Magistratura democratica

Le fonti del diritto tra legalità e legittimità nell’emergenza sanitaria

di Marco Bignami

Lo scritto ripercorre le vicende normative accadute a seguito della diffusione del coronavirus. Si esamina in particolare il rapporto tra fonti statali e fonti regionali, nella duplice prospettiva della legalità e della legittimità.

1. Introduzione / 2. Legalità e legittimità: una precisazione terminologica / 3. Riflessi sul sistema delle fonti / 4. Le fonti statali dell’emergenza sanitaria / 5. Le fonti regionali e locali / 6. [Segue] / 7. Le fonti tra legalità e legittimità / 8. [Segue] / 9. Fonti e proporzionalità degli interventi / 10. Conclusioni


1. Introduzione

Questo scritto si propone di osservare come il sistema delle fonti abbia funzionato durante l’emergenza sanitaria da coronavirus. Non è dubitale che essa abbia generato una forte condizione di stress, alla quale si è reagito con una tecnica normativa meritevole di essere segnalata per due aspetti principali.

Anzitutto, l’urgenza è stata tale da rendere poco opportuno persino l’impiego dei soli decreti legge, anziché di dpcm basati sui primi, allo scopo di adattare la risposta sanitaria a impellenze epidemiologiche pressoché quotidiane. Da qui la concatenazione tra decretazione d’urgenza, decreti del Presidente del Consiglio, ordinanze del Ministro della sanità. In secondo luogo, a tali atti statali si sono continuamente sovrapposte (o hanno minacciato di sovrapporsi) ordinanze regionali e locali, in una spirale che ha reso il quadro normativo, a tratti, di difficile lettura.

I due fenomeni sono del resto collegati: proprio la natura rapsodica della crisi, capace di palesarsi con tratti frastagliati su scala geografica e temporale, non solo ha precluso la via di un’unica disciplina legislativa statale autosufficiente dai dpcm, ma ha anche reso le autorità decentrate naturali protagoniste degli eventi, in quanto maggiormente contigue alle loro molteplici manifestazioni.

Ora, a tali vicende è necessario guardare, prima di tutto, secondo il parametro della legalità. Occorre cioè domandarsi quale giudizio di validità/invalidità debba esprimersi con riferimento agli atti normativi con cui ci si confronta, sulla base dei parametri di conformità propri dell’ordinamento giuridico.

Sul punto, è bene mettere subito le carte in tavola: a parere di chi scrive, pur con qualche sbavatura, la prova è stata superata. Insomma, non vi è stato alcunché di incostituzionale (o, peggio, di anticostituzionale) nelle vicende normative che hanno interessato il nostro ordinamento sotto scacco. La decretazione d’urgenza, per una volta, è stata impiegata a proposito, e ha permesso di coprire con la riserva di legge gli atti secondari che ne sono seguiti, sotto il controllo del Parlamento, dell’opinione pubblica e, potenzialmente, del giudice. Quanto alle ordinanze regionali e locali, sono stati gli stessi decreti legge a prevederne l’oggetto, i limiti, l’efficacia temporale.

Detto ciò sul piano prescrittivo (che è quello primario dal quale il giurista è tenuto a partire), un approccio meramente descrittivo potrà trovare ulteriori spunti di riflessione nelle vicende appena trascorse.

Ciò che maggiormente ha colpito è stata la resurrezione delle Regioni a grandi protagoniste di scelte di politica nazionale. Ridotte oramai quasi al rango di enti di decentramento amministrativo, dopo la vana fiamma della revisione costituzionale del 2001, le Regioni hanno saputo imporsi nella veste di sostanziali co-decisori dei passaggi nodali della crisi. Ciò è accaduto, come si vedrà, sia adottando atti loro propri (o, forse più spesso, ventilandone l’adozione per indurre il Governo ad agire), sia conquistando il contenuto della fonte statale (le linee guida elaborate in sede regionale, in luogo di quelle statali, e recepite nel dpcm attuativo del dl n. 33/2020).

Certamente, è del tutto naturale che gli enti territoriali alzino la voce per veicolare i propri interessi nella normativa statale. Tuttavia, qui sembra esservi stato un ingrediente ulteriore. Non soltanto il confronto con gruppi di pressione, ai quali è ovvio che l’autorità centrale non possa sottrarsi, ma la rivendicazione stessa di prerogative non necessariamente confortate dalla legalità, ma piuttosto alimentate dalla virtù dell’essere rappresentativi del proprio “popolo”, improvvisamente rifondato quale corpo separato dalla cittadinanza nazionale. Basti pensare all’incredibile pretesa di vietare, o comunque limitare, l’accesso sul proprio territorio a persone residenti altrove, che è stata arma efficacissima di condizionamento delle scelte governative, pur nella palese incostituzionalità, al solo raffronto con l’art. 120, primo comma, Cost.

Che questa e simili altre posizioni fossero del tutto insostenibili giuridicamente non poteva sfuggire a nessun uomo di buona volontà. E, tuttavia, il fatto di rappresentare la propria comunità di base e di doverla proteggere contro l’“estraneo” (ovvero, al contrario, di essere chiamati a tutelarne l’interesse produttivo ad onta della salute altrui), ha offerto una base retorica formidabile per rivendicazioni la cui illegalità è stata parzialmente oscurata da pretese di legittimità.

Ciò merita attenzione. Sia perché ci rammenta che la legalità costituzionale non è un dato acquisito ora e per sempre, ma piuttosto un lascito sul quale è necessario vigilare perché non vada disperso; sia perché, quanto più specificamente all’oggetto del presente scritto, il sistema delle fonti rischia di essere inquinato dalle rivendicazioni di legittimità dei soggetti che sono nelle condizioni di creare diritto.

Competenza e gerarchia segnano le coordinate necessarie ove si colloca la produzione normativa. Per i protagonisti della vita pubblica, gli attori i cui processi di integrazione politica danno forma alle fonti, concretizzandole in specifici atti, un sistema regolatore è dunque la gabbia ove costringere i reciproci rapporti di forza, che, altrimenti, avrebbero la tendenza a tracimare.

E di tale tendenza la crisi da coronavirus è stata una spia molto indicativa.

 

2. Legalità e legittimità: una precisazione terminologica

Che si intenda per “legalità” e “legittimità” va ora precisato.

