Magistratura democratica

Camere senza vista: il carcere e l’emergenza sanitaria

di Riccardo De Vito

Se il contagio in carcere non è dilagato lo si deve a un mirato processo di alleggerimento della pressione delle presenze, non certo al mito delle prigioni sicure. Il sistema, tuttavia, si è chiuso ancora di più e le impronte che l’emergenza rischia di lasciare sulla penalità penitenziaria non vanno in direzione costituzionale. Con qualche sorpresa.

1. Un’esperienza nuova / 2. Illusioni ottiche / 3. Storie di prigioni e navi: da San Quentin alla Diamond Princess / 4. Isolare il carcere: il ruolo della politica e dell’amministrazione / 5. I giudici, la sorveglianza e il virus / 6. Le impronte del virus sul carcere / 7. Il nuovo sotto il vecchio  

 

1. Un’esperienza nuova

L’irruzione di Sars-CoV-2 nel carcere è tratteggiata nel racconto di una persona che le prigioni italiane le conosce bene per averne gestito settori significativi e analizzato a fondo la dimensione organizzativa. Sentiamolo: «Per quanto mi riguarda questo momento è coinciso con una pausa pranzo che spezzava una giornata di formazione che conducevo a Bologna il 21 febbraio. Subito dopo aver ordinato, una telefonata interrompeva una serena chiacchierata tra commensali. La mia vicina di tavolo, un bravo medico che da sempre lavora nel carcere di Piacenza, iniziò ad interloquire con fare sempre più preoccupato sino a concludere la telefonata. Di fronte al mio sguardo interrogante mi comunicava che uno dei medici del carcere di Piacenza era stato isolato in quanto venuto a contatto, nel suo ambulatorio esterno, con un cittadino risultato infetto. Lì ho capito che stava iniziando un’esperienza nuova»[1].

Sono le parole di Pietro Buffa, attuale provveditore dell’amministrazione penitenziaria in Lombardia. Le antenne dell’esperto hanno funzionato bene: iniziava un’era nuova.

La lunga citazione serve a chiarire che la vulnerabilità del sistema penitenziario di fronte al virus era stata percepita lo stesso giorno nel quale il “paziente uno” di Codogno veniva scoperto positivo[2]. Il virus prendeva ad attaccare il Paese e l’istituzione penitenziaria, allo sguardo degli specialisti, non si presentava sicura e immune dal contagio.

Nel discorso pubblico la questione carceraria esploderà soltanto quindici giorni dopo, tra il 7 e il 10 marzo del 2020. Sono i giorni terribili delle rivolte, durate a lungo e con conseguenze drammatiche: tredici detenuti morti, agenti feriti, sezioni e reparti devastati, evasioni.

Le preoccupazioni del decisore politico, tuttavia, non si sono attardate troppo sulla tutela della salute delle persone detenute e, tanto meno, sul pericolo che il carcere diventasse una bomba epidemiologica, idonea a moltiplicare il contagio anche tra coloro che negli istituti di pena entrano per lavoro e tra chi abita nei territori limitrofi.

Eppure, gli operatori penitenziari, i garanti e i magistrati di sorveglianza hanno avuto subito la percezione della collisione di una calamità inedita con un penitenziario vecchio, ancora troppo distante dal modello costituzionale propugnato dall’art. 27.

A osservarle da vicino, le istantanee di quei momenti illustrano una tensione drammatica: urgenza e impossibilità di trovare spazio per isolare le persone positive e i casi sospetti (per lungo tempo in carcere, in assenza di tamponi, non è stato possibile distinguere) in istituti che, al 29 febbraio 2020, annoveravano 61.230 presenze su poco più di 47.000 posti effettivi; personale medico e infermieristico privo dei più essenziali dispositivi di protezione come guanti e mascherine chirurgiche, per non parlare dei sofisticati strumenti di medicina intensiva; inattuabilità, tra le mura, di quelle misure di prevenzione salvavita che, a partire dal distanziamento sociale, nella comunità dei liberi venivano prima consigliate e poi imposte.

La gravità della situazione, però, non si è proiettata sull’agenda delle priorità politiche, se non a tratti e in maniera condizionata. Nell’opinione pubblica, del resto, si diffondeva il convincimento che la prigione fosse un luogo chiuso e sicuro e che, per prima cosa, fosse bene pensare alla salute dei cittadini senza macchie sul certificato penale.

Sicurezze che abbiamo rischiato di pagare caro. Se il virus dentro il carcere non ha provocato tragedie è stato grazie al lavoro di tanti – direttori, educatori, agenti, medici, magistrati – che, in un momento di liquefazione organizzativa e sordità politica, hanno provato a fare della prigione un luogo meno pericoloso e più rispettoso del diritto alla salute di tutti.

 

2. Illusioni ottiche

L’immagine di un carcere protetto dal contagio, pure accreditata da commentatori autorevoli, è un trompe l’oeil.

Facile capire da quali ragionamenti scaturisca: i detenuti non escono, non si mischiano, non partecipano all’interazione sociale. L’assetto espellente della sanzione criminale, che i sostenitori di una malintesa “certezza della pena” mirano a incrementare, in tempi di pandemia costituirebbe la fortuna di chi vi incappa.

Come anticipato, tuttavia, si tratta di un vizio prospettico, per almeno un duplice ordine di ragioni.

