Magistratura democratica

Il diritto iperbolico dello stato di emergenza

di Enrico Scoditti

Il diritto dello stato di emergenza, in quanto iperproduzione di doveri e di diritti, pone il problema della sostenibilità del diritto per la società. L’analisi dell’effettività del diritto comporta una teoria della società e dell’azione sociale. La società è all’altezza della straordinaria domanda di tutela di diritti che lo stato di emergenza rilascia se persegue gli ideali regolativi che il moderno processo di civilizzazione ha insediato in essa.

1. Stato di eccezione e stato di emergenza: sospensione o intensificazione del diritto / 2. Cosa significa effettività del diritto? / 3. Una società all’altezza del diritto

 

1. Stato di eccezione e stato di emergenza: sospensione o intensificazione del diritto

Lo stato di emergenza produce l’intensificazione del diritto. Lungi dall’essere una condizione di vuoto del diritto, l’emergenza è il luogo di emersione del diritto iperbolico. Si misura qui la differenza fra lo stato di emergenza e lo stato di eccezione secondo Carl Schmitt. All’eccezione, come con solennità ricordano le celebri pagine di Schmitt, corrisponde uno stato di sospensione dell’intero ordinamento. Nel vuoto del diritto irrompe la nuda forza della politica perché «la decisione si rende libera da ogni vincolo normativo e diventa assoluta in senso proprio»[1]. Non è questa la sede per discutere la questione se al principio di un ordinamento vi sia la norma giuridica (sia pure quale presupposto trascendentale nella forma della norma fondamentale di Kelsen) o la decisione politica (Schmitt). È sufficiente osservare come qui non si dia un paradosso, in base al quale, come è stato scritto, sarebbe il diritto ad auto-sospendersi nello stato di eccezione, per cui sarebbe ancora «la norma che si applica all’eccezione disapplicandosi, ritirandosi da essa»[2]. La prospettiva di Schmitt è più radicale: lo stato di eccezione precede il diritto, perché «l’autorità dimostra di non avere bisogno di diritto per creare diritto»[3]. Piuttosto l’eccezione, per la sua carica di originarietà ed emancipazione da vincoli che la precedano, può essere non meramente sospensiva del diritto, e ambire ad essere eccezione costituente, fondativa di un nuovo ordinamento[4]. Sotto quest’aspetto lo stato di eccezione confluisce nella complessa problematica del potere costituente.

Nulla di tutto questo accade nello stato di emergenza. È vero che Schmitt parla a proposito dello stato di eccezione come di «caso estremo di emergenza», ma si tratta di una «emergenza esterna, come pericolo per l’esistenza dello Stato o qualcosa di simile»[5]. Fra lo stato di eccezione e lo stato di emergenza la soluzione di continuità non può essere più netta. Lo stato di emergenza, come ha rivelato la pandemia da Covid-19, è dominato fino all’estremo dal diritto, nei termini che saranno illustrati a breve. Perché il dominio del diritto non sia espressione di una volontà tutta politica, come nello stato di eccezione delineato da Schmitt, è però necessario che non ricorra ciò che, al contrario, connota lo stato di eccezione, la sospensione di quel diritto che rende legittima la produzione di diritto. A differenza degli atti di eccezione del sovrano schmittiano, nello stato di emergenza l’autorità politica ha bisogno di diritto per creare diritto. L’eccezione è ciò che è fuori della regola, l’emergenza presuppone invece una regola che la definisca. L’eccezione schmittiana è l’assolutamente altro rispetto al diritto, l’emergenza implica una norma che ne fissi i presupposti di ricorrenza e le modalità normative mediante cui disciplinarla. Insomma, l’eccezione è un fatto che fuoriesce dalla regola, l’emergenza è un fatto cui la regola collega determinate conseguenze giuridiche.

