Magistratura democratica

Avvisi ai naviganti del Mar pandemico

di Massimo Luciani

Il diritto è di fronte alla sfida della pandemia, che non sappiamo quanto durerà e se avrà modo – purtroppo – di ripresentarsi. Per affrontarla occorre avere ben presenti alcuni paradigmi generali e alcune premesse di contesto. Il più significativo dei paradigmi è l’assenza di una supremazia gerarchica del diritto alla salute sugli altri diritti. Quanto alle premesse di contesto, occorre ricordare che la Costituzione non ha bisogno d’essere riformata per introdurvi una specifica norma sulle emergenze e che il nostro ordinamento disciplina già con una certa precisione lo “stato di emergenza”, la cui dichiarazione è potenziale oggetto di sindacato giurisdizionale.

1. Una storia infinita? / 2. I paradigmi /2.1. Il malinteso primato della salute / 2.2. La salute come diritto “incomprimibile” / 2.3. La salute e il bilanciamento / 3. Le fonti dell’emergenza sanitaria / 4. Sulla sindacabilità della dichiarazione dello stato di emergenza di rilevanza nazionale / 5. Una norma costituzionale? / 6. Una breve chiosa

 

1. Una storia infinita?

Non sappiamo se la crisi determinata dalla pandemia da Covid-19 sia destinata a incrudelirsi, ad attenuarsi, a perdurare, a sparire. Non sappiamo nemmeno se a questa pandemia ne seguirà un’altra e se sì quando. Non sappiamo se la ricerca scientifica saprà mai fornirci terapie sempre adeguate o addirittura uno scudo preventivo capace di proteggerci sempre dal rischio sanitario diffuso oppure se, all’opposto, potranno darsi patologie refrattarie a ogni terapia o rischi non prevenibili. Viviamo, insomma, sotto il velo dell’ignoranza. Proprio in condizioni di questo tipo, però, il diritto può e deve mostrare la sua capacità di funzionare da macchina del tempo. Il diritto è capace non solo di regolare il tempo presente, ma anche di disciplinare il passato nelle forme della retroattività propria o impropria e sa guardare al futuro con l’ambizione di normare i comportamenti umani che verranno domani e le loro conseguenze.

Stavolta, è questa terza direzione di marcia della macchina giuridica che conta maggiormente, ma l’incertezza sulle prospettive future rende il compito del diritto particolarmente difficile, suggerendo di elaborare strumenti di regolazione flessibili, capaci di funzionare in ciascuno dei plurimi scenari che l’incertezza dell’avvenire dischiude. Tanto, sulla base di paradigmi e di premesse di contesto da definire con chiarezza.

 

2. I paradigmi

Penso che possa essere utile, a mo’ di premessa logicamente indefettibile, riflettere su quali debbano essere i paradigmi da considerare nell’opera di apprestamento di strumenti giuridicamente adeguati a fronteggiare le incerte prospettive future. Non mi riferisco ai paradigmi di legittimità, che ovviamente vanno rispettati, ma a quelli concettuali, analitici, che vengono prima d’ogni valutazione di fattibilità, giuridica o empirica che sia. Vediamo quelli che – almeno per quanto mi riguarda – sembrano i più significativi, con specifico riferimento alla questione centrale del diritto (e dell’interesse collettivo) alla salute.

 

2.1. Il malinteso primato della salute

Nel dibattito pubblico di questi ultimi mesi, anche in quello che ha specificamente coinvolto i giuristi, si è dato per scontato che il diritto alla salute si sia visto riconosciuto un primato su tutti gli altri diritti costituzionali. C’è chi questo fatto l’ha apprezzato (stimando il diritto alla salute il presupposto di tutti gli altri) e chi l’ha criticato (paventando che in questo modo si sarebbe legittimata una deriva securitaria dell’ordinamento), ma un po’ tutti, insisto, hanno preso le mosse da questa idea. Penso, invece, che occorra una maggiore prudenza.

È noto che la giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht ha riscontrato nel Grundgesetz l’esistenza di una allgemeine Werteordnung, di una gerarchia generale dei valori, e che alcuni autori italiani hanno cominciato ad avvertire il fascino di questa ricostruzione, tentando di importare in Italia almeno la sua premessa, cioè l’idea dell’esistenza di valori costituzionali sovraordinati a tutti gli altri. Si tratta di un tentativo che non convince.

