Magistratura democratica

Reati dell’epidemia e reati nell’epidemia

di Giuseppe Battarino e Andrea Natale

L’emergenza epidemiologica ha reso necessarie misure di contenimento, presidiate anche da sanzioni penali, e prefigura la possibile applicazione di norme penali sul reato di epidemia e sulla responsabilità in ambito sanitario. Per ciascuno di questi temi i principi generali e gli orientamenti giurisprudenziali vengono posti a confronto con le specificità dell’emergenza, ricostruendo un quadro di diritto penale della condizione di epidemia.

1. La condizione di epidemia: gli spazi del diritto penale / 2. Apparato sanzionatorio a tutela delle misure di contenimento / 2.1. La successione delle scelte sanzionatorie / 2.2. Quale riferimento costituzionale per la quarantena? / 3. Nuovi problemi ricostruttivi del delitto di epidemia (colposa) / 3.1. Il delitto di epidemia: alcune questioni generali / 3.2. Problemi applicativi: il singolo “autore di epidemia”, gli ambienti di lavoro, le strutture sanitarie, il livello decisionale politico / 4. I criteri di accertamento delle responsabilità penali per eventi avversi nella “condizione di epidemia” / 4.1. Modello di agente e criteri di orientamento / 4.2. Risorse limitate e criteri scientifici di scelta delle priorità / 5. Un diritto penale della condizione di epidemia?

 

1. La condizione di epidemia: gli spazi del diritto penale

Nel momento in cui, il 9 gennaio 2020, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha annunciato la scoperta di un nuovo virus mai identificato prima nell’uomo, associato a un focolaio di casi di polmonite registrati nella città di Wuhan, nella Cina centrale, non era ipotizzato il successivo ingresso anche dell’Italia nella “condizione di epidemia”, intesa come situazione di straordinarietà tale da imporre misure di contenimento di una pandemia mondiale.

Se si vuole individuare, per quanto riguarda la situazione italiana, un momento di passaggio alla nuova condizione lo si può rinvenire nella reazione alla dichiarazione di emergenza internazionale di salute pubblica da parte dell’Oms del 30 gennaio 2020 a cui, con tempestività, il giorno successivo, il Consiglio dei ministri ha fatto seguire la deliberazione dello «stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili», con un provvedimento fondato sull’esercizio dei poteri in materia di protezione civile previsti dal d.lgs  2  gennaio  2018,  n.  1 («Codice della Protezione Civile»), che all’articolo 24 disciplina lo «stato di emergenza di rilievo nazionale».

L’epidemia da Covid-19 è stata subito fatta rientrare nella più grave ipotesi di cui alla lettera c: «emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’articolo 24».

Da quel momento si sono succedute, parallelamente, la diffusione del contagio e l’emanazione di provvedimenti legislativi e amministrativi.

Il “contenimento” è stato centrale nella risposta all’epidemia.

L’obiettivo è stato quello di limitare innanzitutto l’onda di piena negli ospedali e nelle terapie intensive. Sappiamo – noi tutti ora e i decisori politici già all’inizio della vicenda – che se non ci fosse stato il contenimento avremmo potuto avere centinaia di migliaia di morti in Italia: quelli che il premier britannico in una iniziale dichiarazione dava per scontati nel suo Paese, salvo poi correggersi, e che ancora in questo momento sono la prospettiva di Paesi in cui la sottovalutazione del fenomeno sta producendo tragiche conseguenze.

Sappiamo che, nel peggiore degli scenari di crescita esponenziale del contagio, non si sarebbe trattato solo di una cinica contabilità darwiniana o eugenetica: l’insostenibilità di migliaia e migliaia di morti negli ospedali, nelle case, abbandonati per le strade, di milioni di contagiati e ammalati, anche tra i lavoratori dei servizi, della sicurezza, della sanità, avrebbe rotto le strutture dell’organizzazione sociale, provocando l’abbandono progressivo di numerose attività lavorative essenziali e lo smarrimento di una soglia minima di ordine comune.

In Italia si sono dunque difese quelle strutture attraverso la posizione di regole, affrontando l’emergenza senza attivare uno stato di eccezione.

Inizialmente si è susseguita l’emanazione di ordinanze da parte di autorità a vario titolo competenti in materia sanitaria e più o meno prossime ai focolai di contagio, nel caso dei Comuni generalmente fondate sull’articolo 50, commi 5 e 6 del Testo unico delle leggi sugli enti locali (d.lgs n. 267 del 18 agosto 2000); si è vissuta altresì una fase di problematico coordinamento tra Stato e Regioni nel quadro della competenza concorrente in materia di tutela della salute e di protezione civile, ai sensi dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, che ha prodotto provvedimenti fondati sull’applicazione dell’articolo 32 l. 23 dicembre 1978, n. 833 (istituzione del Servizio sanitario nazionale) e dell’articolo 1, comma 2, d.lgs 31 marzo 1998, n. 112 («Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59»).

Il primo compiuto quadro normativo a livello di legislazione primaria nazionale si rinviene nel decreto-legge n. 6 del 23 febbraio 2020, cui hanno fatto seguito provvedimenti specifici governativi, regionali, di concerto, a partire dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 febbraio 2020 (stessa data del decreto-legge) recante «misure urgenti di contenimento del contagio nei Comuni delle Regioni Lombardia e Veneto», seguito da un dpcm del 25 febbraio 2020 nonché da una nutrita serie di altri dpcm e decreti-legge.

La condizione di epidemia da Covid-19 si è dunque sviluppata tra fatti epidemici e diritto dell’epidemia, composto da prescrizioni di contenimento, norme in materia di lavoro, economia, giurisdizione.

Ma è anche enucleabile un ambito di diritto penale della condizione di epidemia (o diritto penale dell’epidemia), di cui qui si intendono tracciare linee generali lungo tre direttrici:

- apparato sanzionatorio a tutela delle misure di contenimento;

- nuovi problemi ricostruttivi del reato di epidemia;

- criteri di accertamento delle responsabilità penali sanitarie.

 

2. Apparato sanzionatorio a tutela delle misure di contenimento

 

2.1. La successione delle scelte sanzionatorie

Nell’ambito degli interventi normativi succedutisi a partire dalla dichiarazione dello stato di emergenza, è stato introdotto un apparato sanzionatorio a tutela delle misure di contenimento, che ne punisce la violazione, qualificata come illecito penale o amministrativo, secondo una successione di norme e distinzione di condotte di cui si darà conto.

Si sono occupati della materia: il dl n. 6 del 23 febbraio 2020 (convertito in l. n. 13 del 5 marzo 2020); il dl n. 19 del 25 marzo 2020 (convertito in l. n. 35 del 22 maggio 2020); il dl n. 33 del 2020 del 18 maggio 2020 (approvato con modifiche al Senato il 10 giugno 2020, in corso di esame alla Camera).

L’art. 1, comma 2, dl n. 6/2020 ha previsto una serie di «misure di contenimento» il cui contenuto risulta solo in parte determinato e associato a una clausola di possibile adozione di «ulteriori misure»; l’art. 2 dl n. 6/2020 (come risultante in sede di conversione) prevedeva infatti che le  autorità competenti  potessero «adottare ulteriori misure  di contenimento e gestione  dell’emergenza,  al  fine  di  prevenire  la diffusione dell’epidemia da Covid-19 anche fuori dei casi di  cui all’articolo 1, comma 1». Le misure – di riduzione della socialità – comprendevano il divieto di allontanamento e quello di accesso al comune o all’area interessata; la sospensione di manifestazioni, eventi e di ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato; la sospensione dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole e dei viaggi di istruzione; la sospensione dell’apertura al pubblico dei musei; la sospensione delle procedure di concorsi pubblici e delle attività degli uffici pubblici, fatta salva l’erogazione dei servizi essenziali e di pubblica utilità; l’applicazione della «quarantena con sorveglianza attiva» a chi ha avuto contatti stretti con persone affette dal virus e la previsione dell’obbligo, per chi fatto ingresso in Italia da zone a rischio epidemiologico, di comunicarlo al dipartimento di prevenzione dell’azienda sanitaria competente, per l’adozione di una misura definita «permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva»; la sospensione dell’attività lavorativa per alcune tipologie di impresa e la chiusura di alcune tipologie di attività commerciali; la possibilità che l’accesso ai servizi pubblici essenziali e agli esercizi commerciali per l’acquisto di beni di prima necessità sia condizionato all’utilizzo di dispositivi di protezione individuale; la limitazione all’accesso o la sospensione dei servizi del trasporto di merci e di persone.

Nell’art. 3, comma 4, era richiamato a fini sanzionatori del mancato rispetto delle misure di contenimento l’art. 650 del codice penale, con la clausola di riserva «salvo che il fatto non costituisca più grave reato».

La scelta di questo strumento sanzionatorio, poi superata, come si vedrà, in decreti-legge successivi, era stata criticata sotto il profilo del principio di legalità, poiché comminava una sanzione penale per la violazione di provvedimenti amministrativi che:

a) non avevano carattere individuale, ma generale e astratto;

b) erano emanati con fonti di rango sub-legislativo che, ponendosi come presupposto del reato, contribuivano a identificare pressoché in toto il contenuto del precetto, non limitandosi a mere specificazioni tecniche di un divieto cristallizzato nella normativa primaria (secondo lo schema della riserva di legge “tendenzialmente assoluta”);

c) erano adottabili anche in casi non determinati dalla legge (non potendosi ritenere determinata dalla legge l’evocazione – quale presupposto del reato – di «ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da Covid-19 anche ((fuori dai casi)) di cui all’articolo 1, comma 1» – così il già citato art. 2 dl n. 6/2020 (tra doppia parentesi la parte inserita in sede di conversione).

Ma era anche stata posta una questione di reale efficacia della sanzione alternativa dell’arresto fino a tre mesi o dell’ammenda fino a 206 euro prevista dall’art 650. cp, contravvenzione che può essere estinta con oblazione ai sensi dell’art. 162-bis cp; tanto che alcune procure della Repubblica avevano deciso di qualificare le violazioni come – più grave – reato di cui all’art. 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265 (Testo unico delle leggi sanitarie – Tuls).

Il decreto legge n. 19 del 2020 ha rivisto sia il catalogo delle misure di contenimento che l’apparato sanzionatorio, come del resto era imposto dall’evolvere della situazione epidemiologica[1].

L’art. 1 dl n. 19/2020 enumera una serie di misure volte a «contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla diffusione del virus Covid-19». L’art. 2 individua forme (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri) e procedimento (previa interlocuzione con i ministri competenti e i presidenti delle Regioni interessate) per l’adozione dei provvedimenti che dispongono le misure di contenimento.

Il “catalogo” delle misure di contenimento risulta corredato di un maggior grado di tipicità rispetto a quanto prevedeva il dl n. 6/2020.

L’art. 4 delinea un sistema sanzionatorio che supera lo strumento originariamente individuato nell’art. 650 cp, a favore di una differenziazione tra le violazioni “ordinarie” delle misure di contenimento, punite con sanzioni amministrative pecuniarie e accessorie, e la specifica violazione del divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus (art. 1, comma 2, lett. e) costituente reato di cui all’art. 260 Tuls, le cui sanzioni congiunte vengono elevate, dall’art. 4, comma 7, all’arresto da 3 mesi a 18 mesi e all’ammenda da euro 500 ad euro 5.000 (scelta di qualificazione giuridica della violazione di precedenti provvedimenti come detto adottata da alcune procure della Repubblica).

Le questioni di diritto intertemporale vengono affrontate dall’art. 4, comma 8, a norma del quale «le disposizioni del presente articolo che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ma in tali casi le sanzioni amministrative sono applicate nella misura minima ridotta alla metà»: con disposizione quindi che, riconoscendo la continuità di tipo di illecito, applica un principio di favor rei.

Clausole di riserva sono contenute nell’art. 4, comma 1, quanto al rapporto tra illecito amministrativo ed eventuale fatto costituente reato, e nell’art. 4, comma 6, quanto al rapporto tra art. 260 rd n. 1265/1934 ed eventuale fatto costituente «violazione dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato». Il richiamo espresso all’ipotesi di epidemia colposa (art. 452 cp) non esclude dunque la possibile ricorrenza di altri reati, in primo luogo il delitto di epidemia dolosa di cui all’articolo 438 cp, consistente nella «diffusione di germi patogeni».

L’art. 4, comma 1, dl n. 19/2020 prevede che «il mancato rispetto delle misure di contenimento» sia punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 (sanzione pecuniaria massima poi ridotta a 1.000 euro in sede di conversione); in alcuni casi tassativamente indicati sono previste sanzioni amministrative accessorie, provvedimenti cautelari e aggravamenti sanzionatori.

È espressamente escluso che possano trovare applicazione «le sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità» (con riferimento alla fattispecie contravvenzionale prevista dall’art. 260 rd n. 1265/1934).

Ai sensi dell’art. 4, comma 8, la depenalizzazione ha effetto anche per le violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del dl n. 19/2020[2].

L’illecito amministrativo è integrato esclusivamente dalla violazione delle misure di contenimento analiticamente indicate dall’art. 1, comma 2, del decreto legge, come detto sufficientemente tipizzate dal legislatore nel rispetto del principio di legalità, operante anche in materia di illeciti amministrativi.

Da un punto di vista formale, la previsione dell’art. 4, comma 8, introduce l’applicazione retroattiva di una fattispecie di illecito amministrativo (sebbene in relazione a fattispecie di reato depenalizzate). Tale previsione – comportando l’applicazione retroattiva di sanzioni amministrative (per illeciti depenalizzati) – è secondo talune opinioni suscettibile di rilievi di illegittimità costituzionale.

Ciò sul presupposto che – alle sanzioni amministrative – si applichino le stesse garanzie previste per le «nuove incriminazioni» dall’art. 25, comma 2, Cost., come affermato dalla Corte costituzionale in ripetute occasioni[3].

Tuttavia, nel caso in cui la “nuova” previsione sanzionatoria amministrativa sia il frutto di un intervento di depenalizzazione, si può giungere ad escludere – a certe condizioni – che sia leso il divieto di applicazione retroattiva di trattamenti punitivi di sfavore.

In un caso come quello in esame si registra non una “nuova” previsione punitiva, bensì una diversa modulazione della risposta sanzionatoria (che comporta solo apparentemente l’applicazione delle sanzioni amministrative a fatti precedentemente commessi); in altri termini, la scelta del legislatore sembra da ritenere costituzionalmente conforme al dettato dell’art. 25, comma 2, della Costituzione e ammissibile ove essa risponda – come sembra nel caso di specie – a canoni di ragionevolezza coerenti con il dettato dell’art. 3 della Costituzione[4].

Da un punto di vista procedurale, l’art. 4, comma 8, dl n. 19/2020 richiama – per la gestione dei procedimenti attivati per la violazione dell’abrogata fattispecie prevista dall’art. 3, comma 4, dl n. 6/2020 – gli artt. 101 e 102 d.lgs n. 507/1999 (in materia di depenalizzazione di vari illeciti).

Il che comporta (per l’autorità giudiziaria) che:

- ove quei procedimenti siano già definiti con condanne irrevocabili (possibilità puramente teorica), l’eventuale condanna o decreto penale dovranno essere revocati dal giudice dell’esecuzione (art. 101, d.lgs n. 507/1999);

- ove quei procedimenti siano ancora pendenti: a) l’autorità giudiziaria disponga la trasmissione all’autorità amministrativa competente degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi; b) se il procedimento pende ancora in fase di indagine, la trasmissione degli atti è disposta direttamente dal pubblico ministero, che, in caso di procedimento già iscritto, annota la trasmissione nel registro delle notizie di reato.