Esaminiamo la prima. Il propagarsi della metafora della reclusione nel periodo del lockdown, alla lunga, invece di favorire una reale comprensione del fenomeno penitenziario, ci ha allontanato da essa. Il paragone tra la condizione dei cittadini confinati nei propri appartamenti e quella dei ristretti in carcere regge sotto alcuni profili, ma non può essere il punto di partenza per una conoscenza approfondita della realtà del penitenziario.

Certamente vi sono alcuni punti di convergenza: la perdita di controllo sulle relazioni personali, l’acuirsi della dipendenza dalle decisioni delle autorità pubbliche e, soprattutto, il risolversi della vita all’interno di un unico spazio. Proprio quest’ultimo aspetto delinea un tratto saliente dell’istituzione totale – di cui il carcere è massimo esempio –, nitidamente descritto da Goffman: mentre nella società moderna l’uomo tende a dormire, divertirsi e lavorare in luoghi diversi, l’istituzione totale determina «la rottura delle barriere che abitualmente separano queste tre sfere di vita», poiché «tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo»[3].

Non vi è dubbio che questo sia capitato anche ai cittadini liberi durante il lockdown, dal momento che lo smart working ha relegato il lavoro in una dimensione domestica e il tempo libero è stato consumato per intero nei perimetri delle abitazioni e dei balconi. Questa frantumazione delle barriere tra tempi e spazi della vita, tuttavia, non è sufficiente per assimilare la condizione dei liberi a quella delle persone detenute.

A diversificare in modo netto le due esperienze, per quel che qui interessa, non è soltanto la sottoposizione dei ristretti a un’unica autorità che disciplina ogni fase delle attività quotidiane, ma anche il fatto che queste ultime in carcere si debbano svolgere a stretto contatto con un elevatissimo numero di persone. In altri termini l’internato – da intendersi in senso sociologico e non giuridico – si trova a dover sopportare una durevole «esposizione contaminante»[4], che assume anche le forme della relazione personale coatta e del contatto fisico imposto. In maniera inevitabile, anche durante la fase emergenziale della pandemia ogni detenuto doveva (o non poteva fare a meno di) incontrare persone dello staff che dalla prigione entravano e uscivano anche più volte al giorno: direttore, educatori, personale di polizia penitenziaria, medici, infermieri. Le porte di casa proteggevano dal rischio di relazioni contagianti, i cancelli del carcere no. Le camere sono senza vista, ma la clausura penitenziaria non è per nulla ermetica. Risiede proprio in questa esposizione forzosa la principale ragione di vulnerabilità del carcere di fronte ai rischi di spread del contagio, nonostante le misure di prevenzione man mano messe a punto dall’amministrazione penitenziaria e sanitaria. A ciò si aggiunga che, all’interno della prigione, neppure è possibile vivere a debita distanza dal compagno di detenzione: camere multiple, servizi igienici collettivi, assenza di spazi, condizioni igieniche precarie e, per quel che riguarda il nostro Paese, sovraffollamento strutturale sono tutti fattori che costringono a una quotidianità promiscua.

L’analisi dell’istituzione totale, dunque, spiega con argomenti solidi che il virus non si arresta davanti al portone d’ingresso delle prigioni. E la storia, come spesso capita, si incarica di confermare questa conclusione.

 

3. Storie di prigioni e navi: da San Quentin alla Diamond Princess

Un ulteriore motivo della distorsione dello sguardo sul carcere ai tempi della pandemia è rappresentato dalla scelta di far soccombere una seria analisi storica dei precedenti in favore di una precisa visione ideologica della pena, nota negli Stati Uniti sotto lo slogan prison works. Il carcere funziona, sempre e comunque.

Il mito del carcere come luogo protetto è anche il frutto di questa scelta di far prevalere una concezione delle cose interessata a realizzarsi sui dati di fatto. Che la prigione possa essere luogo del contagio, infatti, lo dimostrano approfondite ricerche sulle epidemie del passato – equiparabili per estensione al Covid-19 – e sulla loro trasmissione all’interno degli istituti penitenziari di tutte le epoche e latitudini.

San Quentin, ad esempio, non va ricordato soltanto per essere il celebre penitenziario californiano nel quale Johnny Cash ha tenuto uno dei suoi indocili prison concert. È anche il carcere dove, tra il 1918 e il 1920, la “spagnola” colpì gran parte della popolazione detenuta. Già nel 1919 un medico di quel complesso carcerario – noto anche per non disdegnare di utilizzare i prigionieri per le sue ricerche – dava notizia che, nel corso della prima ondata di epidemia, oltre la metà dei 1900 prigionieri contrasse il virus, con un vorticoso incremento quotidiano delle chiamate per malattia: più di 150 al giorno[5]. I motivi del veloce propagarsi del virus erano ascrivibili alla rapida saturazione dei reparti ospedalieri, all’impossibilità di isolare il malato e all’irrealizzabilità del distanziamento sociale all’interno delle sezioni detentive. L’influenza infettò anche il personale dello staff e, per tramite di questo, la comunità sociale attigua al complesso edilizio penitenziario.

