meglio l’idealizzazione di ciò che è stato, senza correre il rischio di una reazione ancora più violenta, non in pagine scritte, ma nascente da un rancore profondo e mobilitante verso il mondo di ieri. E dico questo, spostando l’accento al riferimento a una violenza in atto, perché l’era emergente del populismo ha con sé la forza di chi nega le distinzioni, e la sua reazione, verso il mondo che fu, è intrisa di violenza, di linguaggio della violenza, non ha dalla sua l’interesse all’argomentazione, ma ad ogni parola riflessiva oppone il suo nuovo lessico fatto di irrisione, perentorietà, distruzione del linguaggio del nemico, e poi magari annientamento del nemico come tale, sommergere sotto i suoi colpi la vecchia ragion politica. Proprio la ragione che voleva distendere la sua ala sul nuovo mondo in formazione. Si è rotto il rapporto tra quella ragione e il mondo, sia nel contrasto direttamente politico sia nello sforzo di fondare culturalmente la ragion politica. Bisogna trovare una via d’uscita che non può ripetere il passato, anche perché tutto ciò che finisce ha qualche ragione per finire, fine, dunque, che può esser legata allo scioglimento di una mediazione ed a una nuova forma di contrapposizione tra i suoi termini.

 

3. Due veloci esempi europei per provare a specificare questa linea di analisi. Gli esempi provengono da due filosofi, Jurgen Habermas e Jacques Derrida. Il primo, ricordato anche nel saggio di Scoditti, provò per un lungo periodo a legittimare la democrazia sovranazionale europea con la celebre formula del “patriottismo costituzionale”, che voleva indicare nella costituzione materiale post-nazionale europea la nuova fonte di legittimazione in grado di ridar respiro e forma allo spazio europeo, tenendo a bada, se così si può dire, il possibile ritorno del vecchio coacervo nazionalista. Che però è tornato, e Habermas è stato costretto a ripensare il suo principio in una direzione che qui non si può approfondire, ma che ha tutto l’aspetto di una ritirata verso formule più evasive. Jacques Derrida, dal canto suo, nel 1992, dinanzi a quella che apparve come la riunificazione del continente Europa, scrisse di un ritorno dei tre principii fondativi di Europa: Atene, Roma, Gerusalemme, tre capitali che nel loro insieme e nella loro diversità avrebbero dovuto sintetizzare lo spirito della nuova Europa finalmente unita. Guardiamoci intorno e giudichiamo. In fondo, viviamo tra le macerie tronche e slogate di quei tre principii. Che cosa formavano i pensieri di queste filosofie? Un tentativo di alta pedagogia che, nel costituirsi delle nuove frontiere, ne intendeva fornire e delimitare il significato mentale, spirituale, richiamando radici e lavorando a nuove forme di legittimazione che le comprendesse. Quei tre principii indicavano la forma di un possibile ritorno dell’Europa-mondo, di una Europa accogliente e riflessiva, e val la pena di ricordare un passo di Derrida: «dobbiamo fare i guardiani di una idea di Europa che consiste per l’appunto nel non rinchiudersi sulla propria identità e nel farsi avanti esemplarmente verso ciò che essa non è, verso l’altro capo o il capo dell’altro … nel cercare di inventare un altro gesto, un lungo gesto davvero, che presupponga la memoria proprio per conferire l’identità a partire dall’alterità». Tutto in rovina, oggi.

 

4. Tutto, o quasi, può essere attribuito alla crisi del costituzionalismo politico nel senso prima definito. Alla sua capacità di sintesi dei contrari. Si sciolgono quei contrari che tenevano insieme la democrazia politica e la vivevano come democrazia rappresentativa o liberale. Nel cuore del XX secolo si era riusciti a costruire una ragion politica, quella che Scoditti sintetizza con grande efficacia nell’idea di un “popolo” costruito attraverso la sintesi tra politica e diritto, nell’equilibrio raggiunto tra potere costituente e potere costituito, o se si preferisce tra Vita e Forma, il tema che era stato vissuto drammaticamente nella prima metà di quel medesimo secolo. Perché i contrari, non più capaci di Mediazione, si sono sciolti? Se non muoviamo dal tentativo di rispondere a questa domanda, non risulterebbe argomentato ciò che ho detto all’inizio, inutile immaginare un ritorno al passato. La questione è estremamente intricata e si può solo tentare di scoprirne qualche elemento, sempre col rischio che, risolto un interrogativo, ne sorgano altri sgorganti dalla medesima risposta all’interrogativo proposto.

