Magistratura democratica
giurisprudenza di merito

Società private delegate di pubbliche funzioni e immunità statale: tendenze e problemi

di Andrea Spagnolo
Assegnista di ricerca in diritto internazionale, Università degli Studi di Torino
Alcune recenti pronunce giurisprudenziali hanno evidenziato il “lato oscuro” del coinvolgimento di soggetti privati nell’esercizio di poteri di natura pubblicistica. In particolare, il fenomeno cui si fa riferimento riguarda la delega di funzioni da parte di uno Stato alle società di certificazione navale

Introduzione

L’ibridazione tra pubblico e privato nella gestione di taluni affari internazionali è ormai un fatto nel diritto internazionale. È un fenomeno rappresentativo di una tendenza ampia, che abbraccia diversi ambiti della c.d. governance internazionale e che vede il sempre maggiore coinvolgimento di enti privati che svolgono funzioni di natura pubblicistica.

Questa tendenza è studiata spesso da un angolo visuale ben preciso: quello del coinvolgimento della “società civile”, di cui i soggetti privati fanno parte, nei classici strumenti della concertazione internazional-pubblicistica. Non è qui possibile dar conto degli sviluppi dottrinali legati al tema, ma è opportuno rammentare come esso sia spesso valutato positivamente da chi lo studia, poiché offrirebbe un modello di controllo democratico (accountability) degli affari internazionali[1].

A questo angolo visuale, tendenzialmente salutato in maniera positiva[2], se ne deve aggiungere un altro. Il coinvolgimento dei privati è una prassi cui gli Stati spesso ricorrono al fine di delegare attività che secondo l’impostazione classica del diritto internazionale gli competono. E così, per fare un esempio, si può evidenziare il ricorso, da parte degli Stati – e finanche da parte di organizzazioni internazionali – alle “compagnie militari private di sicurezza” per la conduzione di determinate attività belliche o di supporto ad esse che normalmente sono svolte da organi statali[3]. Molto spesso, tali soggetti privati hanno la sede legale in uno Stato diverso da quello delegante. Di esempi ve ne possono essere molti e diversi, essendo una simile prassi il risultato dell’azione della globalizzazione di taluni rapporti dello Stato, che assumono una dimensione privatistica.

In tali casi, la delega di funzioni rischia di creare un problema di tutela dei soggetti negativamente colpiti dalla condotta delle società “delegate”, nel caso in cui queste si rendano responsabili, a vario titolo, di fatti illeciti. La prassi recente, infatti, evidenzia come tali società, se convenute dinanzi alle giurisdizioni nazionali dello Stato in cui hanno sede, invochino l’immunità dello Stato “delegante”, se l’oggetto del contendere è una condotta ascrivibile alle funzioni di cui abbiamo finora parlato.

Il tema è assai complesso e si colloca al crocevia di due istanze a loro modo legittime: da un lato c’è il tema delle funzioni delegate ai soggetti privati, che essendo “statali”, potrebbero, a determinate condizioni, essere coperte da immunità; d’altro canto, vi sono gli interessi di chi possa patire conseguenze negative dell’operato di tali soggetti e pretenda, altrettanto legittimamente, di ottenere ristoro. Quest’ultima prospettiva necessita di attenzione. Il rischio, infatti, è che gli Stati, affidandosi a società private aventi la loro sede in altro Stato, vogliano proprio evitare che le condotte delegate diano luogo ad azioni nei loro confronti.

 

Segue. La delega di funzioni nella certificazione navale e l’invocazione dell’immunità da parte delle società “delegate” 

Recentemente, come si è detto, alcune pronunce giurisprudenziali hanno evidenziato il “lato oscuro” del coinvolgimento di soggetti privati nell’esercizio di poteri di natura pubblicistica. In particolare, il fenomeno cui si fa riferimento, e che costituirà oggetto della presente indagine, riguarda la delega di funzioni da parte di uno Stato alle società di certificazione navale.

Storicamente, infatti, gli Stati si affidano a soggetti privati per certificare che determinati armatori siano idonei a navigare mostrando la bandiera. Tale facoltà è espressamente prevista dalle convenzioni che disciplinano gli obblighi degli Stati in materia di diritto del mare ed è, quindi, legittima ai sensi del diritto internazionale.

La “classificazione” di una nave è un istituto storico del diritto marittimo[4] e costituisce universalmente un requisito imprescindibile non solo per garantire all’imbarcazione una copertura assicurativa, ma anche, in radice, per attribuirle una bandiera e, quindi, per renderla utilizzabile commercialmente (qualsiasi sia il suo impiego sul mercato nautico).

Questa attività è affidata ad una società di classificazione, la quale concede la “classe” alla nave secondo i regolamenti ed i criteri dalla stessa predisposti in conformità con i principi delineati dall’Organizzazione internazionale marittima (OIM). Ciò evidenziato, in concreto si ha che l’armatore, allorquando si determina alla realizzazione di una nuova nave, sceglie la società di classificazione, la quale, pertanto, partecipa ed è essenziale alla progettazione ed allo sviluppo della nave stessa; questa società, curata e terminata la realizzazione  della nave, rilascia a quel punto il primo certificato di classificazione, che è il documento confermante che la nave è stata progettata e costruita in conformità con i regolamenti/criteri che essa stessa ha previsto.