L’art. 4 dl n. 19/2020 richiama le previsioni della legge n. 689 del 1981: troveranno pertanto applicazione le ordinarie regole per l’imputazione soggettiva dell’evento (art. 3), le cause di giustificazione (art. 4), il concorso di persone nell’illecito amministrativo (art. 5).

Nell’introdurre la fattispecie di illecito amministrativo, l’art. 4, comma 1, dl n. 19/ 2020 esordisce con la clausola di riserva «salvo che il fatto costituisca reato»; riserva che non opera per i reati di cui all’art. 650 cp e all’art. 260 rd n. 1265/1934, la cui applicazione è esplicitamente esclusa.

Va in effetti considerata la possibilità che la violazione di una delle misure di contenimento possa integrare altre ipotesi di reato: in particolare agendo come condotta causalmente rilevante e come violazione di regola cautelare presupposto del delitto di epidemia colposa (di cui si tratterà infra).

Il successivo decreto-legge n. 33 del 16 maggio 2020 si caratterizza per una riduzione delle misure di contenimento, in una logica di proporzionalità e adeguatezza rispetto al migliorato quadro epidemiologico.

Con riferimento alla violazione delle misure di contenimento, l’art. 2, comma 1, dl n. 33/2020 prevede che siano punite con le stesse sanzioni amministrative già introdotte dall’art. 4, comma 1, dl n. 19/2020.

Rimane la previsione sanzionatoria penale specifica per la violazione della quarantena obbligatoria[5].

Come si è visto, con l’art. 4, comma 6, dl n. 19/2020 il legislatore ha comminato una sanzione penale nei confronti di colui che violi il «divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus».

La sanzione è individuata con richiamo all’art. 260 Tuls, le cui pene sono state aumentate dallo stesso dl n. 19/2020 all’arresto da 3 mesi a 18 mesi e ammenda da euro 500 ad euro 5.000.

Analoga previsione è dettata dal dl n. 33/2020, sebbene con una sfumatura terminologica significativa: l’art. 1, comma 6, prevede infatti che «È fatto divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della   quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus Covid-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata». La violazione è punita «ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265» (art. 2, comma 3).

In ambedue i casi, la fattispecie sanzionatoria colloca in esordio una clausola di riserva «salvo che il fatto costituisca violazione dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato».

Essa è strutturata come reato di pericolo (astratto). Sotto il profilo della meritevolezza di tutela dell’interesse e di ragionevolezza di una simile previsione incriminatrice, non possono nutrirsi seri dubbi.

L’articolo 32 della Costituzione tutela la salute non solo come fondamentale diritto dell’individuo, ma anche come «interesse della collettività», in chiave di tutela dell’interesse di tutti gli individui che compongono la comunità; di qui il rilievo costituzionale dell’interesse protetto con l’incriminazione della violazione della quarantena[6].

Quanto alla ragionevolezza in concreto della previsione incriminatrice, è sufficiente considerare il dato tragicamente notorio del livello di pericolosità del fenomeno epidemico in atto.

La condotta illecita sanzionata è chiaramente descritta dai due testi, pur con qualche sfumatura lessicale differente: è responsabile del reato chi – essendo risultato positivo al virus – viola «il divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora» (art. 1, comma 2, lett. e dl n. 19/2020) o viola il «divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena» (art. 1, comma 6, dl n. 33/2020).

La condotta penalmente illecita, nella struttura di ambedue le fattispecie, ha due presupposti:

a) l’essere risultato positivo al virus;

b) l’essere destinatario di un divieto assoluto di allontanarsi (o di mobilità) dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena.

In origine, con il dl n. 19/2020, il legislatore non aveva chiaramente delineato la fisionomia dell’istituto della quarantena, trascurando di indicare esplicitamente l’autorità incaricata di disporla, le forme del provvedimento, la durata della misura e i rimedi giurisdizionali eventualmente esperibili per contestare il provvedimento impositivo della quarantena[7].

La tesi in base alla quale sarebbe stato necessario un provvedimento amministrativo di carattere individuale, emanato da un’autorità «competente» (in base alla legge), per imporre la quarantena era osteggiata da autorevole dottrina: secondo la quale il problema non avrebbe dovuto nemmeno porsi, dovendosi ritenere che la misura della quarantena fosse «imposta direttamente dalla norma primaria e che il soggetto che si trova nelle condizioni che la norma stabilisce è automaticamente tenuto a sottostarvi»[8]. In altri termini, «è direttamente la legge, e non l’autorità amministrativa, a disporre la quarantena»; infatti, «con il coronavirus è la legge stessa a prendere atto della diffusività del fenomeno; a descrivere i presupposti dell’intervento; a stabilire quando impiegare le maniere forti; a comminare sanzioni (ma non coercizione fisica)»[9]. E – si aggiunge – la prassi era decisamente orientata nel senso di non ritenere necessaria l’adozione di misure impositive della quarantena da parte dell’autorità sanitaria locale (nella gran parte dei casi, infatti, si registravano per lo più, mere comunicazioni da parte del medico o dell’ufficio di igiene che aveva riscontrato la positività al virus, corredata dalla somministrazione di informazioni relative al dovere di stare a casa).

Il decreto-legge n. 33/2020 (approvato il 16 maggio 2020) prevede che la misura della quarantena sia disposta «per provvedimento dell’autorità sanitaria» (art. 1, commi 6 e 7).

Il che vuol dire che – quantomeno a decorrere dall’entrata in vigore del dl n. 33/2020 – per assoggettare una persona a quarantena è indispensabile un provvedimento avente portata individuale emanato dall’autorità sanitaria (dal sindaco, alla luce di quanto prevede l’art. 13, comma 2, l. n. 833/1978). Senonché, sullo stesso specifico punto, anche il dl n. 19/2020 ha subìto delle modificazioni nel corso del procedimento di conversione in legge. In sede di conversione (avvenuta il 22 maggio 2020), infatti, il testo dell’art. 1, comma 2, lett. e, dl n. 19/2020 ha stabilito il «divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena ((applicata dal sindaco quale autorità sanitaria locale,)) perché risultate positive al virus» (tra doppia parentesi la parte inserita in sede di conversione).

Il reato di cd. violazione della quarantena obbligatoria presuppone dunque l’emissione, da parte del sindaco, di un valido provvedimento di quarantena, avente portata individuale.

Laddove tale provvedimento non sia stato emesso, difetta il valido presupposto del reato, con conseguente insussistenza della violazione penale tipizzata dall’art. 3, comma 4, dl n. 19/2020 e dall’art. 2, comma 3, dl n. 33/2020.

Si pone, a questo punto, una delicata questione interpretativa con riferimento alle violazioni della cd. quarantena obbligatoria commesse nel periodo anteriore all’approvazione della legge di conversione del decreto n. 19 del 2020 (ove nulla si prevedeva in ordine alla necessità di un provvedimento di portata individuale emesso dall’autorità sanitaria locale) e occorre chiedersi se la violazione della cd. quarantena obbligatoria non disposta dal sindaco integri – o meno – la violazione dell’art. 3, comma 4, dl n. 19/2020 (se, cioè, venga meno un valido presupposto della condotta penalmente sanzionata).

Il che impone di interrogarsi sulla questione, di alto rilievo teorico, degli effetti nel tempo delle modificazioni apportate alle disposizioni di un decreto legge, in sede di conversione. Secondo l’art. 77, comma 3, Cost. e l’art. 15, comma 5, l. n. 400/1988 è chiaro l’effetto nel tempo dell’emendamento: esso ha efficacia ex nunc e vale indubbiamente pro-futuro. Nulla si dice, però, della sorte – in termini di efficacia nel tempo – delle disposizioni del decreto legge colpite da emendamenti. Nel caso che qui interessa, sembra di poter classificare l’emendamento introdotto in sede di conversione come emendamento modificativo (che non introduce una disposizione del tutto nuova, ma incide sul testo del decreto, senza alterarne in modo totale l’oggetto o il senso). Secondo autorevole dottrina[10] «la conversione “con modificazioni” appare più rigorosamente una mancata conversione nella parte qua, poiché significa una volontà del legislatore di non aderire alle scelte operate dal governo. La modifica significa, prima, soppressione e, poi, aggiunta (cioè, sostituzione): si è detto acutamente che si può convertire ciò che c’è, “così com’è”; altrimenti si fa cosa diversa, cioè, si sostituisce».

Sul piano logico, lo sviluppo è il seguente: «l’introduzione nella legge di conversione di emendamenti incompatibili con il contenuto originario del decreto legge (soppressivi, sostitutivi o modificativi) equivale alla disapprovazione pro parte e, dunque, alla sua mancata conversione parziale»; gli emendamenti, poi, «hanno efficacia solo ex nunc; ove il legislatore intenda attribuire loro efficacia retroattiva, dovrebbe dichiararlo esplicitamente»[11].

Ove si aderisca a tale sistemazione teorica, l’effetto che si determina sul piano penalistico è il seguente: i “provvedimenti” impositivi di quarantena obbligatoria non conformi allo schema legale (provvedimento emesso dall’autorità sanitaria locale) non potrebbero costituire valido presupposto della condotta di inottemperanza sanzionata dall’art. 4, comma 6, dl n. 19/2020.

 

2.2. Quale riferimento costituzionale per la quarantena?

I problemi interpretativi che solleva la fattispecie penale di violazione della quarantena obbligatoria non si esauriscono qui.

Secondo talune opinioni[12], una simile previsione non comprime solo il diritto alla libera circolazione delle persone (ricadente nell’orbita dell’art. 16 della Costituzione, che ammette limitazioni al suo esercizio solo ove esse siano stabilite dalla legge «in via generale, per motivi di sanità o sicurezza»), ma incide anche, in modo netto, sulla libertà personale. Infatti:  

a) il contenuto della misura della quarantena è – nella sua dimensione materiale – paragonabile in tutto e per tutto a situazioni di privazione della libertà personale come la detenzione domiciliare (art. 47-ter ordinamento penitenziario)[13], gli arresti domiciliari (art. 284 cpp)[14] o la permanenza domiciliare (art. 53 d.lgs n. 274/2000)[15].

Il contenuto materiale di quei comandi rivolti all’imputato/condannato sembra sovrapponibile – tanto sul piano letterale quanto su quello degli effetti che si producono sul diritto compresso – al contenuto del «divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus» (art. 1, comma 2, lett. e, dl n. 19/2020) e anche al «divieto di mobilità» dalla propria abitazione o dimora.

b) la limitazione della libertà personale in questo caso ha una base legale (vds. supra), ma è adottata dall’autorità amministrativa in forza di un provvedimento che deve necessariamente avere natura individuale (trattandosi di misura applicabile alle sole persone positive al virus o – con riferimento alla quarantena cd. precauzionale – di misura applicabile alle sole persone che versino nella condizione considerata dall’art. 1, comma 2, lett. d, dl n. 19/2020 e dall’art. 1, comma 6, dl n. 33/2020).

Se così è, il dato problematico – sotto il profilo della legittimità costituzionale – è rappresentato dal fatto che le misure privative della libertà personale sono sottoposte non solo alla riserva di legge, ma anche a quella di giurisdizione prevista dall’art. 13 della Costituzione. E, nel caso del divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora durante la quarantena, il passaggio giurisdizionale è del tutto pretermesso.

La tesi sopra esposta – per cui il «divieto assoluto di allontanarsi» o il «divieto di mobilità» dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena costituirebbe misura privativa della libertà personale riconducibile alle garanzie costituzionali previste dall’art. 13 Cost. – è stata contestata da commentatori molto autorevoli e con argomenti particolarmente efficaci[16]. Essi hanno considerato il quadro normativo anteriore all’emanazione del decreto-legge n. 33 del 2020 e muovevano dalla prospettiva interpretativa per cui il divieto di allontanarsi dall’abitazione discendesse direttamente dalla legge generale e astratta o, al più, dal dpcm che – con una previsione che però è, ancora una volta, generale – concretizzava la portata prescrittiva della fonte primaria.

Gli argomenti utilizzati per affermare che la misura della quarantena non incide sul “bene-libertà personale” (art. 13 Cost.), bensì sul “bene-libertà di circolazione” (art. 16 Cost.) sono così schematizzabili: la positività al virus è un dato scientifico non suscettibile di particolari controversie, sì da rendere superfluo il controllo giurisdizionale; difetta, infatti, la possibilità di “abuso” e/o quella discriminatoria (abusi e discriminazioni per prevenire le quali è storicamente previsto l’intervento del giudice); il divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione non è un provvedimento eseguito coattivamente (a differenza dell’esecuzione di un arresto e a differenza anche di certi trattamenti sanitari obbligatori); non si determina dunque una “degradazione” della persona; non verrebbe pertanto in discussione la tutela dell’habeas corpus e la conseguente necessità di invocare l’intervento di un giudice[17].

Gli autorevoli e acuti argomenti appena schematizzati non sembrano però risolutivi.

Dal punto di vista metodologico, ricondurre alla sola libertà di circolazione il divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione rischia di sovrapporre due piani che, invece, è forse necessario tenere distinti. Una cosa è il contenuto minimo di una certa libertà (nel nostro caso, la libertà personale o la libertà di circolazione). Un altro e distinto piano, invece, è quello della ratio sottesa all’apparato di garanzie necessario per ritenere accettabile la compressione di un certo diritto di libertà. Ma non è l’apparato di garanzie a definire il perimetro di quel diritto di libertà. E, infatti, gli argomenti che valorizzano il fattore della degradazione giuridica e dello stigma morale sono sì presenti nella giurisprudenza costituzionale; ma – a ben vedere – essi sono stati utilizzati dalla Consulta per ricondurre al perimetro della libertà personale situazioni connotate da un grado di compressione della stessa significativamente minore rispetto a quello che si riscontra nel caso della quarantena[18]. Nel caso della quarantena si registra, infatti, non solo un limite alla libertà di circolare sul territorio ma un più pressante limite: quello di non uscire di casa, che la Corte costituzionale aveva ritenuto costituire una forma di degradazione giuridica[19].

Nemmeno risultano decisive le considerazioni svolte a partire dall’assenza di un pericolo di discriminazione o dalla pretesa assenza di dubbi di accertamento sul presupposto che giustifica l’imposizione della quarantena. Il virus – si è detto – si diffonde democraticamente e non si danno ipotesi di possibile discriminazione. I contagiati sono tali e la positività (a differenza dei ricoveri legati a patologie mentali) è agevolmente accertabile secondo i dettami dell’arte medica. In assenza di possibilità di abuso, l’intervento giurisdizionale non sarebbe necessario[20].

Si può convenire sul fatto che – nel caso specifico della quarantena applicata per positività al virus Covid-19 – non sia evidente un rischio discriminatorio o di abuso; e anche sul fatto che l’intervento del giudice non aggiungerebbe garanzie sul piano della “sostanza” dei diritti di libertà incisi.

Tuttavia, se il divieto assoluto di allontanarsi dall’abitazione è da intendere come misura di “privazione della libertà”, non contano le intenzioni o le possibilità di abuso di chi dispone la misura ma il contenuto dell’art. 13 della Costituzione; tanto più che la Costituzione non prevede alcuna clausola simile a quella contemplata dall’art. 15 della Cedu, che consente agli Stati membri di derogare agli obblighi di tutela di alcuni diritti fondamentali «[i]n caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione», sempre che le deroghe siano previste «nella stretta misura in cui la situazione lo richieda».