Pur nelle molteplici sfumature di senso che al binomio sono state assegnate, vi è una summa divisio che finisce per raggrupparle tutte, a seconda che la coppia abbia carattere oppositivo o complementare.

La seconda soluzione poggia sull’autorità di Max Weber. Come è noto, Weber reputa il potere legale una delle triplici forme con cui si manifesta la legittimità, e nello specifico quella fondata sulla razionalità. La legalità dell’ordinamento è perciò garante della sua legittimità, e viceversa, secondo un pensiero circolare che troverà l’epigono giuridico più illustre nella dottrina pura del diritto[1]. La forza di Weber consiste dunque nell’offrire una descrizione per idealtyp delle comunità susseguitesi nel corso delle vicende umane, che ne fotografa l’atto fondativo, e ne disseziona la struttura con acribia entomologica.

Ma a calare la relazione tra legalità e legittimità nell’agone della contingenza storica, rendendola in tal modo oppositiva e conflittuale, è stato Carl Schmitt[2]. Anche Schmitt illustra forme ideali di Stato, ma a fini meno teorici che strumentali alla riflessione sul crepuscolo della Repubblica di Weimar. Se la legalità è l’insieme delle disposizioni legislative prodotte dal Parlamento rappresentativo a canone di valutazione dell’agire dei consociati, la legittimità può definirsi come quell’altro insieme di condizioni fattuali, continuamente filtrate nell’agone politico, che conferisce legittimazione, in opposizione alla legalità[3]. Per Schmitt, ove tali ultime condizioni vengano meno, la legalità si svuota e si deve porre alla ricerca di un erede, che la ricostituisca in altra forma.

Di tale pensiero interessa in questa sede l’intuizione fondamentale in ordine alla storicità evolutiva del rapporto tra legalità e legittimità, incessantemente da ridefinire nei suoi termini compiuti al di là di ogni sistematica cartesiana.

Non, viceversa, il convincimento che la divaricazione tra legalità e legittimità imponga di necessità una ricapitolazione conclusiva, culminante in una nuova decisione fondativa. Schmitt è nella sostanza un manicheo, che procede per aut aut.  Le virtù del compromesso non gli sono congeniali. Il ripudio per lo Stato pluralista va di pari passo con la sua del tutto peculiare accezione di senso concernente i concetti generali e indeterminati della seconda parte della Costituzione di Weimar, che egli giudica quale parte del surplus politico (il «premio per il possesso legale del potere»), di cui la maggioranza si appropria in danno dell’opposizione[4]. La logica dell’amico/nemico non lascia spazio alla convivenza dei diversi.

Nello Stato costituzionale, viceversa, è proprio l’elasticità delle norme della Carta, la supposta indeterminatezza dei concetti, a permettere una costante riconciliazione tra legalità e legittimità, perché i moti che provengono da politica e società vi sono incanalati, fino al caso del consolidamento di essi, nell’immutevolezza del significante, in un significato rinnovato alla luce del patto pluralistico. Le crisi di legittimità non richiamano alla prova ordalica, ma sono al più occasioni di parziali adattamenti della legalità, che avvengono nella stabilità delle linee fondanti del quadro costituzionale.

Del resto, che l’emergenza sanitaria da coronavirus possa anche solo essere accostata allo stato di eccezione di cui Schmitt parla nella sua teologia politica è cosa che non si spiega[5], se non pensando a una frettolosa lettura, ovvero a una marcata sopravvalutazione di quanto è accaduto sul piano della legalità costituzionale.

Per Schmitt lo stato di eccezione si pone al di là del giudizio di legalità, perché «l’autorità dimostra di non avere bisogno di diritto per creare diritto»[6]. Ma, come ha implacabilmente dimostrato Massimo Luciani[7], non è questo il nostro caso: la “catena normativa” è stata puntualmente osservata. Stato di eccezione; dictator romano; tiranno greco; governo degli uomini anziché delle leggi; forza del fatto creatore del diritto, e così via, sono immagini che stimolano a rileggere i classici, ma poco calzanti per il caso di specie.

Ciò nonostante, resta di interesse fermarsi sulla tenuta della legalità durante l’emergenza sanitaria, in particolare nel rapporto con le istanze legittimiste che Regioni ed enti locali hanno cercato con brutalità di far valere.

Certo, siamo ben lontani dall’inquietante baluginio di Weimar, e dovremo accontentarci di vicende dotate di ben minor pathos, fortunatamente.

Tuttavia, resta rimarchevole la constatazione alla quale si giungerà al termine del presente lavoro: la fioritura di atti normativi e ordinanze le più varie non ha posto in crisi in linea astratta la legalità ordinamentale, alla luce della quale è, e sarebbe stato, tutt’altro che complicato risolvere le antinomie, adendo il giudice competente.

Le critiche che si sono mosse all’attuale riparto costituzionale delle competenze tra centro e periferia, insomma, appariranno ingenerose se con esse si è inteso sottintendere che quest’ultimo partorisce incertezze applicative, nei casi estremi delle crisi emergenziali. Si cercherà a breve di dimostrare proprio l’opposto.

Allo stesso tempo, nei fatti il rapporto tra fonte statale e fonte decentrata è stato piuttosto problematico perché ha risentito dei rapporti di forza tra i contendenti, e dello straordinario innalzamento del livello di legittimazione necessario per imporre, all’intera popolazione, costrizioni così affliggenti. La legalità sottostante alle istanze unitarie, in questo contesto fattuale, non sempre ha potuto affermare le proprie ragioni contro le riottose condotte delle autorità locali, il cui consenso è parso invece necessario, per rafforzare la legittimità delle misure da adottare.

«Chi è in grado di imporre il diritto mostra con ciò di essere competente a porre il diritto»[8]. Per scongiurare l’imposizione, lo si è detto, vi è la gabbia della gerarchia e della competenza. Ma quanto è rigida, questa gabbia?