Anzitutto, già il solo parlare di “valori” costituzionali lascia perplessi, perché una volta che i valori sono giuridicamente positivizzati lo sono unicamente nella forma dei princìpi. Il diritto non sa accogliere nel proprio seno il valore se non trasformandolo in principio normativo e dunque enunciandolo in una fonte specifica di altrettanto specifico grado, con specifiche parole, entro specifiche relazioni con gli altri princìpi, con conseguenze che sono determinate dal diritto stesso, non da un astratto ordine assiologico.

In quanto trasformato in principio, il valore non si sottrae al bilanciamento con gli altri e questo bilanciamento (cioè la composizione pratica fra i princìpi) avviene secondo i paradigmi (contenutistici e procedurali) che ciascun ordinamento ha definito. Nel nostro, la Costituzione, rifiutata una gerarchia generale dei valori costituzionali (della quale non esistono le tracce e della quale nessuno ha mai dato prova), definisce semmai (come ha ben chiarito Antonio Baldassarre[1]) solo plurime gerarchie settoriali nei singoli “campi di attività” disciplinati dalla Costituzione (ad esempio, il buon costume è principio sovraordinato nel dominio della manifestazione del pensiero; l’utilità sociale nel dominio dell’attività economica, etc.). Evocando il lessico di un noto saggio schmittiano del 1960, di recente ristampato[2], la stessa Corte costituzionale ha affermato che «Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (sentenza n. 85 del 2013).

Contrariamente a quanto sostiene una significativa dottrina, dunque, nemmeno la vita o la dignità umana si sottraggono al bilanciamento o sono concepibili come valori così “fondativi” da essere qualificabili addirittura come “metavalori”: la vita è eccezionalmente sacrificabile (anche dopo l’abrogazione dell’art. 27, comma 4, resta pur sempre in vigore l’art. 52 Cost.); la dignità umana (ammesso, ma tutt’altro che concesso, che si sia d’accordo sul suo concreto contenuto) lo è addirittura ordinariamente (visto che la Costituzione stessa prevede e legittima la detenzione). Se vita e dignità umana non sono intoccabili, dunque, non lo è – logicamente – nemmeno la salute, per quanto la Costituzione la qualifichi espressamente diritto «fondamentale».

 

2.2. La salute come diritto “incomprimibile”

Non smentisce quanto s’è venuti sin qui dicendo quella recente giurisprudenza costituzionale che – a proposito di diritto all’istruzione e proprio di diritto alla salute – ha parlato di diritti «incomprimibili»[3]. Con questa espressione, infatti, la Corte non ha inteso evocare una categoria di diritti dotati di uno speciale statuto, che li sottrarrebbe a qualunque limitazione o li porrebbe su di un piano gerarchicamente sovraordinato a tutti gli altri.

Che sia così lo dimostra il fatto che di «incomprimibilità» o di «intangibilità» la giurisprudenza costituzionale aveva già parlato in precedenza, e per non pochi diritti[4], senza mai pervenire a conseguenze così estreme. Nella giurisprudenza più risalente, però, la cd. “incomprimibilità” era opposta essenzialmente ad alcuni interessi pubblici di tipo non finanziario, mentre adesso è proprio il condizionamento finanziario che viene negato. Come si legge nella cit. sent. n. 275 del 2016, «una volta normativamente identificato, il nucleo invalicabile di garanzie minime per rendere effettivo il diritto allo studio e all’educazione degli alunni disabili non può essere finanziariamente condizionato in termini assoluti e generali». Tanto, perché «è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione».

Anche questa affermazione, poi, deve essere correttamente interpretata. Essa non vuole dire che i diritti qualificati come incomprimibili sfuggano per ciò solo alle limitazioni. Sin dalla sua primissima giurisprudenza, in verità, la Corte ha detto che tutti i diritti nascono limitati («La dichiarazione stessa dei diritti di libertà implica, per sua natura, in senso giuridico, anche posizione di limiti, cioè determinazione della sfera di azione dei vari soggetti entro condizioni tali che ne risulti garantito lo svolgimento della libertà di tutti»[5]) e qui non si asserisce nulla di radicalmente diverso. Quel che si vuole dire, infatti, non è che esista una quidditas dei diritti identificabile in base a paradigmi giusnaturalistici e per questo non sacrificabile alle esigenze finanziarie, ma che “il nucleo invalicabile di garanzie minime” di un diritto resta intangibile da parte delle scelte di bilancio “una volta normativamente identificato”. Sono pertanto “incomprimibili” a fronte delle compatibilità di bilancio quei diritti (o i loro singoli aspetti o profili) che sono stati identificati come tali dallo stesso decisore pubblico. Non si tratta tanto, dunque, di postulare una pretesa “essenza” intangibile dei diritti, che invero non si saprebbe identificare (il famoso dictum luhmanniano «das Wesen des Wesens ist unbekannt» è assai convincente)[6], bensì di esigere dal legislatore il rispetto dell’autovincolo che si è imposto con certe scelte attributive o ricognitive di diritti.