A quel punto l’armatore sceglie poi una bandiera sotto la quale far navigare la nave e metterla in esercizio; normalmente lo Stato di bandiera viene individuato tra quelli che, tramite apposite liste, riconoscono alla società di classificazione della nave la delega ad operare nella qualità di “organismi riconosciuti” (RO); tale Stato acconsente all’esercizio della nave (così realizzata e classificata) sotto la sua bandiera, accettando contestualmente che la società di classificazione della nave emetta altresì, tramite le ispezioni cosiddette statutarie (“statutory surveys”), i DOC (Document of Compliance), i certificati SMC (Safety Management Certificate) e gli altri documenti statutari imposti dal Codice ISM (l’International Management Code for the Safe Operation of Ships and for Pollution Prevention), adottato dalla International Maritime Organization (IMO) e divenuto parte del Capitolo IX della convenzione «SOLAS»; la società di classificazione, che comunque continuerà ad occuparsi della classe[5], diviene pertanto automaticamente anche RO. Vi sono, quindi, due tipologie di attività certificatoria che riguardano la sicurezza di una nave, tra loro autonome ed indipendenti: le attività di classificazione (“class surveys”); e le attività di certificazione/RO (queste ultime dette anche “statutarie”, “statutory surveys”). Le prime non annoverano alcuna “delega” da parte dello Stato di bandiera; le seconde sì, ma, ad ogni modo, trattasi di una “delega” a svolgere servizi di carattere meramente tecnico secondo puntuali criteri indicati innanzitutto dalla convenzione «SOLAS». Nella grande maggioranza dei casi tali attività vengono a coincidere nella stessa società privata.

In pratica, per quanto qui d’interesse, la società di classificazione si trova a svolgere anche la funzione di RO non già - si noti bene - in quanto scelta dallo Stato di bandiera, bensì direttamente dall’armatore. In breve, che una società di classificazione sia anche la RO di una nave per conto dello Stato di bandiera è una circostanza che dipende esclusivamente dal rapporto privatistico e commerciale che lega tale impresa a quello scafo, a quell’armatore ed alle scelte di quest’ultimo; aggiungasi come la società di classificazione per le sue attività di certificazione, che sono di natura meramente tecnica, sia pagata direttamente dall’armatore, ciò - lo si ribadisce - nel contesto di un rapporto di carattere privatistico ed alla stregua di un qualsiasi altro prestatore di servizi[6].

L’attività di queste società, operanti, come si è detto, con un doppio “cappello”, è cruciale: dalla loro certificazione passa l’idoneità di un’imbarcazione anzitutto a navigare e, solo in un secondo momento, a farlo mostrando la bandiera di uno Stato.

L’importanza di quanto detto si è sperimentata, tragicamente, in una recente vicenda giudiziale, invero ancora in corso, che riguarda il caso di un disastro marittimo. Nel 2006, in Egitto, naufragava l’imbarcazione Al Salaam Boccaccio ’98, battente bandiera panamense, causando il decesso di più di mille persone. A parere dei familiari delle vittime, il naufragio sarebbe stato causato da problemi di natura tecnica dell’imbarcazione, che la società di classificazione e certificazione non avrebbe rilevato al momento delle ispezioni. Gli stessi familiari intentavano, quindi, un’azione di risarcimento del danno nei confronti proprio della società privata che ha condotto sia le attività di classificazione, sia quelle di certificazione, nello specifico rappresentata dal RINA (Registro Italiano Navale), nel foro della sede legale della stessa: il Tribunale di Genova[7].

Ed è proprio qui che si innesta il tema che si è cercato di emarginare in apertura. Il RINA rientra appieno nella categoria di soggetti cui si faceva riferimento poc’anzi: è una società privata che svolge attività di classificazione per conto degli armatori (attività di “class survey”); ma al contempo è un soggetto che compie attività di certificazione su delega degli Stati al fine della concessione della bandiera (“statutory surveys”). Così è stato anche per l’Al Salaam Boccaccio ’98, che è stata dapprima “classificata” e poi è stata destinataria di una certificazione per conto dello Stato di Panama. Entrambe le attività sono state condotte dal RINA, ciò che, peraltro, ha indotto i ricorrenti ad agire per il complesso di attività svolte dalla società.

Dinanzi al Tribunale di Genova veniva chiesto l’accertamento della responsabilità di tale società per il disastro occorso all’imbarcazione, ma veniva (con successo) eccepita dalla società RINA l’immunità che le deriverebbe dall’essere stata delegata da parte dello Stato di Panama all’espletamento di quelle funzioni necessarie alla “concessione” della bandiera.

L’episodio giurisprudenziale non è unico nel suo genere. A settembre 2014, il Tribunale di Bari dichiarava il non doversi procedere nei confronti di alcuni soggetti operanti nell’ambito della medesima società (RINA) con riguardo a un altro drammatico episodio verificatosi a bordo di una nave battente la bandiera si St. Vincent & Grenadines che causava la morte di un individuo[8].

Benchè il secondo caso presenti aspetti diversi dal primo, entrambi mettono in luce quel lato oscuro cui si faceva cenno nel primo paragrafo e mostra come, alla prova dei fatti, la delega di funzioni a società private rischi di creare delle zone grigie di tutela giurisdizionale.

 

Il problema della concessione di immunità alle società delegate di funzioni pubbliche

La giurisprudenza appena citata va inquadrata nell’ambito di un ristretto numero di precedenti ben che hanno affrontato il problema della concessione (rectius, estensione) dell’immunità statale a soggetti privati delegati di pubblici poteri.