 

5. La crisi del costituzionalismo politico è dovuta alla rottura del rapporto esclusivo tra Stato-nazione e democrazia politica: questo è l’orizzonte d’insieme che contiene il tema. L’impossibilità di mantenere quel nesso esclusivo, consolidatosi in Europa in una storia lontana, fu dovuto all’espansione accelerata dei confini del mondo soprattutto a partire dal 1989, data periodizzante, essendo la data che segnò la fine del 1917, l’anno che ha condizionato l’intera storia del Novecento. E su questo non aggiungo altro. Si assisté all’allargamento dei confini, sempre più in là, furono gli anni in cui, non per caso, si programmò l’unificazione dell’Europa, di quella Europa che, secondo Derrida, doveva anche guardare fuori di se stessa, conquistando una nuova centralità nel mondo. Lo sforzo fu di unificare tutto quanto più possibile verso l’alto. Gli elementi dell’unificazione erano quelli dati, che andavano espansi. L’Europa volle chiamarsi “potenza civile” nuovo modello di integrazione per il mondo. Ma mentre era possibile, non dico facile, e tutt’altro che compiuto, portare verso l’alto la Forma, comprendendo in questa espressione istituzioni di varia natura, dal mercato, che diventava comune, alle istituzioni politiche sovranazionali (la Commissione, anzitutto), al Parlamento europeo, non ugualmente facile era comprendere, in questo trasporto verso l’alto, la Vita, o se si può dir cosi, il “popolo”. Si è delineata una contraddizione all’interno di un grandioso laboratorio istituzionale.

 

6. Si interrompeva un legame consolidato che aveva prodotto sia realtà sia pensiero, si incrinava il costituzionalismo politico. Si percepiva, voglio aggiungere, l’impossibilità di continuarlo così com’era, nello spazio dell’integrazione, e si creava un vuoto entro il quale ritornavano attuali i rapporti di forza tra gli Stati. So di rappresentare così una vicenda complicata con grande semplificazione, ma forse nella sua rete resta l’essenziale, o almeno a me così pare. Da quel momento, e lungo qualche decennio, si è andato rompendo il circolo virtuoso tra politica e diritto, e il “popolo” ha incominciato a precipitare nell’immediato. Il Parlamento europeo non riusciva a esercitare il ruolo di polo democratico unificante. Non entro qui nella rappresentazione di situazioni più determinate, come pure sarebbe interessante fare, e mi riferisco a quanto abbia pesato, nel delineare gli effetti indicati, soprattutto dopo l’unificazione della Germania, l’ampliarsi delle distanze politiche e soprattutto economiche tra le forze dei vari Stati-membri. Ma il dato unificante è quello indicato, che mostra il vuoto che si apriva davanti a categorie di comprensione consolidate. Il colpo decisivo veniva dato alla democrazia rappresentativa, giacché proprio questo effetto si disegnava come il più evidente. L’alto e il basso si andavano dividendo. Non solo in Europa, in tutto il mondo occidentale, soprattutto a partire dalla crisi del 2008, e dire questo (che resterà quasi un inciso) sta a mostrare la straordinaria ampiezza e profondità del fenomeno, scandito nelle diverse situazioni in modo diverso, naturalmente. L’Occidente, nel mondo nel frattempo diventato globale, non era più il centro di tutto, gli effetti erano patenti, esso si guardava smarrito dentro di sé. Un effetto diffuso è nell’estendersi progressivo e sotto i colpi della crisi economica del 2007, del campo delle democrazie illiberali, quelle fondate, per dirla in breve, sull’omogeneità di un popolo originario.    