Resta fermo, dunque, che la salute non si sottrae al bilanciamento e che non si colloca su un piano gerarchicamente sovraordinato a quello su cui giacciono gli altri diritti costituzionali.

 

2.3. La salute e il bilanciamento

Se bilanciamento ha da essere, poi, è bene chiarire ch’esso spetta esclusivamente al legislatore. Le autorità amministrative che, in concreto, lo esercitano nei singoli casi pratici, in realtà non bilanciano, ma applicano la decisione legislativa. E lo stesso fanno (dovrebbero fare) i giudici, anche costituzionali, perché il loro compito è controllare il bilanciamento effettuato dal legislatore, non pretendere di pesare essi stessi le grandezze poste a raffronto.

Il controllo giurisdizionale del bilanciamento legislativo, pertanto, lungi dal sostituirsi all’azione del legislatore nell’operare direttamente la scelta ordinante in concreto i diritti e i princìpi costituzionali (in astratto essa è stata già compiuta dalla Costituzione), deve accertare anzitutto il rispetto della Costituzione e poi la coerenza, la logicità, la completezza, la corrispondenza tra il mezzo e il fine, la fondazione su dati di fatto veridici.

 

3. Le fonti dell’emergenza sanitaria

Molto s’è discusso, specie nei primi mesi della pandemia, delle fonti di disciplina dell’emergenza. Molto, in particolare, è stata contestata la scelta di procedere non solo con fonti primarie (decreti-legge, in massima parte, e conseguenti leggi di conversione), ma anche con ordinanze, ora del Presidente del Consiglio, ora del capo del Dipartimento della protezione civile, ora dei presidenti di Regione, ora dei sindaci. L’idea di fondo era che le ordinanze non rispettassero la riserva di legge e che per quanto riguardava i provvedimenti impositivi della quarantena non fosse rispettata nemmeno la riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 della Costituzione.

Mi sono più distesamente occupato della questione in altra sede e – visto che non ho cambiato idea e che non è mai il caso di ripetere cose già scritte – mi limito a rinviare a quanto allora avevo argomentato, anche in considerazione del fatto che lo scritto in questione è accessibile in rete[7]. In sintesi estrema, però, posso ribadire che:

a) l’adozione di provvedimenti eccezionali in situazioni di emergenza è prevista in via generale dalla l. 23 dicembre 1978, n. 833 (cfr. l’art. 32) e dal d.lgs 2 gennaio 2018, n. 1, recante il «Codice della protezione civile», mentre nella specie è confermata dai recenti decreti-legge (a partire dal dl n. 6/2020);

b) conseguentemente, la legittimazione delle ordinanze adottate durante la pandemia è duplice e pienamente sussistente;

c) quanto ai decreti-legge adottati in regime di emergenza, la sussistenza dei due presupposti della necessità e dell’urgenza, previsti dall’art. 77 Cost., è innegabile;

d) l’emergenza, tuttavia, non giustifica l’iterazione o la reiterazione di tali decreti-legge;

e) la moltiplicazione dei decreti-legge non ha comportato la violazione dell’altro principio stabilito dall’art. 77 Cost., cioè della straordinarietà;

f) una violazione del principio potrebbe registrarsi solo se la produzione normativa primaria d’urgenza proseguisse al medesimo ritmo anche nell’ipotesi (ora divenuta concreta) di una proroga dello stato di emergenza, perché a questo punto la sopravvenuta “ordinarietà” della condizione emergenziale imporrebbe il recupero da parte del Parlamento della pienezza della sua funzione nomopoietica;

g) la riserva di legge non è violata dall’intervento delle ordinanze, perché esse – come visto – hanno un fondamento primario ed è pacifico in giurisprudenza (costituzionale e comune) che le ordinanze di emergenza, in presenza di determinate condizioni, possano legittimamente prevedere deroghe alle norme primarie;

h) i provvedimenti concernenti la quarantena non colpiscono la libertà personale, perché non posseggono i tratti distintivi di quelli che la toccano (valutazione moralmente negativa dell’inciso; uso della forza fisica).

