Magistratura democratica
giurisprudenza di legittimità

La ragionevole pericolosità
della miseria

di Marco Bouchard
Presidente di Rete Dafne Italia, rete nazionale di servizi per l’assistenza alle vittime di reato
Le variabili nel giudizio di pericolosità della polizia giudiziaria, del PM
e del giudice in un recente caso di furto al supermercato
La ragionevole pericolosità<br>della miseria

Cassazione IV sez. sentenza 23 gennaio 2013

La vicenda è presto riassunta.

Una donna straniera viene sorpresa all'uscita dalle casse di un supermercato con alcuni alimenti non pagati: un pezzo di formaggio, della carne e una bevanda. L'addetto alla sicurezza chiede l'intervento delle forze dell'ordine che procedono al suo arresto. Nel verbale si segnalano i precedenti di polizia e il PM presenta l'arrestata al giudice per la convalida dell'arresto e per la direttissima. Ne chiede la custodia cautelare in carcere.

Il giudice non convalida l'arresto facoltativo perché il fatto non è grave e perché, a suo avviso, la misura non era giustificata dalla pericolosità della donna. Pur dando atto dell'esistenza di precedenti penali non lievi (una rapina di sei anni prima e un furto più recente) la condotta tenuta dall'arrestata - secondo il giudicante - era sintomatica di una "situazione di degrado, emarginazione ed indigenza" e, dato l'oggetto del furto, della necessità di "provvedere a essenziali bisogni della famiglia". Sempre secondo l'ordinanza avrebbero dovuto essere valutate, nel giudizio di pericolosità, anche le condizioni di salute e in particolare la riconosciuta invalidità fisica.

Il PM ha proposto ricorso per cassazione e il giudice di legittimità ha annullato senza rinvio l'ordinanza con piena adesione alla memoria depositata dal procuratore generale presso la stessacorte.

E' pacifica l'assenza di gravità del fatto. Tutto si gioca sul giudizio di pericolosità a formare il quale convergono, nell'interpretazione della norma, complessi fattori emotivi e culturali. Ad arginare i rischi di una eccessiva soggettività di tale giudizio l'art. 381 c.p.p., come è noto ai penalisti, pone due criteri diagnostici: la personalità dell'autore e le circostanze del fatto.

Il ricorso del PM si fonda su un'argomentazione prevedibile e su un'omissione significativa. La pericolosità della donna, in questo caso, sarebbe desumibile dalla "assenza di fonti di reddito legittimo" e dalla "pendenza di vari procedimenti per reati analoghi" a dimostrazione del fatto che "la donna è incline a 'fare la spesa' senza pagare, e,..non soffre di remore alcune circa l'altruità delle cose mobili di cui ritiene di avere bisogno". Viene invece taciuta la circostanza di fatto, decisamente rilevante nell'indagine sulla pericolosità in concreto, della natura e qualità dei beni sottratti.

E' vistosa la distanza culturale tra i due magistrati nell'impiego dei criteri valutativi della pericolosità: per il giudice non è possibile prescindere da indicatori oggettivi (la merce rubata) e soggettivi (mancanza di reddito) che "spiegano" il crimine non già in termini di pericolosità quanto piuttosto perché illustrano lo svantaggio socio-economico del suo autore; in questo caso, pertanto, il furto rivela una scarsa capacità a delinquere. "Rubo l'essenziale" - sembra dire la donna - "non cerco il superfluo". Per il PM l'analisi della pericolosità prescinde da qualsiasi osservazione criminologica. Anzi: l'assenza di reddito e la presumibile incapacità di procurasene uno lecito dimostrano il pericolo di reiterazione del crimine. L'indigente che abbia commesso illeciti, in quanto essere razionale, in condizioni di scarsità di beni è disposto a procuraseli a scapito del patrimonio altrui. Le concezioni "culturali" della pericolosità, come si vede, sono praticamente rovesciate.  

LCorte di Cassazione e il Procuratore Generale introducono, nella valutazione della pericolosità, una precisazione importante. Per i magistrati di legittimità la motivazione del giudice "appare basata su una formula quasi di stile" effettuando "una inammissibile sovrapposizione della propria valutazione a quella della p.g. la cui ragionevolezza deve costituire unico elemento sul quale effettuare il controllo in sede di convalida" perché il giudice "deve porsi nella situazione in cui ha operato la polizia giudiziaria". Insomma: il giudice deve applicare i parametri che la ragione mette a disposizione della polizia giudiziaria al momento dell'arresto.

Prendiamo atto che per i massimi magistrati la cruda descrizione della "situazione di degrado, emarginazione ed indigenza" e del "preoccupante stato di salute" dell'indagata costituisce una fastidiosa "formula quasi di stile".