Inoltre, a ben vedere, non è nemmeno certo che la misura della quarantena – e le annesse limitazioni della libertà personale – si fondino su presupposti “esatti” e non controvertibili; questo, per esempio, può essere affermato per i casi di quarantena cd. obbligatoria, in cui la quarantena e il divieto di allontanamento dall’abitazione sono disposti nei confronti di persone risultate positive al virus. Ma che dire, invece, della quarantena (e correlative misure limitative della libertà, disposte con dpcm) per i casi di quarantena precauzionale? Essi (contemplati dall’art. 1, comma 2, lett. d, dl n. 19/ 2020) prevedono l’«applicazione della misura della quarantena precauzionale ai soggetti che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva o che rientrano da aree, ubicate al di fuori del territorio italiano». Anche per tali persone – con il provvedimento di cd. quarantena precauzionale – scatta il «divieto assoluto di mobilità dalla propria abitazione o dimora». E non si può non osservare che – nel caso della quarantena precauzionale – il divieto assoluto di mobilità dalla propria abitazione si fonda su presupposti molto meno univoci del risultato del tampone. Taluno – già assoggettato al divieto assoluto di mobilità – potrebbe contestare di aver avuto «stretti contatti» con una persona positiva al virus; o potrebbe voler contestare di essere rimpatriato da territori esteri. Certo, può ricorrere al Tar: ma nel frattempo il «divieto assoluto di mobilità dalla propria abitazione» continuerebbe ad avere effetto, senza le garanzie formali e oltre i limiti temporali previsti dall’art. 13 della Costituzione.

Per chiudere il quadro degli argomenti problematici sulla riconducibilità della quarantena al quadro delle misure che incidono sulla libertà personale – ovvero alla libertà di circolazione - è utile allargare seppur fugacemente lo sguardo oltre confine, menzionando una decisione della Corte Edu e un recente pronunciamento del Conseil constitutionnel francese.

L’art. 5 della Cedu dispone che «nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge: (…) e) se si tratta della detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo». Nell’interpretare l’art. 5, § 1, lett. e, della Convenzione, la Corte Edu ha esplicitato che l’isolamento (in casa o in ospedale) disposto per prevenire il dilagare di una malattia infettiva è una misura privativa della libertà personale[21].

Il Conseil constitutionnel ha di recente reso un parere su una legge proposta dal Governo francese in materia – tra l’altro – di misure di contenimento per fronteggiare l’emergenza sanitaria in atto. Con riferimento al regime delle misure di messa in quarantena e in isolamento, il Conseil constitutionnel ha riconosciuto che, nel caso in cui le misure di confinamento o di isolamento prevedano il divieto totale di uscire, esse costituiscono una privazione di libertà[22].

Ove risultassero condivisibili gli argomenti che riconducono la misura della quarantena alle garanzie dell’art. 13 Cost., potrebbero discenderne conseguenze sull’integrazione del reato di violazione della cd. quarantena obbligatoria; essendo pretermesso il controllo giurisdizionale sull’applicazione della misura della quarantena si porrebbe, infatti, un problema di diretto contrasto tra la misura in discorso e l’art. 13 Cost. (con conseguente possibile illegittimità costituzionale del provvedimento la cui violazione costituisce reato); in tal caso, potrebbe risultare necessario – ritenendo che il provvedimento amministrativo di imposizione della quarantena replichi lo schema legale (e, dunque, se vi è il vizio, esso sta nella legge) – investire della questione la Corte costituzionale anche in ragione della necessità di ottenere dalla Consulta indicazioni che abbiano valenza erga omnes. Ove, invece, si ritenesse che la misura della quarantena incida solo sulla libera circolazione, la violazione del provvedimento amministrativo dovrà essere valutata secondo gli ordinari canoni di accertamento del reato.

In conclusione si può ritenere che con la disciplina delle misure di contenimento e il loro corollario sanzionatorio ci si sia collocati al margine di un “coinvolgimento costituzionale” dell’articolo 13: di cui future analoghe previsioni dovrebbero tenere conto.

 

3. Nuovi problemi ricostruttivi del delitto di epidemia (colposa)

La rapida diffusione del virus Sars-CoV-2 ha presto indotto gli operatori del diritto a riscoprire figure di reato poco frequentate nella pratica professionale. Tra esse, ovviamente, il delitto di epidemia (che può configurarsi in forma dolosa o colposa e che, nella sistematica del codice, è inquadrato come delitto di comune pericolo contro l’incolumità pubblica)[23]. In questa sede ci si soffermerà sull’epidemia colposa, ritenendo residuale l’ipotesi che essa possa manifestarsi in questo contesto in forma dolosa.

 

3.1. Il delitto di epidemia: alcune questioni generali

L’art. 438 cp incrimina chiunque cagioni un’epidemia «mediante la diffusione di germi patogeni»; a mente dell’art. 452 cp rilevano non solo le condotte dolose, ma anche quelle colpose.

La prima difficoltà di ordine concettuale investe la necessità di definire il perimetro dell’evento del reato.

In dottrina si è sostenuto che, per “epidemia”, debba intendersi la «manifestazione collettiva di una malattia che rapidamente si diffonde fino a colpire un gran numero di persone in un territorio più o meno vasto e si estingue dopo una durata più o meno lunga»[24]. In giurisprudenza si è di recente affermato che «l’evento tipico del reato consiste in una malattia contagiosa che, per la sua spiccata diffusività, si presenta in grado di infettare, nel medesimo tempo e nello stesso luogo, una moltitudine di destinatari, recando con sé, in ragione della capacità di ulteriore espansione e di agevole propagazione, il pericolo di contaminare una porzione ancor più vasta di popolazione»[25].

L’evento del reato, dunque, si connota di due componenti: una marcatamente oggettiva e – per così dire – “di danno” (la trasmissione del germe patogeno ad almeno un individuo); l’altra, invece, valutativa e – per così dire – “di pericolo” (il pericolo concreto di diffusione ulteriore del contagio)[26].

È di tutta evidenza che, nel caso di diffusione del virus Sars-CoV-2, questa seconda componente (la spiccata diffusività del contagio, con conseguente attitudine a mettere a repentaglio l’incolumità di una moltitudine di persone) non richiederà particolari dimostrazioni (essendo dato tragicamente restituito dalle cronache oltre che scientificamente accertato)[27].

Un secondo tema di rilievo sistematico, denso di implicazioni applicative, è rappresentato dalla qualificazione della fattispecie incriminatrice: posto che l’epidemia si realizza «mediante la diffusione di germi patogeni», si tratta di fattispecie a forma vincolata, ovvero di fattispecie causalmente orientata? Questione non puramente accademica, considerato che, ove si ritenga che la fattispecie sia a forma vincolata, non avrebbero rilievo le condotte diverse da quella tipizzata (come, per esempio, le condotte omissive)[28].

In dottrina si è persuasivamente rilevato che «essendo la fattispecie imperniata sul “cagionare”, trova piana applicazione la clausola di equivalenza fissata dall’art. 40 cpv.: può perciò rendersi responsabile del delitto in esame – tanto nella forma dolosa (art. 438) quanto in quella colposa (art. 452) – chi ha l’obbligo giuridico di impedire il sorgere o il propagarsi di un’epidemia»; si tratta, dunque,  di un delitto a forma libera, «a mezzo vincolato, nel senso che l’epidemia può essere realizzata solo attraverso la “diffusione di germi patogeni”»[29].

Inquadrata in questi termini la fattispecie incriminatrice, si pongono per l’accertamento del reato gli ordinari problemi in materia di causalità ed elemento soggettivo.

È bene sgombrare il campo da una prima suggestione. In una condizione epidemica come quella attuale, si potrebbe sostenere che eventuali condotte – attive od omissive – di diffusione dei germi patogeni non “cagionino” l’epidemia, sul presupposto che essa è già in atto (e, dunque, è già stata cagionata). Una simile tesi non può essere condivisa per più ragioni: da un lato, finirebbe con l’attribuire rilievo solo alle condotte di “innesco” dell’epidemia, in un contesto in cui – essendo l’evento epidemico ancora in atto – l’evoluzione della situazione non è irrilevante rispetto alla messa in pericolo del bene giuridico protetto (la pubblica incolumità); dall’altro lato, perché si tratterebbe di una tesi contrastante con la disciplina del concorso di cause dettata dall’art. 41 cp[30].

Quanto al rapporto di causalità, nei limiti dello scopo di inquadramento del presente contributo, si può richiamare l’affermazione secondo cui «l’azione ha “cagionato” l’epidemia quando è stata una condizione necessaria dell’evento, senza la quale quella concreta epidemia non si sarebbe manifestata hic et nunc. L’accertamento del nesso causale deve essere compiuto secondo la formula della conditio sine qua non, sorretta da una o più leggi scientifiche, che siano in grado di accertare una successione regolare tra l’azione e l’evento. Sussisterà il rapporto di causalità se l’azione non può essere mentalmente eliminata, sulla base di una pertinente legge scientifica, senza che venga meno la diffusione di agenti patogeni, all’origine dell’epidemia che in concreto si è realizzata»[31].

Nel caso si discuta invece di reato omissivo improprio, «l’individuazione dell’omissione va ricavata dal contenuto dell’obbligo di agire che grava sul singolo garante per impedire la diffusione di agenti patogeni che, propagatisi, hanno dato vita a un’epidemia»[32].

In ogni caso, per accertare la sussistenza del rapporto causale, non si potrà che fare riferimento ai più recenti approdi giurisprudenziali, secondo i quali «il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto»[33].

Sempre in tema di accertamento dell’elemento materiale del reato, ci si deve interrogare sulla possibilità di valorizzare i risultati delle indagini epidemiologiche per dimostrare la sussistenza di un evento (l’evento epidemico o il suo manifestarsi in forma più virulenta di quella attesa) e la relazione causale con condotte attive od omissive di chi rivesta posizioni di garanzia[34].

Tuttavia, tale suggestione – coerente con la necessità di valorizzare non solo la componente di danno (il contagio), ma anche il nucleo di disvalore insito nella fattispecie di comune pericolo – deve necessariamente confrontarsi con rilevanti problemi, anzitutto di ordine metodologico. Si pone infatti il problema di come strutturare l’indagine epidemiologica – valorizzare il tasso dei contagi o quello di mortalità? Confrontare il tasso di mortalità riscontrato nella condizione epidemica con quello degli anni precedenti? Quante annualità è necessario considerare per limitare i fattori di confondimento? Quali campioni di popolazione valorizzare nell’indagine (regionali, provinciali, comunali)? Ma anche: per valutare la sussistenza del reato in situazioni più circoscritte (come ad esempio una Rsa) occorrerà considerare la popolazione dei soggetti dimoranti nella struttura e porla a raffronto con la popolazione generale della zona? E la popolazione dimorante in altre Rsa?

Va poi considerata l’influenza sui risultati dell’indagine delle concrete condizioni delle diverse coorti di riferimento, della loro dislocazione sul territorio, delle politiche di contenimento del contagio adottate.

A completare il quadro problematico della (ineludibile?) suggestione epidemiologica ci si può chiedere quanto possa influire sull’affidabilità delle indagini epidemiologiche il discontinuo metodo di rilevamento dei soggetti positivi (basti pensare, nell’epidemia Covid-19, alla questione della scarsità di tamponi per individuare i soggetti positivi o alla selezione della platea di persone da sottoporre a tampone)[35].

Quanto all’accertamento della responsabilità per colpa, occorrerà accertare la cd. causalità della colpa, ossia accertare se la violazione della regola cautelare abbia cagionato – o contribuito a cagionare – l’evento[36].

Con specifico riferimento alla questione delle regole cautelari, va intanto precisato che lo stato delle conoscenze sulla modalità di diffusione del virus e la conseguente elaborazione delle strategie di contrasto alla sua diffusione hanno subìto una rapida evoluzione nel tempo: alcune cautele si sono manifestate come opportune e necessarie solo dopo l’evoluzione dello stato delle conoscenze.

E va considerato che l’inosservanza di «leggi, regolamenti, ordini o discipline» di cui all’articolo 43 cp è suscettibile di essere integrata dalla violazione di misure di contenimento dettate con i vari dpcm succedutisi nel corso dei mesi, che quindi possono costituire un parametro di valutazione di colpa specifica per reati quali epidemia colposa o lesioni od omicidio colposi[37].

Sarà dunque indispensabile ragionare in modo diacronico, verificando che la regola cautelare (in ipotesi trascurata) pre-esistesse e fosse conoscibile (e, soprattutto, praticabile) da parte della persona cui si ascrive la responsabilità del fatto[38]. E valutando altresì la misura della regola di condotta cautelare, che, nel rispetto del principio di determinatezza, deve essere predeterminabile ex ante e “disponibile al momento della condotta”[39].

È inoltre necessario che la misura di contenimento abbia un autentico contenuto cautelare in relazione alla prevenzione del rischio che si intende scongiurare; ed è indispensabile in termini probatori dimostrare che la violazione di una specifica misura di contenimento abbia avuto un rilievo causale nella produzione dell’evento.

 

3.2. Problemi applicativi: il singolo “autore 

È stato scritto che «poiché la paura indotta dalle epidemie è storicamente e antropologicamente una di quelle che più sconfina nel panico, è del tutto comprensibile che riaffiorino tendenze dirette a placare l’ansia con la ricerca di responsabili»[40]. Elementari esigenze di garanzia impongono di rifiutare la logica del capro espiatorio, anche mascherata da attivismo giudiziario. Ma è altrettanto necessario evitare che il rifiuto di questa logica si risolva in un generalizzato atteggiamento giustificazionista, in conseguenza del carattere imponente del fenomeno e delle colossali difficoltà di accertamento e ricostruzione dei fatti.

Le possibili situazioni di interesse per la giurisdizione penale sono molte e qui possono essere solo schematizzate.

Un primo livello di indagine deve necessariamente soffermarsi sulla possibilità che un soggetto portatore del virus possa essere ritenuto responsabile del delitto di epidemia. Possiamo definire il singolo autore di epidemia, considerandolo alla stregua degli untori di manzoniana memoria, quantunque si trattasse in quel caso di unzioni dolose[41].

Come si è visto, le norme che introducono fattispecie di illecito amministrativo per la violazione delle misure di contenimento esordiscono con una clausola di riserva: «salvo che il fatto costituisca reato»[42], il che implica la possibilità che una singola persona infettata dal virus possa a sua volta infettare altre persone, così favorendo l’ulteriore diffusione dell’epidemia e realizzando la condotta materiale del reato di epidemia.

Al riguardo, va evidenziato che – secondo la giurisprudenza di legittimità – è da respingere la tesi secondo cui «non possa parlarsi di diffusione rilevante per la fattispecie di epidemia se non vi sia un possesso di germi patogeni in capo all’autore, segnato da separazione fisica tra l’oggetto, quel che viene diffuso, e il soggetto, ossia chi diffonde. La norma non impone questa relazione di alterità e non esclude che una diffusione possa aversi pur quando l’agente sia esso stesso il vettore dei germi patogeni»[43].

Ciò detto, si pongono rilevanti difficoltà di accertamento dell’elemento materiale del reato. È stato efficacemente rilevato che, se «è indubbio che il virus danneggi gli esseri umani; che la sua trasmissione necessiti di un’interazione umana ravvicinata; e che possa essere contratto toccando alcune superfici», è altrettanto indubbio che «al contempo, ne sono incerte e variabili la resistenza molecolare e la capacità infettante (fino a 72 ore sulla plastica; fino a 48 ore sull’acciaio; meno sulla carta e sul rame), nonché il catalogo delle superfici ospitali (i capelli? Gli indumenti? E per quanto?) e le tempistiche di incubazione (da 3 a 14 giorni). Neppure sulla distanza di sicurezza minima (un metro, un metro e mezzo, due metri) e sulle dinamiche del passaggio (immediato?) esiste unanimità di vedute. Come collaudare simile evidenza scientifica sul case, sul singolo contagio-lesione-morte, escludendo serie causali alternative?»[44].