Il punto è già stato posto in debito rilievo da una parte della dottrina d’oltreoceano, che ha evidenziato come ci sia da interrogarsi circa future limitazioni delle varie forme di immunità relativamente alle responsabilità ascrivibili ai protagonisti della globalizzazione[9], ove per l’appunto viene in rilievo una peculiare fattispecie, oggetto di dibattito soprattutto negli U.S.A.,  quella “derivative sovereign immunity”, riferibile per l’appunto anche alla pretesa di corporations e contractors che lavorino a fianco dei governi[10].

Dinanzi a questi nuovi scenari occorre allora interrogarsi sul fondamento dell’estensione del privilegio dell’immunità statale oltre i suoi confini tradizionali.

Mentre la Convenzione europea sull’immunità degli Stati all’art. 27 risulta precludere la concessione di questo privilegio all’ente distinto dallo Stato e “dotato di legittimazione processuale, anche se è incaricato di esercitare funzioni pubbliche”, l’esistenza di una norma che estende il privilegio dell’immunità a imprese private è contemplata dall’art. 2 (1) (b) (iii) della Convenzione della Nazioni Unite sull’immunità giurisdizionale degli Stati e delle loro proprietà. La disposizione in oggetto sembra, effettivamente, strutturata in modo talmente ampio da poter estendere l’immunità a qualunque soggetto che sia “endowed with governmental authority”[11].

Il testo della norma in esame è frutto di un compromesso tra posizioni divergenti[12]: da un lato la posizione statunitense era nel senso di riconoscere a determinati enti l’immunità statale a prescindere dall’esercizio di funzioni statali, ciò che, invece, è elemento centrale nella prassi inglese, dove il ricorso al criterio funzionale è prevalente[13].

È, quindi, centrale, nell’interpretazione dell’istituto chiarire quali siano le funzioni statali che delegate all’ente in questione siano tali da renderlo immune al pari dello stato delegante. Dottrina e prassi americane fanno rientrare nel concetto di “derivative immunity” tutte quelle attività che siano riconducibili “in the shoes of the sovereign”[14].

Il commentario alla norma non chiarisce quest’ultimo punto; si può però ricorrere agli Articoli sulla responsabilità degli Stati per commissione di fatti illeciti internazionali per trovare utili spunti su cosa debba intendersi per “governmental authority”[15]. In particolare, possono aiutare le norme in tema di attribuzione delle condotte. Se, infatti, una condotta può essere imputata allo stato – in quanto compiuta da un suo organo de jure o de facto o da un soggetto privato la cui condotta sia ad esso imputabile – si potrebbe presumere un’estensione dell’immunità a detti soggetti.

L’attribuzione allo stato di una condotta, quando questa non è posta in essere da un proprio organo de jure, è disciplinata dal Progetto di Articoli sulla responsabilità degli stati (ARS) redatto dalla Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite e approvati in seconda lettura dall’Assemblea generale nel 2001. È noto[16], infatti, che anche la condotta di attori non-statali, in specie attori di natura privata, possa essere attribuita allo stato che veste siffatti attori di autorità pubbliche. È, questo, l’istituto dell’organo de facto, l’attribuzione delle cui condotte allo stato è disciplinata dall’art. 5 degli ARS[17].

Il commentario alla norma rifiuta un approccio formalistico al tema, non considerando, quindi, prevalenti argomentazioni fondate sulla natura dell’ente non-statale la cui condotta può essere ascritta allo stato. Sono invece altri criteri, la cui rilevazione spetta all’interprete, a definire se, e quando, sia possibile imputare allo stato la condotta di questi soggetti: (a) il contenuto della delega; (b) la forma con la quale la delega stessa viene conferita dallo stato all’ente; (c) lo scopo della delega e, infine, (d) il controllo, per così dire ‘pubblico’, che lo stato esercita sull’ente ‘delegato’[18].

Con riguardo al criterio sub (a), sembra potersi affermare che una condotta sia da considerarsi statale se, normalmente, essa è posta in essere dallo stato. Insomma, se il privato necessiti o no di un’autorizzazione statale esplicita per svolgere l’attività in questione[19]. Con riferimento al criterio sub (b), rileva l’atto giuridico con cui un ente privato viene delegato: se questo possa o no essere considerato alla stregua di un contratto pubblico. La terza condizione (c) posta dal commentario della Commissione riguarda lo scopo della delega e implica, necessariamente, un’analisi, nel merito dell’attività dell’ente ‘delegato’[20]. In altre parole, occorre che il fine della delega sia legato a obiettivi connessi con l’esercizio di prerogative statali, connesse all’esercizio della sovranità statale stessa. Infine, il criterio sub (c) fa riferimento al controllo che lo stato esercita sull’ente delegante: vi è un rapporto proporzionale tra siffatto controllo e la riconducibilità delle condotte dell’ente allo stato stesso; più il primo è intenso, più l’attribuzione allo stato sarà scontata[21].