L’ordinamento, in definitiva, ha dimostrato di reggere, anche nelle condizioni di stress determinate dalla pandemia: la produzione normativa ha seguito canali già legislativamente previsti; l’intervento parlamentare non è venuto meno; le garanzie giurisdizionali sono sempre state assicurate. Non per questo, però, si può dire che non vi siano stati problemi.

Il più evidente è stato, a me sembra, quello della continua sovrapposizione delle competenze dei diversi enti territoriali, che ha determinato disfunzioni e contenziosi che potevano essere evitati. Solo ora sembra che i meccanismi di coordinamento fra centro e periferia comincino a funzionare, ma sarebbe stato opportuno non dover giungere a sollecitare l’intervento della magistratura amministrativa davanti a provvedimenti davvero singolari come quello del sindaco di Messina (che aveva preteso di sottoporre ad autorizzazione municipale l’ingresso in Sicilia dal porto della sua città)[8] o quello del presidente della Regione Calabria (che aveva preteso di disporre un obbligo di vaccinazione antinfluenzale per alcune categorie di persone)[9]. Se v’è un profilo in ordine al quale l’ordinamento deve attrezzarsi meglio, probabilmente, è proprio quello del coordinamento fra enti territoriali.

 

4. Sulla sindacabilità della dichiarazione dello stato di emergenza di rilevanza nazionale

Alcune delle maggiori preoccupazioni connesse alla reazione del nostro ordinamento alla pandemia hanno riguardato la ritenuta arbitrarietà del presupposto, cioè il preteso affidamento alla libera scelta del Governo della decisione concernente tale dichiarazione. Si tratta di preoccupazioni che vanno ridimensionate, specie nella prospettiva (attuale, invero) di una proroga dello stato di emergenza.

Come è noto, la dichiarazione dello stato di emergenza di rilevanza nazionale è disciplinata dal combinato disposto degli artt. 7, comma 1, lett. c, e 24, comma 1 del codice della protezione civile. È la stessa lettera della fonte normativa che fa bene intendere come la dichiarazione non sfugga al sindacato giurisdizionale. L’art. 24, comma 1, infatti, stabilisce che la dichiarazione può essere adottata solo in presenza dei «requisiti di cui all’articolo 7, comma 1, lettera c)». Devono dunque essere registrate delle «emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’articolo 24». Già questo basterebbe a circoscrivere il potere decisionale del Governo, ma l’art. 24 aggiunge che l’accertamento dei presupposti deve avvenire «sulla base dei dati e delle informazioni disponibili», con ciò chiarendo che non l’arbitrio della volontà governativa, ma la corrispondenza delle scelte ai fatti le legittima. Ciò significa che tale corrispondenza, costituendo un dato oggettivo, non è rimessa al libito del decisore, ma è possibile oggetto di sindacato giurisdizionale.

Tale conclusione, del resto, non può certo sorprendere, a fronte dell’evidente crisi della categoria dell’atto politico (che sarebbe insindacabile ai sensi dell’art. 7, comma 1, ultimo periodo, del codice del processo amministrativo: «Non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico»). A tacer d’altro, una nota pronuncia della Corte costituzionale ha chiaramente stabilito che, sebbene nel nostro diritto positivo vi siano «spazi riservati alla scelta politica», tali «spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto». Con la logica conseguenza, in termini di controllo giurisdizionale, che «Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate»[10].

Se è ammesso il sindacato giurisdizionale sulla dichiarazione dello stato di emergenza di rilevanza nazionale, è chiaro, le preoccupazioni per il rispetto dei diritti dei cittadini si attenuano molto. Si attenuano, ripeto, ma non scompaiono: come sempre, l’efficacia della garanzia dipenderà largamente da come il giudice (amministrativo, è da ritenere, ratione muneris) interpreterà i confini del proprio potere, perché l’evidente ampiezza del margine di discrezionalità che connota una scelta come questa potrebbe essere male intesa.

 

5. Una norma costituzionale?

L’ultimo avviso ai naviganti riguarda la Costituzione. Da più parti si sollecita l’adozione di una norma specifica sugli stati di emergenza e se ne argomenta la necessità con l’allegazione di una presunta lacuna costituzionale. Si tratta, anche qui, di una prospettiva errata.

Anzitutto, le continue sollecitazioni alla revisione della Costituzione nascondono in genere il tentativo di scaricare sulle sue spalle responsabilità che non le spettano: una politica sempre meno capace di decidere e all’un tempo mediare ha sempre voglia di sgravarsi del peso delle proprie inadeguatezze.