Lo stato di emergenza nell’età del costituzionalismo democratico non deve mai mettere da parte gli istituti di garanzia costituzionale e il principio di proporzionalità quale metodologia di coordinamento dei principi nel moderno pluralismo costituzionale. Le limitazioni al diritto di circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale devono essere proporzionate ai motivi di sanità o di sicurezza, che le giustificano secondo l’art. 16 della Costituzione, e devono sempre essere sindacabili davanti a un giudice, non solo sul piano sostanziale dell’esistenza del presupposto dello stato di emergenza e del rispetto del criterio di proporzionalità, ma anche sul piano formale della conformità all’ordinamento del tipo di provvedimento che stabilisca quelle limitazioni. La produzione di diritto a mezzo di diritto è la prima cesura fra lo stato di eccezione schmittiano e lo stato di emergenza che le democrazie costituzionali hanno conosciuto con l’esplosione della pandemia.

In questo quadro non sembra ingiustificata la scelta dell’Italia e di altri Paesi di non esercitare il diritto di deroga agli obblighi previsti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo contemplato dall’art. 15 della medesima Convenzione (salvo il rispetto del diritto alla vita, i divieti di tortura e di schiavitù, il principio “nessuna pena senza legge”). L’iperproduzione di doveri, se avviene nel rispetto delle garanzie e della proporzione, resta estranea alla sospensione del diritto, che la Cedu autorizza «in caso guerra o in caso di altre pubbliche calamità che minacciano la vita della nazione (…) nello stretto limite richiesto dalla situazione». È per l’art. 15 della Cedu che può valere il paradosso del diritto che si auto-sospende e della norma che si applica disapplicandosi, di cui si è detto sopra.

Una volta che questo decisivo paletto sia stato fissato, viene in primo piano la caratteristica morfologica del diritto al tempo dell’emergenza. Abbiamo definito iperbolico questo diritto perché le figure soggettive che caratterizzano l’ordinamento giuridico, doveri e diritti, conoscono nello stato di emergenza un’intensificazione e accelerazione che è ignota allo stato di vita ordinaria di un ordinamento. C’è un eccesso e una dismisura nella produzione dei doveri nel tempo dell’emergenza e un’altrettanta intensificazione dei diritti durante e soprattutto nel tempo immediatamente successivo all’emergenza, come dimostra la straordinaria crisi sociale che la pandemia ha aperto. Il graduale ritiro dei doveri, al venir meno dei motivi di sanità, lascia sul campo una massa di domande di tutela di beni della vita e di giustizia di un’intensità non inferiore al grado di penetrazione e diffusione dei doveri che hanno contraddistinto lo stato di emergenza. Si tratta di domande che invocano la tutela dei diritti sia in senso verticale, nella direzione dei poteri pubblici, che in senso orizzontale, nei rapporti privati. Il diritto civile, diritto per eccellenza dell’individuo, è chiamato a misurarsi in modo straordinario con il valore della solidarietà. Doveri e diritti accelerano la loro corsa in un modo impensato prima dello stato di emergenza. Il carattere circoscritto nel tempo della pandemia ha creato una sfasatura temporale in quella corsa: prima i doveri, poi i diritti. Dio non voglia che in un nuovo stato di emergenza, oggi, doveri e diritti si intensifichino simultaneamente. Il senso di paura che avvertiamo rispetto a un esito di questo tipo rende manifesta un’altra caratteristica del diritto dell’emergenza.

L’iperproduzione di doveri e diritti, che lo stato di emergenza reca con sé, comporta un sovraccarico giuridico che la società, se non fosse dotata di propri meccanismi di auto-regolazione, non potrebbe sopportare. Nello stato di emergenza si apre una questione di sostenibilità del diritto. La società non potrebbe stare al passo di un diritto accelerato se il suo hardware non fosse consentaneo a quel software che il diritto le vorrebbe applicare. Non dobbiamo soltanto richiamare il senso di responsabilità di una popolazione che rispetta i doveri che le vengono imposti in un tempo di pandemia, ma anche, e si tratta di una questione decisiva dell’oggi, la capacità di un popolo e dei singoli individui di rispondere alle istanze di tutela di diritti che lo stato di emergenza accresce in modo esponenziale. È questa la vera natura del problema dell’effettività di un ordinamento giuridico, nel suo duplice volto di dispensatore di doveri e di diritti.