 

3. Riflessi sul sistema delle fonti

Lo Stato costituzionale dissolve la sovranità in numerosi centri di imputazione delle scelte politiche. Per tale via, gerarchia e competenza si confrontano con la moltiplicazione democratica dei punti di produzione normativa, che è a sua svolta specchio del pluralismo sia istituzionale, sia sociale. Un enorme fattore di complicazione delle fonti moltiplica le occasioni di conflitto, fecondando le più gravi incertezze applicative. Non vi è scampo: tanto più il potere si rende diffuso per sostenere la democrazia e prevenirne il tracollo, quanto più cresce un’entropia che mina la certezza del diritto e, con essa, quella stessa democrazia che si vuole irrobustire nel prisma del pluralismo. L’ennesimo paradosso della democrazia (termine assai provocatorio per un assetto politico fondato sulla doxa) raggiunge le fonti del diritto.

L’emergenza da coronavirus rende plastico ciò che era già avvertito per schizzi di matita: il sistema delle fonti, sollecitato dall’impellente bisogno di funzionare a pieno regime per rispondere al pericolo, subisce l’attrazione dei rapporti di forza tra i decisori politici, che sono molti (Stato, Regioni, enti locali, per non parlare del ruolo, nemmeno troppo occulto, delle forze sociali e dei mezzi di informazione) e indossano altrettante maschere (decreti legge, dpcm, ordinanze ministeriali).

È certamente ancora possibile ricondurre il flusso nella gabbia, su questo vigilano sia la Corte costituzionale, sia i giudici comuni. Ma non è detto che quegli stessi assetti fattuali, che si vorrebbero domati attraverso la gerarchia e la competenza delle fonti, permettano a chi ne avrebbe titolo di appellarsi a un criterio formale di risoluzione del confronto. Come sempre, l’atto stesso di adire una Corte è al contempo un atto di esercizio della attribuzione che con quel ricorso si intende proteggere; perciò, esso è condizionato dal medesimo contesto di fatto che ha reso l’attribuzione controversa.

 

4. Le fonti statali dell’emergenza sanitaria

Veniamo ora a riassumere i fatti, partendo dalla prospettiva dello Stato.

Il 23 febbraio il Governo, scoppiato il caso di Codogno, adotta il dl n. 6/2020 (convertito in modo fulmineo dalla legge 5 marzo 2020, n. 13).

Siamo nelle fasi iniziali dell’epidemia, la cui diffusione è ancora largamente ignota. Il decreto legge trova perciò applicazione nelle sole aree ove si siano riscontrati casi di positività al virus (art. 1, comma 1). La tecnica normativa consiste: a) nell’elencare le misure restrittive che possono essere prescritte (art. 1, comma 2) e la cui violazione costituisce reato (art. 3, comma 4); b) nel permettere l’impiego di «ulteriori misure di contenimento», non meglio denominate, ma parimenti presidiate dalla sanzione penale (art. 2); c) nel demandare a decreti del Presidente del Consiglio dei ministri l’adozione in concreto delle restrizioni; d) nel consentire a Regioni ed enti locali di esercitare il potere di ordinanza contingibile e urgente previsto, in particolare, dall’art. 32 della legge n. 833 del 1978, ma esclusivamente fino a quando non sopraggiunga il dpcm (art. 3, comma 2).

L’insieme delle misure è estremamente largo, e tale da coinvolgere l’esercizio di numerose libertà costituzionali: divieti di accesso e di allontanamento dal Comune, e quarantena per chi sia stato a contatto con persone contagiate (art. 16 Cost.); sospensione della libertà di riunione, persino in luoghi privati (art. 17 Cost.) e di culto (art. 19 Cost.); chiusura delle attività commerciali e industriali (art. 41 Cost.) e limitazioni alle attività lavorative (art. 36 Cost.). Possono altresì essere ridefinite le condizioni di accesso ai servizi pubblici essenziali, a propria volta base per l’esercizio dei diritti.

Il dl n. 6/2020 descrive tali misure con dettaglio, nel caso dell’art. 1, e senza determinatezza, nel caso dell’art. 2; conferisce al dpcm il compito di decidere se attivarle e come graduarle; riaccentra la competenza in sede nazionale, perché circoscrive le ordinanze regionali e locali alla sola frazione temporale necessaria all’intervento del Governo.

L’idea di fondo traspare chiaramente: non vi è modo di prevedere se, dove e con quale intensità il virus colpirà. Bisogna perciò procedere passo a passo, valutando ogni evenienza, compito al quale il legislatore non è idoneo. Si preferisce, perciò, offrire una base legale agli atti dell’esecutivo, nella prospettiva anzitutto di diversificare la risposta; poi, di correggerla in corso d’opera. La cornice temporale offerta a Regioni ed enti locali, nonché la clausola di (apparente) copertura legale di misure innominate, tradisce la convinzione, ben suffragata dall’evidenza scientifica, che la celerità della reazione sia indispensabile alla sua efficacia.

È l’Italia divisa in zone colorate, alla quale dà vita il primo dpcm di una lunga catena, emanato lo stesso 23 febbraio del 2020: esso replica fedelmente le misure indicate dall’art. 1, comma 2, dl n. 6/2020, senza aggiungerne alcuna (l’art. 2 resta perciò inattuato), e si limita a decidere in quali Comuni del Lombardo-Veneto dovranno trovare applicazione. Precisa, poi, che sarà l’autorità sanitaria competente a disporre la quarantena presso il domicilio. L’efficacia dell’intervento è limitata a 14 giorni.

In seguito, la corsa del virus obbliga a una progressiva estensione delle restrizioni al resto della penisola (sono i dpcm del 25 febbraio, 1° marzo, 8 marzo, 9 marzo, 11 marzo e 22 marzo). Posto che il dpcm può tardare a giungere se un profilo di urgenza connota in modo repentino uno specifico tratto del territorio nazionale, Regioni ed enti locali ne approfittano per articolare una propria risposta preventiva, della quale però si tende a sostenere l’efficacia anche oltre la sopravvenienza, sul medesimo oggetto, dell’atto del Governo.

Ormai, la malattia imperversa sull’Italia intera e la strategia di un contenimento a macchia di leopardo non pare più efficace.

Il dl 25 marzo 2020, n. 19 (convertito dalla legge n. 35/2020) ha un vasto campo applicativo, pur continuando a rispecchiarsi nella logica normativa propria del dl n. 6/2020 (in larga parte abrogato), con la tecnica di descrivere le misure, oramai tutte dettagliate, e di affidarne l’esecuzione ai dpcm, restringendo lo spazio ricavato da Regioni ed enti locali grazie al precedente testo normativo. Tali misure sono oramai destinate a produrre effetto sull’intero territorio nazionale (art. 1, comma 1).

