Magistratura democratica
giurisprudenza di merito

Redditometro e tutela
della riservatezza

di Damiano Dazzi
Mot Bologna
Non sono convincenti i rilievi critici mossi dal Tribunale di Napoli nei confronti del redditometro, la cui legittimità costituzionale è confermata dalla precedente giurisprudenza di legittimità
Redditometro e tutela<br>della riservatezza

Premessa

Con ordinanza ex art. 700 c.p.c. del 21.02.2013, il Tribunale di Napoli, sezione civile distaccata di Pozzuoli, ha disapplicato il d.m. 24.12.2012 (attuativo del c.d. nuovo redditometro) poiché ritenuto radicalmente nullo ai sensi dell’art. 21 septies della legge 241/1990.

Il decreto sarebbe cioè stato emanato “al di fuori del perimetro disegnato dalla normativa primaria e dei suoi presupposti e al di fuori della legalità costituzionale e comunitaria”.

In particolare il decreto violerebbe sia la norma primaria di riferimento (art. 38, c.5, DPR 600/1973) che i principi costituzionali e comunitari in tema di tutela della riservatezza e delle libertà individuali (artt. 2 e 13 Cost. ; 1,7 ed 8 della Carta dei diritti fondamentali della UE).

Inquadramento giuridico

La disciplina dell’accertamento sintetico è stata recentemente modificata dall’art. 22 del D.L. n. 78/2010 (convertito dalla L. 122/2010), con effetto per gli accertamenti relativi ai periodi d’imposta 2009 e seguenti.

In particolare il nuovo comma 5 dell’art. 38 del DPR 600/73 (così come modificato dalla citata novella) dispone che “La determinazione sintetica può essere altresì fondata sul contenuto induttivo di elementi indicativi di capacità contributiva individuato mediante l'analisi di campioni significativi di contribuenti, differenziati anche in funzione del nucleo familiare e dell'area territoriale di appartenenza, con decreto del Ministero dell'Economia e delle Finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale con periodicità biennale. In tale caso e' fatta salva per il contribuente la prova contraria di cui al quarto comma”.

Con il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 24 dicembre 2012 (oggetto dell’ordinanza in commento) - pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 3 del 4 gennaio 2013 - è stata data attuazione al 5° comma dell’art. 38 DPR 600/73. Prima della riforma di cui al D.L. 78/2010 l’Agenzia delle Entrate, in base al D.M. 10.09.1992 e succ. modif. (“vecchio” redditometro”), poteva accertare sinteticamente il maggior reddito del contribuente considerando un ristretto numero di beni che costituivano indici di capacità contributiva (immobili, autovetture, imbarcazioni, aeromobili etc.) ed applicando agli stessi determinati coefficienti moltiplicativi (previsti in apposite tabelle).

Non assumevano alcuna rilevanza né la composizione del nucleo familiare né l’ambito territoriale di riferimento. Da qui l’intervento di riforma del legislatore (che con il D.L. 78/2010 ha sostanzialmente riscritto l’art. 38 cit.) finalizzato al superamento di una metodologia di rettifica basata su coefficienti meramente presuntivi in favore di un sistema di accertamento del reddito più aderente alle spese effettivamente sostenute dal contribuente.

La logica sottesa all’accertamento sintetico non è mutata: se un soggetto ha sostenuto delle spese significa che ancor prima ha “guadagnato”, cioè ha conseguito un reddito almeno corrispondente all’importo speso.

Come evidenziato dai primi commenti in dottrina, il nuovo redditometro costituisce certamente uno strumento di accertamento più preciso ed attendibile rispetto al precedente.

Esso si fonda sostanzialmente sulle spese effettivamente sostenute dal contribuente risultanti dall’Anagrafe Tributaria (le spese “figurative”, desunte dalle medie ISTAT, hanno quindi una portata residuale).

Rilevano inoltre gli investimenti patrimoniali (al netto dei disinvestimenti) e la quota di risparmio riscontrata dall’amministrazione finanziaria nell’anno (cfr. D.M. 24.12.2012).