La ricostruzione della catena dei contagi – nella prospettiva di verificare se la singola persona infetta che ha violato misure di contenimento abbia concorso a cagionare un’epidemia – è operazione che, pur in astratto possibile[45], ben difficilmente potrebbe condurre a un risultato capace di escludere, al di là di ogni ragionevole dubbio, la possibilità di decorsi causali alternativi a quello oggetto di indagine.

Un secondo livello di possibile interesse per la giurisdizione penale ha ad oggetto il tema della diffusione del virus negli ambienti di lavoro.

Sul piano della causalità si pongono gli stessi problemi che sono stati esaminati trattando della posizione del singolo autore di epidemia. In presenza di luoghi di lavoro “non chiusi”, laddove si registri in un luogo di lavoro la presenza di più persone infette, è pressoché impossibile dimostrare che il contagio (o i contagi) si siano verificati sul luogo di lavoro (non potendosi escludere che i lavoratori contagiati abbiano contratto il virus non sul luogo di lavoro, ma altrove).

Ma, al di là della ineludibile questione dell’accertamento dell’elemento materiale del reato – la questione del rischio di diffusione del virus Sars-CoV-2 negli ambienti di lavoro solleva questioni cruciali anche in materia di attribuzione soggettiva di responsabilità.

Nel dibattito pubblico è presto emersa la preoccupazione – soprattutto da parte di rappresentanze imprenditoriali – di una “automatica” attribuzione al datore di lavoro di responsabilità penale per il caso di contagio Covid-19[46].

Se si ascrive alla figura datoriale una posizione di garanzia, è necessario comprendere quale ne sia l’esatto perimetro, determinando quali siano i doveri del datore di lavoro. 
In primo luogo occorre chiarire quale incidenza abbiano – sui confini della posizione di garanzia del datore di lavoro – le misure di contenimento previste dal regolatore pubblico.

Occorre partire da una premessa: con le prime misure di contenimento della diffusione del virus il decisore politico ha decretato – sin dal dl n. 6/2020 – una generalizzata sospensione di larghissima parte delle attività di produzione di beni o servizi, limitando l’operatività dei settori produttivi alle imprese che erogano servizi essenziali e di pubblica utilità e di quelle compatibili con la modalità domiciliare. Con dpcm 11 marzo 2020 sono state analiticamente individuate le attività economiche sospese; per quelle che proseguivano, è stata raccomandata la sospensione delle attività dei reparti aziendali non indispensabili alla produzione e l’assunzione di protocolli di sicurezza anti-contagio (precisandosi che, laddove non fosse stato possibile garantire il rispetto della distanza interpersonale di un metro come principale misura di contenimento, era necessario fornire ai lavoratori strumenti di protezione individuale; lo stesso dpcm incentivava l’attività di sanificazione dei luoghi di lavoro, raccomandava la limitazione al massimo degli spostamenti all’interno dei siti e il contingentamento dell’accesso agli spazi comuni nelle attività produttive).

Con il decreto-legge n. 19 del 25 marzo 2020 si è indicata la possibilità, per le attività non sospese, di proseguire l’attività produttiva di beni o servizi adottando «protocolli di sicurezza anti-contagio, con adozione di strumenti di protezione individuale» (art. 1, comma 2, lett. gg, dl n. 19/2020). Le parti sociali hanno dunque stipulato più protocolli anti-contagio (per primo il protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro del 14 marzo 2020, recepito dal dpcm del 22 marzo 2020; in seguito, il protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il  contenimento della  diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 24 aprile 2020, poi recepito dal dpcm 26 aprile 2020 e dal dpcm 17 maggio 2020). All’ulteriore allentamento del lockdown, tali protocolli hanno poi ricevuto un esplicito riconoscimento di rilievo da parte di una fonte di rango primario; l’art. 1, comma 14, del dl n. 33 del 16 maggio 2020 ha infatti stabilito che «le attività economiche, produttive e sociali devono svolgersi nel rispetto dei contenuti di  protocolli  o  linee  guida  idonei  a prevenire o ridurre il rischio di contagio nel settore di riferimento o in ambiti analoghi, adottati dalle regioni o dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome nel rispetto dei principi contenuti nei protocolli o nelle linee guida nazionali. In assenza di quelli regionali trovano applicazione i protocolli o le linee guida adottati a livello nazionale. Le misure limitative delle attività economiche, produttive e sociali possono essere adottate, nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità, con provvedimenti emanati ai sensi dell’articolo 2 del decreto-legge n. 19 del 2020 o del comma 16».

Si pone allora la questione se le misure previste dai predetti protocolli abbiano o meno una funzione cautelare in materia prevenzionistica. La risposta è positiva. Va premesso che il protocollo di intesa stipulato dalle parti sociali – pur muovendo dalla premessa per cui «il Covid-19 rappresenta un rischio biologico generico, per il quale occorre adottare misure uguali per tutta la popolazione» – impone al datore di lavoro di assicurare la fornitura dei DPI ai lavoratori e di procedere a un ripensamento complessivo dell’organizzazione produttiva e degli ambienti di lavoro (all’esito di procedure partecipate, con il coinvolgimento di rappresentanze dei lavoratori, RSPP e medico competente). D’altra parte, nel protocollo si allude esplicitamente alla esistenza di «rischi valutati» («nella declinazione delle misure del protocollo all’interno dei luoghi di lavoro sulla base del complesso dei rischi valutati e, a partire dalla mappatura delle diverse attività dell’azienda, si adotteranno i DPI idonei»).

La conferma circa la natura cautelare dei protocolli di intesa si rinviene nell’art. 1, comma 15, dl n. 33 del 16 maggio 2020, ove si legge che «il mancato rispetto dei contenuti dei protocolli o delle  linee guida, regionali, o, in assenza, nazionali, di cui al  comma 14 (ossia la fonte che rimanda alla necessaria adozione dei protocolli di regolamentazione per il contenimento della diffusione del Covid-19) che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza».

Analoga indicazione si ricava del resto dalla lettura del protocollo stipulato dalle parti sociali in cui si prevede che la prosecuzione delle attività produttive possa avvenire «solo in presenza di condizioni che assicurino alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione. La mancata attuazione del Protocollo che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza»[47].  È da evidenziare che non ogni misura di contenimento prevista dai protocolli avrà necessariamente una chiara natura cautelare in relazione al singolo evento avverso: sia in ragione del fatto che sarà comunque necessario accertare se il mancato rispetto di una misura precauzionale prevista dai protocolli abbia inciso sulla produzione dell’evento avverso, sia in ragione del fatto che alcune misure precauzionali previste dai protocolli sono concepite come regole elastiche – talora molto elastiche – a basso contenuto precettivo[48]. Resta comunque il fatto che – complessivamente considerato – il sistema precauzionale disegnato dai protocolli di intesa assume un chiaro rilievo nell’indagine sulla eventuale colpevolezza di chi riveste posizioni di garanzia all’interno dei luoghi di lavoro[49].

In secondo luogo, occorre chiedersi se il “rischio Covid-19” imponga o meno al datore di lavoro di aggiornare il documento di valutazione del rischio (con tutte le conseguenze che si danno in punto di predisposizione di misure di prevenzione e protezione della salute dei lavoratori). Come è noto, l’art. 2, comma 1, lett. q del decreto legislativo n. 81 del 2008 dispone che per «valutazione dei rischi» si deve intendere la «valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza». L’art. 28 d.lgs n. 81/2008 consente di avere conferma della necessità di una valutazione integrale dei rischi presenti in azienda. Il dato normativo, poi, si salda con un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale il datore di lavoro «ha l’obbligo giuridico di analizzare e individuare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda e, all’esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall’art. 28 del D.Lgs. n. 81 del 2008, all’interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori»[50].

Ne discende che il DVR dovrebbe essere aggiornato secondo quanto previsto dall’art. 29, comma 3, d.lgs n. 81/2008[51]; tanto più – si deve aggiungere – considerando che il complessivo ripensamento dell’organizzazione produttiva imposto dal rispetto dei protocolli stipulati dalle parti sociali per il contenimento del virus Covid-19 può fare emergere nuove e diverse situazioni di rischio, da fare oggetto di specifica valutazione[52]. Il mancato aggiornamento del DVR costituisce un illecito contravvenzionale (art. 55, comma 3, d.lgs n. 81/2008).

Occorre soffermarsi da ultimo su un tema di cruciale rilievo. Si è detto che il mondo imprenditoriale esplicita la preoccupazione di una automatica attribuzione al datore di lavoro di responsabilità penale per il caso di lavoratori contagiati da Covid-19; e si è altresì detto che deve essere riconosciuta una natura cautelare ai protocolli di intesa stipulati da Governo e parti sociali per la regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus negli ambienti di lavoro. Ciò posto, si discuteva sulla possibilità di ritenere (o meno) che – con il rispetto delle misure di contenimento previste dai predetti protocolli – il datore di lavoro avesse assolto al proprio debito di sicurezza (fondandosi l’opinione contraria anzitutto sul richiamo alla funzione di chiusura del sistema prevenzionale che l’ordinamento assegna all’art. 2087 cc)[53].

La questione sembrerebbe esser stata risolta d’imperio dal legislatore.

In occasione della conversione del decreto-legge n. 23 dell’8 aprile 2020 è stato, infatti, introdotto l’art. 29-bis, rubricato «obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da Covid-19», che prevede che «ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale»[54].

Non ci si può qui soffermare sulla classificazione dogmatica di una simile disposizione, essendo solo possibile dare conto del fatto che, secondo le opinioni dei primi commentatori, si tratterebbe di una norma con ambizioni pedagogiche indirizzate all’interprete (rispetto alla cui prudenza interpretativa si coltiva una malcelata sfiducia)[55].

Va comunque evidenziato che il rispetto dei protocolli non comporta automaticamente l’esenzione da responsabilità colposa per i titolari di posizioni di garanzia: «non si potrà prescindere – in qualsivoglia contestazione in materia – da una perdurante quota di residua colpa generica, legata a doppio filo alla fisiologica genericità di alcune prescrizioni (configuranti regole cautelari elastiche) e alla necessità (che pone una stringente similitudine con quanto previsto per la colpa medica) di adeguarle alle specificità del caso concreto, per il tramite (quantomeno) di un’appropriata manutenzione degli strumenti, di una corretta attuazione dei protocolli estesa alla vigilanza sul rispetto da parte dei lavoratori delle cautele adottate e di una verifica – ex ante e in concreto – della loro idoneità allo scopo»[56]; o, detto in altri termini, «non può escludersi che il datore di lavoro sia penalmente rimproverato per non aver fatto di più, laddove, in concreto, un maggior rischio fosse per lui (soggettivamente) prevedibile ed evitabile (l’evenienza è piuttosto inverosimile, date le circostanze, ma non può essere negata in linea teorica). Per converso, la parziale attuazione dei protocolli – in un mondo giurisprudenziale ben funzionante – non dovrebbe tradursi per ciò solo in responsabilità e quindi in condanna, ove il pericolo fosse per qualche ragione nullo o più efficacemente fronteggiabile attraverso presidi diversi o ulteriori. O – semplicemente – laddove l’imprenditore non fosse nelle condizioni materiali di fare alcunché, per impossibilità fisica o (vuoi anche) perché la cautela rientrava nella sfera di controllo del solo lavoratore»[57].

La condizione di epidemia investe un terzo piano di potenziale interesse giudiziario costituito dalla diffusione del virus Sars-CoV-2 all’interno di strutture sanitarie.

L’ipotesi che taluno debba rispondere della diffusione del virus in strutture sanitarie è strutturata sul modello della responsabilità omissiva – considerato che (a differenza dei casi di esposizione dei lavoratori a sostanze nocive usate nelle lavorazioni) il virus non è un fattore di produzione, ma rappresenta un fattore di rischio biologico presente nelle strutture sanitarie –; il che postula l’adesione alla tesi per cui la struttura del reato di epidemia sia fattispecie causalmente orientata (seppure a mezzo vincolato)[58] e l’individuazione di una posizione di garanzia (che la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato essere rivestita da direttori generali e direttori sanitari)[59].

Quanto alla causalità, l’accertamento della diffusione del contagio all’interno di strutture sanitarie presenta i già segnalati profili problematici connessi alla diffusione ubiquitaria del virus (e alla possibilità che i soggetti contagiati abbiano contratto l’infezione al di fuori della struttura sanitaria). In taluni casi, però, è possibile ottenere la dimostrazione – con il necessario grado di certezza processuale – che l’infezione sia avvenuta all’interno della struttura; si pensi al caso di chi sia ricoverato in una Rsa da un tempo superiore a quello di incubazione della malattia e che, in costanza di degenza, non abbia avuto contatti con l’esterno (non abbia ricevuto visite, non sia uscito dalla struttura per accertamenti sanitari, etc.); in tali casi è possibile ritenere dimostrato – con elevato grado di probabilità logica – che egli abbia contratto il contagio “dentro” la struttura (per contatti con il personale sanitario o per contatti con altri pazienti infetti).

Ma il fatto di ritenere accertata la diffusione del contagio all’interno di una struttura sanitaria non può evidentemente determinare l’automatica attribuzione di responsabilità penali (per l’epidemia colposa o per morte o lesioni dei contagiati) al titolare della posizione di garanzia.

Per l’indagine sulla attribuzione soggettiva di responsabilità, si pone intanto come tema ineludibile l’aggiornamento dei documenti di valutazione del rischio e l’adozione delle necessarie misure di prevenzione e protezione della sicurezza dei lavoratori (artt. 266 ss. d.lgs n. 81/2008, sulla gestione del rischio di esposizione ad agenti biologici): per giurisprudenza consolidata, «le norme antinfortunistiche sono dettate a tutela non soltanto dei lavoratori nell’esercizio della loro attività, ma anche dei terzi che si trovino nell’ambiente di lavoro, indipendentemente dall’esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell’impresa, di talché, ove in tali luoghi si verifichino a danno del terzo i reati di lesioni o di omicidio colposi, è ravvisabile la colpa per violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, purché sussista tra siffatta violazione e l’evento dannoso un legame causale e la norma violata miri a prevenire l’incidente verificatosi, e sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo all’attività ed all’ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento dell’infortunio, non rivesta carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico»[60].

Tornando alle previsioni del decreto legislativo n 81 del 2008, occorre evidenziare che  l’art. 274, comma 1, prevede che «il datore di lavoro, nelle strutture sanitarie (…), in sede di valutazione dei rischi, presta particolare attenzione alla possibile presenza di agenti biologici nell’organismo dei pazienti (…) e nei relativi campioni e residui e al rischio che tale presenza comporta in relazione al tipo di attività svolta»; il successivo comma 3 dispone poi che «nelle strutture di isolamento che ospitano pazienti od animali che sono, o potrebbero essere, contaminati da agenti biologici del gruppo 2, 3 o 4, le misure di contenimento da attuare per ridurre al minimo il rischio di infezione sono scelte tra quelle indicate nell’allegato XLVII in funzione delle modalità di trasmissione dell’agente biologico». L’allegato XLVII declina in modo analitico il catalogo delle misure di contenimento e dei livelli di contenimento del rischio da agente biologico (con un livello di dettaglio che qui non può essere restituito, le misure di contenimento ruotano attorno alla necessità di separatezza “fisica” tra il fattore di rischio biologico e le persone esposte, all’adeguatezza e all’igiene delle strutture e degli strumenti utilizzati).