In particolare, il nuovo decreto legge: a) avverte il bisogno di convalidare i dpcm fino ad allora emanati, prendendo atto della loro vigenza (art. 2, comma 3); b) infittisce le misure adottabili: soprattutto, sopraggiunge la prerogativa di confinare chiunque nella propria dimora, permettendo di lasciarla solo per esigenze lavorative, di salute, o per urgenze (art. 1, comma 2); c) abbandona la sanzione penale a favore di quella amministrativa pecuniaria per chi viola le restrizioni, ma la rafforza per chi, positivo al virus, sfugga alla quarantena (art. 4, comma 6); d) limita il potere di ordinanza delle Regioni all’adozione di misure ulteriormente restrittive, e solo nelle more dell’adozione dei dpcm, mentre dichiara inefficaci le ordinanze dei sindaci in ogni caso di contrasto con le misure statali (art. 3), pur sanando quanto fino ad allora accaduto (art. 2, comma 3).

I dpcm si susseguono per prorogare l’efficacia temporale delle restrizioni (1° aprile) e in parte per affievolirle prima nei confronti delle imprese (10 aprile), poi di tutti (26 aprile). Con quest’ultimo atto (art. 10) si dichiara anche che continuano ad avere efficacia le misure più restrittive eventualmente adottate dalle Regioni (con previsione di dubbia legittimità nel confronto con quanto previsto dalla fonte primaria).

Infine, appiattitasi la curva epidemiologica, il dl n. 33/2020 riapre i battenti, con alcune limitazioni; contestualmente, il dpcm 17 maggio 2020, nel darvi attuazione, recepisce nel suo corpo le linee guida elaborate dalle Regioni, in particolare quanto ai criteri di riapertura delle attività di impresa.

In sintesi, hanno convissuto e convivono nel nostro ordinamento plurimi atti statali correlati all’emergenza sanitaria, per quanto qui interessa: tre decreti legge; parecchi dpcm; ordinanze del Ministro della salute (art. 2, comma 2, dl n. 19/2020).

 

5. Le fonti regionali e locali

Alle fonti statali, nella gestione dell’emergenza si è affiancata una pletora di ordinanze regionali e comunali, intese in un primo momento per lo più in senso restrittivo, e poi, nella cd. “seconda fase”, nella direzione opposta[9].

Per valutare la legittimità di una simile sovrapposizione agli atti statali, occorre premettere che tali ordinanze contingibili e urgenti sono anch’esse soggette al principio di legalità, e debbono perciò trovare fondamento nella legge.

Quanto alla legislazione statale di principio in materia di tutela della salute e protezione civile, gli artt. 32 l. n. 833/1978, 117 d.lgs n. 112/1998 e 50 d.lgs n. 267/2000 riconoscono a Regioni ed enti locali il potere di ordinanza, anche per ragioni di igiene e sanità pubblica, ma pur sempre con efficacia limitata al corrispondente territorio. Il riferimento alla «efficacia», contenuto nell’art. 32, va correttamente inteso alla luce del successivo art. 117, che precisa come la competenza sia ripartita tra Stato, Regioni e Comuni «in ragione della dimensione dell’emergenza». Non è, perciò, che l’attribuzione spetti per il solo fatto, di per sé ovvio, che le ordinanze producano effetti sul solo territorio locale; vi è, invece, che essa non sussiste, perlomeno sulla base di tale normativa, una volta che si sia palesato il carattere nazionale della crisi. In tale ipotesi, le autorità locali dovranno, piuttosto, riferire a quelle centrali, perché siano queste ultime a provvedere.

Tale riparto della funzione amministrativa, in materie oggetto di potestà legislativa concorrente, non suscita dubbi di legittimità, neppure alla luce del principio di sussidiarietà verticale. Nella prima fase della crisi, quando non era dato neppure capire il grado di diffusione del virus sull’intero territorio della Repubblica e si poteva pensare a isolati focolai locali, non pareva discutibile la legittimità di eventuali ordinanze di urgenza a livello decentrato. A condizione, va aggiunto, che esse fossero adottate nel rispetto dell’art. 120, primo comma, Cost., che vieta alla Regione di ostacolare la libera circolazione delle persone tra le Regioni: dunque, bene un impedimento a lasciare il proprio Comune per raggiungerne un altro nella Regione, male (e incostituzionale) il divieto di entrare o uscire dalla Regione stessa.

In seguito, il legislatore statale, con i ddll nn. 6/2020 e 19/2020, ha inteso dettare una disciplina di principio ad hoc per l’emergenza coronavirus, che ha coinvolto anche il potere locale contingibile e urgente.

Come si è visto, il dl n. 6/2020 permette l’impiego delle ordinanze contingibili e urgenti di Regioni ed enti locali, sulla base della normativa richiamata a inizio paragrafo (art. 3, comma 2): dunque, nonostante evidenze di un carattere nazionale della crisi, si consente che le autorità decentrate si attivino in ogni caso, ma soltanto «nelle more dell’adozione» dei dpcm. Il significato dell’espressione non si presta ad equivoci: una volta che l’atto statale abbia regolato la fattispecie, ad esempio ritagliando le zone rosse, o stabilendo quali attività commerciali debbano arrestarsi e quali proseguire, non vi è più spazio per un analogo intervento decentrato, né in senso ampliativo, né in senso restrittivo.

Come si sa, le cose non sono andate in questo modo, e la alluvionale produzione locale non si è arrestata[10].

Il dl n. 19/2020 ha ritenuto opportuno farla salva, il che esime dall’interrogarsi ora sulla legittimità degli atti così adottati. Al contempo, si è precisato che, sempre nelle more dei dpcm e fino al loro sopraggiungere, le Regioni, «in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario», sono competenti a prescrivere ulteriori misure restrittive (art. 3, comma 1). In tale fase, dunque, è da ritenere che le ordinanze regionali possano anche sovrapporsi a oggetti regolati dai dpcm (ad esempio, istituendo altre zone rosse), ma solo nella direzione di renderle più stringenti (se la situazione epidemiologica fosse peggiorata), e fino a che non sia emanato un nuovo dpcm.