La prassi sul punto offre alcuni spunti di riflessione importanti. Due casi paradigmatici emergono dalla giurisprudenza del Tribunale dei reclami Iran-Stati Uniti d’America. Nel primo, Hyatt International Corporation v. Iran, l’attività di espropriazione condotta da una fondazione privata di assistenza agli ‘oppressi’ è stata ricondotta nell’alveo delle funzioni statali dell’Iran avendo tra i fini statutari la gestione e la ri-utilizzazione dei fondi della famiglia Pahlavi[22]. Di converso, nel caso Schering Corporation v. Iran, la questione relativa all’attribuzione all’Iran delle attività di un “worker’s council” è stata risolta in senso negativo in quanto il fine del ‘consiglio’ era quello di rappresentare gli interessi dei lavoratori innanzi alle società private e alle istituzione cui i lavoratori stessi intendevano rivolgersi[23]. Sulla stessa lunghezza d’onda di quest’ultima pronuncia si colloca un caso deciso da un tribunale arbitrale in materia di investimenti, il quale ha ritenuto non riconducibile alla Romania, l’attività di due società controllate da quello Stato che ciononostante: “were […] in pursuit of the corporate objectives of a commercial company with a view to makingprofits”[24].

La prassi ora esposta non sembra essere tale da condurre all’astrazione di criteri univoci utili stabilire a priori se una condotta sia espressione di una “governmental authority” oppure no: è compito dell’interprete decidere caso per caso[25]. Nondimeno, ciò che appare chiaro è la necessità che l’attività posta in essere da un privato possa in qualche modo ascriversi alle funzioni “sovrane” dello Stato cui si pretende di attribuire la condotta.

 

Il caso Al Salaam Boccaccio ‘98

La sentenza di primo grado del Tribunale di Genova resa nel caso Al Salaam Boccaccio ’98 dimostra le difficoltà di applicare i principi di cui sopra al caso di specie. L’analisi di questa senteza è importante per comprendere anche quella del Tribunale di Bari, che sul “precedente” genovese largamente si fonda.

Com’è stato già notato[26] la relativa novità del tema postasi dinanzi al Tribunale di Genova ha indotto il giudice adito a commettere un’iniziale errore di  inquadramento. Sembra, a chi legge la sentenza, che il giudice abbia inteso approcciare il problema ritenendo applicabile alla convenuta società di certificazione la c.d. immunità funzionale, affermando come questo istituto fosse un corollario dell’immunità statale.

L’errore è evidente in quanto dell’immunità funzionale, nel diritto internazionale, beneficiano i soli “individui-organo” e, nella prassi, è solitamente confinata all’esenzione dall’esercizio dell’azione penale nei confronti, appunto, dell’individuo che rappresenta lo Stato. L’errore di inquadramento è però parzialmente sanato dal seguito del ragionamento del giudice che, di fatto, applica tout court i principi che informano l’immunità Statale e non l’immunità funzionale[27]. Questo è probabilmente l’approccio corretto[28]; è chiaro però che la confusione apprezzabile nella sentenza indebolisca non poco l’operazione ermeneutica proposta che, come vedremo, si fonda su assiomi rispetto ai quali non è chiaro fino a che punto siano applicabili al caso di specie[29].

Ciò premesso, la conseguenza più evidente è il ricorso al precedente della Corte internazionale di giustizia (CIG) nel caso Germania c. Italia[30] che costituisce la chiave di volta del ragionamento del Tribunale di Genova. L’iter logico del giudice di merito è piuttosto lineare: (1) il RINA S.p.A. in quanto ente certificatore della navigazione delegato a tal fine dallo stato di Panama è a tutti gli effetti paragonabili a un organo dello stato; (2) in quanto tale, ad esso si applica il regime delle immunità spettante a quello stato; (3) il contenuto di siffatto regime è da ricercarsi, per intero, nella sentenza della CIG.

Prima di andare oltre, è opportuno richiamare, brevemente, lo stato dell’arte in materia di immunità statale per comprendere i limiti entro i quali il Tribunale di Genova si è mossa nella sua argomentazione.

L’immunità statale costituisce uno dei cardini del diritto internazionale e, ad oggi, uno degli istituti più controversi. Il passaggio dal concetto di immunità assoluta a quello di immunità ristretta – o relativa – dello stato è stato oggetto di una prassi numerosa e, soprattutto recentemente, significativa. Allo stato attuale, è concessa l’immunità agli Stati solo quanto questi pongano in essere atti iure imperii, mentre è esclusa per gli atti iure privatorum.

Il tratto più discusso dell’istituto riguarda, senza ombra di dubbio, il suo rapporto con il diritto (umano fondamentale) di accesso a un giudice, soprattutto quando quest’ultimo si riveli come l’unica possibilità delle vittime di violazioni dei diritti umani di ottenere ristoro.

La CIG, nel noto caso Germania c. Italia, del 2012, si è espressa nel senso di dar prevalenza all’istituto dell’immunità statale sul diritto delle vittime dei crimini nazisti a ottenere un ristoro in via giudiziale. Sulla stessa lunghezza d’onda si collocano alcune sentenze della Corte europea dei diritti umani, la cui tendenza – forse troppo “conservatrice” – è stata confermata nel recente caso Jones c. Regno Unito[31].

Il massimo organo giurisdizionale delle Nazioni Unite era stato adito dal governo tedesco dopo che la Corte di cassazione italiana aveva deciso di escludere l’immunità della Germania per crimini compiuti durante la seconda guerra mondiale. Non è possibile dar conto in questa sede dei numerosi aspetti di diritto internazionale del caso appena citato; si vuole però evidenziare come la pronuncia sia stata oggetto di diverse critiche, alcune delle quali, che riprenderemo più avanti, fondate proprio sul metodo ricostruttivo della norma di diritto internazionale consuetudinario in tema di immunità[32].

Non è un caso che la sentenza della CIG sia stata oggetto di una recente pronuncia della Corte costituzionale italiana, la n. 238 del 2014 che ha affermato la contrarietà della sentenza Germania c. Italia ai principi fondamentali dell’ordinamento italiano, rappresentati, in particolare, dal diritto di accesso a un giudice.