 

7. Il rapporto tra politica e diritto è al cuore del saggio di Scoditti. Il patriottismo costituzionale di Habermas aveva tradotto in forma nobile e “costituzionale” il principio più prosaico del primato del diritto comunitario, che intanto scardinava il sistema tradizionale delle fonti del diritto: il potere legislativo nazionale perdeva la sua centralità. Si delineava lo scontro-incontro fra tre poteri, quello concentrato nel diritto dell’Unione, e più in generale nella costituzione materiale dell’Unione, quello afferente al potere costituzionale nazionale, quello proprio del potere legislativo di ogni Stato, con varie Corti destinate a sovraintendere ai vari grovigli che si potevano delineare in questa situazione. La sensazione che si è potuto avere in basso è che la moltiplicazione delle protezioni non andasse a vantaggio della certezza del diritto, che l’incrinatura delle frontiere giuridiche diluisse, invece di estendere, la protezione dei diritti, soprattutto dei diritti sociali acquisiti, quelli che avevano contribuito in modo si può dire decisivo alla costruzione giuridica di un popolo, per dirla proprio con espressioni di Enrico Scoditti. Come in tutti i periodi di transizione, quando il vecchio muore e il nuovo non riesce a nascere, si creano reazioni anche regressive e fenomeni morbosi.

 

8. Frontiere giuridiche incrinate, ma non solo quelle. Frontiere mentali, geografiche, spaziali. Nel momento in cui tutto si apre, ma nella permanente incertezza delle frontiere comuni, per reazione tutto tende a chiudersi su se stesso, come una sorta di atto di difesa. Se si chiude tutto si è più sicuri, si può tornare a gustare il sapore della propria terra. Ma con un particolare di non poco conto rispetto al passato, che chiudendosi nel proprio recinto non si trova più l’insieme delle relazioni consolidate nel passato, si trova uno spazio più vuoto perché le mediazioni nel frattempo stanno provando a spostarsi verso l’alto. Il popolo si sente solo, ma proprio per questo anche padrone di sé e della realtà che lo circonda. Da qui nasce lo schifo per le élites che, nella sua immaginazione, lo avevano, a un certo punto, trascinato in un mondo non suo, dove non si ritrovava, dove non ritrovava il ben noto sapore della vita, insomma lo avevano tradito, meritano ora la gogna più che fondata verso color che sanno. Il “popolo” solo, immediato, identitario, che prima ascoltava il linguaggio degli altri, giacché, bene o male, ne avvertiva il potenziale di civilizzazione che esso possedeva, ora non più, ora deve parlare con la propria lingua, che non può essere che semplice, assertiva, violenta, irridente, una lingua che deve infierire sui nemici che il popolo crede di star vincendo.

 

9. Esso non sa, però, che sta per affacciarsi su un abisso, forte però della crisi profonda del mondo nel quale era stato sottoposto a un forte e immanente processo di civilizzazione. Qui la sua ragione di vita, qui la ragione del suo ritrovarsi nel proprio recinto, chiudendo a chiave le frontiere, finalmente sicuri, chiudo i porti, costruisco i muri, isolo i migranti, sono sovrano, spendo come voglio, che di meglio? Infine farò un cenno al caso italiano, ma non ci accorgiamo che la sintesi velocemente disegnata racconta uno stato d’animo che attraversa una parte assai larga dell’Occidente? Ormai sulle due rive dell’Atlantico? Che ha toccato perfino l’Inghilterra di Westminster, la quale decide del suo destino con un atto semplice e immediato di democrazia diretta? E che Trump si gioca molto, proprio molto, sulla costruzione del muro con il Messico? Di sicuro una via di analisi che consente di afferrare l’orizzonte complessivo dove tutto ciò sta accadendo, è la crisi dell’Occidente come ex-centro del mondo, l’Occidente che ha “inventato” la globalizzazione e ora ne subisce i contraccolpi. Rileggere Spengler con gli occhi di oggi, qualche spunto si trova tra le nuvole di un pensiero mitico.

 