È a quest’altezza che si incontra un’analogia con lo stato di eccezione. Scrive Schmitt che «l’eccezione è più interessante del caso normale» perché «il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale»[6]. È nello stato di eccezione che, secondo Schmitt, emerge il titolare effettivo della sovranità e si manifesta la vera natura dei rapporti fra diritto e politica. È nello stato di emergenza, aggiungiamo noi, che diritto e società rendono evidente la loro essenza e il tipo di relazione che intrattengono. Il diritto dello stato di emergenza, con tutta la sua tonalità iperbolica, è dunque decisamente più interessante del diritto del tempo ordinario perché consente di capire di più di quanto si intenderebbe in un regime ordinario. È attraverso la radicalizzazione di un concetto che ne cogliamo la vera essenza.

 

2. Cosa significa effettività del diritto?

La questione dell’effettività dell’ordinamento giuridico apre la teoria del diritto alla teoria della società e dell’azione sociale. Si tratta di un’apertura che va ben oltre il piano di una semplice sociologia del diritto. Lo stato di emergenza rende palese come diritto e azione sociale non siano separabili. La teoria del diritto è andata però in direzione esattamente contraria.

Con il normativismo kelseniano si è compiuto un processo di formalizzazione della ragione giuridica che ha condotto alla piena identificazione di diritto e norma giuridica. Dopo Kelsen la teoria del diritto è esclusivamente teoria del diritto positivo, anche laddove quest’ultimo sia oggetto di relativizzazione, come nelle correnti neo-giusnaturalistiche, che hanno pur sempre il diritto positivo quale termine di riferimento critico. Non poteva poi essere più netto il contrasto con Schmitt: purezza e politicità del diritto sono i termini di una polarizzazione che vede da una parte la norma, dall’altra la decisione politica. La stagione del realismo giuridico, che si snoda in opposizione al normativismo e più in generale al positivismo giuridico, mantiene come punto di riferimento sempre la norma, della quale ciò che viene stavolta predicata non è la validità, ma l’effettività. Una declinazione del realismo giuridico è stata anche quella dell’identificazione del diritto con ciò che i giudici dicono che esso sia. In tal modo l’effettività resta il volto esterno del diritto, ma ciò che si muove all’interno della società, in quanto tale, è un tema estraneo alla teoria giuridica. Con l’integrazione di positivismo giuridico e costituzionalismo che Luigi Ferrajoli elabora, si introduce addirittura il parametro dell’effettività all’interno del sistema giuridico, quale ineffettività della norma costituzionale violata, al fine esplicito di ricomporre il conflitto fra normativismo e realismo giuridico[7]. L’incorporazione entro il diritto della coppia validità/effettività realizza il programma di un sistema interamente formalizzato e artificiale, che divarica del tutto diritto e società, coerentemente del resto al disegno kelseniano (che Ferrajoli combina al paradigma costituzionalista).

L’intero dibattito teorico nella seconda metà del secolo scorso è segnato dalla distinzione che Herbert L. H. Hart delinea fra il punto di vista interno di colui che adotta la norma di riconoscimento del diritto valido in un determinato ordinamento e il punto di vista esterno di colui che osserva il comportamento degli attori di quell’ordinamento: l’uso della norma di riconoscimento, quale prassi di identificazione del diritto valido (e non norma presupposta à la Kelsen), è ciò che rende effettivo l’ordinamento[8]. Lo sguardo dell’osservatore esterno constata una prassi, ma non legge il diritto con gli occhi di una teoria dell’azione sociale. L’effettività resta una qualifica della norma, non dell’azione. L’ultimo tentativo teorico di interpretare il sistema giuridico alla luce di un principio di organizzazione della società è stato probabilmente il marxismo, se si esclude la più recente teoria dei sistemi di Niklas Luhmann (nell’ambito di una sociologia filosoficamente orientata). Al marxismo sfuggì però la teoria del diritto, avendo ridotto quest’ultimo a mera astrazione riproduttiva della forma di merce, senza considerare il livello dell’autonoma legittimazione del diritto, che invece costituì l’oggetto della sociologia giuridica di Max Weber[9]. Quanto a Luhmann, questi, come ha visto Habermas, si è occupato dell’organizzazione mediante sistemi specializzati, ma non della società (che per Habermas è dal lato della cosiddetta ragione comunicativa, contrapposta alla ragione strumentale che connota i diversi sottosistemi, fra cui il diritto[10]).