Quanto invece ai Comuni, il dl n. 19/2020 preclude loro il ricorso al potere di ordinanza su qualsivoglia profilo già regolato dagli atti statali, di per sé già ampiamente esaustivi (art. 3, comma 2).

 

6. [Segue]

Va poi considerata l’eventualità che il potere di ordinanza regionale e locale trovi il proprio fondamento giuridico nella legge regionale, anziché in quella statale. La giurisprudenza costituzionale ammette che la riserva di legge contenuta nell’art. 16 della Costituzione si riferisca anche alla fonte regionale (sentenze nn. 51/1991 e 264/1996). Inoltre, l’art. 7, comma 1, lett. b, d.lgs n. 1/2018 (codice della protezione civile) contempla l’impiego locale di «poteri straordinari», purché disciplinati dalla legislazione regionale.

Naturalmente, la trattazione del tema richiederebbe un’analisi dettagliata di ciascuna legislazione regionale pertinente, ciò che esula dall’oggetto del presente scritto.

In linea di massima, però, dovrebbe ritenersi che anche eventuali atti legislativi di siffatta natura, se preesistenti all’emergenza, siano stati superati dalle norme di principio contenute nella decretazione d’urgenza, che li avrebbe abrogati con il meccanismo previsto dall’art. 10 della “legge Scelba”. Abrogazione efficace per la parte in cui, in riferimento all’emergenza del nuovo coronavirus, le disposizioni statali di principio mutano la legislazione di cornice, regolando direttamente una fattispecie in precedenza normata dal legislatore regionale in forza della pregressa normativa statale.

 

7. Le fonti tra legalità e legittimità

Soffermiamoci ora sul funzionamento del sistema delle fonti, nel rapporto tra ordinanze statali e atti decentrati.

Il quadro appena tratteggiato non lascia spazio a gravi incertezze esegetiche: offre, in altri termini, all’interprete un tragitto agevole per superare le antinomie.

Regioni ed enti locali sono titolari, in base alla legge dello Stato, del potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti, con riferimento alle sole emergenze localizzate nei rispettivi territori. Ove, invece, esse abbiano carattere nazionale, l’art. 25, comma 1, d.lgs n. 1/2018 si limita a coinvolgere la Regione, con il meccanismo dell’intesa, nell’adozione delle ordinanze statali di protezione civile, al fine di coordinare gli interventi.

Nel caso di specie, peraltro, è prioritario il profilo della salute pubblica, al quale corrisponde la competenza legislativa concorrente “tutela della salute”.

Le autonomie, quindi, neppure potrebbero intervenire nell’esercizio delle vaste attribuzioni loro riconosciute in materie i cui oggetti sono intersecati dai provvedimenti di sanità: non potrebbero, ad esempio, aprire o chiudere esercizi commerciali in forza del titolo residuale sul commercio, atteso che le serrande si alzano o si abbassano con riferimento all’interesse della salute, che segna la competenza a decidere secondo il criterio della prevalenza.

Si può anche ipotizzare che la decretazione d’urgenza, nel perimetrare il campo di efficacia delle ordinanze regionali e locali, non abbia con ciò operato alcuna chiamata in sussidiarietà quanto al potere di emanare ordinanze contingibili e urgenti. La chiamata in sussidiarietà, infatti, richiede che vi sia bisogno di accentrare l’esercizio della funzione amministrativa e che, di conseguenza, a ciò si debba accompagnare una disciplina legislativa di essa, che lo Stato non sarebbe in linea di principio competente a dettare nelle materie attribuite alla potestà legislativa regionale (un modello teorico lanciato dalla notissima sentenza n. 3030/2003 della Corte costituzionale e mai smentito fino ad oggi). Nel nostro caso, alle Regioni e agli enti locali spetta il potere di provvedere d’urgenza, in deroga a norme vigenti, solo per emergenze di carattere territorialmente circoscritto all’area di loro competenza. Lo Stato non ha perciò necessità di avocare alcunché a sé, posto che la natura nazionale della crisi ne fonda già la competenza a provvedere. Inoltre, nessuna regolamentazione giuridica ad hoc, per la quale il legislatore statale sarebbe privo di competenza, si accompagna alla presunta chiamata, come invece dovrebbe accadere in tali casi. Sarebbe invero assai curioso che la legislazione statale, a fronte di una malattia ad amplissimo spettro di diffusione sul territorio nazionale, non potesse decidere di chiudere i confini di un comune lombardo o siciliano, se non attraendo a sé una funzione che, stanti tali presupposti, nessun regionalismo le può sottrarre normativamente. In conclusione, sia la carenza di un’attribuzione normativa alle autonomie del potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti a fronte di un’emergenza nazionale, sia la già sussistente potestà legislativa statale a disciplinare la materia rendono assai dubbio che sia corretto tecnicamente ragionare nei termini di una chiamata in sussidiarietà.

Del resto, se di attrazione sussidiaria si trattasse, essa sarebbe allora illegittima perché accompagnata dal solo coinvolgimento del presidente della giunta regionale, che viene sentito, anziché dalla doverosa intesa richiesta dalla giurisprudenza costituzionale.

Altro discorso, naturalmente, varrebbe nel caso in cui il Governo avesse deciso di “commissariare” le sanità regionali, ovvero le strutture amministrative che senza dubbio pongono capo all’autonomia decentrata. Tale risposta, senz’altro ammessa dall’art. 120, secondo comma, della Costituzione, non è però mai stata neppure ipotizzata seriamente.

 

8. [Segue]

Ne consegue che la gestione statale del sistema delle fonti ha, contrariamente all’apparenza, non già conculcato le autonomie, ma piuttosto subito la forza legittimante che derivava loro dalla compenetrazione con i territori colpiti, dall’appoggio di parte dell’opposizione e dei mezzi di informazione, dal controllo esercitato sull’organizzazione sanitaria e dei servizi.

Il Governo ha insomma conferito ulteriore base legale alle autonomie, perché esse potessero provvedere con urgenza: non si è maliziosi nel ritenere che ciò sia accaduto non solo per dotarsi di un mezzo di pronta reazione, ma anche per distribuire verticalmente la responsabilità politica della gestione della crisi, la cui enormità non ha potuto poggiare sulle sole spalle dell’Esecutivo nazionale (basti ricordare la polemica sul soggetto, se Stato o Regione, al quale spettasse chiudere le zone del bergamasco già altamente contagiate nel mese di febbraio, e ugualmente lasciate aperte alla circolazione). Quest’ultimo è il vero tratto significativo sul funzionamento del sistema delle fonti durante la crisi.