Ma è indubbio che il rischio Covid-19 si è presentato alle porte delle strutture sanitarie in modo molto rapido; sicché è da dubitare – quantomeno nelle fasi iniziali del manifestarsi dell’epidemia – che fosse possibile un immediato adeguamento dei documenti di valutazione del rischio.

Per valutare la sussistenza o meno di una colpa dei titolari di posizioni di garanzia è da chiedersi se le previsioni contenute nei DVR relativamente alla valutazione del rischio di sviluppo di infezioni in ambiente sanitario possano comunque fungere da parametro per valutare la sussistenza o meno di una colpa generica; e se si possa, come sembra, fare riferimento alle misure di contenimento via via adottate dalle autorità pubbliche.

La risposta può essere positiva, e dunque: ove i documenti di valutazione del rischio predichino – per prevenire lo sviluppo di infezioni in ambiente sanitario – l’adozione di misure di isolamento e sanificazione, è possibile ritenere che il titolare della posizione di garanzia dovesse adottare analoghe misure di contenimento per prevenire il rischio di diffusione del virus Covid-19; ove le misure di contenimento dettate dalle autorità pubbliche predichino come primo elemento di contenimento del contagio il cd. distanziamento sociale, è possibile ritenere che il titolare della posizione di garanzia dovesse organizzare gli spazi della struttura in modo tale da garantire il perseguimento di tale obiettivo; ove reso noto che uno dei principali veicoli di trasmissione del virus è la trasmissione per le vie aeree, è possibile ritenere che il titolare della posizione di garanzia avesse il dovere di fornire ai lavoratori (ma anche agli ospiti delle strutture) i necessari (e adeguati) dispositivi di protezione individuale.

Altra questione è se il titolare della posizione di garanzia avesse la possibilità di predisporre quelle cautele (assicurare l’isolamento e il distanziamento sociale) e di fornire quei dispositivi di protezione individuale.

Ogni indagine penale non potrà prescindere, dunque, da una serie di accertamenti tesi a comprendere che cosa potesse fare e che cosa abbia concretamente fatto il titolare della posizione di garanzia per prevenire lo sviluppo del contagio, cercando di compiere un’analitica verifica relativa alle misure di prevenzione e protezione messe in atto dalla struttura; con l’avvertenza che l’indagine su tutti gli aspetti messi in luce dovrà essere svolta in modo diacronico, tenendo nella debita considerazione che cosa era prevedibile e che cosa era concretamente possibile fare in relazione alla situazione data nel momento in cui veniva in rilievo la condotta omissiva[61].

Un ultimo possibile ambito di interesse per la giurisdizione penale investe il livello dei decisori politici.

Si è diffusamente evidenziato in dottrina che rivestono una posizione di garanzia in materia di tutela della salute pubblica – tra gli altri – il Ministro della salute[62], il presidente della giunta regionale, il prefetto e il sindaco[63].

È ipotizzabile un coinvolgimento dei decisori politici in procedimenti penali per scelte che “avrebbero potuto” (e dovuto) essere fatte e che, invece, non sono state fatte? È ipotizzabile una responsabilità dei decisori politici per non aver istituito “zone rosse” o per averle istituite tardivamente? Per non aver aggiornato il piano antipandemia che, dopo la diffusione dell’epidemia da Sars del 2003, ciascun Paese avrebbe dovuto predisporre e revisionare periodicamente?

È stato detto – con riferimento al possibile coinvolgimento dei pubblici amministratori – che «l’istituzionale discrezionalità delle loro scelte non può per principio convertirsi in fonte di responsabilità penale, sol perché sarebbe stato possibile scegliere meglio per la tutela più efficace della vita e della salute (…). L’esercizio della discrezionalità genera responsabilità penale solo quando nella decisione sia grossolanamente alterato l’ordine dei valori scopo per la cui ponderazione è conferito quel potere discrezionale»[64]. In senso analogo si è affermato che «se vi è una responsabilità di governo (…) che passa per decisioni da adottare in condizioni di incertezza, implicanti valutazioni discrezionali e bilanciamenti di interessi, la sfera di autonomia e responsabilità politica va salvaguardata. Vi è uno spazio della politica che non può essere sottoposto a scrutinio diverso da quello politico»[65].

È un’impostazione che non può essere condivisa laddove posta in termini di inaccessibilità assoluta della giurisdizione penale al sindacato sull’attività discrezionale dei decisori politici. Del resto, che la discrezionalità anche politica possa essere sindacata dalla giurisdizione penale è una conclusione che si fonda su consolidata giurisprudenza e si ricava esaminando la disciplina dei reati ministeriali, che segue uno schema piuttosto chiaro: «la magistratura penale accerta secondo i criteri del diritto penale comune se il Ministro abbia commesso un reato nell’esercizio del proprio potere di governo; il Parlamento può assumere la decisione politica di negare l’autorizzazione a procedere, se la commissione del reato era funzionale alla tutela di un più rilevante interesse pubblico»[66].

Per coltivare ipotesi d’accusa nei confronti dei decisori politici (modulate sullo schema della responsabilità omissiva), occorre chiarire, anzitutto, quale possa essere l’evento che essi non hanno impedito e quale il comportamento alternativo lecito che essi avrebbero dovuto (e potuto) tenere, nel contesto a loro noto.

E, in tale prospettiva, le difficoltà di ordine probatorio sono ineludibili ed enormi.

L’epidemia Covid-19 si è diffusa in modo estremamente aggressivo in tutto il mondo, risultando solo parzialmente influenzata dalle politiche adottate dalle varie autorità di governo: sia pure con differenze – a tutt’oggi neppure completamente valutabili –, si è diffusa in Paesi che hanno praticato il lockdown estremo e in Paesi che hanno, invece, confidato nella capacità di autoregolamentazione dei consociati; si è diffusa in Paesi che hanno sviluppato sistemi di contact-tracing e in Paesi che, invece, non hanno adottato alcun sistema di tracciamento[67].

In tale prospettiva, l’individuazione del comportamento alternativo lecito si rivela oltremodo problematica. La domanda alla quale è difficile offrire una risposta è, infatti, la seguente: che cosa esattamente (di diverso) avrebbero dovuto fare i decisori politici?

Come, del resto, si rivela oltremodo problematica l’individuazione del risultato che – tenendo il comportamento alternativo lecito – i decisori politici avrebbero dovuto garantire: qual è il risultato atteso dal comportamento alternativo lecito? Un (impossibile) arresto della diffusione del virus? Il passaggio della curva di contagio da esponenziale a lineare come risultato atteso – esigibile – dal comportamento alternativo lecito? E ove si accedesse a tale suggestione, quale contesto di riferimento privilegiare, quello nazionale, regionale, comunale o di focolaio?

 

4. I criteri di accertamento delle responsabilità penali per eventi avversi nella “condizione di epidemia”

 

4.1. Modello di agente e criteri di orientamento

Nella condizione di epidemia e a prescindere dalla configurabilità del reato di epidemia, di cui si è discusso, l’attività sanitaria ha continuato a essere esposta alla possibilità di malpratica costituente reato.

Il quadro penalistico di accertamento delle responsabilità penali per eventi avversi – qualificabili come omicidio colposo o lesioni personali colpose – è stato in epoca recente riconfigurato dalle scelte normative compiute dapprima con dl 13 settembre 2012, n. 158 (l. 8 novembre 2012, n. 189) e in seguito con la l. 8 marzo 2017, n. 24, che ha introdotto nel codice penale, nell’articolo 590-sexies, i parametri di valutazione della condotta del sanitario costituiti dalle linee-guida e dalle buone pratiche clinico-assistenziali. Parametri che, in quanto attinenti al profilo tecnico-scientifico dell’attività sanitaria, regolano, ai sensi dell’art. 590-sexies, la sola colpa per imperizia.

Laddove si faccia questione di responsabilità penale per eventi avversi, si renderà quindi necessario valutare sin dalle indagini se il caso concreto sia regolato da linee-guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico-assistenziali; ricostruire il nesso causale tenendo conto anche del comportamento indicato da quei parametri (assumibile come comportamento alternativo lecito controfattuale), specificando se si versi in ipotesi di colpa generica o specifica, per imperizia, negligenza o imprudenza, segnalando se e in quale misura la condotta del sanitario si sia discostata da linee-guida o da buone pratiche clinico-assistenziali anche in relazione alle specificità del caso concreto.

Le linee-guida, che di per sé costituiscono sapere tecnico codificato dalla comunità scientifica («raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche»), devono passare attraverso una formalizzazione («definite e pubblicate ai sensi di legge»), ai sensi dell’art. 5 l. n. 24/2017, che prevede la loro provenienza da istituzioni individuate dal Ministero della salute e la loro verifica da parte dell’Istituto superiore di sanità.

Il professionista sanitario è tenuto ad attenersi alle linee-guida, sia pure con gli adattamenti propri di ciascuna fattispecie concreta; e ha la legittima aspettativa di vedere giudicato il proprio comportamento alla stregua delle medesime direttive.

Sul tema è intervenuta la Corte di cassazione a sezioni unite (Cass., sez. unite, 21 dicembre 2017, n. 8770), che ha sottolineato l’utilità dell’introduzione delle linee-guida sia quale criterio di orientamento per il sanitario – a cui permettono di essere «oggi posto in grado di assumere in modo più efficiente ed appropriato che in passato, soprattutto in relazione alle attività maggiormente rischiose, le proprie determinazioni professionali» – sia sotto il profilo giuridico poiché rappresentano «una plausibile risposta alle istanze di maggiore determinatezza che riguardano le fattispecie colpose qui di interesse. Fattispecie che, nella prospettiva di vedere non posto in discussione il principio di tassatività del precetto, integrato da quello di prevedibilità del rimprovero e di prevenibilità della condotta colposa, hanno necessità di essere etero-integrate da fonti di rango secondario concernenti la disciplina delle cautele, delle prescrizioni, degli aspetti tecnici che in vario modo fondano il rimprovero soggettivo»; con la precisazione, tuttavia, che si tratta non di «norme regolamentari che specificano quelle ordinarie senza potervi derogare, ma [di] regole cautelari valide solo se adeguate rispetto all’obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente[68] e implicanti, in ipotesi contraria, il dovere, da parte di tutta la catena degli operatori sanitari concretamente implicati, di discostarsene».

La situazione di fatto verificatasi nella fase acuta dell’epidemia pone in crisi questo modello sotto diversi aspetti.

In primo luogo, l’assoluta novità delle forme di manifestazione della malattia fa sì che manchino linee-guida e buone pratiche per la cura dei malati Covid-19: le conoscenze sono state implementate giorno per giorno, attraverso scambi di informazioni nella comunità scientifica a livello nazionale e internazionale, e la validazione delle soluzioni terapeutiche ha spesso fatto seguito a iniziative di applicazione del criterio ex adiuvantibus.

Vi è, poi, da considerare che i parametri della prudenza e della diligenza; la prevedibilità e prevenibilità dell’evento; l’esigibilità della condotta, quali la giurisprudenza li ha ricostruiti e praticati prima e dopo la legge n. 24/2017, si misurano in concreto con un modello di agente ben diverso da quello implicito nei ragionamenti in tema di responsabilità sanitaria del “camice bianco” che agisce in un definito ambito professionale.

Sotto questo profilo è sufficiente considerare che, nelle zone più colpite dall’epidemia, si è dovuto provvedere alla riconversione di interi reparti ospedalieri ordinari in “aree Covid” con decine di posti letto talvolta in poche ore, previ complessi calcoli delle risorse umane e strumentali disponibili (si pensi alla rimodulazione logistica delle aree di degenza, o al ricalcolo dei consumi di ossigeno, o alla distribuzione di personale specializzato), con modifiche radicali del rapporto di consulenza, delle funzioni di équipe, con approcci multidisciplinari del tutto inesplorati.

Alla sfida di una fase in rapida e costante evoluzione ha corrisposto una straordinaria capacità di adattamento e di risposta alle esigenze e alle criticità determinate dalla gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 da parte dell’organizzazione sanitaria e della scienza medica dell’emergenza.

È ora il diritto dell’emergenza sanitaria, e in particolare l’ambito penalistico, a trovarsi di fronte alla necessità di una rivisitazione delle specificità del rapporto tra metodi scientifici e valutazione giuridica delle azioni di risposta all’emergenza sanitaria[69].

 

4.2. Risorse limitate e criteri scientifici di scelta delle priorità 

Nella condizione di epidemia il verificarsi di eventi avversi può dipendere non solo o non tanto dall’imperizia nel singolo atto medico o infermieristico, quanto dal ritardo nel compimento dell’atto per scarsità di risorse disponibili rispetto alla richiesta complessiva di cura.

È questo, nei fatti, il tema di maggior rilevanza del contesto epidemico.

Le questioni che, in sede di valutazione della rilevanza penale, vanno affrontate in questo quadro sono, in sintesi:

- l’applicazione di criteri scientifici di scelta delle priorità in un contesto definito, caratterizzato da risorse limitate;

- la predisposizione della risposta all’emergenza;

- la revisione continua delle condizioni di partenza e la discussione dell’evento avverso come strumenti di riduzione dell’imprevedibilità e imprevenibilità.

Mai come nella condizione che stiamo attraversando è da tenere in dovuta considerazione l’insegnamento della Corte di cassazione, secondo cui «tanto maggiore dovrà essere la propensione a considerare lieve l’addebito nei confronti del professionista che, pur essendosi uniformato ad una accreditata direttiva, non sia stato in grado di produrre un trattamento adeguato» quanto più difficili siano state la situazione ambientale, le eventuali ragioni di urgenza, la difficoltà di cogliere e legare le informazioni cliniche, il grado di atipicità o novità della situazione, l’approccio a una vicenda «problematica, oscura, equivoca o segnata dall’impellenza»[70].

E le situazioni ambientali, nonché difficili, si sono rivelate estreme.

In un contesto definito caratterizzato da risorse limitate, la medicina – in particolare le specialità di medicina delle catastrofi e di medicina dell’emergenza – ha elaborato criteri scientifici di scelta delle priorità assistenziali.

Il metodo scientifico di individuazione delle priorità assistenziali, denominato, in diverse situazioni cliniche, “triage”, è basato sulla valutazione delle condizioni del paziente e applicato sia nell’emergenza sanitaria territoriale, sia nei dipartimenti ospedalieri di emergenza urgenza per l’attività tradizionalmente definita di pronto soccorso, sia nelle situazioni di grande emergenza (eventi maggiori, catastrofi): «in tali contesti si potrà verificare un insieme di fatti di lesione o messa in pericolo di beni primari (vita, integrità fisica) multipli, simultanei, ovvero occorsi in tempo circoscritto, che, a causa delle modalità di tempo e di luogo in cui si verificano, renderanno le risorse sanitarie disponibili per farvi fronte insufficienti a fornire una risposta completa e contestuale»[71].

Il triage comporta dunque un intervento selettivo, previa valutazione dell’insieme dei pazienti secondo metodiche scientificamente note e convalidate; e costituisce una modalità dell’azione terapeutica complessiva e uno strumento finalizzato all’azione terapeutica individuale: è questa contestualizzazione dell’intervento che ne muta il carattere e la valutazione giuridica.

Non si può cioè considerare isolatamente il mancato o ritardato intervento su un paziente, se non in relazione all’intervento effettuato su tutti i pazienti, che rappresenterà espressione di una condotta professionale connotata dalla migliore scienza ed esperienza, priva di profili di colpa addebitabili a uno o più operatori sanitari, laddove, conseguentemente, il singolo intervento, oltre che in maniera tecnicamente corretta in sé, sia stato effettuato correttamente dal punto di vista dell’applicazione delle metodiche scientifiche di triage e dal punto di vista delle cure progressivamente prestate ai singoli pazienti.