Che la teoria del diritto debba articolarsi a una teoria della società e dell’azione sociale vuol dire che il punto di vista sociale non può limitarsi alla constatazione del dato empirico dell’effettività di un ordinamento, ma deve esprimere un pensiero sulla società. Questo pensiero sociale non condiziona l’indagine sul diritto, che è connotato dalle specificità su cui riflette la scienza giuridica, ma dà conto del perché un sistema giuridico possa essere efficace e soprattutto è attivamente impegnato affinché quell’efficacia sia raggiunta sulla base di un modello ideale di diritto. È un pensiero moralmente impegnato.

Il sovraccarico di diritto per la società che lo stato di emergenza produce è lì a dimostrare che un corpo sociale non potrebbe sopportare, come abbiamo detto, questo straordinario peso giuridico se non fosse dotato di una struttura che a quel diritto possa articolarsi, rendendolo effettivo. Soprattutto la domanda di diritti e di giustizia sociale che la pandemia rilascia, fa comprendere come quella domanda sia destinata a restare inevasa ove diritto e società non procedano su binari paralleli. Il diritto efficace presuppone una società che sia alla sua altezza, ma anche, per quel che può valere, una teoria della società che sia solidale a questa impresa e attivamente impegnata in questa direzione. La stessa teoria del diritto del resto, ha scritto Ronald Dworkin, non può non essere moralmente impegnata se il suo oggetto è quello del miglioramento della prassi giuridica – e in particolare la prassi di coloro (in primo luogo i giudici) che danno attuazione al diritto[11].

 

3. Una società all’altezza del diritto

«Per il pensiero moderno, non vi è morale possibile; a partire dal XIX secolo, infatti, il pensiero è già “uscito” di sé entro il suo essere proprio; esso non è più teoria; non appena pensa, esso ferisce o riconcilia, avvicina o allontana, rompe, dissocia, allaccia o riallaccia; non può fare a meno di liberare e di asservire (…) il pensiero, al livello della sua esistenza, fin dalla sua forma più aurorale, è in se stesso un’azione, un atto rischioso»[12]. Benché in questa pagina de Le parole e le cose Michel Foucault guardi alla svolta moderna sull’etica fra il XVIII e il XIX secolo, non più prescrizione esterna ma pensiero che si fa direttamente azione, il testo foucaultiano rappresenta un lampo di luce su modernità e azione sociale. È su quest’ultima che bisogna intendersi per comprendere quanto un diritto possa essere effettivo ed è una determinata accezione di azione sociale quella per cui battersi perché la convergenza di diritto e società possa svilupparsi.