A livello di normativa primaria, queste sono state le più significative modifiche apportate dal D.L. 78/2010 al cit. art. 38:

- in base al comma 7 dell’art. 38 DPR 600/73, prima dell’emanazione dell’accertamento l’Ufficio è obbligato ad instaurare un contraddittorio preventivo con il contribuente (nella vigenza dell’art. 38 ante D.L. 78/2010, così come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, la preventiva audizione del contribuente era una mera facoltà dell’Amministrazione: cfr. Ord. Cass. n. 7485 del 27.03.2010; è diventata quindi un obbligo solo a seguito alla riforma del 2010);

- la maggior ampiezza della prova contraria opponibile dal contribuente (in base alla precedente formulazione del cit. art. 38, la prova contraria doveva risultare da “idonea documentazione”; ora l’eliminazione del riferimento “all’idonea documentazione” porta a ritenere che la prova contraria possa essere fornita a prescindere da detta documentazione, anche attraverso il ricorso ad argomentazioni non documentate, presunzioni o massime di esperienza);

- l’accertamento sintetico è ammesso a condizione che il reddito complessivo accertabile ecceda di almeno il 20% quello dichiarato (prima lo scostamento contemplato era del 25%);

- la determinazione sintetica del reddito può essere fondata sul contenuto induttivo di elementi indicativi di capacità contributiva individuati con apposito decreto ministeriale, differenziati in funzione del nucleo familiare e dell’ambito territoriale di appartenenza (D.M. 24.12.2012).

Gli elementi indicativi della capacità di spesa si trovano elencati nella tabella A del citato decreto attuativo (i predetti elementi sono stati suddivisi in undici gruppi: spese relative ai consumi, all’abitazione, all’energia, ai mobili, elettrodomestici e servizi per la casa, alle spese sanitarie, ai trasporti, all’istruzione, tempo libero, cultura, giochi etc.).

Così come previsto dal comma 5 dell’art. 38/600, sono stati analizzati campioni significativi di contribuenti appartenenti ad undici tipologie di nuclei familiari ripartiti in cinque diverse aree territoriali (nord-ovest; nord-est; centro; sud; isole).

L’Ufficio procede quindi alla ricostruzione induttiva del reddito sulla base dei seguenti elementi:

- le spese effettivamente sostenute dal contribuente nell’anno d’imposta di riferimento (quelle cioè risultanti dall’Anagrafe Tributaria);

- in via residuale i consumi ISTAT che fotografano le spese correnti per consumi (alimentari, abbigliamento etc.) sostenute da varie tipologie di famiglie in determinate aree geografiche ;

- gli incrementi patrimoniali (al netto dei disinvestimenti) e la quota di risparmio accumulata nell’anno.

In definitiva, la spesa annuale per consumi ed investimenti (detratti i disinvestimenti) e la quota di incremento annuale del risparmio devono trovare capienza nel reddito annuale dichiarato (e comunque, affinché vi possa essere accertamento, l’art. 38, c. 6 cit. dispone che lo scostamento tra reddito dichiarato e reddito accertato debba essere superiore al 20%, non rilevando pertanto gli scostamenti di lieve entità).

In sintesi, i punti dell’ordinanza

Questi, in estrema sintesi, i profili di nullità del D.M. 24.12.2012 individuati dall’ordinanza in commento:

1) il decreto sarebbe contrario alla Costituzione ed in particolare agli artt. 2 e 13 poiché prevede la raccolta e conservazione di tutte le spese poste in essere dal contribuente, che verrebbe quindi privato del diritto ad avere una vita privata (violazione del diritto alla riservatezza); contrasterebbe inoltre con l’art. 47 Cost. in tema di tutela di risparmio e con l’art. 24 Cost. (diritto di difesa) stante l’impossibilità di fornire la prova di aver speso meno di quanto risultante dalle medie ISTAT;

2) il decreto non contiene alcuna differenziazione tra cluster di contribuenti, così come imposto dall’art. 38/600 e 53 Cost. ed accomuna situazioni territoriali differenti (insufficiente differenziazione geografica);

3) il decreto utilizza come parametro per determinare le spese medie delle famiglie i dati ISTAT che nulla hanno a che vedere con la specificità della materia tributaria.

Profili critici dell’ordinanza

 In premessa si deve rilevare che l’ordinanza in esame, emessa ai sensi dell’art. 700 c.p.c., non contiene alcuna specifica motivazione in ordine ad uno dei due presupposti fondamentali del provvedimento cautelare d’urgenza ex art. 700 cpc, ossia il danno grave ed irreparabile (periculum in mora).

La sussistenza di quest’ultimo requisito non viene menzionata ( se non in modo del tutto generico: si fa cioè riferimento ad un pericolo per “l’integrità morale della sfera privata nella sua completezza con potenzialità pregiudizievoli irreparabili ed imprevedibili nelle loro evidenti proiezioni in danno della dignità umana e della relativa libertà e vita privata” ).

