Magistratura democratica

Introduzione.
Il popolo senza politica

di Enrico Scoditti

Non poteva mancare, in un momento in cui “populismo” è il centro della discussione politologica e costituzionale in Europa e non solo, una riflessione collettiva di Questione Giustizia sul tema, naturalmente secondo l’angolo prospettico della Rivista. «Populismo e diritto» dunque, riprendendo il titolo di un contributo di carattere introduttivo pubblicato nel settembre scorso e che qui viene ripubblicato, all’inizio del fascicolo, perché ha rappresentato la sollecitazione di alcuni degli interventi. Un capitolo del tema «populismo e diritto» è anche quello del fenomeno migratorio e del diritto di asilo cui Questione Giustizia ha già dedicato un fascicolo (il n. 2 del 2018 su «L’ospite straniero. La protezione internazionale nel sistema multilivello di tutela dei diritti fondamentali») ed a cui presta costante attenzione con la rubrica «Diritti senza confini». L’odierno fascicolo si divide in due parti, una prima in cui viene affrontato il problema generale, la seconda nella quale i contributi assumono un punto di vista particolare, con una particolare attenzione al diritto penale, quale punto sensibile dell’impatto del populismo sul diritto. Si tratta di un complesso di interventi che mira ad aprire una discussione sul profilo giuridico del fenomeno populistico, nella consapevolezza che l’oggetto della riflessione è in incessante trasformazione.

Il rapporto fra cittadino e potere, nel Novecento affidato alla mediazione dei grandi soggetti collettivi, è in una fase di cambiamento. Il mutamento in corso sembra toccare livelli profondi della stessa struttura antropologica dell’uomo europeo. Da quando i partiti di massa hanno cominciato ad evidenziare i primi segni del declino abbiamo, sempre più con il progredire degli anni, affidato al livello di incidenza delle Carte di diritti, e delle Corti (nazionali e sovranazionali) preposte alla loro applicazione, il metro esclusivo di misurazione del grado di civiltà di una società, quasi che enunciare diritti ed istituire i relativi giudici fosse sufficiente a segnare il complessivo avanzamento sociale. Inseguivamo le “magnifiche sorti e progressive” di Corti e Carte dei diritti e non vedevamo il lato oscuro della luna, in quali forme stesse evolvendo l’essere sociale al di là dell’astratta enunciazione del dover essere giuridico. La crisi dell’irreggimentazione politica della società, cui erano preposti i soggettivi collettivi novecenteschi, apriva nuovi percorsi sociali, che potevano restare non visibili se lo sguardo restava limitato a quello del giurista.

Il vero è che la democrazia è costitutivamente fragile perché fondata su quello che Gino Germani definiva l’agire elettivo. Ciò che connota il percorso della modernizzazione per il grande sociologo è il passaggio dall’agire prescrittivo, basato su nuclei normativi che non lasciano spazio alle decisioni individuali, all’agire elettivo, basato sul principio della scelta individuale. Le moderne procedure legali, ha scritto Lawrence M. Friedman nel suo The Republic of Choice, sono luoghi di esplicazione di scelte individuali. Proprio perché l’agire elettivo è basato su decisioni individuali è necessaria una struttura di supporto che consenta all’individuo di sentirsi parte di una comunità, che lo renda capace di bilanciare le proprie con le altrui ragioni. La scelta individuale è un bilanciamento fra sé e l’altro. Il partito politico novecentesco ha contribuito in modo determinante alla formazione dell’ossatura necessaria dell’agire elettivo. Senza quell’ossatura l’elezione individuale è esposta alle più diverse derive depoliticizzanti, fino alle opzioni estreme per una democrazia autoritaria. La democrazia non è solo una questione di forme, ma anche di contenuti. Il costituzionalismo, quale tecnica di divisione del potere per prevenirne la concentrazione in poche mani, costituisce un argine importante alla tirannia delle maggioranze, secondo un classico pensiero, ma quell’argine potrebbe essere insufficiente se la democrazia perde del tutto la sua sostanza politica. Gli stessi diritti, nel passaggio dalla dimensione oppositiva al potere a quella pretensiva di prestazioni sociali e di partecipazione decisionale, rischiano di convergere con dinamiche individualistiche e depoliticizzanti se la società nel suo complesso non è retta da un’anima politica.

Questo fascicolo è denominato «Populismo e diritto» perché sono le ricadute sul diritto che ci interessano, ma dovrebbe, in modo più pertinente, chiamarsi «Populismo e politica», perché il cuore del fenomeno risiede in quest’ultima. Del resto questo ha a che fare con i tratti epocali dello Stato moderno, il quale nasce con la fine dell’ordine sociale medievale, irrigidito sull’ordine giuridico, e con l’introduzione del nuovo concetto di trasformazione sociale, della quale diventa responsabile la politica. Il diritto cambia posizione, da intima struttura della società a mero limite della politica quale potenza di mutamento sociale. Ecco perché essenziale barometro di civiltà nel mondo moderno è la politica. Ad un certo punto anche la forma costituzionale partecipa di questo disegno trasformatore, perché le Costituzioni novecentesche, come è noto, non sono più solo limite del potere politico, ma anche programma di società, indirizzo fondamentale dello stesso agire politico ed istituzionale. Il Novecento è stato il secolo del titanismo politico, della possibilità di pensare nuovi ordini sociali e dunque della plasmabilità quasi senza limiti della struttura sociale. Non era concepibile un popolo sovrano in questo contesto di disponibilità dell’ordine sociale senza una trama di soggettivi epocali che provvedesse a “formare” il popolo, a politicizzarne l’agire collocandolo su grandi disegni di cambiamento di una comunità nel suo insieme. Il popolo era ancora comunità grazie alla politica.