In quello straordinario crogiolo di future produzioni teoriche che fu l’Hegel-Renaissance nella Francia degli anni trenta del secolo scorso, Alexandre Kojève delinea il venire ad esistenza dell’azione sociale, alla luce delle coordinate spazio-temporali della modernità occidentale, attraverso una determinata progressione filosofica[13]. Al centro vi è il rapporto fra mondo e ideale. All’ideale proiettato verso l’alto, nella dimensione contemplativa dell’eternità propria dell’universo platonico, succede con Kant, ed è l’atto di nascita del moderno, la curvatura verso il basso dell’ideale, in funzione regolativa del mondano. L’ideale kantiano, a differenza di quello platonico, entra in relazione con il mondo e la temporalità, anche se quale schema puramente astratto e in quanto tale irraggiungibile. La svolta si compie con Hegel: dall’idealità, in quanto tale irraggiungibile, si passa alla struttura del mondo, il quale appare dall’interno regolato da una finalità declinabile tuttavia solo mediante le modalità, imperfette e contingenti, attraverso cui si manifesta. L’età delle rivoluzioni, a partire da quella fondamentale del 1789, inaugura il nuovo tempo dell’attivazione dell’agire sociale, non più condizione passiva in un mondo del quale non si può disporre, ma forza trasformatrice per via dell’introiezione pratica dell’ideale. L’azione sociale è ormai governata da un’intima struttura regolativa perché il pensiero, per riprendere le parole di Foucault, si è fatto azione: pensare vuol dire cambiare lo stato di cose.

L’interiorizzazione dei criteri di governo delle azioni umane è in realtà il segno del processo di civilizzazione in Occidente nel grande affresco sociologico di Norbert Elias, il cui esito è la formazione di una sorta di super-io sociale mediante l’intreccio sempre più diffuso di interdipendenze che avviluppa il singolo[14]. Il riconoscimento dell’altro e la conseguente assunzione di responsabilità non restano un astratto precetto, ma diventano un’istituzione socialmente operante. L’archetipo della civilizzazione come interiorizzazione è nei vertiginosi passi delle Lettere di Paolo di Tarso: da una parte, «(…) se vi fate guidare dallo spirito, non siete più sotto la legge» (Lettera ai Galati, 5, 18); dall’altra, «aboliamo dunque la legge per mezzo della fede? No certamente, anzi la confermiamo» (Lettera ai Romani, 3, 31). In questa oscillazione, fra il superare e il conservare il diritto mosaico, c’è il senso per l’Occidente moderno del rapporto fra diritto e azione sociale. Esso trova così le proprie radici nel contrasto fra cristianesimo ed ebraismo sul tema della legge: mentre per il primo la legge è da superare una volta che sia stata portata a compimento con la conversione, per il secondo l’interiorizzazione della legge è la premessa del suo esautoramento «negli abissi nichilistici dell’interiorità, dove puro e impuro si confondono»[15]. Se è vero, come ha scritto Franz Rosenzweig su cristianesimo ed ebraismo, che la verità intera non appartiene né all’uno né all’altro[16], l’incorporazione del criterio di giustizia nell’azione sociale non esclude la necessità del diritto quale oggettività ed esteriorità della regola (necessità dunque che va ben al di là del profilo della mera coercibilità del giusto). Seguendo la combinazione di cristianesimo ed ebraismo, diremmo nel linguaggio filosofico che, benché reso immanente (Hegel), l’ideale regolativo non perde la sua natura trascendentale (Kant)[17]. Il rinvenire l’origine di una civiltà in una polemica teologica comprova il famoso incipit di Politische Theologie di Schmitt: «tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati»[18].

Il Novecento, non a caso definito “il secolo breve”, è stato una sorta di redde rationem del processo di civilizzazione. La brevità del secolo è nella sua intensità. Esso ha introdotto il principio della democrazia costituzionale e allo stesso tempo ha conosciuto il totalitarismo di massa, ha scritto nelle costituzioni l’eguaglianza in senso sostanziale e l’ha inverata come mai prima si era visto in Occidente e allo stesso tempo ha sperimentato, con l’Olocausto, l’applicazione allo sterminio di tecnica e razionalità burocratica[19]. Le contraddizioni del secolo breve si sono manifestate nelle filosofie europee, le quali, all’ombra di nichilismo e disincanto, hanno acquistato direzioni distanti dal progetto illuministico che, con i suoi imperativi di eguaglianza, libertà e fraternità, a partire dal XVIII secolo aveva preso le redini del processo di civilizzazione. La Francia ancora, stavolta della seconda metà del secolo scorso, è il luogo di emersione della discussione. Due linee sono altamente significative dell’epoca: a) l’immanenza all’azione sociale dei criteri di governo diventa con Foucault la microfisica di un potere diffuso, in base al quale nella società non vi sono che rapporti di dominazione; b) quell’immanenza diventa invece, con Gilles Deleuze, capacità dell’azione sociale di produrre ordini senza vincoli di valore che non sia la propria potenza produttiva (una sorta di potere costituente assoluto e permanente, come è stato scritto di recente[20]).