Storia maestra di vita, si diceva un tempo, e anche questa volta occorreva ricordarlo. Lo ha fatto un’acuta riflessione epidemiologica sul rapporto tra Covid e carcere, pubblicata sul Journal of American Medical Association nel pieno dell’emergenza. Il saggio colpisce nel segno con un paragone tra la vicenda della “spagnola” a San Quentin e un fatto di cronaca contemporaneo, le navi in quarantena: «L’epidemia di Covid-19 sulla nave Diamond Princess fornisce un’analogia contemporanea. Su 3700 individui tra passeggeri ed equipaggio, tenuti a bordo in quartieri separati ma vicini, 700 persone sono state infettate e 12 sono morte in un periodo di quattro settimane. La rapida diffusione è stata attribuita a un piccolo numero di lavoratori della cucina alloggiati insieme sul ponte 3, responsabili dell’alimentazione dei passeggeri in quarantena». Univoche le conclusioni: «L’infrastruttura della maggior parte delle prigioni è altrettanto favorevole alla diffusione delle malattie», con in più il fattore di rischio aggiuntivo correlato alla circostanza che «gli ufficiali penitenziari e il resto del personale spesso lasciano la struttura e poi rientrano»[6].

Articolo profetico, perché a distanza di un secolo, la storia americana si è ripetuta. A metà marzo 2020 è stato registrato il primo caso di nuovo coronavirus a Riker’s Island, il principale complesso penitenziario di New York e nel giro di due settimane sono stati riscontrati 200 positivi tra i ristretti. Stessa sorte per la prigione della Contea di Cook, a Chicago: nonostante gli sforzi per porre argine al contagio, 350 persone, tra detenuti e membri del personale, sono risultati positivi al virus Sars-CoV-2 tra marzo e aprile. Le cose sono andate peggio alla Marion Correctional Institution, Ohio: 1828 detenuti e 109 dipendenti contagiati ad aprile 2020. Non è un caso che la stessa amministrazione penitenziaria, a livello centrale e periferico, abbia fatto ricorso a una serie mirata di ammissioni alla detenzione domiciliare (anziani, malati, condannati a pene brevi) per decongestionare gli istituti ed evitare una più marcata deflagrazione del contagio al loro interno e nei territori ove questi sono ubicati.

La storia e la cronaca, analizzate con scrupolo, fanno risaltare come i “sistemi chiusi” possano essere trappole per topi, luoghi pericolosi per coloro che sono costretti a stare dentro e focolai critici per i liberi che vivono attorno. La vicenda nostrana delle residenze sanitarie assistenziali, funestate dai lutti nel corso del lockdown, comprova la conclusione.

Per il carcere vale lo stesso ragionamento. Lo ha chiarito, in modo definitivo, l’Organizzazione mondiale della sanità: «L’esperienza dimostra che carceri, prigioni e altri ambienti dove le persone sono costrette alla promiscuità possono funzionare da fonte di infezione, amplificazione e diffusione delle malattie all’interno e all’esterno del carcere»[7].

Eppure, nel dibattito politico maggioritario e nell’opinione pubblica italiani si è incuneata l’idea, divenuta inestirpabile, che le porte del carcere fossero invalicabili dal virus. Nessuno, tra i sostenitori di questo argomentare, sarebbe stato disposto a mettere piede su una nave da crociera in quarantena, ma sul sistema chiuso carcere non vi erano dubbi: meglio Opera e San Vittore che Piazza Duomo[8].

Se questa tesi ha ricevuto una parziale conferma dalle statistiche, vale a dire se la tragedia è stata evitata, è soltanto perché il numero complessivo dei detenuti italiani è passato, dai 61.230 del 29 febbraio 2020, ai 52.679 del 15 maggio 2020 (dati del Garante nazionale) e ai 53.387 del 31 maggio 2020 (dati del Ministero). Ancora troppi, indipendentemente dal virus, rispetto ai 47.000 posti di capienza effettiva e ai 50.472 classificati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria come “capienza regolamentare”.

Senza questo processo di deflazione della popolazione penitenziaria – vedremo in che termini si deve intendere l’espressione – oggi ci troveremmo a commentare una realtà diversa e più dolorosa.

 

4. Isolare il carcere: il ruolo della politica e dell’amministrazione

Si è detto, poco sopra, che la tragedia è stata evitata.

Bene, se un lettore attento volesse approfondire per proprio conto questa affermazione andrebbe subito alla ricerca dei dati sul numero di contagiati in carcere. Con amara sorpresa, tuttavia, scoprirebbe che nessuna statistica del Ministero della giustizia è disponibile, neppure a cercarla col lanternino nelle pieghe dell’apposita sezione del sito ufficiale.

La grave carenza di informazione ufficiale sull’andamento del contagio in carcere ha contraddistinto la fase emergenziale e ha contribuito a impedire una gestione razionale della pandemia.

A colmare la lacuna, per fortuna, sono stati il Garante nazionale, tramite preziosi e costanti bollettini, e le associazioni impegnate nella scrupolosa documentazione dei fatti della penalità penitenziaria.

Gli ultimi dati certi sul contagio in carcere, pertanto, li possiamo trarre dal rapporto di metà anno di Antigone, dedicato a Il carcere alla prova della fase 2 e pubblicato il 10 agosto 2020[9].

Secondo le ultime informazioni disponibili all’epoca, il numero totale dei positivi al 7 luglio 2020 era di 287 persone nella sola popolazione detenuta, con un picco massimo di 161 positivi nella stessa giornata. Cifre da non sottovalutare, come invita a fare lo stesso rapporto. Sembra un numero contenuto, ma «in rapporto al totale della popolazione detenuta è superiore, sebbene di poco, al tasso di contagio nel resto del Paese».