Sul piano giuridico, il conferimento alle autonomie territoriali del potere di ordinanza si è accompagnato alle estreme cautele riassunte nei paragrafi precedenti. Il dl n. 19/2020, con un ulteriore giro di vite, vi ha poi affiancato anche le ordinanze del Ministro della salute (art. 2, comma 2).

Sul piano politico, invece, è sotto gli occhi di tutti che un variegato complesso di fonti decentrate abbia concorso a governare l’emergenza, posto che il Governo non ha ritenuto spesso né di annullarle ai sensi dell’art. 138 Tuel e 2, comma 3, legge n. 400/1988, né di impugnarle, quanto agli atti regionali.

Certamente, ciò talvolta è accaduto, e i Tribunali amministrativi sono stati pronti nell’applicare i criteri di gerarchia e competenza per tutelare l’istanza centralista, proprio come un osservatore esterno interessato alla legalità si sarebbe aspettato che accadesse[11]. Ma, a essere onesti, si è trattato di un contenzioso avviato con Regioni (le Marche; la Calabria) il cui peso politico non è particolarmente significativo.

Per le Regioni del Nord produttivo, motore economico del Paese, il discorso cambia. Rappresentate da presidenti di giunta quando non popolari, certamente di visibilità nazionale; forti di una netta maggioranza politica, militante dal lato dell’opposizione parlamentare; sostenute dal mondo dell’impresa e della cultura (si pensi alla proprietà dei maggiori mezzi di informazione del Paese, nella sostanza concentrata tra Lombardia e Piemonte) che, anzi, detta loro la linea e influenza grandemente l’opinione pubblica. Insomma, assai potenti, queste Regioni non possono essere liquidate facilmente.

Non si sfugge, infatti, all’impressione che i passaggi salienti della crisi sanitaria siano stati in larga misura dettati al Governo, sia quando si è trattato di fermare l’Italia (Roma esitava), sia quando è stato il tempo di riavviarla (Roma temeva).

Il dl n. 19/2020 arriva in corsa, solo dopo che il Nord annuncia pubblicamente che, in caso contrario, avrebbe provveduto da sé. La riapertura delle attività è decisa a maggio, in anticipo sul calendario previsto, perché le Regioni la pretendono, e già fanno da sé.

Vi è poi l’art. 120, secondo comma, della Costituzione, che consente al Governo di sostituirsi alle autonomie territoriali per i casi di grave pericolo per l’incolumità pubblica. Chi maneggia la giurisprudenza costituzionale sa bene che il ricorso a tale strumento di garanzia dell’unità nazionale è tutt’altro che raro. Proprio in campo sanitario, un discreto numero di Regioni è stato ad esempio sostituito da commissari ad acta statali per ripianare il debito accumulato, perdendo così ogni autonomia. Naturalmente, non si tratta di occupare militarmente l’ente con il proprio personale, ma, piuttosto, di impartire direttive vincolanti di azione. Nel caso del nuovo coronavirus, sarebbe stato, ad esempio, assai prezioso coordinare un’unica strategia nazionale sui tamponi da effettuare per monitorare l’andamento dell’epidemia; sull’assistenza domiciliare da riservare ai contagiati; sulle terapie da impiegare, e così via. Si è invece andati in ordine sparso, ciò che ha minato la capacità stessa di avere un quadro certo dei progressi epidemiologici, per adattarvi le forme di contenimento.

A ben vedere, la scelta del Governo, a partire dal dl n. 19/2020 e in avanti, di riservare il medesimo trattamento a tutte le Regioni d’Italia, quale che ne fosse lo stato di salute (come è noto, assai diverso da territorio a territorio), è stata politicamente la sola arma a disposizione per sostenere l’istanza unitaria.

Diversificando, si sarebbe rimarcato ulteriormente uno spazio giuridico aperto alle incursioni corsare di chi lo amministra in sede decentrata.

E, infatti, al dl n. 33/2020, che abbandona la strada delle misure nazionali a favore di risposte per specifiche aree territoriali, si accompagna contestualmente il dpcm del 17 maggio 2020, con cui è segnata la rivincita delle Regioni. Nel recepire le linee guida concordate dalle autonomie sulle cautele da osservare nell’esercizio dell’impresa, e del commercio in particolare, l’unità si recupera, ma dal basso. A imporsi non è il volto della Repubblica una e indivisibile, nei cui tratti ombreggiano i lineamenti del Governo[12], ma, piuttosto, quello – davvero inedito – di una Repubblica una, in quanto divisa territorialmente. La fonte statale è stata conquistata, la competenza normativa si arrende ai rapporti di forza.

Che dire, in conclusione? A ben vedere, non è parso difficile il governo giudiziario delle antinomie tra fonti statali e fonti regionali e locali. Tutt’altro è stato invece da dirsi, quanto alla capacità e alla volontà politica del potere centrale di far valere innanzi ad un giudice l’esorbitanza dai propri confini, da parte delle scalpitanti autorità decentrate.

La legalità costituzionale traccia saldamente la rotta; il giudice vigila sugli incidenti di percorso; ma sono poi sia criteri di legittimità, sia la brutalità dei fatti che ne è il retroterra, a stabilire quale fonte del diritto si imporrà, quando l’atto che ne è espressione non possa essere impugnato per motivi che appartengono meno al diritto che alla politica.

 

9. Fonti e proporzionalità degli interventi

Ma perché a impugnare non sono stati i cittadini? Veniamo ora alla controversa dinamica delle fonti statali, scandita dall’alternanza di due decreti legge e numerosi dpcm.

Chi scrive, come si è detto prima, resta convinto che in ciò non vi sia stato alcunché di incostituzionale, perché la decretazione d’urgenza è stata concepita proprio per lo scopo per il quale essa è stata qui usata; e perché è stata quest’ultima, e non i dpcm, ad assolvere alle condizioni poste dalla riserva relativa di legge in tema di libertà di circolazione, affinché con i secondi fossero concretizzate, con discrezionalità tecnica, le misure da prescrivere[13].