Nella situazione di emergenza l’assunzione e lo sviluppo dell’obbligo giuridico di impedire eventi lesivi assume come punto critico l’intervento non immediato a fronte di potenzialità lesive.

Va dunque considerata la possibilità di rinvio necessitato dell’intervento sanitario, che impone una valutazione comparativa tra più esigenze di soccorso.

Anche in condizioni ordinarie, nella realtà attuale, le strutture ospedaliere sono sempre impegnate ad affrontare un elevato numero di casi, considerato il numero di cittadini che si rivolgono direttamente ad esse e che si aggiunge agli accessi derivanti dagli interventi del sistema territoriale di risposta all’emergenza sanitaria (“118” ora “NUE 112”).

Poiché le prestazioni richieste ed effettuate sono estremamente eterogenee e solo una parte dei pazienti necessita effettivamente di cure di significativa complessità, è necessario selezionare le necessità terapeutiche secondo un metodo che riproduce quello del triage extraospedaliero, ma che presenta caratteristiche proprie[72].

È dunque necessaria una valutazione giuridica di eventi avversi lesivi della vita o dell’integrità fisica delle persone soccorse, che integri puntualmente l’esame di modi e tempi della singola azione terapeutica “finale” con la definizione del contesto in cui si è reso necessario il triage a causa della molteplicità degli eventi e con la predisposizione delle risorse e dell’organizzazione necessarie a far fronte a quegli eventi.

È una valutazione che, al fine di individuare una eventuale responsabilità non per generica – e penalmente irrilevante – “cattiva condotta” ma per colpa, richiede di risalire lungo la “catena dei soccorsi” e, ancora oltre, ai presupposti gestionali, rendendo particolarmente sensibile e complessa la ricostruzione delle serie causali, della prevedibilità e prevenibilità degli eventi, dell’esigibilità delle condotte da parte di ciascun soggetto collocato lungo quella catena.

Gli elementi che qualificano l’attuale emergenza epidemiologica rispetto ai criteri di selezione delle priorità si sono in parte rivelati e si riveleranno progressivamente.

Il presupposto del triage è, come si è visto, un’insufficienza di risorse che viene assunta come transitoria e superabile, in cui il saldo tra risorse di cura progressivamente impegnate e successivamente disponibili (perché sopravvenute o disimpegnate) tende al positivo.

Un’insufficienza, dunque, tendenzialmente sincronica e non diacronica; laddove dovesse prevalere la tendenziale diacronicità, le tecniche di selezione delle priorità dovrebbero diversamente affrontare la questione della rivalutazione dei pazienti.

L’applicazione di tali metodiche – e la sua valutazione a fini giuridici – necessita della definizione di un contesto spaziale e temporale: l’ordine di priorità nelle cure si può determinare nell’ambito dell’emergenza territoriale oppure del pronto soccorso di un ospedale gravato in tempi ristretti da un rilevante numero di accessi, oppure sulla scena di un incidente ferroviario o nei pressi di un edificio crollato.

Un’emergenza da epidemia o da patologie diffuse connotata da un certo grado di permanenza nel tempo tende, tuttavia, ad allargare il contesto, ragion per cui la valutazione delle priorità dovrà tenere conto di una scala più ampia; e lo stesso criterio di valutazione non potrà più essere diretto esclusivamente sul singolo soggetto, ma sarà rivolto anche alla salvaguardia della collettività.

Si può assumere come esempio la meritoria opera svolta dalla «Centrale Remota Operazioni Soccorso Sanitario» (CROSS) del Dipartimento della protezione civile nel costante reperimento di risorse per il trasferimento di pazienti Covid-19 in più Regioni: laddove nella direttiva 24 giugno 2016, pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 194 del 20 agosto 2016, che regola l’attività di questa struttura di protezione civile citata, si faceva riferimento a eventi emergenziali tradizionali, necessitanti di un sistema di coordinamento dei soccorsi sanitari «almeno nelle prime 72 ore».

Queste specificità vanno coordinate con il quadro penalistico sopra sinteticamente descritto anche in relazione alle scelte normative compiute dapprima con dl 13 settembre 2012, n. 158 (l. 8 novembre 2012, n. 189) e in seguito con la l. 8 marzo 2017, n. 24, che ha introdotto nel codice penale, nell’articolo 590-sexies, i parametri di valutazione della condotta del sanitario costituiti dalle linee-guida e dalle buone pratiche clinico-assistenziali. Parametri che, in quanto attinenti al profilo tecnico-scientifico dell’attività sanitaria, regolano, ai sensi dell’art. 590-sexies, la sola colpa per imperizia.

Si è già sopra richiamato il significato del riferimento normativo a linee-guida e a buone pratiche clinico-assistenziali.

Una delle novità che caratterizzano la risposta all’emergenza epidemiologica da Covid-19 è, come pure si è visto, l’uso, per conseguire l’obiettivo di massimo possibile di cura di pazienti, dei criteri scientifici specifici della medicina di emergenza e delle catastrofi, e in particolare le metodologie di triage: che, sinora, non risultano “codificate” come linee-guida ai sensi dell’articolo 5 della legge n. 24/2017.

Esse si rinvengono, invece, in due tipi di fonti: da un lato un’elaborazione di molti decenni della comunità scientifica, che ha prodotto un sapere tecnico del tutto consolidato; dall’altro, la traduzione in atti giuridici di natura diversa, dalla normazione secondaria a provvedimenti amministrativi che hanno regolato nel corso del tempo l’attività sanitaria in emergenza.

Entrambe queste tipologie di fonte sono per loro natura soggette a un forte dinamismo, determinato, anche in tempi ordinari, dalla parallela crescita delle conoscenze gestionali sulle cure e delle esigenze organizzative di una realtà complessa quale è il sistema di risposta all’emergenza sanitaria.

L’emergenza epidemiologica in corso rende questo processo accelerato e non suscettibile di codificazione ai sensi dell’art. 5 l. n. 24/2017: tanto più laddove si consideri che scoperte e innovazioni si sono collocate al confine tra scelta scientifica delle migliori cure e scelte politiche in materia sanitaria.

Ma se si passa dalla ricerca di criteri di responsabilità alla definizione di confini di responsabilità, essi si possono rinvenire nell’applicazione corretta da parte dei sanitari impegnati nella risposta all’emergenza di linee-guida non codificate, ma che rappresentano la cristallizzazione di conoscenze scientifiche, di buone pratiche assistenziali declinate nello specifico delle conoscenze scientifiche sulla gestione dell’emergenza; del rispetto di norme organizzative a loro volta fondate su principi scientifici, che, quandanche non abbiano veste di “leggi” o “regolamenti”, si qualificheranno come “ordini o discipline”.

Nel contempo si richiede, proprio per il dinamismo delle conoscenze nella condizione di epidemia, la discussione e la revisione continua delle condizioni di partenza che hanno portato a eventi lesivi come strumenti di riduzione dell’imprevedibilità e imprevenibilità di successivi eventi avversi.

La risposta all’emergenza con l’applicazione di criteri scientifici di priorità negli interventi assume rilievo ai fini di considerare adeguata la condotta dei singoli sanitari intervenuti, ma rimangono fuori da quest’ambito di valutazione, rispetto a ciascuno di essi, la corretta pratica sanitaria nelle condizioni date, da valutare secondo i criteri ordinari; e rispetto ai titolari di poteri decisionali nella sanità, la corretta predisposizione della risposta all’emergenza.

È evidente che i criteri giuridici di valutazione dovranno essere organizzati intorno ai principi in materia di addebito sotto il profilo soggettivo e causale e alle norme che regolano la materia, considerando un triplice livello:

- la predisposizione di piani per affrontare le epidemie;

- la predisposizione della risposta territoriale all’emergenza[73];

- la predisposizione di piani per il massiccio afflusso di pazienti in ciascun presidio ospedaliero.

I criteri di valutazione del singolo evento avverso, poste le premesse qui sinteticamente esaminate, potranno dunque essere applicati senza deviazioni “emergenziali”, e senza necessità di invocare – come in contesti anche non strettamente tecnici è stato fatto – esimenti quali lo stato di necessità (art. 54 cp) o l’adempimento del dovere (art. 51 cp): poiché non si deve pensare di essere in presenza di condotte costituenti reato da scriminare – in forza di una “tolleranza giustificata dell’illecito” –, bensì di un’attività socialmente indispensabile – e tale rivelatasi più che mai con l’opera di medici e infermieri – governata da regole cautelari per le singole condotte di cui verificare la conformità a quelle regole, nella loro concreta declinazione in condizione di epidemia.

 

5. Un diritto penale della condizione di epidemia?

Alla fase più acuta dell’emergenza, pure contrassegnata da interventi giuridici di rilievo, deve fare seguito un momento di riflessione sul portato della crisi e della condizione di epidemia.

In questa sede, nell’ambito di un contributo che ha inteso tracciare delle linee generali su alcune questioni di diritto penale nella condizione di epidemia, ci si può chiedere se sia venuto formandosi un “diritto penale della condizione di epidemia”.

In questo senso, ai campi dell’apparato sanzionatorio a tutela delle misure di contenimento, dei nuovi problemi ricostruttivi del reato di epidemia, dei criteri di accertamento delle responsabilità penali sanitarie si potrebbero aggiungere gli effetti processuali penali di provvedimenti andati a incidere su diversi istituti (sospensione dei termini di custodia, dei termini di prescrizione[74], dei termini per proporre querela; problemi delle attività processuali da remoto[75]); i temi di diritto penitenziario evidenziatisi nella fase del contenimento; e ancora, nel campo del diritto penale sostanziale, senza interventi normativi diretti di tipo sanzionatorio ma in un ambito di riflessi dell’emergenza epidemiologica, gli interventi in settori sensibili al tema del diritto penale dell’economia e al diritto penale ambientale della crisi[76].

L’intervento, sinora non di rilievo, della giurisprudenza, consentirà di riempire di contenuti queste voci, sin qui solo enunciate.

Si rendono tuttavia necessarie riflessioni immediate sul potenziale impatto giudiziario successivo alle fasi dell’emergenza; già vi sono segnali di derive panpenalistiche e attese messianiche delle vittime o dichiaratesi tali.

I riferimenti al contesto normativo e giurisprudenziale vanno considerati con attenzione per determinare i confini di responsabilità degli attori dell’emergenza epidemiologica, secondo i percorsi valutativi di cui si è dato schematico conto.

In particolare, nel momento di massimo impegno collettivo, ma anche successivamente ad esso, è ragionevole prevenire i paralizzanti – e storicamente noti – timori prodotti nell’attività sanitaria da una “società contenziosa”, scarsamente educata all’uso delle risorse collettive, che ancor più le compromette a scapito dei bisognosi gravando sulle strutture sanitarie con miti di sanabilità assoluta e di giustiziabilità assoluta del mancato risultato atteso.

Rispetto a questo potenziale serio problema vale l’applicazione dei principi: come abbiamo visto, l’applicazione di quelli elaborati dalla giurisprudenza di legittimità può essere necessaria e sufficiente a un giudizio di non colpevolezza, ma è la previsione dell’esito finale del processo e non la compliance verso le possibili persone offese a dover guidare le scelte nel corso del procedimento penale sin dalla fase delle indagini; un’introduzione di conoscenze scientifiche nel procedimento penale che valorizzi sin dalla fase d’indagine – anche in ossequio alla l. n. 24/2017 – l’opera di consulenti specialisti in emergenza sanitaria, virologia, epidemiologia, in funzione della diversa caratura delle notizie di reato; il rifiuto di commistioni mediatiche nelle indagini, nella consapevolezza che ogni singola parola pronunciata da un pubblico ministero verrà forzata entro schemi pregiudiziali e pregiudizievoli ben più delle parole contenute nei provvedimenti giudiziari; una visione di diritto penale minimo “pratico” che orienti alla rigorosa applicazione dell’articolo 125 disp. att. cpp anche in vista della rapida risoluzione dei procedimenti.

È razionalmente possibile contrastare l’irrazionale “apertura della forbice” tra azione eroica e condotta illecita; con un salto pericoloso ma possibile, che si annida nella nostra “società contenziosa”, tra l’esaltazione da sagra del “tutti eroi” e l’esaltazione da tricoteuses del “tutti omicidi seriali”.

Evitando la devoluzione a invocati “scudi giudiziari”[77] della risposta alle esigenze degli operatori della sanità, da affidare invece a un razionale dialogo tra scienza e diritto e, soprattutto, per l’immediato futuro, a una lungimirante organizzazione, pianificazione di mezzi e destinazione di risorse.

 

* Il presente contributo è stato ultimato e trasmesso per la successiva pubblicazione in data 26 giugno 2020.

1. A. Natale, Il decreto legge n. 19 del 2020: le previsioni sanzionatorie, in questa Rivista online, 28 marzo 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/il-decreto-legge-n-19-del-2020-le-previsioni-sanzionatorie_28-03-2020.php.

2. Precisazione opportuna, considerato che, diversamente, non avrebbe potuto operare la previsione dell’art. 2, comma 2, cp (sulla portata retroattiva dei fenomeni di abolitio criminis), considerato che il precedente apparato sanzionatorio trovava base legale in leggi temporanee ed eccezionali alle quali, come noto, non si applica quanto dispone l’art. 2, comma 2, cp (in forza di quanto previsto dall’art. 2, comma 5, cp).

3. Tra le altre: Corte costituzionale, sentenze nn. 196/2010, 104/2014, 276/2016, 223/2018.

4. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 223/2018, evidenzia che «il generale maggior favore di un apparato sanzionatorio di natura formalmente amministrativa rispetto all’apparato sanzionatorio previsto per i reati non può essere dato per pacifico in ogni singolo caso (…)» Infatti – aggiunge la Consulta – «la presunzione di maggior favore del trattamento sanzionatorio amministrativo rispetto al previgente trattamento sanzionatorio penale deve intendersi, oggi, come meramente relativa, dovendosi sempre lasciare spazio alla possibilità di dimostrare, caso per caso, che il nuovo trattamento risulti in concreto più gravoso». Sembra essere coerente con le indicazioni della giurisprudenza costituzionale che l’art. 4, comma 8, dl n. 19/2020 preveda che le disposizioni che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applichino «anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ma in tali casi le sanzioni amministrative sono applicate nella misura minima ridotta alla metà». Il che introduce un meccanismo di favor rei – la sanzione amministrativa minima è di 400 euro; la metà (200 euro di sanzione pecuniaria) è inferiore alla pena pecuniaria massima prevista dall’art. 650 cp.

5. La quarantena obbligatoria si distingue dall’ulteriore misura di contenimento, denominata quarantena precauzionale, che può essere disposta dall’autorità sanitaria nei confronti dei «soggetti che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva o che ((entrano nel territorio nazionale)) da aree ((...)) ubicate al di fuori del territorio italiano» (così l’art. 1, comma 2, lett. d, dl n. 19/2020, nella versione risultante all’esito della conversione; vds. anche l’art. 1, comma 7, dl n. 33/2020). La violazione della quarantena precauzionale comporta l’applicazione delle sanzioni amministrative previste dall’art. 4, comma 1, dl n. 19/2020 e dall’art. 2, comma 1, dl n. 33/2020.