La trasmissione dell’infezione ha raggiunto più o meno la stessa grandezza tra il personale amministrativo e di polizia del carcere.

Alla data sopra ricordata, inoltre, avevano perso la vita per coronavirus 4 detenuti, 2 agenti di polizia e 2 medici penitenziari.

Le tragedie non sono mai quantificabili, non esiste un’asticella al di sopra della quale collocarle, ma è indubitabile che il consistente calo della popolazione detenuta ha evitato il peggio. È stato decisivo, ad esempio, guadagnare spazio da dedicare anche alla più blanda delle misure di tutela e prevenzione, quale l’isolamento collettivo – non scandalizzi l’ossimoro: la situazione non offriva di meglio – dei positivi e dei sospetti.

Nel multiforme processo deflattivo il legislatore ha giocato un ruolo tutto sommato modesto, prigioniero per l’ennesima volta della paura di apparire soft on crime e perdere consenso. 
Gli interventi normativi di vera e propria gestione dell’emergenza si contano sulle dita di una mano e, salvo un generico invito alla valutazione di misure alternative di detenzione domiciliare (art. 2, lett. u, dpcm 8 marzo 2020, n. 11), gli unici interventi mirati all’alleggerimento del sovraffollamento penitenziario sono contenuti negli articoli 123 e 124 del dl 17 marzo 2020, n. 17, meglio noto come “Cura Italia”.

L’art. 123 ha previsto una sorta di detenzione domiciliare che ricalca le forme dell’esecuzione presso il domicilio delle pene inferiori a diciotto mesi (l. n. 199/2010), restringendone addirittura la platea dei beneficiari attraverso l’esclusione di coloro che hanno riportato sanzioni per determinati episodi disciplinari e costringendo il fruitore, nel caso di residuo di pena tra sei e diciotto mesi, all’obbligo degli introvabili braccialetti elettronici.

L’unico vantaggio si è manifestato in un minimo di celerità istruttoria, posto che il procedimento di ammissione non necessita di relazione comportamentale e che l’accertamento sul domicilio è svolto dalla stessa polizia penitenziaria.

Il disposto dell’art. 124, che ha esteso la possibilità di concedere licenze illimitate ai detenuti semiliberi sino al 30 giugno 2020, per paradosso ha assunto un rilievo forse maggiore. Lo scopo della norma era di evitare il rientro serale in istituto di quella categoria di detenuti, al fine di interrompere una possibile linea di contagio.

Va osservato, tuttavia, che il provvedimento è servito a tenere lontano dal carcere detenuti sufficientemente rieducati che, nel corso del lockdown, hanno perso il lavoro a causa della chiusura di molte imprese e hanno corso il rischio di vedersi sospeso il beneficio della semilibertà, con conseguente affollamento dei reparti a loro destinati. Poca cosa, ma utile a consentire un impiego duttile di quelle sezioni che, collocate fuori dal muro di cinta, si mostravano più sicure dei reparti interni.

Per il resto il decisore politico si è limitato a dare forza normativa a quella che da subito è apparsa la strategia fondamentale dell’amministrazione penitenziaria: isolare il carcere.
L’obiettivo è stato perseguito lungo più direttrici di intervento, tra cui la sospensione dei colloqui dei detenuti con i familiari e loro sostituzione con la corrispondenza telefonica (autorizzata oltre i limiti ordinari di frequenza) e la videocomunicazione consentita attraverso la piattaforma Skype e gli smartphone. Sempre in quest’ottica va letta la previsione della sospensione (discrezionale) dei permessi premio.

L’obiettivo di costruire un cordone di sicurezza attorno al carcere – in parte illusorio, in parte necessitato – è stato perseguito dall’amministrazione prima che dalla politica. Oltre alla sospensione dei colloqui, sono stati contemplati l’allontanamento dei volontari, il contenimento delle attività lavorative all’esterno (art. 21 ord. penit.) e, soprattutto, l’interruzione delle attività trattamentali. Di colpo il carcere si è trovato senza scuola, lavoro, attività culturali e ricreative.

Il livello di gravità assunto dalla pandemia, tale da determinare la paralisi dell’intero Paese, ha finito per rendere le precauzioni appena descritte in concreto inevitabili e di fatto prive di alternative.

In proposito, tuttavia, devono essere svolte alcune considerazioni su alcuni aspetti cruciali.

In primo luogo, un rilievo innegabile: vedere gli agenti di polizia penitenziaria circolare nei reparti detentivi (per la prima volta anche di alta sicurezza) con lo smartphone dell’amministrazione per far effettuare ai detenuti le videochiamate ai familiari è stato davvero epocale.

In un momento angoscioso, mantenere aperto questo canale di comunicazione con i familiari è stato un fatto di basilare importanza per avvicinare il fuori al dentro. Ben più che una compensazione per i mancati colloqui visivi, la «concessione del telefono» – così l’ha definita un esperto della penalità penitenziaria appoggiandosi al titolo del romanzo di Camilleri[10] – è stata un rivoluzione a costo zero, che si auspica di veder stabilizzata oltre il termine dell’emergenza. Definirebbe, tra l’altro, un’essenza meno arcaica dei luoghi della rieducazione, che tali non possono veramente essere se non introiettando la dimensione tecnologica della contemporaneità.