Inoltre non sappiamo se i dati raccolti dall’amministrazione finanziaria siano stati poi effettivamente utilizzati ai fini dell’accertamento nei confronti del ricorrente, sicché il pregiudizio imminente ed irreparabile risulta non solo non motivato ma anche non allegato né provato.

Occorre inoltre evidenziare - sempre in via preliminare - i dubbi circa la sussistenza, nel caso di specie, della giurisdizione del giudice ordinario; questione, quest’ultima, estremamente controversa, già dibattuta su questa stessa rivista .

Secondo una prima tesi (E. MANZON) l’Ordinanza sarebbe stata emessa in carenza di giurisdizione. Infatti l’ampio perimetro della giurisdizione del giudice tributario delimitato dall’art. 2 del d.lgs. 546/1992 comprenderebbe anche la tutela dei diritti fondamentali della persona e quindi anche la tutela di quel diritto alla riservatezza che, secondo il Tribunale di Napoli, sarebbe stato violato a seguito dell’emanazione del decreto attuativo del nuovo redditometro.

Secondo altra tesi (A. MARCHESELLI) la giurisdizione del giudice ordinario non sarebbe preclusa dal carattere generale della giurisdizione tributaria ex art. 2 d.lgs. 546/92, atteso che le controversie in questione non riguardano la debenza o meno di un determinato tributo, bensì interferenze asseritamente illecite, originate dall’attività tributaria, nella sfera dei diritti fondamentali della persona.

 Sulla presunta incostituzionalità del redditometro, si deve osservare che i principi costituzionali di riservatezza e tutela del risparmio devono essere contemperati con il disposto costituzionale di cui all’art. 53, in base al quale “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”.

E’ ovvio quindi che la libertà individuale di poter spendere il proprio denaro come meglio si crede non possa spingersi sino al punto di consentire l’evasione fiscale o comunque un allentamento degli strumenti di repressione di quest’ultimo dilagante fenomeno.

Se dovessimo seguire le argomentazioni addotte dal Tribunale di Napoli, tutto il sistema informativo a disposizione dell’Amministrazione Finanziaria violerebbe la privacy, comprese le spese detratte o dedotte indicate in dichiarazione dagli stessi contribuenti (quali ad esempio le spese mediche), in relazione alle quali l’Agenzia delle Entrate, ai sensi dell’art. 36-ter del DPR 600/73, chiede poi la documentazione giustificativa (fatture, ricevute, scontrini etc.) procedendo quindi al controllo formale previsto dal cit. art. 36-ter.

Si pensi inoltre:

- all’anagrafe dei conti correnti (art. 11 del D.L. 201/2011);

- a tutte le spese risultanti dall’anagrafe tributaria ed in particolare al notevole numero di spese per consumi desumibile attraverso le informazioni inviate dai soggetti IVA secondo quanto previsto dall’art. 21 del D.L. 78/2010 convertito dalla L. 122/2010 (cosiddetto spesometro) .

Tutto ciò contrasterebbe con la privacy degli individui. In realtà la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 283 del 23.07.1987, si è già pronunciata sul punto, rigettando tutte le eccezioni di incostituzionalità sollevate in relazione all’accertamento sintetico (quello all’epoca vigente aveva sempre come norma di riferimento l’art. 38 cit. ed era basato su meccanismi più rudimentali e meno evoluti di quelli attuali).

Per quanto rileva in questa sede (compatibilità con l’art. 53 Cost.), la Corte ha già avuto modo di precisare che l’accertamento sintetico, oltre a non violare l’art. 53 cit., costituisce esso stesso un mezzo per l’attuazione della norma costituzionale, risultando pertanto ragionevole il ricorso a “fatti-indici” di spesa idonei a dare concreto fondamento al principio costituzionale di correlazione tra capacità contributiva ed imposizione tributaria.

Quanto alla dedotta violazione dell’art. 24 Cost., la Corte Costituzionale, nella medesima sentenza, ha già avuto modo di osservare che la normativa relativa all’accertamento sintetico non contravviene al principio costituzionale della difesa, in quanto non pone alcun limite alla prova contraria da parte del contribuente.

Resta quindi l’ampia possibilità di prova contraria che, tra l’altro, vertendo in fattispecie di accertamento presuntivo, potrebbe parimenti essere rappresentata da presunzioni e massime di esperienza (ciò è confermato, come visto, dalla recente modifica dell’art. 38 cit., ove è stata espunta la previsione secondo cui la prova contraria debba risultare da “idonea documentazione”).