6. Per ulteriori riferimenti costituzionali si rinvia a G. Battarino, Decreto-legge Covid-19, sistemi di risposta all’emergenza, equilibrio costituzionale, in questa Rivista online, 1° marzo 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/decreto-legge-covid-19-sistemi-di-risposta-all-emergenza-equilibrio-costituzionale_01-03-2020.php: 
«Il confronto, a un livello superiore, può porsi tra articolo 2 e articolo 3, secondo comma, della Costituzione.
Il decreto-legge n. 6/2020 e i più motivati e fondati provvedimenti di risposta all’emergenza epidemiologica recente sono ispirati a esigenze di eguaglianza sostanziale: l’epidemia, secondo le progressive recenti acquisizioni di conoscenze scientifiche sul Covid-19, è paritaria nella sua diffusione ma selettiva negli effetti, poiché colpisce in forma più grave i soggetti più fragili: anziani, immunodepressi, portatori di patologie croniche o comorbilità.
Dunque la prevenzione della diffusione dell’epidemia è misura di riequilibrio di condizioni diseguali di partenza.
Inoltre, la mancata riduzione del potenziale numero di malati produrrebbe, in prospettiva e in maniera crescente, un sovraccarico del servizio sanitario pubblico, compromettendone la funzione di risposta universale finalizzata a fornire eguali opportunità di cura a tutti i cittadini, in particolare a coloro che per condizioni socioeconomiche deteriori di partenza senza il servizio pubblico non potrebbero accedere a cure di adeguato livello.
Difendere preventivamente la funzionalità del servizio sanitario pubblico corrisponde a esigenze di eguaglianza sostanziale» (par. 3.3.).

7. Per tali rilievi critici, vds. G.L. Gatta, Un rinnovato assetto del diritto dell’emergenza Covid-19, più aderente ai principi costituzionali, e un nuovo approccio al problema sanzionatorio: luci ed ombre nel d.l. 25 marzo 2020, n. 19, in Sistema penale, 26 marzo 2020 (par. 3.7.), www.sistemapenale.it/it/articolo/decreto-legge-19-del-2020-covid-19-coronavirus-sanzioni-illecito-amministrativo-reato-inosservanza-misure; vds. anche Id., I diritti fondamentali alla prova del coronavirus. Perché è necessaria una legge sulla quarantena, ivi, 2 aprile 2020, www.sistemapenale.it/it/articolo/diritti-fondamentali-coronavirus-necessaria-una-legge-sulla-quarantena-gian-luigi-gatta e A. Natale, Il decreto legge n. 19 del 2020: le previsioni sanzionatorie, in questa Rivista online, 28 marzo 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/il-decreto-legge-n-19-del-2020-le-previsioni-sanzionatorie_28-03-2020.php.

8. M. Luciani, Il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, in Rivista AIC, n. 2/2020, pp. 126-127, www.rivistaaic.it/images/rivista/pdf/2_2020_Luciani.pdf, aderendo alla proposta ricostruttiva di M. Bignami.

9. M. Bignami, Chiacchiericcio sulle libertà costituzionali al tempo del coronavirus, in questa Rivista online, 7 aprile 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/chiacchiericcio-sulle-liberta-costituzionali-al-tempo-del-coronavirus_07-04-2020.php; i passi citati sono – rispettivamente – al par. 5 e al par. 3. Aderisce all’impostazione proposta da Bignami e Luciani anche S.G. Guizzi, Stato costituzionale di diritto ed emergenza Covid-19: note minime, in Il diritto vivente, numero monografico, giugno 2020, pp. 34-36, www.magistraturaindipendente.it/attache/25/file/Il_diritto_vivente_n._speciale_COVID-19_DEF_%281%29.pdf.

10. G. Zagrebelsky, Manuale di diritto costituzionale. Il sistema delle fonti del diritto (vol. I), Utet, Torino, 1990 (1988), pp. 182 ss.

11. Ivi, p. 183. Echi di tale sistemazione teorica si rinvengono anche nella giurisprudenza costituzionale; cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 367 del 2010, annotata da V. Petri, L’Efficacia degli emendamenti modificativi del decreto-legge e la certezza del diritto. A margine della sentenza 367 del 2010, in Forum Quad. cost., 2011, www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/giurisprudenza/2010/0042_nota_367_2010_petri.pdf (ivi ulteriori riferimenti di dottrina).

12. Si vedano, in ordine cronologico di pubblicazione: G.L. Gatta, Un rinnovato assetto, op. cit.; A. Natale, Il decreto legge n. 19 del 2020, op. cit.; G.L. Gatta, I diritti fondamentali, op. cit.

13. L’art. 47-ter ordinamento penitenziario prevede che – a determinate condizioni – le sanzioni detentive irrogate all’esito del giudizio «possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza ovvero, nell’ipotesi di cui alla lettera a), in case famiglia protette».

14. Art. 284 cpp: «Con il provvedimento che dispone gli arresti domiciliari, il giudice prescrive all’imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza ovvero, ove istituita, da una casa famiglia protetta».

15. Art. 53 d.lgs n. 274/2000: «La pena della permanenza domiciliare comporta l’obbligo di rimanere presso la propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo di cura, assistenza o accoglienza nei giorni di sabato e domenica (…)».

16. M. Bignami, Chiacchiericcio, op. cit.; M. Luciani, Il sistema delle fonti, op. cit. (ibid.); S.G. Guizzi, Stato costituzionale di diritto, op. cit. (ibid.).

17. «Delle due, infatti, l’una. Se si ritiene che la libertà personale sia in giuoco (solo) quando si è di fronte a provvedimenti che implichino un apprezzamento moralmente negativo del soggetto attinto, un simile stigma non si rinviene nell’imposizione della quarantena. Se, invece, si ritiene che l’essenza della libertà personale stia nella sottrazione alla coazione fisica, sicché incidono nell’art. 13 Cost. solo i trattamenti sanitari che la prevedono, la mancanza della coazione fisica a sostegno delle misure impositive della quarantena esclude l’applicabilità delle norme sulla libertà personale» (M. Luciani, Il sistema delle fonti, op. cit., ibid.).

18. Tra i molti riferimenti, si rimanda alle decisioni in cui emerge – più o meno esplicitamente – l’argomento della degradazione giuridica per ricondurre una certa misura alle garanzie dettate dall’art. 13 Cost.: l’ammonizione prevista dal Tulps (Corte cost., n. 11/1956); i rilievi segnaletici che implichino ispezioni personali (Corte cost., n. 30/1962); il trattenimento finalizzato all’espulsione e l’accompagnamento coattivo alla frontiera (Corte cost., nn. 105/2001 e 222/2004); i prelievi di sangue a scopo probatorio durante le indagini penali (Corte cost., n. 238/1996); l’obbligo di comparire presso l’ufficio o il comando di polizia territorialmente competente, in orario compreso nel periodo di tempo in cui si svolgono le competizioni sportive per le persone soggette a Daspo (Corte cost., sentenze nn. 143 e 193/1996; n. 144/1997); le misure di sicurezza personali (con riferimento a una misura di sicurezza non detentiva, l’espulsione dello straniero dallo Stato a pena espiata, Corte cost., n. 58/1995). Anche le misure di prevenzione personale sono state ricondotte alle garanzie dettate dall’art. 13 Cost.: Corte cost., n. 419/1994, nel vagliare la legittimità costituzionale della misura di prevenzione denominata “soggiorno cautelare” introdotta dall’art. 25-quater del dl 8 giugno 1992, n. 306, ha rilevato che «l’istituto [del cd. soggiorno cautelare], così com’è concretamente disciplinato, integra senza dubbio (…) una restrizione della libertà personale e non una mera limitazione della libertà di circolazione e soggiorno, e cade, quindi, sotto il disposto dell’art. 13 della Costituzione».

19. Nell’esaminare la legittimità costituzionale dell’ammonizione originariamente prevista dagli artt. 164 e 176 Tulps: Corte costituzionale, sentenza n. 11 del 1956.

20. In tal senso, M. Bignami, Chiacchiericcio, op. cit.

21. Il caso esaminato dalla Corte Edu (seconda sezione, sentenza del 25 gennaio 2005, Enhorn c. Svezia, ric. n. 56529/00) era quello di un cittadino svedese affetto da HIV; in base alla legislazione svedese, il medico gli aveva imposto di seguire alcune prescrizioni e – tra esse – di assoggettarsi a periodici controlli ospedalieri; non avendo ottemperato a tutte le prescrizioni, il medico competente aveva chiesto e ottenuto che il Tribunale amministrativo disponesse la misura dell’isolamento sanitario (per tre mesi, poi prorogato). La Corte riconduce al concetto di «privazione della libertà» sia la decisione di porre in isolamento il cittadino che la sua coattiva esecuzione (§ 33, versione in lingua inglese: «It was common ground between the parties that the compulsory isolation orders and the applicant’s involuntary placement in the hospital amounted to a “deprivation of liberty” within the meaning of Article 5 § 1 of the Convention. The Court reaches the same conclusion»; ibid., versione in lingua francese: «Les parties s’accordent pour dire que les décisions de placer le requérant en isolement et l’hospitalisation forcée de l’intéressé s’analysent en une “privation de liberté” au sens de l’article 5 § 1 de la Convention. La Cour aboutit au même constat»; si noti la congiunzione e l’uso del verbo al plurale).

22. Cfr. Conseil constitutionnel, decisione n. 2020-800 DC, 11 maggio 2020, sulla legge di proroga e di modifica dello stato di urgenza sanitaria. Per una sintesi in italiano, vds. www.cortecostituzionale.it/documenti/segnalazioni_corrente/Segnalazioni_1589293775688.pdf; per il testo originale, vds. www.conseil-constitutionnel.fr/sites/default/files/as/root/bank_mm/decisions/2020800dc/2020800dc.pdf.

23. Per un inquadramento dottrinale (e per ulteriori riferimenti bibliografici), cfr. S. Ardizzone, Epidemia, in Digesto delle discipline penalistiche, Utet, Torino, 1990, p. 251; C. Erra, Epidemia (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XV, Giuffrè, Milano, 1966, pp. 46 ss.; G. Fiandaca e E. Musco, Diritto penale – Parte speciale, vol. I, Zanichelli, Bologna, 1988, p. 391; S. Brucellaria, Art. 438 c.p. e Art. 452 c.p., in E. Dolcini e G.L. Gatta (a cura di), Codice penale commentato, tomo II, Ipsoa (Wolters Kluwer), Milano, 2015; con riferimento all’attuale situazione epidemica, per articolate riflessioni sulla fattispecie di epidemia, cfr. L. Agostini, Pandemia e “penademia”: sull’applicabilità della fattispecie di epidemia colposa alla diffusione del Covid-19 da parte degli infetti, in Sistema penale, n. 4/2020, pp. 229 ss., https://sistemapenale.it/pdf_contenuti/1588192004_agostini-2020a-covid19-epidemia-colposa-soggetti-infetti-452.pdf.

24. E. Battaglini e B. Bruno, Incolumità pubblica (delitti contro la), Novissimo Digesto Italiano, vol. VIII, Utet, Torino, 1962, p. 559.

25. Così – in un giudizio in cui l’imputato era accusato di epidemia dolosa per aver trasmesso il virus HIV ad alcune decine di donne a seguito di rapporti sessuali non protetti – sez. 1, 30 ottobre 2019, n. 48014, dep. 26 novembre 2019, P, Rv. 27779101 (con richiami anche a sez. unite civ., 11 gennaio 2008, n. 576, Rv. 600899-92), annotata da F. Lazzeri, Prova della causalità individuale e configurabilità del delitto di epidemia in un caso di contagi plurimi da HIV tramite rapporti sessuali non protetti, in Sistema penale, 19 dicembre 2019, https://sistemapenale.it/it/scheda/prova-causalita-individuale-e-configurabilita-epidemia-cassazione-contagi-plurimi-hiv.

26. Per il delitto di epidemia, si è a lungo discusso in dottrina se si tratti di reato di danno, ovvero di reato di pericolo (e, in questo caso, se si tratti di reato di pericolo concreto o astratto). Pare preferibile ritenere che si tratti di un reato che si caratterizza per una componente di danno (la trasmissione del germe patogeno, che provoca nell’organismo “ospite” una alterazione anatomico-funzionale classificabile come malattia) e di una componente di pericolo (che deve essere necessariamente concreto, come logica vuole: se la nozione medico-legale di epidemia implica la spiccata diffusività del germe patogeno, è di tutta evidenza che quella spiccata diffusività dovrà essere oggetto di accertamento). Nel senso che il delitto in esame è caratterizzato sia da un evento di danno (rappresentato dalla manifestazione, in un certo numero di persone, di una malattia eziologicamente collegabile a germi patogeni) che da un evento di pericolo (rappresentato dalla possibilità di ulteriore propagazione della malattia, anche senza intervento dell’autore della originaria diffusione), vds. S. Corbetta, I delitti contro l’incolumità pubblica, tomo II, in M. Marinucci e E. Dolcini (a cura di), Trattato di diritto penale, Cedam, Padova, 2014, pp. 13 ss.: «Il delitto di cui all’art. 438 non può infatti essere integrato dal cagionare un’epidemia di una malattia non infettiva, ossia di una malattia che non è provocata dalla “diffusione di germi patogeni”; in tal caso, troveranno applicazione le norme che tutelano la vita e l’incolumità individuale. La mancata applicazione del titolo che incrimina l’epidemia è evidente: nel caso di malattie non infettive è assente, per definizione, il pericolo di contagio, che invece è la nota caratterizzante dell’epidemia “mediante diffusione di germi patogeni”. La tesi che svaluta il requisito dell’ulteriore diffusività della malattia, ritenendo integrata l’epidemia dall’avvenuta diffusione del morbo in un’ampia cerchia di persone, cancella la differenza tra il piano dell’incolumità individuale e quello dell’incolumità pubblica».

27. Tanto da rendere – nel caso concreto – non necessario ricorrere ai criteri indicati da L. Agostini, Pandemia e “penademia”, op. cit., p. 236, secondo il quale per “identificare” l’evento epidemico potrebbe rivelarsi utile valorizzare gli «atti formali adottati dalle competenti Autorità sanitarie, che conclamino l’esistenza di un’epidemia nel proprio ambito di competenza, che coinciderebbe con il medesimo contesto spaziale e traccerebbe altresì un limite temporale, poiché da quel momento in poi eventuali aumenti nel numero dei contagi rileverebbero soltanto come aggravamenti dell’evento dannoso e come conferme della sua intrinseca diffusibilità».

28. In giurisprudenza si è ritenuto che: «in tema di delitto di epidemia colposa, non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione in quanto l’art. 438 cod. pen., con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell’art. 40, comma secondo, cod. pen., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera» (sez. 4, 12 dicembre 2017, n. 9133, dep. 28 febbraio 2018, Giacomelli, Rv. 27226101, annotata da S. Felicioni, Un’interessante pronuncia della Cassazione su epidemia, avvelenamento e adulterazione di acque destinate all’alimentazione, in Dir. pen. cont., n. 6/2018, pp. 292 ss., https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6113-un-interessante-pronuncia-della-cassazione-su-epidemia-avvelenamento-e-adulterazione-di-acque-desti).

29. Cfr. S. Corbetta, I delitti contro l’incolumità pubblica, op. cit., p. 16. Si obietta a tale ricostruzione che, in tal modo, si finirebbe con lo svalutare la capacità selettiva della fattispecie, nella parte in cui si pretende che l’epidemia sia cagionata mediante la diffusione di germi patogeni; la replica a tale obiezione evidenzia che è ipotizzabile la possibilità che l’epidemia sia cagionata «con modalità diverse da quella espressamente considerata, come, ad esempio, la diffusione di sostanze tossiche o radioattive; in tal caso, saranno ovviamente applicabili altri titoli di reato (strage, omicidio – tentato o consumato – lesioni personali – tentate o consumate – ecc.)» (in tal senso, S. Corbetta, op. ult. cit., p. 67). Giungono invece ad attribuire rilievo penale anche a condotte non immediatamente riconducibili al tipo legale per il tramite del dettato dell’art. 113 cp E. Dolcini - M. Marinucci – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale, Giuffrè, Milano, 2018.