Inoltre, le revisioni degli ultimi decenni non dimostrano certo la perizia dei revisori, che ci hanno consegnato riforme sovente inutili o addirittura dannose (basti pensare alla riforma del Titolo V nel 2001 o alla riforma dell’art. 81 nel 2012).

Infine, non è affatto vero che la Costituzione non contenga norme sull’emergenza, che invece si evincono dall’art. 77, dalla stessa disciplina dei diritti, dalla regolazione dello stato di guerra – che interessa (ovviamente) per differentiam.

La Costituzione, in realtà, offre alla politica e al diritto tutti gli strumenti per operare correttamente e non c’è alcun bisogno di toccarla, con tutti i rischi che si corrono quando interventi in materie così delicate sono nelle mani di forze politiche (di maggioranza e di opposizione) che, come oggi accade, non si sono segnalate per particolare provvedutezza.

 

6. Una breve chiosa

L’incertezza del presente e ancor più quella del futuro suggerisce – dicevo in apertura – un esercizio di prudenza nella definizione delle prospettive ordinamentali. Prima ancora, però, impone una ricognizione attenta del diritto positivo, movendo dalla Costituzione e scendendo via via lungo i gradini della scala gerarchica delle fonti. Se ci si dedica a questo esercizio, si scopre che molti dei problemi posti in dottrina già hanno paradigmi di soluzione piuttosto chiari e che non c’è bisogno d’inventarsi soluzioni riformatrici.

L’essenziale, comunque, a me sembra, è che la salute e la vita siano collocate esattamente al posto che loro compete nella costellazione dei beni costituzionali, respingendo i fondamentalismi securitari che le vorrebbero al di sopra di tutto, ma anche le reazioni pseudo-libertarie che vogliono opporre alla loro protezione il pregiudizio complottista o l’intangibilità del principio della sovranità di ciascuno sulla gestione del proprio corpo.

 

1. A. Baldassarre, Ideologie costituzionali dei diritti di libertà, in Dem. dir., 1976, p. 296.

2. C. Schmitt, Die Tyrannei der Werte. Überlegungen eines Juristen zur Wert-Philosophie, Duncker & Humblot, Berlino, 2011 (terza ed.).

3. Sent. n. 275/2016 (sul diritto all’istruzione), ripresa dalla sent. n. 169/2017 (sul diritto alla salute).

4. Specificamente di «incomprimibilità» si è parlato per i diritti dei detenuti (sentt. nn. 212/1997 e 266/2009); per quelli del tossicodipendente (sent. n. 45/2014; ord. n. 165/2015); per quelli di chi, per soddisfare i propri bisogni vitali, è costretto a dedicarsi all’accattonaggio (sent. n. 102/1975); per quelli del pensionato (sent. n. 85/2015); per il diritto di difesa (sentt. nn. 222/2004 e 95/2015).

5. Sent. n. 2/1957.

6. N. Luhmann, Grundrechte als Institution. Ein Beitrag zur politischen Soziologie, Duncker & Humblot, Berlino, 1965, pp. 59 ss.

7. M. Luciani, Il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, in Rivista AIC, n. 2/2020, pp. 109 ss.

8. Il provvedimento è stato colpito da un provvedimento governativo di annullamento straordinario, dietro parere favorevole del Consiglio di Stato, nel quale si legge che «(...) l’ordinanza in questione, nella parte in cui introduce, senza alcuna base di legge, un potere comunale di previa autorizzazione all’ingresso e al transito sul territorio comunale (obbligo di “Attendere il rilascio da parte del Comune di Messina, e per esso della Polizia Municipale... del Nulla Osta allo spostamento”), si pone in contrasto diretto ed evidente con la libertà personale e la libertà di circolazione previste dalla Parte I, Titolo I (Rapporti civili) della Costituzione, artt. 13 e 16 (...)» (Cons. Stato, sez. I, ad. 7 aprile 2020, aff. n. 260/2020).

9. Il giudice amministrativo ha annullato il provvedimento, «in quanto i trattamenti sanitari obbligatori, quale l’obbligo di vaccinazione antinfluenzale, sono coperti da riserva di legge statale, alla stregua dell’art. 32, comma 2 Cost., letto in combinazione con l’art. 3 Cost. e l’art. 117, comma 3 Cost.» (Tar Calabria - Catanzaro, sez. I, 15 settembre 2020, n. 1462).

10. Corte cost., sent. n. 81/2012.