Magistratura democratica
giurisprudenza di merito

Sentenza telematica e validità della firma digitale del giudice: una preoccupazione inutile

di Gianmarco Marinai
Magistrato - RID Toscana
Malgrado sia comprensibile una iniziale diffidenza per i nuovi strumenti informatici, sono ingiustificati i timori sulla sicurezza e l'integrità degli atti e dei provvedimenti
Sentenza telematica e validità della firma digitale del giudice: una preoccupazione inutile

La sentenza del Tribunale di Vicenza – Schio costituisce una delle prime pronunce in merito alla validità degli atti del magistrato prodotti mediante l'utilizzo della tecnologia del Processo Civile Telematico (PCT) e, in particolare, a mezzo del software "Consolle del Magistrato", fornito ai magistrati italiani per la redazione dei provvedimenti e per il controllo e l'organizzazione del ruolo.

Il caso è molto semplice.

Si tratta, infatti, di un'opposizione ad un precetto notificato in base ad una sentenza depositata telematicamente. L'opponente eccepisce la nullità/invalidità/inesistenza del titolo esecutivo (la sentenza) sul presupposto che la stessa fosse carente del requisito essenziale della sottoscrizione del giudice in quanto sulla copia della sentenza (prodotta mediante "Consolle del Magistrato" e dunque firmata digitalmente dal giudice) notificata unitamente al precetto non figurava alcuna firma del giudice.

Com'è noto, a norma dell'art. 161 c.p.c., la sottoscrizione della sentenza da parte del giudice costituisce un requisito essenziale del provvedimento, la cui ingiustificata mancanza, pur se involontaria, provocata, cioè, da errore o da dimenticanza, ne determina la nullità assoluta e insanabile, equiparabile all'inesistenza, senza che possa ovviarsi né con il procedimento di correzione degli errori materiali né con la rinnovazione della pubblicazione da parte dello stesso organo che - emessa la pronunzia - ha ormai esaurito la sua funzione giurisdizionale, con la conseguenza che la causa va sempre rimessa al medesimo giudice che ha pronunciato la sentenza carente di sottoscrizione, il quale è investito del potere-dovere di riesaminare il merito della controversia senza limitarsi alla semplice rinnovazione della pronunzia, in ragione del fatto che il giudizio, siccome definito con sentenza radicalmente nulla, deve ritenersi come non avvenuto, per cui lo stesso non va «sostituito» con altro da svolgersi avanti a diverso giudice dello stesso grado, ma va «rinnovato» dallo stesso giudice funzionalmente competente (principio pacifico: cfr. per tutte Cass. civ., sez. I, 28-09-2006, n. 21049).

Il giudice di Schio respinge l'opposizione sul punto per due ordini di considerazioni, entrambe del tutto condivisibili.

Innanzitutto, si afferma, la copia autentica cartacea porta "a margine di ciascuna pagina, una coccarda, da cui si desume l'apposizione della firma digitale sia ad opera del Cancelliere che ad opera del giudice": si tratta di un "segno grafico automaticamente inserito nel documento digitale dal software in dotazione all'Ufficio giudiziario al fine di dare una mera rappresentazione dell'apposizione della firma digitale".

Del resto, la firma digitale che viene apposta dal giudice mediante l'inserimento della sua personale "smart-card" nell'apposito lettore e successiva digitazione del "pin" o codice segreto, consiste, come previsto nell'art. 1 lett. s) C.A.D. (Codice Amministrazione Digitale: d.lgs. 7.03.2005 n° 82) in "un particolare tipo di firma elettronica avanzata basata su un certificato qualificato e su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l'integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici".

Senza addentrarci in tecnicismi, appare chiaro che la firma digitale non è costituita, a differenza di quella analogica o convenzionale, da un segno grafico apposto manualmente sul documento, ma da una serie di informazioni digitali (sequenze di bit) unite al documento.

Al contrario della firma autografa convenzionale, la firma digitale non è visibile all'esterno, o meglio, come correttamente affermato dalla sentenza in commento, non può agevolmente essere riprodotta su un documento cartaceo.

Proprio per questo, dopo che il file contenente il provvedimento è divenuto immodificabile a seguito dell'apposizione della firma digitale da parte del giudice, il sistema PCT (senza modificare l'originale immodificabile del provvedimento contenente anche la firma digitale, che rimane archiviato all'interno del sistema) consente l'estrazione di un file di copia (file con estensione .pdf visualizzabile a video o stampabile su supporto cartaceo), mediante "taglio" della parte di file contenente la firma digitale e contemporaneo automatico inserimento della famosa coccardina con la scritta "Firmato Da: NOME GIUDICE Emesso Da: Postecom CA2 Serial#: 12345" o similari.