Ma molti commentatori sono stati di opinione opposta[14]. Ora, posto che tale opinione deve essere stata condivisa da numerosi operatori del diritto, ben allenati alla palestra dei tribunali, per quale ragione nessuno di questi si è intestato una battaglia civica per chiedere al giudice di fermare la barbarie giuridica? Il convincimento sull’alterazione del sistema delle fonti, a causa del presunto e biasimato capovolgimento tra atti aventi forza di legge e atti secondari, non è stato pari alla determinazione di far valere il vizio di legittimità costituzionale.

Quale che sia l’opinione che si abbia a proposito di tali tesi giuridiche, il punto è che, ancora una volta, la cruda realtà dei fatti ha ostruito ogni via. Si può cioè supporre che si sia dovuto capitolare avanti alla necessità, da tutti avvertita, che quelle stesse misure di cui si predicava la difformità dalla legalità costituzionale restassero efficaci. Il vuoto normativo avrebbe potuto conferire al virus l’impulso per dilagare e seminare morte. Ciò che, ovviamente, nessuno voleva accettare, quale rischio della propria campagna di legalità.

I fatti, insomma, tendono ad atteggiarsi a fonte, al punto che un autore ha ipotizzato (a parere di chi scrive, in modo non condivisibile) sia la illegittimità delle restrizioni, sia la conformità di esse alla superiore legalità circostanziale dell’emergenza[15].

Se tale circostanza mostra in potenza la dicotomia tra fonti legali e fonti legittime, alla quale può condurre l’abbandono dei criteri di gerarchia e competenza, dall’altro lato resta assai dubitabile che, nel concreto, la divaricazione abbia davvero avuto luogo.

Debbono venir distinte due fasi, che si potrebbero definire dell’emergenza (vi siamo tutt’ora) e dell’emergenza nell’emergenza (finora, i mesi da febbraio a maggio del 2020, sperando di non dovervi tornare nel prossimo futuro).

La seconda non poteva essere affidata al governo della legge ordinaria, e persino la decretazione d’urgenza non sarebbe bastata a stare dietro a un mutamento dello stato dei fatti così repentino, da richiedere adattamenti persino ad horas.

La legge, in materie siffatte, è accerchiata da un movimento concentrico. Per un verso, avanza la baldanzosa pretesa della tecnica di surrogare la politica, sterilizzando il conflitto attraverso un ecumenismo epistemologico, dei cui presupposti è lecito peraltro dubitare; per altro verso, generalità e astrattezza si confrontano con il nuovo costituzionalismo “dal volto umano”, che esige rispetto per l’assiologia del caso giudiziario, e volge la coerenza intrinseca della legge (criterio della ragion pura) in proporzionalità (criterio della ragion pratica).

La costrizione del legislatore all’osservanza di certi presupposti scientificamente dati si combina con il dovere di valutare l’idoneità, la necessità e la proporzionalità stretta dell’atto prescrittivo, al punto che, in date circostanze estreme di emergenza, tali condizioni di legittimità costituzionale non possono essere soddisfatte.

Non può ritenersi necessario, in senso tecnico, un intervento più gravoso di un altro che, a parità di efficacia, ottenga il medesimo obiettivo perseguito, ma con un sacrificio minore. Non è idoneo un atto che, pur comprimendo le libertà, ugualmente non è sufficientemente rigido da raggiungere lo scopo. Non è adeguatamente bilanciata una norma che, a fronte di condizioni epidemiologiche del tutto differenti, ottiene per l’intera penisola un’identica “pesatura” dei principi in conflitto.

Allora, l’estrema difficoltà per la legge di combinarsi con tali requisiti di proporzionalità, nel mentre la realtà fattuale muta senza sosta, è palese, e la espone a censura.

Viceversa, tali requisiti sono ben più facilmente presenti in un atto secondario, modificabile in un lampo, che si adatti all’andamento del contagio e tenga conto, giorno per giorno, delle risultanze mediche e scientifiche. Solo quest’atto può reggere al test della proporzionalità, nel caso estremo che si è manifestato.

È quindi la legge, e non il dpcm, che sarebbe sospetta di illegittimità costituzionale, se ambisse a una disciplina uniforme e tendenzialmente stabile degli strumenti di contrasto a un’epidemia subdolamente cangiante con grande imprevedibilità.

Durante l’“emergenza dell’emergenza”, insomma, nel rapporto tra fonti non si è disarticolata la gerarchia (come invece denunciano i critici), posto che la copertura formale del dpcm riposa sempre sull’atto avente forza di legge. Piuttosto, la realtà fattuale ha ingiunto a ciascuna fonte un suo contenuto peculiare: il legislatore appronta le misure, il Governo deve dosarle con proporzionalità, come ci ricorda acutamente Giovanni Tulumello[16].

Del resto, se la priorità di salvare la vita (più che un valore “tiranno”, la precondizione stessa dell’esercizio di ogni altra libertà) nella primissima fase dell’infezione non può essere raggiunta se non con la cessazione di ogni attività, allora i margini del compromesso politico sono ben ristretti. Quando si chiude, si chiude. Il tempo del bilanciamento è provvisoriamente sospeso, la tirannia della vita non ammette dissenso.

Naturalmente, la “sola” emergenza è un’altra faccenda. Una volta ammesso che con il virus si debba convivere per lungo tempo, e raggiunte le condizioni materiali perché ciò sia compatibile con la tutela della vita (incremento dei posti di terapia intensiva, distribuzione di materiale protettivo, e così via), le esigenze di un bilanciamento politico-parlamentare lievitano. Nella persistenza dei criteri di gerarchia e competenza delle fonti, la realtà dei fatti cessa di prescrivere contenuti. Anzi, il principio di legalità sostanziale, entro il primato del processo di integrazione politica parlamentare, conduce a rivisitarli. Spetta alla legge ora elaborare una strategia, trovare il punto di equilibrio di lungo periodo, decidere le attività da privilegiare e quelle da posporre, garantire le libertà costituzionali. Perché, per limitarsi a un solo esempio, un conto è chiudere fabbriche e chiese, altro conto aprire le prime e tenere serrate le seconde. Il dubbio che la libertà religiosa non sia illegittimamente dimidiata dovrà trovare risposta in dati epidemiologici incontrovertibili, non aggirabili con mezzi di contenimento, soggetti allo scrutinio del legislatore.