A fronte di questi rilievi, che si tingono di positivo, deve collocarsi un’osservazione critica, ancora una volta attinente il ruolo giocato dall’informazione o, per dir meglio, dalla disinformazione.

In attesa che le indagini delle procure sulle presunte manovre della criminalità organizzata offrano risultati, va rilevato che gran parte delle rivolte sono scaturite da un difetto di comunicazione e da una mancanza di preparazione. Le persone detenute venivano a conoscenza delle prime positività all’interno delle mura, dei provvedimenti mirati a isolarle dai familiari, del dramma del Paese e venivano lasciati soli. Nessun chiarimento, o pochi, sui rimedi sostitutivi in via di attuazione.

Un “di più” di informazione e trasparenza – perseguibile anche attraverso il mantenimento di almeno parte della fondamentale rete dei volontari – avrebbe favorito un atteggiamento più responsabile da parte di quei detenuti (pochi rispetto al totale) che sono saliti sui tetti.

Anche dai tetti, comunque, c’è da imparare. A rivoltarsi, infatti, sono stati in gran parte detenuti collocati nelle sezioni a minor intensità trattamentale; altra dimostrazione del fatto che la sicurezza non si produce soltanto con la sorveglianza e la custodia. E non si produce soltanto con la pena del carcere. Esiste un plurale nell’art. 27 della Costituzione: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del reo. Non mortificarlo è il compito della magistratura e, in particolare, di quella di sorveglianza. Cerchiamo di capire il suo ruolo nelle vicende narrate.

 

5. I giudici, la sorveglianza e il virus

Quanto sopra argomentato a proposito dell’esiguità delle modifiche normative consente di trarre una conclusione ulteriore: il rapido processo di deflazione della popolazione carceraria, oltre a essere stato decisivo per evitare il dilagare del virus, è stato realizzato dalla magistratura essenzialmente con gli strumenti della legislazione vigente e la Costituzione come faro.

Nulla si sarebbe avverato, inoltre, senza un alto livello di collaborazione con l’amministrazione penitenziaria periferica – direttori, educatori, polizia penitenziaria, funzionari dell’esecuzione esterna –, il personale medico, la rete dei garanti, l’avvocatura.

L’obiettivo non era de-carcerare a tutti i costi – solo un’informazione caricaturale ha potuto farlo credere –, ma prendere sul serio i diritti, a partire da quello alla salute. Dei detenuti, del personale che lavora in carcere e della collettività.

L’alleggerimento della pressione del sovraffollamento ha riguardato sia i condannati non definitivi, mediante la sostituzione delle misure di custodia in carcere con altre meno afflittive, sia i condannati definitivi, i quali non sono stati semplicemente scarcerati, ma sono stati ammessi a fruire di pene (ecco il plurale) alternative rispetto a quella da scontare in carcere, a iniziare dalle varie e stringenti tipologie di detenzione domiciliare.

La vicenda della riduzione dei numeri del carcere e delle opzioni utilizzate per realizzarla può essere riguardata anche sotto un ulteriore profilo molto apprezzabile, concernente una certa capacità della cultura giuridica e della prassi giudiziaria di smarcarsi da un formalismo troppo spesso foriero di un appiattimento della giustizia su una legalità immemore dei fatti, dei bisogni e dei diritti.

In questa direzione, un eminente ruolo lo ha assunto la nota del 1° aprile 2020 a cura del procuratore generale della Corte di cassazione, Giovanni Salvi, il cui oggetto era dedicato a «pubblico ministero e riduzione della presenza carceraria durante l’emergenza coronavirus». È sufficiente leggere le prime righe di quella nota, indirizzata ai Procuratori generali presso le corti d’appello, per avere idea di cosa significhi guardare ai fatti ed evitare che, come ripeteva Sciascia, la legge si rispecchi soltanto nella legge: «L’emergenza coronavirus costituisce un elemento valutativo nell’applicazione di tutti gli istituti normativi vigenti e ne rappresenta un presupposto interpretativo necessario».

In poche parole, che dimostrano la capacità dell’accusa (quando lo vuole) di farsi parte imparziale, è ricostruito e descritto il senso di quello che tutti i protagonisti della giurisdizione, in modo prudente e sorvegliato, hanno provato a fare.

Con riferimento allo specifico della magistratura di sorveglianza, si può dire che l’intervento deflattivo si è mosso lungo due piani, che potremmo così sintetizzare:

- ricognizione di tutte le posizioni giuridiche di quei detenuti che erano nei termini per essere ammessi alle misure alternative e che per le ragioni più diverse (rallentamenti burocratici, carenze di risorse, lentezza nella trasmissione delle informazioni) non avevano ottenuto alcuna valutazione da parte del magistrato o del tribunale di sorveglianza; in questa traiettoria, soprattutto ai fini dell’ammissione alla detenzione domiciliare, sono stati presi in considerazione quei detenuti che avevano un’espiazione residua breve e che in carcere avrebbero occupato uno spazio prezioso per un tempo del tutto irrisorio sotto il profilo trattamentale. Si è trattato, peraltro, di detenuti condannati per reati non gravi e non di criminalità organizzata, dal momento che tutte le tipologie di detenzione domiciliare – ivi compresa quella prevista dall’art. 123 sopra descritto – non sono applicabili a quelle categorie di condannati;

- valutazione di quelle misure alternative al carcere che sono correlate non ai progressi trattamentali, ma al piano dei diritti fondamentali, in primo luogo del diritto alla salute e alla cura; vengono in essere, sotto questo profilo, i tanto criticati provvedimenti di differimento della pena per grave infermità nelle forme della detenzione domiciliare cd. “umanitaria”.