10. Ma torniamo all’Europa. Si può creare un corto circuito tra il popolo immediato e un vuoto che si spalanca sotto i suoi piedi. Si tratta di analizzare alcuni passaggi e poi l’insieme che si disegna. Intanto, il contrasto tra la dimensione “materiale” e tutto ciò che ne resta fuori, e non trovo una parola sola per rappresentarlo. Il popolo immediato è materialista volgare, vive così la sua immediatezza, la chiusura fisica delle frontiere ne è un simbolo, come un simbolo ne è il razzismo strisciante e la xenofobia conclamata, ma a un tempo quello stesso popolo immediato vive in connessione più o meno virtuale con il mondo. Prima di ogni analisi, questa cosa sta a indicare che l’immediatezza identitaria è contraddetta in se stessa dalle modalità per le quali il mondo oggi si chiama “mondo” ed entra nella vita d’ognuno. Insomma, non lo puoi togliere, il mondo virtuale-reale, il che indica, in massima sintesi, che, per quanto sicuro nel tuo recinto, il mondo continua a fibrillare all’esterno, e ti penetra, lo si voglia o no. Si sentirebbe il bisogno di una Mediazione, cercare di mettere insieme le cose, ma è proprio la Mediazione che traballa, si è visto, e il popolo identitario non la vuole, rifiuta ogni elemento che voglia allontanarlo da una separata dimensione etnico-culturale, una situazione che descrive l’immagine della sua immediatezza pre-giuridica. Ha ragione Scoditti che parla di un’idea di riscatto sociale immanente al “popolo” come tale. Esso si forma e si inventa in questo immediato, intorno però non c’è più niente che lo formi, che lo faccia muovere nelle complesse mediazioni che ci sono, ma che lui vede come vincoli esterni, nemici e arbitrari, l’egemonia delle banche, della finanza, della burocrazia, della tecnocrazia globalizzata, dei poteri forti, espressione, quest’ultima, che apre ogni porta e ottunde l’intelligenza.

 

 

11. Se fosse localizzato in un punto del mondo, il populismo sovranista sarebbe un fenomeno da analizzare come una curiosità, con una lente particolarmente capace di ingrandire, che ti mostrerebbe un brulichio inconsulto sotto l’egida di un insetto più grande degli altri, ma il fatto è che locale non è, tutt’altro, sta dappertutto, e manifesta da noi un formidabile elemento di disgregazione dell’Europa integranda, che potrebbe ridursi a un pulviscolo di Stati senza un centro capace di governo. Giacché se prevale il principio che ognuno basta a se stesso, è facile immaginare la conseguenza: ogni sovranismo diventa nemico dell’altro, rinnovandosi, in una situazione tutta diversa, quanto avvenne negli anni della Grande Trasformazione, allorché, tra 800 e 900, al già tendenziale cosmopolitismo dell’economia e del commercio, si contrappose l’arcigno potere degli Stati-nazione. Allora la conseguenza fu la guerra. Pagine fondamentali su questo tema nei Quaderni di Antonio Gramsci.

 

 

12. In Europa e in Italia, lo dicevo citando Scoditti, tutto il fenomeno prende forma dalla crisi del costituzionalismo politico. Ora bisogna lavorare un po’ sulle categorie. Per costituzionalismo politico, val la pena di ribadirlo, si intende il costituzionalismo capace di interiorizzare la dimensione sociale, di avviare un processo di civilizzazione, di addomesticamento dell’aggressività, di esercitarsi nella capacità di far sì che il popolo sia costruito dalla politica e non ne sia un presupposto immediato e identitario, con gli effetti brevemente indicati. Una sintesi tra calore identitario e freddezza dell’ordinamento giuridico, utilizzo letteralmente espressioni contenute nel saggio di Scoditti che pone al centro di questo processo di civilizzazione i partiti del 900 e, in esso, le Costituzioni italiana e tedesca. Non si tratta, mi pare, di nessuna idealizzazione, ma della rappresentazione del dato che prevalse e intorno al quale si svolse la storia della modernizzazione italiana ed europea, con tutte le specificità significative, che lasciamo da parte.

La conclusione è segnalata così: capacità, in questa fase storica della politica, di mediare tra questione sociale e questione identitaria, riuscendo a incorporare il popolo nel diritto attraverso la costruzione di un indirizzo politico, a voler fare un riferimento più teorico, elaborando il concetto di “costituzione materiale” inventato da Costantino Mortati. La crisi giunge quando la politica perde la capacità di formare il popolo. Quando si giunge a questo, il popolo pretende di formarsi da sé, nel chiuso della propria identità etnico-culturale, immaginando così il pieno recupero della sua sovranità. Ecco il nodo di oggi. Non è bastato l’ordinamento comunitario «come fattore di mitigazione del principio di identità». Anzi. È avvenuto il contrario, aggiungo, è la sua necessaria avanzata, dopo il 1989, ad aver progressivamente separato il popolo dall’ordinamento, dopo ondeggiamenti vari, che producevano differenti effetti politici, complice alla fine la grande crisi del 2008. Ora questa separazione è accaduta. Limiti ed errori di un grande laboratorio? Non azzardo sinteticamente nessun giudizio. La trasformazione della storia d’Europa è un compito immenso.