 

L’operazione ermeneutica del Tribunale di Genova nel caso Al Salaam Boccaccio ’98: critiche

L’approccio del giudice genovese non appare convincente in relazione all’iter logico seguito nelle motivazioni che, come si è già avuto modo di evidenziare, è consistito innanzitutto nel “far cadere dall’alto” la pronuncia della CIG, assecondando, in maniera quasi acritica un metodo deduttivo che, come vedremo, non risponde necessariamente al diritto internazionale consuetudinario.

Un siffatto metodo ha indotto il giudice alla commissione di due errori: anzitutto, l’ha indotto a non considerare che, nel caso di specie, non tutte le attività contestate dai ricorrenti fossero attribuibili allo Stato; in secondo luogo, il tema dell’immunità è stato discusso senza tener conto della prassi e, soprattutto, dell’opinio juris rilevanti nella materia, che risultavano suggerire altra conclusione.

Venendo al primo profilo, occorre richiamare quanto esposto nel paragrafo secondo di questo scritto. Le attività che le società di classificazione conducono non sono univoche. Quelle richieste dall’armatore, le c.d. class surveys, sono di natura esclusivamente privatistica e nulla hanno a che vedere con l’espressione di pubblici poteri. Il Tribunale di Genova risolve questo punto in maniera assai semplice, forse troppo, rilevando che «deve considerarsi arbitraria la distinzione, ai fini che qui interessano, tra attività di classificazione e attività di certificazione. Tanto più che l’emissione dei certificati di classe è condizione necessaria perché una nave possa navigare»[33]. Ciò non sembra corretto dal punto di vista del diritto internazionale. A uno Stato, come già osservato, si imputano solo le condotte poste in essere da propri organi de jure oppure da organi de facto laddove questi agiscano esercitando una forma di autorità governativa. Ora, l’operazione giuridica di attribuire una condotta a uno Stato è preliminare in qualsiasi procedimento di accertamento della responsabilità di quello Stato; essa va comunque esperita ove si debba verificare la sussistenza dell’immunità in capo a un organo. Se, infatti, un’azione non è riconducibile allo Stato, essa non può in alcun modo essere “coperta” da immunità.

Nel caso di specie il mancato esperimento di questa operazione ha condotto il giudice a rendere applicabile l’istituto dell’immunità a tutto il complesso delle operazioni condotte dalla società convenuta, ciò che non corrisponde al contenuto della norma consuetudinaria che, evidentemente, non copre le attività compiute per conto dell’armatore.

 

Segue. La ricostruzione della norma consuetudinaria in materia di immunità applicabile al caso di specie: il problema di una prassi scarsa e relativamente incerta

Parimenti problematica sembra essere la ricostruzione della norma sull’immunità in relazione alle attività contestate. Il Tribunale di Genova decide, sul punto, di seguire un approccio deduttivo: ritiene applicabile del tutto il ragionamento svolto dalla CIG nel caso Germania c. Italia e giustifica tale applicabilità citando alcuni casi giurisprudenziali che proverebbero che l’immunità statale si estenderebbe anche alle società che agiscono quali enti di certificazione.

Gli episodi della prassi che sembrano essere conferenti rispetto al caso di specie sono assai rari, ma vengono tutti richiamati dal giudice genovese. Quello più ‘in termini’ è rappresentato dalla sentenza penale resa il 30 marzo 2010 dalla Corte d’Appello di Parigi nel caso «Erika», dove era in oggetto il disastro ambientale di immense proporzioni causato nel 1999 dalla omonima petroliera affondata al largo delle coste bretoni[34].

La Corte d’Appello ha condannato la società RINA quale responsabile civile del disastro, unitamente all’armatore, al risarcimento dei danni stante il prolungamento del certificato di classe (“certificat de classe”) accordato da un ispettore della società alla nave, indispensabile per la navigazione e senza cui l’«Erika» non avrebbe potuto prendere il mare, recarsi a Dunkerque per essere caricata di olio combustibile e, infine, letteralmente spezzarsi in due nel Golfo di Guascogna. Ancorché di condanna, la sentenza nel caso Erika ha in effetti ammesso la configurabilità del beneficio dell’immunità giurisdizionale a favore della società RINA, pur senza argomentare circa l’esistenza di una consuetudine internazionale a supporto di tale soluzione; trattasi, comunque, di un obiter dictum; la condanna, infatti, è seguita alla rinuncia all’immunità da parte della società convenuta.  

Quello che invece appare più chiaramente è che la prassi non è del tutto certa sull’argomento. Considerazione che può essere corroborata da un ultimo richiamo, più recente, alla posizione manifestata dall’avvocatura di stato francese nelle more di un procedimento pendente dinanzi alla Corte d’appello di Bordeaux contro la società American Bureau Shipping, ritenuta responsabile del naufragio della petroliera Prestige e dei gravi danni ambientali causati[35]. Il caso si colloca nel filone di quello in commento e del caso Erika: l’American Bureau Shipping aveva certificato il buon funzionamento della petroliera per conto dello stato delle Bahamas e, pertanto, pretende l’estinzione dell’immunità di quello Stato alla sua attività e, dunque, l’insussistenza della giurisdizione francese nei suoi riguardi.