Su questo secondo piano di intervento occorre un breve approfondimento. Nessun detenuto è stato scarcerato per il mero rischio di evento infausto in caso di contagio. Non sarebbe stato un obbrobrio giuridico, visto che il diritto alla salute, anche in carcere, ricomprende la prevenzione. Lo ricorda l’art. 1 d.lgs 22 giugno 1999, n. 230, nel prevedere che «i detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione di prestazioni di prevenzione». È, in fondo, applicazione concreta del principio di equivalence of care – fatto proprio dalle risoluzioni delle Nazioni Unite –, in base al quale il livello di cura nei confronti delle persone private della libertà deve essere identico a quello rivolto ai pazienti liberi[11].

Quello che è accaduto, tuttavia, è più complesso e più lineare allo stesso tempo. Un numero limitato di detenuti/pazienti – alcuni condannati per reati gravi e di mafia – era affetto da numerose patologie che, sino all’emergenza sanitaria, venivano giudicate compatibili con la permanenza in carcere in ragione di un articolato sistema di cura basato su molteplici e progressivi interventi: assistenza medico/infermieristica in camera detentiva, collocazione in reparti diagnostico-terapeutici interni alle mura e, infine, trasferimento in strutture sanitarie esterne di diagnosi e cura. Questo delicato equilibrio, sempre sul punto di saltare anche per il ridotto finanziamento della quota di servizio sanitario nazionale destinato al mondo del penitenziario, è entrato in completa crisi a causa della pandemia, della saturazione delle strutture di cura esterne e dell’impossibilità per il personale sanitario interno agli istituti di seguire le molteplici chiamate di malattia. In questa condizione la cura di malattie gravi – dalle patologie tumorali a possibile esito infausto ai gravi handicap fisici – è divenuta di fatto inattuabile.

A quel punto si ponevano due alternative: dare prevalenza al diritto alla salute e alla cura o scommettere sulla sopravvivenza di quelle persone sino al termine della pandemia. L’informazione mainstream avrebbe preferito questa seconda strada, omettendo di dire che è una via percorribile soltanto a condizione di far sparire dalla Costituzione ogni riferimento all’umanità della pena. Senza tener conto del fatto che una tale opzione avrebbe costituito un regalo immenso alla criminalità organizzata in termini di consenso all’interno del carcere e nei territori; l’occultamento dell’art. 27, terzo comma, nelle battaglie dell’antimafia rafforza i clan nella convinzione (e nella prassi) che lo Stato pensa allo Stato e la mafia pensa alla mafia.

Si dovrebbe narrare, inoltre, un’altra storia.

Tutti i condannati per reati gravi scarcerati sono passati attraverso un bilanciamento serio del loro diritto alla salute con le esigenze di sicurezza della collettività. Sembra che gli esiti delle misure, trascorse senza reati ed evasioni, confermino la bontà di quel bilanciamento. Ma il punto è un altro e riguarda la necessità di guardare anche ai numerosi condannati che, grazie a un’oculata gestione degli spazi, sono rimasti in carcere in condizione di sicurezza “pubblica” e sanitaria. Sarebbe opportuno che l’informazione provasse a scrivere e raccontare questo lato in ombra della vicenda, anche a costo di non incamerare il solito sensazionalismo come corrispettivo.

Sia chiaro: stampa e informazione rappresentano comunque il sale della democrazia, ma non occorre sottovalutare la loro responsabilità e il peso nella formazione dell’impronta culturale del Paese.

Di impronte ora si deve parlare.

 

6. Le impronte del virus sul carcere

Dal complesso di fatti, idee e processi sin qui presi in esame si può trarre un bilancio positivo solo per alcuni aspetti.

La sinergia tra tutti gli operatori che ruotano attorno al penitenziario, il rifiuto dell’inclinazione formalista del sapere giuridico e giudiziario, il dinamismo immesso nel sistema dalla necessità di star dietro alla promessa costituzionale di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. sono tutti elementi che, in prospettiva, consentono una timida esaltazione.

Quest’ultima, tuttavia, rischia di essere frustrata se si guarda con attenzione all’impronta che il virus lascia (o sta lasciando) sulle politiche del carcere, ricomprendendo in questo termine anche le scelte dell’amministrazione centrale. Queste tracce si possono leggere attraverso il racconto di ulteriori pezzi della storia del rapporto e istituzione totale, inseguendo tre coppie di sostantivi:

- Umano/disumano. L’amministrazione penitenziaria centrale ha subìto critiche feroci per una circolare del 21 marzo 2020, meglio nota come “Protocollo di Belcolle”, con la quale si invitavano le direzioni e le aree sanitarie degli istituti a segnalare i casi di quei detenuti che, per età o patologie, erano più esposti al contagio. Un atto di eminente rilievo etico e organizzativo, che non ha inciso sui provvedimenti di dimissione dalle carceri adottati dalla magistratura – la politica può star tranquilla –, ma che è stato utile nel censimento dei soggetti vulnerabili, non solo sotto il profilo della salute, ma anche sotto l’aspetto delle risorse materiali idonee a permettere una difesa tecnica adeguata.