C’è qui una prima caratteristica del populismo contemporaneo, o populismo 2.0 come è stato definito: una natura profondamente anti-comunitaria e individualistica, che si lega del resto al rapporto immediato, senza alcuna intermediazione, fra individuo e potere. L’espressione “populismo” ha origini nobili, se si pensa ai movimenti politico-culturali della Russia pre-rivoluzionaria o a talune personalità della Francia della prima metà dell’Ottocento e del Risorgimento italiano. Alberto Asor Rosa poteva così aprire il suo fortunato volume della metà degli anni Sessanta del secolo scorso, Scrittori e popolo. Saggio sulla letteratura populista in Italia, dando di “populismo” la definizione di «rappresentazione positiva del popolo in chiave progressista». Quel popolo era però comunità, attraversato com’era da forme di appartenenza collettiva, mentre oggi populismo rinvia alla polverizzazione individuale della società. Populismo è in realtà la forma di un’atomizzazione individualistica nella quale il cittadino è solo con il potere, nell’ambito di una relazione priva di intermediari che non siano la comunicazione digitale ed il circuito mediatico in genere.

Della politica del Novecento il populismo recepisce la carica trasformatrice radicale la quale però, privata della struttura politica di governo e del fondamento comunitario dell’agire politico, sembra non conoscere limiti di sorta. È questo il punto debole anche delle letture del populismo, declinate in senso non individualistico, che vengono dall’America Latina ed in particolare dall’Argentina (si pensi a La ragione populista di Ernesto Laclau ed a Per un populismo di sinistra di Chantal Mouffe). La politica populistica è una politica che non conosce limiti, non solo nel senso dei vincoli che il diritto frappone all’agire politico, come dimostra la deriva del diritto penale, piegato da limite a strumento del potere punitivo, ma anche nel senso degli ostacoli tecnici che la realtà oppone alla realizzazione di determinati disegni. Ristabilire i limiti tecnici della politica non vuol dire assumere atteggiamenti di rassegnazione, ma significa restituire peso alla comunità, reintrodurre un fattore di ponderazione fra le ragioni del sé e quelle dell’altro. Del resto la stessa forma costituzionale del diritto non è più nei termini dell’alternativa secca fra un programma fondamentale da realizzare ed i diritti da preservare, ma è nel senso del bilanciamento fra i diversi principi concorrenti, come dimostra la teoria e la prassi della giustizia costituzionale. La naturale ostilità del populismo per il pluralismo, come categoria sia istituzionale che politica, trova la propria base nella radicale pretermissione delle ragioni dell’altro che deriva da un agire privo del senso del limite.

Con il famoso esempio del direttore d’orchestra contenuto nel terzo libro de Il capitale Marx coglieva nell’attività di comando in fabbrica per un verso l’espressione del conflitto di classe per l’altro l’esigenza di coordinamento e direzione propria ad ogni processo produttivo. Fino a che punto l’assetto sociale è espressione di una gerarchia di interessi che può essere modificata e fino a che punto è invece un dato neutrale non modificabile? Una politica di segno anti-populista dovrebbe oggi guardare alla giustizia sociale, ma allo stesso tempo dovrebbe restare consapevole delle rigidità tecniche che la realtà pone, e su questo doppio movimento formare un popolo e ricostituire il legame sociale. Dovrebbe tornare in definitiva alle ragioni del “pubblico”, che è responsabilità per l’insieme, e su questo costruire una sfera pubblica di partecipanti alla politica, consapevoli del loro essere situati in una rete di rapporti. Il popolo politicamente inteso, come ci ricorda Mario Tronti, non è il tutto indifferenziato cui rinvia il populismo, è una parte che si contrappone ad un’altra parte, ma, proprio perché si tratta di popolo in senso politico, è una parte che guarda all’insieme. Rispetto alla grande questione delle nuove povertà indotte dalla globalizzazione c’è la risposta autoreferenziale del populismo e c’è quella che guarda, o cerca di guardare, all’insieme.

La considerazione della pluralità dei punti di vista, quale peculiarità del “pubblico”, rinvia, per concludere, alla forma della giustizia. Per Emmanuel Lévinas il proprium del giudicare risiede nell’apparizione del terzo fra il giudice ed il caso. Ciò che salvaguarda il giudice, che voglia andare oltre l’astratta legalità, dalla perdita di una giusta distanza nei confronti del caso è la presenza del terzo rispetto a colui che domanda giustizia. Quest’ultimo è l’altro del giudice e il terzo è l’altro di chi domanda giustizia, è cioè l’altro dell’altro rispetto al giudice. C’è sempre l’altro dell’altro. La giustizia è lo sguardo a trecentosessanta gradi. Pensare il mondo come l’altro dell’altro è la strada, non facile, della politica dopo il populismo.