L’argomentazione dell’avvocatura di Stato francese è interessante poiché aggiunge un elemento di valutazione della natura e delle attività delle società di certificazione delegate di pubblici poteri. Viene, infatti, affermato che: «Le bénéfice de l’immunité de juridiction suppose la démonstration que […] l’entité en cause constitue véritablement une émanation de l’Etat»[36]. Vieppiù, l’avvocatura si spinge finanche a elaborare un prisma di valutazione della riconducibilità degli atti degli enti certificatori agli Stati deleganti, applicando, pur non menzionandoli, taluni dei criteri che, in apertura, si è visto essere utili per attribuire una condotta agli Stati ai fini della loro responsabilità nel diritto internazionale. Ad esempio, l’avvocatura fa esplicita menzione al grado di (in)dipendenza della società dallo Stato e la capacità di quest’ultimo di esercitare un controllo amministrativo o giudiziario sul suo operato.

L’ulteriore elemento d’interesse che emerge dal passaggio appena citato è, però, ancora “di metodo”. Nelle conclusioni dell’avvocatura di Stato francese è ammesso che determinate azioni siano conseguenti all’assunzione di obblighi internazionali da parte degli Stati; nondimeno, tuttavia, ciò equivale a considerare le medesime azioni come coperte da immunità nel momento in cui sono poste in essere da privati.

Sotto quest’ultimo profilo, merita spendere qualche parola di commento alla sentenza del Tribunale di Bari. Qui il tema dell’immunità è esaminato in maniera meno acritica e maggior peso, nell’argomentazione, è dato alla natura delle azioni oggetto del processo. Sembra, tuttavia, mancare un passaggio: al di là delle norme convenzionali che impongono a uno Stato l’obbligo di “certificare” le navi battenti la sua bandiera, esiste un regime consuetudinario che da tali norme fa discendere l’estensione dell’immunità alle società private che si fanno carico della certificazione? Nella sentenza questo passaggio sembra essere scontato, ma le conclusioni dell’avvocatura francese sopra richiamate sembrano richiedere qualcosa in più: una verifica che né il Tribunale di Genova, né quello di Bari sembrano aver condotto.

 

Segue. Il problema della opinio juris

Come appena visto, le isolate pronunce in materia non risultano univoche nel senso di riconoscere automaticamente l’immunità a soggetti privati delegati da uno Stato a svolgere attività di certificazione, ciò che avrebbe dovuto indurre il giudice a riflettere sull’altro elemento della consuetudine, ossia l’opinio juris. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, la posizione dell’avvocatura francese sembra testimoniare un orientamento degli Stati che non necessariamente corrispondente a quello ipotizzato dal Tribunale di Genova.

Effettivamente la ricostruzione dell’opinio juris nella formazione delle norme consuetudinarie non è sempre agevole, poiché occorre tracciare la volontà degli Stati rispetto agli episodi della prassi che, collettivamente intesi, concorrono alla formazione della c.d. diuturnitas.

Per quanto riguarda l’oggetto del presente scritto, viene in soccorso una direttiva dell’Unione europea del 2009, nello specifico la direttiva 2009/15/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2009, relativa alle disposizioni ed alle norme comuni per gli organismi che effettuano le ispezioni e le visite di controllo delle navi e per le pertinenti attività delle amministrazioni marittime (rifusione).

In tale ‘considerando’, infatti, si rinviene affermato molto chiaramente quanto segue: «Quando un organismo riconosciuto, i suoi ispettori o il suo personale tecnico provvedono al rilascio dei certificati obbligatori per conto dell’amministrazione, gli Stati membri dovrebbero considerare la possibilità di permettere loro, per quanto concerne tali attività delegate, di essere soggetti a garanzie giuridiche commisurate e ad una protezione giurisdizionale, incluso l’esercizio di adeguate azioni di difesa, eccezion fatta per l’immunità, prerogativa che può essere invocata dai soli Stati membri, quale inseparabile diritto di sovranità che come tale non può essere delegato»[37].      

Il ‘considerando’ in questione non solo espressamente impone agli Stati membri di escludere l’immunità giurisdizionale in favore delle società di certificazione come RINA S.p.A., ma, altresì, conferma, ponendosi in linea con la consuetudine internazionale, la ratio di questo istituto strettamente connesso al concetto di sovranità statale.

Ovviamente questo ‘considerando’ non poteva rilevare nel caso di specie alla stregua di una norma di diritto positivo (ciò, anzitutto, ratione temporis)[38]; tuttavia, due elementi devono far pensare che esso possa costituire evidenza di una opinio juris di un certo tenore.

Il primo elemento riguarda le ragioni in virtù delle quali Parlamento e Consiglio abbiano deciso di includere questa statuizione in via di principio. La direttiva in questione è stata emanata proprio a seguito del caso Erika, cui si è fatto cenno poc’anzi; non a caso è denominata proprio «Erika III». La statuizione relativa all’immunità, dunque, non è calata nel vuoto, bensì si colloca in uno scenario ben preciso. D’altronde, la proposta della Commissione, chi ha fatto seguito l’adozione della direttiva in questione, aveva, tra gli altri, l’obiettivo di un maggiore controllo delle attività delle società di classificazione/certificazione[39].

È, però, il procedimento ordinario di approvazione della direttiva a dirci qualcosa in più con riguardo alla posizione degli Stati sull’immunità. Il considerando n. 16 è stato, infatti, proposto dal Consiglio, ossia l’organo che rappresenta proprio i desiderata dei governi nazionali, a fronte di un’iniziale chiusura, sul punto da parte del Parlamento europeo. Questo elemento non è di poco conto e suggerisce un atteggiamento degli Stati dell’Unione europea volto a considerare come inesistente una norma consuetudinaria che conceda l’immunità alle società di classificazione/certificazione.