Pochi, al contrario, hanno chiesto conto alla politica e all’amministrazione delle rivolte, dei morti, dei suicidi.

L’umano, inteso in termini giuridici (art. 27, comma 3, Cost. e art. 3 Cedu) e non meramente etici, è divenuto fattore di imputazione di responsabilità, mentre il disumano si è apprestato a diventare normalità. È un ribaltamento pericoloso, in grado di agire a lungo sulle mentalità di chi, da qualsiasi ruolo, si dovrà confrontare con la penalità penitenziaria.

- Diritti/automatismi. Prima del diffondersi del Covid avevamo lasciato il carcere ostaggio di una contraddizione. La politica, mediante l’affossamento dei lavori della Commissione Giostra[12], si ritraeva da un tentativo serio di riforma, ma le Corti riaffermavano a tutto tondo il diritto alla speranza. Basti pensare alla pronuncia della Corte Edu Viola c. Italia, 13 giugno 2019, e alla sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale. Al di là delle differenze, le due pronunce censuravano gli automatismi legislativi che impedivano una valutazione individualizzata dei progressi trattamentali da parte della magistratura di sorveglianza.

La strumentale polemica sulle cd. “scarcerazioni” ha indotto il legislatore a introdurre nuovi automatismi, ma questa volta nell’ambito di un inedito e grave slittamento: dal campo del trattamento a quello dei diritti. Il dl 10 maggio 2020, n. 29, infatti, ha imposto solo ad alcune categorie di detenuti – scelte per titolo di reato o appartenenza al regime differenziato – un complesso procedimento di costante rivalutazione delle detenzioni domiciliari umanitarie, con buona pace dei bilanciamenti effettuati dal giudice. E pensare che neppure la formulazione del 4-bis sgorgata dalle stragi ha mai previsto la collaborazione o altro tipo di automatismo quale presupposto inderogabile per l’ammissione a misure volte alla tutela del diritto alla salute.

- Responsabilizzazione/repressione. Il carcere italiano (ma il discorso potrebbe essere generalizzato) vive la grande contraddizione tra il dover essere, fatto di tensione verso la rieducazione, e la realtà, costituita in gran parte soltanto da custodia e disciplina.

La carenza di programmi trattamentali inasprisce gli animi e l’unico piano sul quale questo problema trova spesso soluzione è quello dell’irrogazione delle sanzioni disciplinari, all’esito di un procedimento che, per lo scarso livello di garanzie dell’incolpato, assume un sapore medievale.

C’è da auspicare che le rivolte non esasperino l’aspetto ulteriormente punitivo e violento dell’istituzione.

Le prime reazioni dell’amministrazione non lasciano ben sperare. La circolare DAP n. 3689/6139 del 22 luglio 2020, che ha ad oggetto le linee di intervento in caso di aggressioni al personale, percorre unicamente l’opzione repressiva quale risposta ai comportamenti violenti e antidoverosi delle persone ristrette. Vi si legge di un’escalation di sanzioni – comprensiva del trasferimento in altro istituto penitenziario, che torna a colorarsi di un indebito profilo sanzionatorio – che, si teme, finirà per rafforzare il conflitto interno, anziché prevenirlo con attività che intensifichino il benessere di chi in carcere vive e lavora e favoriscano la responsabilizzazione delle persone ristrette.

Il futuro della penalità penitenziaria appare in bilico tra gli opposti sostantivi. Per evitare che la storia pencoli verso il secondo termine della coppia – disumano, automatismi, repressione – occorrono cultura e immaginazione nuove.

Per fortuna, anche durante la pandemia non sono mancate.

 

7. Il nuovo sotto il vecchio

Come in tutte le fasi storiche di transizione, il nuovo si insinua sempre nella coda del vecchio.

Anche in questo caso, mentre l’emergenza non dava cenno di attenuazione, si è assistito all’accelerazione di un progetto di straordinario rilievo, benché poco conosciuto.

La Direzione generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova – afferente al Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità – aveva individuato, tra gli obiettivi operativi del triennio 2020-2022, la «realizzazione di percorsi di fuoriuscita dal carcere in favore di persone detenute prive di risorse familiari, economiche e alloggiative»[13].

Questo programma di inclusione proprio al tempo del Covid-19 ha subìto una spinta propulsiva notevole e ha conseguito risultati incoraggianti.

Gli uffici dell’esecuzione esterna – con il contributo di Casse ammende – sono divenuti veri e propri catalizzatori delle risorse del territorio e, attraverso la costruzione di una rete tra enti locali, privato sociale, terzo settore, mondo del volontariato, istituti di pena e magistratura, hanno consentito l’ammissione alle misure alternative a moltissimi soggetti senza fissa dimora che si trovavano nella fase conclusiva dell’espiazione.

Le misure messe in campo non assumevano significato puramente deflattivo, né si rivelavano tese a guadagnare spazio nel carcere – profilo pure rilevante –, ma erano pensate per favorire l’inserimento di soggetti economicamente vulnerabili in enti e strutture che potessero facilitare l’acquisizione di abilità finalizzate all’autonomo reinserimento nel tessuto sociale.