È chiaro, allora, che la presenza della coccardina sulla copia cartacea del provvedimento costituisce un serio indice del fatto che la sentenza sia stata effettivamente sottoscritta digitalmente dal giudice.

Afferma, infatti, correttamente, il giudice di Schio: "il software utilizzato per confezionare e depositare la sentenza (Consolle del magistrato), non consente di accedere alla funzione di deposito di un documento se non previa sottoscrizione dello stesso".

Ne consegue che il provvedimento redatto con gli strumenti di cui all'art. 16 del Provvedimento 18 luglio 2011 (Specifiche tecniche per l'adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, adottato in esecuzione delle regole tecniche di cui al DM 21.2.2011), cioè mediante Consolle del Magistrato, e depositato in cancelleria tramite lo stesso strumento, è necessariamente corredato della firma digitale del giudice.

Nel caso di specie, peraltro, sulla sentenza è anche presente la traccia (prodotta nello stesso modo) della firma digitale del cancelliere, che non potrebbe essere apposta, in ragione delle modalità di funzionamento dei software SICID e Consolle sopra viste, se non dopo la firma digitale del magistrato.

Il secondo elemento che esclude la fondatezza dell'opposizione è che risulta depositata una copia autentica della sentenza di cui si eccepisce la nullità/inesistenza.

A norma dell'art. 23 del C.A.D., "Le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale (come la sentenza creata tramite Consolle del Magistrato), hanno la stessa efficacia probatoria dell'originale da cui sono tratte se la loro conformità all'originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato".

Conseguentemente, l'attestazione di conformità all'originale della copia della sentenza resa dal cancelliere dimostra anche l'avvenuta sottoscrizione da parte del giudice, senza possibilità di contestazione, se non a mezzo di querela di falso (esattamente come avviene per la sentenza cartacea).

Si comprende, allora, come per il giudice che si trovi a valutare la validità di una sentenza telematica, i problemi con cui confrontarsi siano sostanzialmente i medesimi che si incontrano nel caso in cui si dubiti della validità di una sentenza cartacea.

La presenza dell'attestazione di conformità all'originale della copia del provvedimento, apposta dal cancelliere a ciò abilitato, rende incontestabile (fino a querela di falso) tutto quanto attestato e dunque, senz'altro, non può dubitarsi, sulla base di una generica eccezione di parte (né, tantomeno, d'ufficio) della presenza e della validità della sottoscrizione del giudice.

D'altra parte, così come avviene molto più facilmente per il cartaceo, non è possibile escludere l'eventualità di una falsificazione del provvedimento (mediante formazione ex novo o con collage di un atto radicalmente falso, o – perché no? – mediante falsa attestazione della conformità all'originale), peraltro statisticamente del tutto improbabile, visto il controllo esercitato anche dalla controparte processuale.

In ogni caso, anche recentemente, il Direttore della DGSIA (Direzione Generale del Ministero della Giustizia dei Servizi Informativi Automatizzati) ha ribadito che "il sistema informatico è realizzato nel pieno rispetto delle norme europee ed internazionali relative alla firma digitale; garantisce inoltre il massimo livello di sicurezza e di apertura verso tutti i formati". In particolare, se è astrattamente possibile falsificare il file .pdf copia dell'originale del provvedimento firmato digitalmente, non è, al contrario, materialmente possibile modificare l'originale che viene conservato nel server del Ministero.

Il sistema PCT è sicuramente migliorabile, può essere ancora semplificato, può essere rafforzata la sicurezza, magari rendendo ancora più difficile la modifica del .pdf copia o fornendo agli operatori anche la possibilità di accedere all'originale digitale per poterne riscontrare direttamente l'integrità e la corrispondenza alla copia, ma – per quanto si è detto – si tratta di misure ulteriori, di sicuro non indispensabili alla soluzione di questioni come quella affrontata dalla sentenza di Schio, senz'altro agilmente risolvibile mediante il ricorso agli strumenti procedurali vigenti.

In conclusione, se pure è comprensibile la diffidenza nei confronti dei nuovi strumenti informatici di ausilio al lavoro del giudice, soprattutto da parte di chi non ha dimestichezza con le nuove tecnologie, appaiono ingiustificati i timori che il processo civile telematico comporti rischi di eccezioni processuali, relative alla sicurezza e all'integrità degli atti e dei provvedimenti, che non possano essere risolte mediante i rimedi interpretativi offerti dal codice di rito.

04/03/2013
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