Si tratta di vie senza uscita se il tema è quello di una società all’altezza del diritto. La ricomposizione di azione sociale e diritto, in un tempo in cui le domande sui diritti e la giustizia sociale acquistano un’accelerazione straordinaria, non può non passare attraverso la ripresa del progetto illuministico di eguaglianza, libertà e fraternità. È noto che protagonista della ripresa di questo progetto nel dibattito europeo è stato Jürgen Habermas. Come ha osservato un critico attento di Habermas, il perseguimento dell’universalismo egualitario può procedere non attraverso il richiamo a un astratto dover essere, cui pare rinviare l’etica habermasiana del discorso, ma attraverso la riattivazione di quel nucleo di ideali regolativi che la civilizzazione ha incorporato nell’azione sociale e che sono quindi immanenti alle comunità del moderno Occidente. Si tratta di riprendere «the best lessons we can draw from the history and tradition we are able to discern»[21]. La teoria, come insegna l’intera opera di Habermas, non è neutrale, ma è attivamente e moralmente impegnata in questa direzione. Riprendendo le parole di Foucault, il pensiero nel moderno, non appena pensa, «non può fare a meno di liberare e di asservire».

Le costituzioni moderne sono proiezioni di ideali regolativi che il processo di civilizzazione ha insediato nel corpo sociale. L’eguaglianza in quanto ideale è, per dirla con Derrida, sempre a venire, non sarà mai compiuta. Essa è tuttavia radicata nella storia e nella tradizione di un popolo. Qui risiede l’autentica fonte del patriottismo costituzionale, di cui parlò Habermas nella famosa intervista su Die Zeit nel 1986[22]. Il conflitto vero non è allora fra diritto e società, ma all’interno della stessa società. L’azione sociale è divisa fra la non effettività dei principi di giustizia e la critica delle distorsioni, la quale, proprio perché consentita dall’interiorizzazione di un patrimonio di ideali regolativi, costituisce in realtà un’autocritica della società. L’alternativa è fra la regressione del legame sociale e la promozione dell’interazione cooperativa e solidale fra individui. L’iperbole dei diritti e delle domande di giustizia che la pandemia ha prodotto richiama ancora di più l’azione sociale ai principi che, dall’interno, la costituiscono. Benché siamo il risultato di un’opera di civilizzazione e dell’immanentizzazione di un ideale, non c’è alcun finalismo o movimento della storia su cui confidare, ma solo un conflitto e un fronte di battaglia. Più che mai il futuro è ora nelle nostre mani.

 

 

1. C. Schmitt, Le categorie del “politico”, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 39.

2. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 2005, p. 22.

3. C. Schmitt, Le categorie, op. cit., p. 40.

4. B. De Giovanni, Kelsen e Schmitt. Oltre il Novecento, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018, p. 33 ss.

5. C. Schmitt, Le categorie, op. cit., p. 34.

6. C. Schmitt, op. ult. cit., rispettivamente p. 41 e p. 40.

7. L. Ferrajoli, La semantica della teoria del diritto, in U. Scarpelli (a cura di), La teoria generale del diritto. Problemi e tendenze attuali. Studi dedicati a Norberto Bobbio, Edizioni di Comunità, Milano, 1983, pp. 81 ss.