In estrema sintesi, sembra che l’estensione dell’immunità statale alle società private di certificazione sia lungi dall’essere certa, non potendosi ricostruire una prassi chiara ed annoverandosi una opinio juris negativa rispetto all’esistenza di una norma consuetudinaria che estende l’immunità statale a tali società. Forse, essendo un caso relativamente nuovo rispetto all’operatività della norma (se non altro per la prassi esigua), sarebbe stato meglio indagare sulle ragioni che avrebbero potuto indurre a una conclusione piuttosto che a un’altra, invece che applicare sic et simpliciter un precedente che non risulta esaurire la materia.

 

Osservazioni conclusive

Quanto fin qui osservato permette di tornare sul tema iniziale e sulla sentenza del Tribunale di Genova nel caso Al Salaam Boccaccio ’98. In apertura si è evidenziato come i temi della globalizzazione e della delega di funzioni pubbliche a soggetti privati porti qualche vantaggio, ma abbia inevitabilmente dei “lati oscuri”. Uno di questi è rappresentato dalla difficoltà di controllare giudizialmente l’operato delle società che partecipano in attività di natura pubblicistica. Il caso Al Salaam Boccaccio ’98 dimostra proprio questo. L’eccezione d’immunità sollevata dalla società di certificazione ritenuta responsabile di aver dato causa a un disastro marittimo è un evidente ostacolo alle istanze di ristoro sollevate dai parenti delle vittime.

L’immunità, per sua natura, è un ostacolo all’accesso a un giudice e, non bisogna dimenticarlo, è un istituto cardine del diritto internazionale, posto a tutela della sovranità degli Stati. In taluni casi, dunque, tale ostacolo è legittimo. Ed è proprio sulla determinazione di “quei casi” che si è voluto proporre una riflessione. La sentenza della CIG nel caso Germania c. Italia, ancorché prova di una certa stagnazione del diritto internazionale in materia, non può essere considerata un imprescindibile paradigma in ogni situazione. Il caso del disastro dell’Al Salaam Boccaccio ’98 dimostra proprio questo: se si applica acriticamente la pronuncia della CIG in ogni caso di pretesa immunità si rischia di non dar conto delle peculiarità delle situazioni fattuali di volta in volta al vaglio dei giudici.

Questa rischiosa tendenza appare chiaramente nel giudizio del Tribunale di Genova. Così decidendo, il giudice di prime cure si è, di fatto, assunto la responsabilità di “dire” ai ricorrenti che l’unica sede giurisdizionale utile per esaminare delle loro doglianze è il giudice di Panama, dinanzi ai quali, peraltro, lo Stato in questione potrebbe paradossalmente difendersi sostenendo che le attività di classificazione/certificazione condotte da società private estere non gli sono imputabili. Insomma, la giurisdizione italiana rischia di essere, per i parenti delle vittime del disastro dell’Al Salaam Boccaccio ’98, un foro “last resort”. Da questo punto di vista, la sentenza n. 238 del 2014 della Corte costituzionale italiana sembra rimettere un certo ordine nel bilanciamento che il giudice deve operare tra l’immunità statale e il diritto di accesso al giudice.

Nel caso in commento anche questo argomento avrebbe dovuto condurre il giudice di Genova ad altra conclusione.

 

 


[1] In general v. S. Wheatley, A Democratic Rule of International Law, in European Journal of International Law 2011, p. 525-548.

[2] V. ad esempio E. Meidinger, The Administrative Law of Global Private-Public Regulation: the Case of Forestry, in European Journal of International Law 2006, p. 47-87.

[3] Sul punto si rimanda a C. Bakker, M. Sossai (eds.), Multilevel regulation of military and security contractors. the interplay between international, european and domestic norms, Oxford 2012.

[4] Per un approfondimento sulla storia delle società di classificazione cfr. N. Lagoni, The Liability of Classification Societies, Berlino-Heidelberg,-New York, 2007.

[5] La nave, infatti,deve poi mantenere la sua classe mentre è in servizio, a tal fine venendo obbligatoriamente sottoposta, da parte della medesima società di classificazione, ad ispezioni periodiche (di solito annuali) ed a verifiche più approfondite e dettagliate che avvengono ogni cinque anni, che dovrebbero farsi sempre più rigorose e inflessibili con l’invecchiamento della nave. Il mancato rispetto delle normative previste oppure la mancata osservanza delle raccomandazioni in seguito ad un’ispezione per la classificazione, può provocare, su indicazione della società di classificazione, la sospensione od il ritiro della classe, la cosiddetta “declassificazione”, con la conseguenza che la certificazione emessa a norma di legge in base alla classificazione viene invalidata.

[6] «[A]lthough they are operating on the basis of an official authorization when they perform statutory surveys, classification societies are the clients of the shipowners who ordered them to carry out the surveys and who are paying for this service», così N. Lagoni, The Liability of Classification Societies, cit., p. 27.

[7] V. Tribunale di Genova, Abdel Naby Hussein Mabrouk Aly c. RINA SpA, sentenza dell’8 marzo 2012.

[9] J. Balzano, A Hidden Compromise: Qualified Immunity in Suits Against Foreign Governmental Officials, in Oregon Review of International Law 2011, p. 73.