L’ampia possibilità di prova contraria è confermata dall’art. 4 del decreto attuativo .

Da evidenziare inoltre che ora il “nuovo” 7° comma dell’art. 38 (introdotto dal D.L. 78/2010) pone a carico dell’Ufficio, prima dell’emissione dell’avviso di accertamento, l’obbligo di invitare il contribuente ai fini dell’instaurazione di un contraddittorio preventivo con lo stesso, nel quale quest’ultimo potrà fornire tutte le proprie deduzioni difensive ( art. 38, c. 7, DPR 600/73: “L'ufficio che procede alla determinazione sintetica del reddito complessivo ha l'obbligo di invitare il contribuente a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell'accertamento e, successivamente, di avviare il procedimento di accertamento con adesione ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218” ).

Il legislatore ha cioè previsto una procedura analoga a quella prevista per gli accertamenti basati sugli studi di settore.

In ordine alla natura della presunzione derivante dagli accertamenti da redditometro, assistiamo ad un contrasto in seno alla Suprema Corte. Infatti, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità tradizionale, formatosi sotto il vigore della disciplina antecedente alla riforma del 2010, aveva sostenuto che la presunzione sottesa al redditometro avesse natura di presunzione legale relativa: “In tema di accertamento dei redditi, costituiscono … elementi indicativi di capacità contributiva, tra gli altri, specificatamente la disponibilità in Italia o all’estero di autoveicoli nonché di residenze principali o secondarie. La disponibilità di tali beni … costituisce, quindi una presunzione di “capacità contributiva” da qualificare legale ai sensi dell’art. 2728 del codice civile, perché è la stessa legge che impone di ritenere conseguente al fatto (certo) di tale disponibilità l’esistenza di una capacità contributiva. Pertanto, il giudice tributario, una volta accertata l’effettività fattuale degli specifici “elementi indicatori di capacità contributiva” esposti dall’Ufficio, non ha il potere di togliere a tali elementi la capacità presuntiva “contributiva” che il legislatore ha connesso alla loro disponibilità, ma può soltanto valutare la prova che il contribuente offra in ordine alla provenienza non reddituale … delle somme necessarie per mantenere il possesso dei beni indicati dalla norma” (Cass. 16284/2007; nello stesso senso, per citare le più recenti, v. Cass. nn. 2726/2011; 14168,/2012; 18604/2012).

Recentemente, tuttavia, alcune sentenze della Suprema Corte, sulla scorta di quanto statuito dalle SS.UU. in tema di studi di settore (SS.UU. Cass. nn. 26635, 26636, 26637 e 26638/2009), hanno messo in discussione questo consolidato principio ed hanno qualificato la presunzione sottesa al redditometro come presunzione semplice, così come accade per tutti gli altri accertamenti di tipo standardizzato (in tal senso v. Cass. 13289/2011 e 23554/2012).

Ciò detto e riepilogando le considerazioni che precedono, i profili di incostituzionalità del D.M. 24.12.2012 prospettati dal Tribunale di Napoli non convincono, tenuto conto che:

 già sotto il vigore del “vecchio” redditometro, sicuramente meno evoluto e meno affidabile di quello attuale, sia la Corte Costituzionale che la Corte di Cassazione hanno sempre ribadito la piena legittimità di tale strumento di accertamento (a maggior ragione, quindi, anche il “nuovo” redditometro dovrebbe risultare pienamente conforme ai principi costituzionali);

 al contribuente viene comunque riconosciuta ampia possibilità di fornire la prova contraria (art. 38, commi 5 e 7 del DPR 600/73 ed art. 4 del D.M. 24.12.2012) non solo in fase contenziosa, ma già nella fase endoprocedimentale del contraddittorio preventivo che l’Ufficio deve obbligatoriamente instaurare (analogamente a quanto avviene negli accertamenti da studi di settore);

 i principi costituzionali invocati dal Tribunale di Napoli (riservatezza, tutela del risparmio) devono comunque essere contemperati con il disposto di cui all’art. 53 Cost. (così come interpretato da C.Cost. n. 283/1987 cit.).

Né il D.M. 24.12.2012 appare in contrasto con la norma primaria di riferimento (art. 38, comma 5, DPR 600/73) la quale, come visto, rinvia al contenuto induttivo di elementi indicativi di capacità contributiva individuati con apposito decreto ministeriale mediante l'analisi di campioni significativi di contribuenti, differenziati anche in funzione del nucleo familiare e dell'area territoriale di appartenenza.