Bisogna augurarsi (e impegnarsi per) che questo progetto divenga strutturale e organico, dal momento che, oltre a rappresentare un successo di per sé, ma costituisce il concretizzarsi di un pensiero innovativo sul ruolo dell’amministrazione e sulla cultura delle pene. Non pare eccessivo ritenere che da questa filosofia, sottostante la stessa nascita di un dipartimento autonomo affiancato a quello dell’amministrazione penitenziaria, possa contribuire a riplasmare anche il modello della pena carceraria.

La prigione, in larga parte, assolve ancora al compito di esiliare la povertà colpevole, internandola. Un progetto come quello appena raccontato, al momento limitato ai tratti finali dell’espiazione, può costituire le basi di un cambiamento del paradigma funzionale: dall’esclusione all’integrazione. Dalla funzione si potrebbe passare alla struttura dell’organo: un paesaggio di tetre e giganti fortezze serve a poco, se i detenuti in alta sicurezza e 41-bis sono poco più di un decimo dell’intera popolazione detenuta; ripensare il carcere a livello edilizio e architettonico è un obiettivo non più rimandabile.

Se si avrà il coraggio politico e culturale per un investimento di questo tipo, allora l’emergenza sanitaria non avrà lasciato soltanto la sua tragica scia luttuosa. 

 

 

1. P. Buffa, Carcere e pandemia. Tra la ricerca delle responsabilità e l’urgente necessità di apprendere, in Diritto penale e uomo, n. 7/8, 2020, p. 27 (https://dirittopenaleuomo.org/contributi_dpu/carcere-e-pandemia/).

2. Nello stesso periodo di tempo, il virus compare nella prima nota del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, avente ad oggetto «Raccomandazioni organizzative per la prevenzione del contagio del coronavirus» (nota DAP, 22 febbraio 2020, n. 00611554).

3. E. Goffman, Asylums. Essays on the social situation of mental patients and other inmates, Vintage Anchor Publishing, New York, 1961, trad. it.: F. Basaglia, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi, Torino, 1978 (2010), p. 35.

4. Ivi, p. 53.

5. L.L. Stanley, Influenza at San Quentin Prison, in Public Health Reports, vol. 34, n. 19, 1919, pp. 996-1008.

6. L. Hawks - S. Woolander - D. McCormick, Covid-19 in Prisons and Jails in the United States, in JAMA Internal Medicine, vol. 180, n. 8/2020, p. 141 (anticipato su jamanetwork.com, 28 aprile 2020). Con altrettanta chiarezza, la definizione dei fattori di rischio in carcere è in B. Saloner et al., COVID-19 Cases and Deaths in Federal and State Prisons, sempre in JAMA Internal Medicine, vol. 324, n. 6/2020, p. 602: «La nuova malattia da coronavirus 2019 (Covid-19) rappresenta una sfida per le carceri a causa di un confinamento ravvicinato, dell’accesso limitato alle attrezzature di protezione personale e dell’elevato carico di malattie cardiache e respiratorie che esacerbano il rischio di Covid-19 tra i detenuti».

7. Oms, Regional Office for Europe, Preparedness, prevention and control of COVID-19 in prisons and other places of detention. Interim Guidance, 15 marzo 2020, www.euro.who.int/__data/assets/pdf_file/0019/434026/Preparedness-prevention-and-control-of-COVID-19-in-prisons.pdf.

8. La comparazione, ripetuta più volte, è del procuratore generale di Catanzaro, Nicola Gratteri. Compare per la prima volta in La nuova ‘ndrangheta, le carceri, il virus, intervista rilasciata a Il Fatto quotidiano, 3 aprile 2020.

9. Il rapporto di metà anno, Salute, tecnologie, spazi, vita interna. Il carcere alla prova della fase 2, è reperibile al link: www.antigone.it/upload2/uploads/docs/PreRapporto2020.pdf.

10. P. Gonnella, La concessione del telefono, in Aa. Vv., Il carcere al tempo del coronavirus. XVI Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, maggio 2020, p. 7, www.antigone.it/upload/ANTIGONE_2020_XVIRAPPORTO%202.pdf.  Tutti i dati presenti nel rapporto medesimo possono essere consultati al seguente link: https://docs.google.com/spreadsheets/d/1vpBBVlE3lSmj4jbJ90B8t9OZWXkVaLyeO0W1oUkhVxE/edit?usp=sharing.

11. Riferimenti appropriati al principio di equivalence of care, ribadito dalle Nazioni Unite anche in periodo di Covid-19, sono nella Relazione al Parlamento 2020 a cura del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, p. 71. Il testo integrale della Relazione è disponibile in questa Rivista online, 29 giugno 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/commento-alla-relazione-al-parlamento-2020-del-garante-nazionale-dei-diritti-delle-persone-detenute-o-private-della-liberta-personale.

12. Un’ampia rassegna di approfondimenti sul fallimento del processo riformatore è in La riforma spezzata. Come cambia l’ordinamento penitenziario, in questa Rivista trimestrale, n. 3/2018 (Ob. 2), pp. 113-145, www.questionegiustizia.it/rivista/2018-3.php.

13. Vds. il Progetto di inclusione sociale per persone senza fissa dimora in misura alternativa, a cura del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità - Direzione generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova, Ufficio II, Roma, 3 aprile 2020, https://giustizia.it/giustizia/it/mg_1_11_1.page?facetNode_1=0_2_25&contentId=SPR264443&previsiousPage=mg_1_11.