[10] Ibidem, p. 78.

[11] T. Grant, Article 2(1)(a) and (b), in R. O’Keefe, C. J. Tams, The United Nations Conventions on Jurisdictional Immunities of States and their properties. A commentary, Oxford, 2013, p. 50-51.

[12] In questo senso cfr. J. Crawford, Brownlies’ Principles of Public International Law, Oxford, 2012, p. 402-403.

[13] T. Grant, op. cit., p. 44-45.

[14] J. Balzano, op. cit., p. 78.

[15] In questo senso E. Cannizzaro, Diritto internazionale, Torino, 2012, p. 332.

[16] J. Crawford, State Responsibility. The General Part, Cambridge, 2014, p. 126.

[17] In dottrina, si veda P. Palchetti, L’organo di fatto dello Stato nel diritto internazionale, Milano, 2007.

[18] Draft articles on the Responsibility of States for Internationally Wrongful acts, with Commentaries, in Yearbook of the International Law Commission, vol. II, Part 1, p. 31, art. 5, par. 6.

[19] Cfr. J. Crawford, State responsibility, cit., p. 130.

[20] Ibidem, p. 131.

[21] Tribunale dei reclami Iran-USA,Hyatt International Corporation c. Iran, lodo arbitrale del 17 settembre 1985.

[22] Ibidem, par. 89.

[23] Tribunale dei reclami Iran-USA, Schering Corporation c. Iran,  loro arbitrale del 18 aprile 1984, par. 370.

[24] ICSID Case no. ARB/05/13, 8 ottobre 2009, par. 197-198.

[25] J. Crawford, op. cit., p. 130.

[26] Cfr. I. Dominelli, I Queirolo, Statutory certificates e immunità funzionale del registro italiano navale, in Il diritto marittimo 2013, p. 152-154.

[27] Su questa distinzione v. di recente R. Pisillo Mazzeschi, Organi degli Stati stranieri (immunità giurisdizionale degli), in Enciclopedia del Diritto. Annali vol. VII, 2014; v. anche P. De Sena, Diritto internazionale e immunità funzionale degli organi statali, Milano 1996; M. Frulli, Immunità e crimini internazionali, Torino 2007.

[28] Cfr. I. Dominelli, I. Queirolo, loc. ult. cit.

[29] Diversamente, è corretto parlare di immunità funzionale nel caso presentatosi innanzi al Tribunale di Bari, sezione penale, nella citata sentenza del 2014.

[30] Corte internazionale di giustizia, Jurisdictional Immunities of the State (Germany v. Italy: Greece Intervening), sentenza del 3 febbraio 2012.

[31] Corte europea dei diritti umani, Jones c. Regno Unito, sentenza del 14 gennaio 2014. V. il commento critico di R. Pisillo Mazzeschi, Le immunità degli Stati e degli organi statali precludono l’accesso alla giustizia anche alle vittime di torture: il caso Jones dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in Diritti umani e diritto internazionale, 2014. A tal proposito, è emblematica la prefazione alla decima edizione del manuale di Diritto internazionale del Prof. Benedetto Conforti, v. Diritto internazionale, X ed., Napoli 2014, p. VI.

[32] In particolare v. L. Gradoni, A. Tanzi, Immunità dello Stato e crimini internazionali tra consuetudine e bilanciamento: note critiche a margine della sentenza della Corte internazionale di Giustizia del 5 febbraio 2012, in La Comunità Internazionale 2012, p. 216

[33] Tribunale di Genova, cit., punto 9, p. 40.

[34] Corte d’appello di Parigi, sentenza del 30 marzo 2010. Cfr. L. Neyret, L’affaire Erika: moteur d’évolution des responsabilités civile et pénale, in Recueil Dalloz, 2010, p. 2238.

[35] V. Corte d’appello di Bordeaux, RG n.  10/02421, conclusioni dell’Avvocatura di Stato di Francia nel caso contro l’American Bureau Shipping e ABSG Consulting Inc.

[36] Ibidem, p. 8.

[37] Versione inglese: “When a recognised organisation, its inspectors, or its  technical staff issue the relevant certificates on behalf of the administration, Member States should consider enabling them, as regards these delegated activities, to be subject to proportionate legal safeguards and judicial  protection, including the exercise of appropriate rights of defence, apart from immunity, which is a prerogative that can only be invoked by Member States as an inseparable right of sovereignty and therefore that cannot be delegated”. Versione francese: “Quand un organisme agréé, ses inspecteurs ou son personnel technique délivrent les certificats requis au nom de l’administration, les États membres devraient envisager de leur permettre, pour ce qui concerne ces activités déléguées, de bénéficier de garanties juridiques et d’une protection juridictionnelle proportionnelles, y compris l’exercice de toute action de défense appropriée, mais à l’exclusion de l’immunité, qui est une prérogative que seuls les États membres peuvent invoquer, en tant que droit souverain indissociable, et qui ne peut donc être déléguée”.

[38] Correttamente, in questo senso, cfr. S. Dominelli, I. Queirolo, op. cit., p. 172.

[39] V. COM(2005) 587 definitivo 2005/0237 (COD). Proposta di DIRETTIVA …/…/CE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del […] relativa alle disposizioni ed alle norme comuni per gli organi che effettuano le ispezioni e le visite di controllo delle navi e per le pertinenti attività delle amministrazioni marittime (Rifusione)(presentata dalla Commissione){SEC(2005) 1498

 

28/12/2015
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