 

 

13. Ora il problema, carico di una sua drammaticità, si può formulare nel modo seguente: poiché credo che nessuno pensi di poter ricostituire le dominanti che hanno permesso al costituzionalismo politico di governare, con i caratteri indicati, le società democratico-costituzionali, da dove ripartire per opporre al populismo dilagante una risposta capace di combatterlo? Non ho l’ambizione di rispondere a questa domanda, eppure bisogna provare a mostrare le ragioni del seguente intreccio perverso: tra le ragioni del populismo, quelle che ci fanno capire perché dilaga, e la tragica regressività delle sue risposte. È su questo che vorrei concentrare la parte conclusiva di questa riflessione. L’orizzonte generale è dato dalla prima grande crisi politica del mondo globale che si è riversata sull’Occidente, come accennavo poco prima, facendo emergere, come sua controfaccia, l’inedita durezza di principii identitari, le piccole o grandi patrie contro l’omologazione. Tema su cui si sono realizzate esperienze politiche che su questo hanno vinto, nonché ampia letteratura tutt’altro che priva di ambiguità. Ma abbandono subito questo gran tema di cornice per tornare su Europa, e sulle ragioni di ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi e nella nostra Italia. Provo a disegnare solo i titoli dei problemi che mi pare emergano.

 

 

14. I. In una fase di grande trasformazione, si è verificata una progressiva delegittimazione della democrazia politico-rappresentativa, propria degli Stati nazionali, un nodo che si apre nascostamente dopo il 1989, quando la Comunità diventa Unione e lascia immaginare il veloce sviluppo di una democrazia sovranazionale. Questa, però, dopo primi momenti entusiasmanti, unificazione, moneta unica e spazio di libertà-sicurezza, quando si credette in un cosmopolitismo dilagante, in una globalizzazione soft, non compì decisivi progressi, e si avviò la delegittimazione che si accelerò dopo la crisi del 2007.

 

II. Si delinea esplicitamente la difficoltà di passare dalla democrazia interna allo Stato a un livello superiore, ultrastratale e ultranazionale. Autorevoli analisti si domandano, ma è possibile, o quali trasformazioni dovrà subire il concetto stesso di democrazia in questa transizione?

 

III. I costituzionalisti, nella loro maggioranza, avvertono la crisi del costituzionalismo politico, capace di indirizzo politico e di integrazione del popolo nel diritto. Questa crisi è in grado di oscurare e di svalutare gli sviluppi degli ordinamenti sovranazionali, e delle politiche di integrazione, a cominciare dalla moneta unica, la quale, peraltro, creando unione solo monetaria, sembra dividere l’unità della sovranità, dividendone i livelli di applicazione.

 

IV. C’è come una discrasia nei tempi, nel senso che l’aspetto critico si manifesta con più chiarezza e velocità di quello integrante. Questa affermazione è di tutta evidenza, altro è percepire la crisi del vecchio assetto anche redistributivo, altro è intuire e apprezzare un processo in corso che vuol fare da antidoto a quella crisi mettendo in campo altri parametri che si possono avvertire lontani e dettati dall’alto.

 

V. In questo stato di cose, si può verificare il seguente incredibile paradosso: che il populismo sovranista possa passare come un sia pur eterodosso “erede” del costituzionalismo politico di fronte a un processo di integrazione che, spostando oltre i confini dello Stato l’indirizzo politico, sembra farlo disperdere in un vuoto, fuori controllo democratico. Vero paradosso, dal momento che ben sappiamo le ragioni della totale lontananza, ed estraneità, tra populismo e costituzionalismo. E il saggio di Scoditti su questo dice l’essenziale.

 

VI. Queste alcune ragioni, sommariamente indicate, del dilagare del populismo sovranista in Europa. Ma il carattere drammaticamente regressivo delle sue risposte, concentrate in una pretesa di sovranità in cui “ognuno basta a se stesso”, apre un abisso con conseguente futura prospettiva di affondamento dell’Europa.