 

10. Conclusioni

Alcune parole conclusive. Il coronavirus ha testato le capacità della nostra Costituzione di opporsi alle catastrofi naturali, orientare le scelte valoriali, attivare con efficacia le fonti del diritto. La risposta è stata eccellente. La Costituzione ha mostrato di avere in sé ogni strumento per gestire la crisi, anche in condizioni di estrema urgenza e concitazione, nel contempo rispettando la forma di governo e le libertà costituzionali, pur compresse temporaneamente in misura estremamente severa, ma purtroppo inevitabile.
Nei fatti, la crisi suggerisce di separare l’approccio descrittivo da quello prescrittivo, quanto al sistema delle fonti. La legalità costituzionale dell’assetto fondante non è posta in discussione. Gerarchia e competenza continuano a consentire la risoluzione dei contrasti tra centro e periferia, orientando allo stesso tempo il rapporto tra atti aventi forza di legge e fonti secondarie.
Ma il pluralismo proprio della Costituzione si interseca al piano della legittimità, mentre ferve il lavorio di ridefinizione dei confini di un potere oramai del tutto diffuso. Le ipoteche che la fonte statale ha subito ad opera delle Regioni sono state molteplici, sia perché si è consentita la permanenza nell’ordinamento di atti regionali di dubbia legittimità, omettendo di impugnarli; sia perché il contenuto stesso della normativa statale è stato infiltrato dalle autonomie, fino all’inclusione in un dpcm di linee guida “nazionali”, ma concordate dalle Regioni tra loro.
Non si è trattato solo dell’esercizio delle consuete pressioni degli interessi organizzati sul legislatore. Vi è stata anche l’ambizione politica di affermare la prevalenza, o se si vuole la concorrenza, della fonte regionale rispetto a quella statale, con una disinvolta riscrittura della legalità, forte del radicamento sul territorio delle autonomie. Una pretesa, insomma, di reindirizzare la legalità sulla base della legittimità. Sul piano descrittivo, che è quello che ora interessa, è un fenomeno perlomeno degno di essere valutato.
Tuttavia, non si dimentichi questo: le ipoteche politiche che si avanzano sulle fonti possono rivelarsi caduche quanto le condizioni che le hanno generate. La durezza dei criteri di gerarchia e competenza, finché un giudice indipendente ne assicura la tutela, è uno scoglio che si può talora aggirare con una buona rotazione della nave, ma sul quale è anche facile fare naufragio, se gli si punta direttamente contro.

 

1. N. Bobbio, Teoria generale della politica, Einaudi, Torino, 2009, pp. 82 ss.

2. C. Galli, Crisi, morte e trasfigurazione di una Repubblica, introduzione a C. Schmitt, Legalità e legittimità, Il Mulino, Bologna, 2018 (1932), p. 20.

3. C. Schmitt, Legalità, op. ult. cit., p. 44, in dichiarata polemica con Weber.

4. C. Schmitt, ivi, pp. 65 ss.

5. Sul punto, con esattezza, T. Epidendio, Il diritto nello “stato di eccezione” ai tempi dell’epidemia da coronavirus, in Giustizia insieme, 19 aprile 2010, www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/957-il-diritto-nello-stato-di-eccezione-ai-tempi-dell-epidemia-da-coronavirus.

6. C. Schmitt, Le categorie del “politico”, 1972, p. 40 – ed. or.: Politische Theologie, Duncker & Humblot, Monaco-Lipsia, 1922.

7. M. Luciani, Il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, in Rivista AIC, n. 2/2020, pp. 109-141.

8. G. Radbruch, Rechtsphilosophie, Quelle & Meyer, Lipsia, 1932, citato in C. Schmitt, Legalità, op. cit., p. 130.

9. L’analisi più sistematica di questo profilo si deve a M. Luciani, Il sistema, op. cit., e a S.G. Guizzi, Stato costituzionale di diritto ed emergenza Covid-19: note minime, in Il diritto vivente, numero monografico, giugno 2020, pp. 18 ss., www.magistraturaindipendente.it/attache/25/file/Il_diritto_vivente_n._speciale_COVID-19_DEF_%281%29.pdf.

10. Secondo S.G. Guizzi, op. ult. cit., è «quanto mai opportuna (…) la decisione di circoscrivere l’ambito di intervento regionale» (vds. p. 38) da parte del legislatore statale. E ciò anche alla luce delle ripetute violazioni inflitte a tale previsione.

11. Oltre alla giurisprudenza richiamata da M. Luciani, Il sistema, op. cit., si può leggere la sopravvenuta sentenza del Tar Calabria, 9 maggio 2020, n. 841.

12. Corte costituzionale, sentenza n. 274/2003.

13. In questo senso risale la catena normativa e ne dimostra la conformità a Costituzione M. Luciani, Il sistema, op. cit.

14. Tra questi, M.G. Civinini e G. Scarselli, Emergenza sanitaria. Dubbi di costituzionalità di un giudice e di un avvocato, in questa Rivista online, 14 aprile 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/emergenza-sanitaria-dubbi-di-costituzionalita-di-un-giudice-e-di-un-avvocato_14-04-2020.php; F. Filice e G. Locati, Lo Stato democratico di diritto alla prova del contagio, ivi, 27 marzo 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/lo-stato-democratico-di-diritto-alla-prova-del-contagio_27-03-2020.php; A. Natale, Il decreto legge n. 19 del 2020: le previsioni sanzionatorie, ivi, 28 marzo 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/il-decreto-legge-n-19-del-2020-le-previsioni-sanzionatorie_28-03-2020.php; G.L. Gatta, I diritti fondamentali alla prova del coronavirus. Perché è necessaria una legge sulla quarantena, in Sistema penale, 2 aprile 2020, www.sistemapenale.it/it/articolo/diritti-fondamentali-coronavirus-necessaria-una-legge-sulla-quarantena-gian-luigi-gatta.

15. F.S. Marini, Le deroghe costituzionali da parte dei decreti-legge, in Federalismi, paper, 22 aprile 2020.

16. G. Tulumello, Ex captivitate salus?, in Giust. amm., n. 4/2020 (www.giustamm.it/print/dottrina/6241).