30. Sul concorso di cause, vds. (anche per ulteriori riferimenti) C. Brusco, Il rapporto di causalità, prassi e orientamenti, Giuffrè, Milano, 2012, pp. 72 ss.; con specifico riferimento al caso Covid-19 e al rilievo di un concorso di contributi causali nel cagionare l’epidemia anche in termini di aggravamento di quella già in essere ex art. 41, comma 1, cp, vds. L. Agostini, Pandemia e “penademia”, op. cit., p. 237.

31. S. Corbetta, I delitti contro l’incolumità pubblica, op. cit., p. 73.

32. Ivi, p. 79.

33. Per tutte, sez. unite, 24 aprile 2014, n. 38343, dep. 18 settembre 2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 26110301; con il noto precedente di sez. unite, 10 luglio 2002, n. 30328, dep. 11 settembre 2002, Franzese, Rv. 22213801.

34. L. Masera, Evidenza epidemiologica di un aumento di mortalità e responsabilità penale, in Dir. pen. cont., nn. 3-4/2014, pp. 343 ss.; Id., Dal caso eternit al caso ILVA: nuovi scenari in ordine al ruolo dell’evidenza epidemiologica nel diritto penale, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 2/2014, pp. 139 ss., e Id., Accertamento alternativo ed evidenza epidemiologica nel diritto penale, Giuffrè, Milano, 2007.

35. Per l’esplicitazione di alcuni di questi timori, vds. O. Di Giovine, Coronavirus, diritto penale e responsabilità datoriali, in Sistema penale, 22 giugno 2020, https://sistemapenale.it/it/opinioni/di-giovine-coronavirus-diritto-penale-responsabilita-datore-di-lavoro.

36. Sul tema (e per ulteriori approfondimenti), vds. C. Brusco, La colpa penale e civile. La colpa medica dopo la l. 8 marzo 2017, n. 24 (legge Gelli - Bianco), Giuffrè, Milano, 2017, pp. 38 ss.

37. È la tecnicità comunque della risposta all’emergenza epidemiologica Covid-19 a farci dissentire, pertanto, dall’autorevole posizione di F. Palazzo, Pandemia e responsabilità colposa, in Sistema penale, 26 aprile 2020, https://sistemapenale.it/it/opinioni/pandemia-e-responsabilita-colposa-prof-palazzo, secondo cui «nella situazione in cui siamo, di fronte ad un male tanto umanamente devastante nei suoi effetti quanto scientificamente oscuro nelle sue cause e nelle sue caratteristiche biologiche, ci troviamo ovviamente nel regno della colpa “generica”, cioè della sostanziale assenza di regole cautelari predeterminate, collaudate e in qualche modo consolidate».

38. Sul tema (e per ulteriori approfondimenti), vds. C. Brusco, La colpa penale e civile, op. cit., pp. 140 ss.

39. D. Castronuovo, La colpa penale, Giuffrè, Milano, 2009, p. 179; Carlo Piergallini, Colpa (dir. pen.), in Enc. dir., Annali, vol. X, Giuffrè, Milano, 2017, pp. 236 ss.

40. F. Palazzo, Pandemia e responsabilità colposa, op. cit.

41. Come descritte nei capitoli XXXI e XXXII dei Promessi Sposi.

42. Tale clausola di riserva ovviamente non rileva per i reati previsti dall’art. 650 cp e dall’art. 260 rd n. 1265/1934 (la cui applicazione è esplicitamente esclusa dall’art. 4, comma 8, dl n. 19/2020).

43. Sez. 1, 30 ottobre 2019, n. 48014, dep. 26 novembre 2019, P, Rv. 27779101, considerato in diritto n. 6.

44. Cfr. V. Valentini, Profili penali della veicolazione virale: una prima mappatura, in Archivio penale, n. 1/2020, p. 3, http://archiviopenale.it/File/DownloadArticolo?codice=c00ba6ee-c96d-499b-9dd1-551cd3d0785f&idarticolo=22834.
Una sintesi dei principali articoli di letteratura scientifica internazionale in materia (all’aprile 2020) si rinviene in: www.ars.toscana.it/2-articoli/4291-coronavirus-trasmissione-diffusione-permanenza-superfici-goccioline-aerosol-sospensione-aria.html.

45. Cfr. L. Agostini, Pandemia e “penademia”, op. cit., p. 246, secondo il quale «si potrebbe attingere ai dati registrati da applicazioni mobili installate sugli smartphone dei soggetti sottoposti a quarantena, incrociati con quelli di Gps, carte di credito, telecamere di videosorveglianza e social media (ad esempio le fotografie pubblicate e ritraenti luoghi o persone), per ricostruire gli spostamenti (anche grazie alle celle telefoniche agganciate) e i contatti di un infetto e, di lì, la catena dei contagi che avesse innescato, secondo il punto di vista retrospettivo connaturato all’accertamento eziologico».

46. Sul tema, R. Riverso, Vero e falso sulla responsabilità datoriale da Covid-19. Aspetti civili, penali e previdenziali, in questa Rivista online, 19 maggio 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/vero-e-falso-sulla-responsabilita-datoriale-da-covid-19-aspetti-civili-penali-e-previdenziali_19-05-2020.php.

47. Più diffusamente, vds. S. Dovere, La sicurezza dei lavoratori in vista della fase 2 dell’emergenza da Covid-19, in Giustizia insieme, 4 maggio 2020, www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1062-la-sicurezza-dei-lavoratori-in-vista-della-fase-2-dell-emergenza-da-covid-19.

48. Ivi, in particolare par. 3.

49. Sul valore dei protocolli e delle linee-guida come regole cautelari, vds. in generale C. Brusco, La colpa penale e civile, op. cit., pp. 157 ss.

50. Per tutte, cfr. sez. unite, 24 aprile 2014, n. 38343, dep. 18 settembre 2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 26110901.

51. Nello stesso senso, vds. S. Dovere, Covid-19: sicurezza del lavoro e valutazione dei rischi, in Giustizia insieme, 22 aprile 2020, www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1016-covid-19-sicurezza-del-lavoro-e-valutazione-dei-rischi.

52. Nello stesso senso, ivi, par. 2.

53. Sul rilievo dell’art. 2087 cc nella valutazione del cd. rischio Covid-19, vds. R. Riverso, Vero e falso, op. cit.; S. Dovere, Covid-19, op. cit.; più in generale, in chiave critica rispetto a letture eccessivamente estensive del rilievo attribuito dalla giurisprudenza all’art. 2087 cc quale regola cautelare, vds. V. Torre, La valutazione del rischio e il ruolo delle fonti private, in D. Castronuovo - F. Curi - S. Tordini Cagli - V. Torre - V. Valentini, Diritto penale della sicurezza sul lavoro, Bononia University Press, Bologna, 2016, pp. 57 ss.

54. Per una prima lettura, vds. C. Cupelli, Obblighi datoriali di tutela contro il rischio di contagio da Covid-19: un reale ridimensionamento della colpa penale?, in Sistema penale, 15 giugno 2020, https://sistemapenale.it/it/opinioni/cupelli-obblighi-datore-di-lavoro-contagio-covid-19 e O. Di Giovine, Coronavirus, diritto penale e responsabilità datoriali, op. cit. (ivi).

55. C. Cupelli, op. ult. cit. e O. Di Giovine, op. ult. cit.

56. C. Cupelli, op. ult. cit., par. 4.2.

57. O. Di Giovine, Coronavirus, diritto penale e responsabilità datoriali, op. cit., par. 5.

58. Vds. supra, par. 3.1., con l’adesione alla tesi espressa da S. Corbetta, I delitti contro l’incolumità pubblica, op. cit., p. 16.

59. Sez. unite, 19 giugno 1996, n. 16, dep. 22 ottobre 1996, Di Francesco, Rv. 20562101; più di recente, sez. 4, 8 novembre 2013, n. 7597, dep. 18 febbraio 2014, Stuppia e altri, Rv. 25912401.

60. Sez. 4, 19 luglio 2019, n. 44142, dep. 30 ottobre 2019, De Remigis, Rv. 27769101; si tratta di giurisprudenza consolidata.

61. È stato previso l’isolamento dei contagiati? Se non è stato previsto, perché ciò non è avvenuto? Perché era impossibile? Per carenza di spazi? Sono stati accettati pazienti contagiati dall’esterno? Perché lo si è accettato? Ci si poteva/doveva rifiutare? Era possibile o meno assicurare l’isolamento dei nuovi ingressi? Sono stati forniti al personale sanitario DPI? Se non sono stati forniti i DPI, perché ciò è avvenuto? Per non impressionare l’utenza? O perché non erano disponibili DPI? E se non erano disponibili DPI era possibile procurarseli? Cosa è stato fatto per procurarseli? C’erano le risorse? Le richieste sono state tempestive?

62. S. Corbetta, I delitti contro l’incolumità pubblica, op. cit., pp. 18 ss.

63. Ivi, pp. 28-29.

64. F. Palazzo, Pandemia e responsabilità colposa, op. cit.

65. Così D. Pulitanò, Lezioni dell’emergenza e riflessioni sul dopo. Su diritto e giustizia penale, in Sistema penale, 28 aprile 2020, p. 8 www.sistemapenale.it/it/opinioni/pulitano-emergenza-coronavirus-lezioni-e-riflessioni.

66. Così, a proposito del noto “caso Diciotti”, L. Masera, La richiesta di autorizzazione a procedere nel caso Diciotti, in questa Rivista online, 29 gennaio 2019, www.questionegiustizia.it/articolo/la-richiesta-di-autorizzazione-a-procedere-nel-caso-diciotti_29-01-2019.php.

67. I dati globali e per singolo Paese non consentono ancora una valtazione con esiti certi, pur segnalando la criticità di situazioni (Usa, Brasile, Svezia) di mancata adozione di misure di contenimento stringenti: https://covid19.who.int/?gclid=EAIaIQobChMIx7PgtJyk6gIVwR0YCh1E-AAkEAAYASAAEgJbgfD_BwE.

68. In termini sanitari, indirizzi di comportamento clinico e operativo.

69. Per la sistematica si rinvia a G. Battarino, Diritto dell’emergenza sanitaria, Giuffrè, Milano, 2006 e a L. Marco e G. Battarino, Emergenza sanitaria e responsabilità penale, in N. Todeschini (a cura di), La responsabilità medica, Utet giuridica, Milano, 2019, pp. 746 ss.

70. Cass., sez. IV, 22 giugno – 6 agosto 2018, n. 37794;  vds. anche, nella vigenza del dl 13 settembre 2012, n. 158 (l. 8 novembre 2012, n. 189): Cass., sez. IV, 29 gennaio – 9 aprile 2013, n. 16237.

71. G. Battarino, Risposta all’emergenza sanitaria e triage. Appunti per una lettura penalistica, in questa Rivista online, 26 marzo 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/risposta-all-emergenza-sanitaria-e-triage-appunti-per-una-lettura-penalistica_26-03-2020.php.

72. Quali fonti regolatrici originarie possono essere citate le linee-guida per il sistema di emergenza urgenza in applicazione del dPR 27 marzo 1992 pubblicate sulla Gazzetta ufficiale del 17 maggio 1996, in cui viene definita la funzione dell’infermiere di triage: all’interno del DEA deve essere prevista la funzione di triage, come primo momento di accoglienza e valutazione dei pazienti in base a criteri che consentano di stabilire le priorità di intervento: tale funzione è svolta da un infermiere adeguatamente formato, che opera secondo protocolli prestabiliti dal dirigente del servizio (il codice attribuito dall’infermiere è suscettibile di rivalutazione da parte del medico e ad esito di una valutazione clinica); e le linee-guida sul triage intraospedaliero pubblicate sulla Gazzetta ufficiale n. 285 del 7 dicembre 2001, emanate dal Ministero della salute, frutto di un accordo Stato-Regioni, che individuano i codici di gravità. La materia è stata rivista nel 2019 con le nuove linee di indirizzo nazionali sul triage intraospedaliero del Ministero della salute (www.salute.gov.it/imgs/C_17_notizie_3849_listaFile_itemName_1_file.pdf).
Un riferimento specifico all’emergenza territoriale è contenuto nel dm 2 aprile 2015, n. 70 («Regolamento recante definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera») in cui, al punto 9, si specifica che la centrale operativa (del sistema di risposta all’emergenza sanitaria, 118, ora NUE 112) effettua la valutazione del grado di complessità dell’intervento necessario, definendo il grado di criticità dell’evento e, conseguentemente, attiva l’intervento più idoneo, utilizzando codici di gravità.

73. Le fonti normative indicate nella nota 72 non esauriscono il complesso quadro dell’organizzazione della risposta all’emergenza territoriale: che in sede di valutazione giudiziaria dovrà essere considerato razionalmente, nei suoi presupposti e nelle sue applicazioni; certamente senza adesione all’emotività palesata in dichiarazioni come quelle del coordinatore di un comitato di familiari di persone decedute, che nell’articolo di un quotidiano che parla di “una valanga di esposti” (Corriere della Sera, I familiari delle vittime: pronte le prime 50 denunce, 8 giugno 2020) dichiara: «il problema è complessivo e consiste nel fatto, tra i tanti, che di ambulanze ce ne fossero cento quando ne servivano cinquecento», obliterando in tal modo non solo le norme che regolano la materia, ma anche il semplice fatto che il numero di mezzi di soccorso – che necessitano di equipaggi, collocazione territoriale, complessi sistemi di coordinamento tra centrali operative e presidi ospedalieri – non è moltiplicabile ad libitum.

74. Il Tribunale di Siena ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 83, comma 4, dl n. 18/2020, convertito con l. n. 27/2020, che introduce una sospensione del corso della prescrizione per ritenuto contrasto con il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole (www.questionegiustizia.it/articolo/la-sospensione-del-corso-della-prescrizione-al-vaglio-della-consulta_26-05-2020.php).

75. A. Natale e L. Fidelio, Emergenza Covid-19 e giudizio penale di merito: un catalogo (incompleto) dei problemi, in questa Rivista online, 16 aprile 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/emergenza-covid-19-e-giudizio-penale-di-merito-un-catalogo-incompleto-dei-problemi_16-04-2020.php; una sintesi e la citazione di articoli dedicati al tema in M. Guglielmi e R. De Vito, Lontano dagli occhi, lontano dal cuore? Il remoto e la giustizia, ivi, 24 aprile 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/lontano-dagli-occhi-lontano-dal-cuore-il-remoto-e-la-giustizia_24-04-2020.php.

76. Agli articoli sin qui citati si aggiungano: N. Rossi, L’emergenza economica e sociale. Le prime risposte del diritto penale, in questa Rivista online, 15 aprile 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/l-emergenza-economica-e-sociale-le-prime-risposte-del-diritto-penale_15-04-2020.php; R. De Vito, Il vecchio carcere ai tempi del nuovo colera, ivi, 11 marzo 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/il-vecchio-carcere-ai-tempi-del-nuovo-colera_11-03-2020.php.

77. E. Scoditti e G. Battarino, Decreto legge n. 18/2020: l’inserimento di norme sulla responsabilità sanitaria, in questa Rivista online, 3 aprile 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/decreto-legge-n-182020-l-inserimento-di-norme-sulla-responsabilita-sanitaria_03-04-2020.php; E. Scoditti, Un’ipotesi di inserimento di norme sulla responsabilità civile sanitaria nella legislazione Covid-19, ivi, 10 aprile 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/un-ipotesi-di-inserimento-di-norme-sulla-responsabilita-civile-sanitaria-nella-legislazione-covid-19_10-04-2020.php.