 

VII. La battaglia sarà assai dura, ma è necessario combatterla con ogni energia. La vittoria del sovranismo dell’ognuno basta a se stesso implica la totale emarginazione dell’Europa dal contesto globale. Se il mondo va in mille pezzi, in campo resteranno solo i grandi Stati multinazionali e il tema globale sarà l’equilibrio e la lotta tra America e Cina, con il contorno di Russia, di India e pochi altri. America Cina Russia, il nuovo triangolo di ferro, come è stato chiamato. L’illusione isolazionista, avanzante in Europa, che dovrebbe garantire più sovranità, farebbe definitivamente cadere la sovranità nel nulla. Gli Stati europei diventerebbero ancelle del mondo. Leggere la lezione di Mario Draghi all’Università di Bologna.

 

VII. Battaglia difficile per le ragioni dette, ma è la più grande battaglia culturale del secolo che si apre, anche perché il destino di Europa può ancora condizionare la storia del mondo. Sottolineo l’aggettivo che ho usato, culturale, perché non basterà opporre politica a politica. Battaglia culturale significa far percepire l’arretramento di civiltà presente nella “cultura” dei populisti. Dato l’intreccio profondo e moderno tra politica e vita, l’interiorizzazione del populismo tende a trasformarsi in un tragico arretramento antropologico, in una società fatta di «individui titolari di pretese» (Scoditti), ognuno chiuso nel proprio confine personale, come, in grande, fa la società in cui questo individuo vive. A questo stato di cose non si deve opporre un ecumenismo di facciata, un cosmopolitismo carico di astrattezza, un puro richiamo umanitario, anche se queste parole, umanità, umanesimo, stanno tornando a diventare necessarie nel contesto in cui viviamo. Bisogna costruire e opporre la grandezza culturale del progetto europeo, per quello che è e per la potenzialità che contiene. L’Europa che c’è, e quella che ci dovrà essere.

 

VIII. Il compito che sta davanti a chi si oppone al populismo è lavorare intensamente a una seria Mediazione (uso il carattere maiuscolo) tra territorialità e cosmopolitismo, tra nazionale e sovra-nazionale, dando a queste due parole tutto il peso che possono avere se sollevate, la prima, dalla chiusura sovranista, la seconda da una idea di globalizzazione priva di ogni interna dimensione normativa. Esistono già elementi per muoversi nella sintesi delle due direzioni. Questa sarà la lunga lotta del XXI secolo, qualcosa destinato a segnare un destino. Dire di più, in modo determinato, in questa sede, non sarebbe possibile. Il compito delle élites cosmopolite ed europee è di tornare in campo non con spirito difensivo e impaurito, ma con una consapevolezza anche autocritica capace di una nuova visione. Dall’alto del grande laboratorio politico che già esiste e che si è inceppato. Dall’alto dell’Europa che c’è, mercato comune, libera circolazione, generazioni di giovani che si incontrano, moneta unica che con i suoi limiti da rivedere garantisce da una inflazione selvaggia la quale pone le economie alla mercé della speculazione internazionale, frontiere comuni e accoglienti e unità politica e di difesa in un mondo dove i grandi contrasti disegnano un orizzonte di scontro dal quale nulla può più essere escluso. O questo, o l’affondamento e l’emarginazione. Tutto deve tendere a una rinnovata legittimazione democratica del processo di integrazione. Non c’è vera alternativa.      

 

 

15. Un cenno solo all’Italia. Essa ormai è la capofila del moto populista europeo, non solo per l’importanza che riveste come nazione fondatrice, ma per una ragione che è schiettamente politica. È l’unica nazione europea dove sono al governo due forze populiste con programmi opposti, ma che si ritrovano insieme perché fatti della stessa pasta storico-politica, perché unite dalla medesima idea di “popolo”. Il segnale è dirompente. Come spesso è avvenuto nella storia d’Europa, l’Italia presenta il carattere di laboratorio, nel Novecento ha inventato il fascismo, da allora categoria storica universalizzata. Ora ha inventato la cosa seguente: i populisti, di qualunque origine, possono e devono stare insieme al Governo di un Paese. La loro aderenza alla situazione è tale da non consentire differenze e vere lotte interne. Un segnale, e forse qualcosa di più. Una indicazione che potrebbe avere un seguito altrove, costituire il nucleo di una ipotesi. Non vorrei aggiungere altro. Questo piccolo scritto testimonia anche di uno stato d’animo. Non so se sono riuscito a tradurlo, almeno in parte, in riflessione.