Infatti l’art. 1, comma 3, del decreto attuativo ha valorizzato i seguenti elementi:

- analisi di campioni significativi di contribuenti appartenenti ad undici tipologie di nuclei familiari ripartiti in cinque diverse aree territoriali (di cui alle tabelle allegate al decreto, cui si rimanda);

- spesa media, per gruppi e categorie di consumi, del nucleo familiare di appartenenza risultante dall’indagine annuale sui consumi delle famiglie effettuata dall’ISTAT (art. 1, c. 3, D.M. cit.).

Il decreto attuativo ha valorizzato campioni significativi di contribuenti (vedremo comunque che il riferimento alle medie ISTAT assume valenza meramente residuale) nonché la situazione familiare del contribuente (tentando altresì, rispetto al passato, di dare maggiore rilevanza al fattore territoriale) imputando pur sempre il reddito, mediante criterio forfetario (v. art. 3 del DM), non al nucleo familiare ma alla singola persona fisica .

Si è pertanto dato seguito a quanto sia l’Agenzia delle Entrate (nella circolare n. 49 del 09.08.2007) che la Corte di Cassazione (sent. n. 17202/2006 e 26871/2009) avevano in passato osservato, ossia che occorre considerare la posizione reddituale dell’intero nucleo familiare ai fini dell’accertamento da redditometro.

Per tutti questi motivi si ritiene che quanto disposto dal predetto decreto non si ponga in contrasto ma anzi trovi piena copertura nell’art. 38, comma 5, DPR 600/73.

Rimane tuttavia la criticità legata all’insufficiente differenziazione territoriale (criticità che tuttavia non potrebbe comunque giustificare una disapplicazione del decreto per sua nullità), essendo il territorio nazionale suddiviso in sole cinque grandi aree territoriali (nord-ovest; nord-est; centro; sud; isole).

L’ordinanza del Tribunale di Napoli censura il rinvio contenuto nel decreto (art. 1, comma 3) alle spese medie ISTAT.

Tuttavia, ai fini dell’accertamento, le spese ISTAT hanno incidenza del tutto residuale rispetto agli altri elementi assunti a fondamento del redditometro.

Ciò in quanto, in base al D.M. 24.12.2012, rilevano soprattutto le spese effettivamente sostenute dal contribuente risultanti dall’anagrafe tributaria e ciò rappresenta il principale punto di cesura rispetto al vecchio redditometro, fondato (quest’ultimo sì) su coefficienti meramente presuntivi.

In tal modo la ricostruzione induttiva del reddito viene fondata su dati di spesa certi emergenti dal patrimonio informativo a disposizione dell’Amministrazione Finanziaria (spesometro, movimenti bancari etc.).

Le spese medie risultanti dalle indagini ISTAT (cioè le spese di natura “figurativa”-presuntiva) hanno incidenza soltanto residuale, atteso che possono essere considerate solo se superiori rispetto alle spese “effettive” risultanti dalle banche dati dell’Amministrazione finanziaria .

Come è stato osservato dai primi commentatori tale ipotesi potrà verificarsi solo in rari casi.

Essendo infatti i valori determinati dall’ISTAT solitamente assai contenuti, risulta improbabile che gli stessi possano risultare più elevati rispetto alla spesa effettiva “tracciata”.

Il riferimento alle medie ISTAT è giustificato dalla difficoltà di acquisire dati certi in ordine alle spese correnti per consumi (alimentari, abbigliamento ecc.).

Assumerà comunque un ruolo decisivo il contraddittorio preventivo previsto dall’art. 38, comma 7, cit., ove il contribuente che non si riconoscerà nei consumi correnti misurati con le medie ISTAT potrà sempre fornire le proprie deduzioni difensive (anche con argomentazioni non documentate).

In ogni caso le possibili storture legate alle medie ISTAT paiono scongiurate innanzitutto dal fatto che, ai fini dell’accertamento, rilevano solo gli scostamenti di una certa consistenza tra reddito dichiarato e reddito accertato: infatti l’art. 38, c. 6 cit. dispone che l’ufficio possa procedere all’accertamento solo in caso di scostamento superiore al 20% (non rilevando pertanto gli scostamenti di lieve entità).

Tutte le considerazioni che precedono, tra l’altro, confermano ulteriormente l’inesistenza di un ipotetico periculum in mora che dovrebbe comunque fondare il provvedimento d’urgenza ex art. 700 cpc.

 

20/05/2013
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