8. H.L.A. Hart, Il concetto del diritto, Einaudi, Torino, 1965, pp. 122 ss.

9. Economia e società di Weber rappresentò su più piani la risposta a Il capitale di Marx. Nell’ambito di una letteratura vastissima è qui sufficiente richiamare E.B. Pašukanis, La teoria generale del diritto e il marxismo, De Donato, Bari, 1975 (non sono tuttavia mancate elaborazioni più mirate al diritto, come U. Cerroni, Marx e il diritto moderno, Editori Riuniti, Roma, 1972; è noto che si deve ad Antonio Gramsci, nell’ambito del marxismo, il tentativo principale di concepire l’autonomo spessore delle forme istituzionali e ideali, come il diritto).

10. J. Habermas e N. Luhmann, Teoria della società o tecnologia sociale, Etas Kompass, Milano, 1973.

11. R. Dworkin, La giustizia in toga, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 153 ss.

12. M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1985, p. 353.

13. A. Kojève, Lezioni sull’eternità, il tempo e il concetto, in Aa.Vv., Interpretazioni hegeliane, La Nuova Italia, Firenze, 1980, pp. 169 ss.

14. N. Elias, Il processo di civilizzazione, Il Mulino, Bologna, 1988, pp. 665 ss.

15. E. Lévinas, Dal sacro al santo. Cinque nuove letture talmudiche, Città Nuova, Roma, 1985, p. 102.

16. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano, 2008, pp. 426 ss.

17. La combinazione dell’ideale regolativo kantiano con il principio hegeliano di immanenza storico-sociale è stata perseguita nella tradizione italiana di filosofia del diritto da A. Baratta, Natura del fatto e giustizia materiale, Giuffrè, Milano, 1968, pp. 135 ss., seguendo sul punto E. Bloch, Soggetto-oggetto. Commento a Hegel, Il Mulino, Bologna, 1973, pp. 461 ss.

18. C. Schmitt, Le categorie, op. cit., p. 61. La potenzialità euristica delle categorie teologiche è un motivo ricorrente, da Schmitt a Jonas (la filosofia moderna è «la secolarizzazione ultima di una teologia» – H. Jonas, Dalla fede antica all’uomo teologico, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 94), da Taubes (che parla di «potenziale politico delle metafore teologiche» – J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, Adelphi, Milano, 1997, p. 131) ad Agamben (che coglie il fondamento della distinzione fra potere costituente e potere costituito nella «scissione paolina fra il piano della fede e quello del nomos» – G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, p.111; si veda anche G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, pp. 219 ss., sulla derivazione del concetto europeo di sovranità dalla teologia della gloria); la teologia politica è un punto di vista non solo genealogico, ma anche sulle potenzialità del presente, nella più recente ricerca di Mario Tronti, del quale si veda Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, il Saggiatore, Milano, 2015. 

19. Z. Bauman, Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna, 1992.

20. R. Esposito, Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino, 2020, pp. 75 ss., il quale collega alla concezione produttiva dell’essere di Deleuze quella di Antonio Negri, grazie al comune riferimento a Spinoza. Il passo è breve alla tesi di Augusto Del Noce sulla secolarizzazione: l’immanentizzazione dell’ideale regolativo, di cui il marxismo sarebbe il completamento, sfocia in un esito nichilistico della modernità, quale primato dell’azione e superamento del principio di tradizione.

21. R.B. Brandom, Towards Reconciling Two Heroes: Habermas and Hegel, in Argumenta, n. 1/2015, p. 41 (www.argumenta.org/wp-content/uploads/2015/09/Argumenta-11-Robert-Brandom-Towards-Reconciling-Two-Heroes-OK.pdf).

22. Habermas concepiva, però, il patriottismo costituzionale quale consenso non su valori ma sulla procedura democratica, raccogliendo le critiche di John Rawls, che opponeva al «fuoco radical-democratico» del filosofo tedesco i valori del liberalismo politico (J. Rawls, Risposta a  Jürgen Habermas, in Micromega. Almanacco di filosofia, 1996, pp. 94 ss.).