Ma il punto centrale è un altro. Cosa intendiamo noi per controllo sulla ragionevolezza dell'operato delle forze dell'ordine? Dobbiamo ammettere che ci sia uno scarto di ragionevolezza nel giudizio sulla pericolosità dell'arrestato tra le forze dell'ordine e la magistratura? O non siamo piuttosto di fronte a diversi modelli culturali di giudizio sulla pericolosità di un individuo che attraversano la magistratura come le forze dell'ordine?

Qualcuno è in grado di spiegare come mai il sig. H. è stato informato dalla Corte di Cassazione che i criteri di ragionevolezza adottati nel suo caso sono molto diversi da quelli impiegati per la Sig.ra D.? Secondo la Sez. 5, Sentenza n. 10916 del 12/01/2012 Cc.  (dep. 20/03/2012 ) Rv. 252949, infatti, è immune da censure il provvedimento con cui il Gip presso il Tribunale non ha convalidato l'arresto facoltativo in flagranza di un soggetto accusato di furto aggravato di due cellulari, ritenendo, quanto al parametro della gravità, trattarsi di fatto lieve perché l'accusato si era impadronito della "res" lasciata incustodita sul banco di una pizzeria).

Più vicina all'esperienza della Sig.ra D. è quella del Sig. C. perché è stato sorpreso mentre tentava di impossessarsi di alcuni barattoli di ragù sottratti da un banco del supermercato. Diverso è stato però l'esito del suo incontro con il giudice della convalida. L'arresto nel suo caso, infatti, è stato convalidato perché il giudice ha desunto la sua pericolosità proprio dalla modalità dei fatticommessi. Il difensore ha però sollecitato -con successo - l'intervento del giudice di legittimità che ha ritenuto "illogicala motivazione della convalida "in quanto la condotta si era sviluppata secondo uno schema di comportamento assolutamente usuale in relazione al genere di reato in discussione e non era stata particolarmente indicativa del requisito della pericolosità, evocato dal giudice in maniera apodittica e con clausola di stile"( Sez. 5, Sentenza n. 25444 del 2012).

In altri termini: il furtarello nel supermercato ha un suo schema tipico "assolutamente usuale" e per sua natura non è indicativo di pericolosità proprio per le sue modalità ordinarie (scarso valore del bene sottratto, immediata restituzione del bene all'avente diritto). Solo da condotte che deroghino a questo schema - per la quantità e qualità dei beni, per la reazione dell'indagato al momento della sorpresa nella flagranza, per il numero delle persone coinvolte - sono ricavabili elementi di pericolosità tali da permettere all'azione discrezionale delle forze dell'ordine di esercitare il potere coercitivo dell'arresto facoltativo.

Alla luce di questi frammenti appare necessario sottolineare quali sono le effettive variabili nel controllo di ragionevolezza.

Innanzitutto è evidente che le forze dell'ordine assumono come regola ragionevole, di fronte ad un fatto reatolegittimante l'arresto, il preferibile esercizio del potere discrezionale - anziché no - di applicazione delle misure precautelari. I casi riassunti e che hanno avuto la dignità dell'attenzione da parte della Cassazione dimostrano proprio questo: il giudizio di pericolosità non viene neppure effettuato e si arresta anche di fronte a reati commessi da persone incensurate e che si sono limitate a sottrarre beni del valore di pochi euro. Sappiamo tutti che il criterio della ragionevolezza nell'operare delle forze dell'ordine è sopraffatto dalle disposizioni imperative di garantire livelli standard di buone statistiche.

In secondo luogo l'autorità giudiziaria del pubblico ministero normalmente non esercita un effettivo controllo sull'esercizio discrezionale della facoltà di arresto né ai sensi dell'art. 389 c.p.p.  - come nei casi descritti - né mediante il ricorso all'art. 121 disp. att. c.p.p.  Anzi: è mia esperienza quotidiana nelle direttissime il ricorso indifferenziato da parte di molti PM alla richiesta di applicazione della massima misura coercitiva in aperta violazione dei criteri di proporzionalità e, recentemente, delle chiare imposizioni consacrate nella sentenza Torregiani della CEDU del 8.1.2013.

In terzo luogo il vaglio approfondito dei criteri di ragionevolezza dipende certamente - ma è persino banale osservarlo - dalla cittadinanza dell'indagato e dalla possibilità di contare su un difensore disponibile ad impugnare i provvedimenti giudiziari emessi in violazione delle regole di giudizio sulla pericolosità.

Infine: cosa induce un PM a prendere carta e penna per promuovere un giudizio sotto molti aspetti costoso quando è notorio che, salvo casi eccezionali (e questo non lo è), il PM non partecipa mai alle udienze di convalida e non ha modo di apprezzare - come sarebbe stato doveroso in questo caso - le eventuali condizioni di degrado, emarginazione e di salute che il giudice ha messo in luce nella sua ordinanza e che la polizia giudiziaria poteva ben constatare al momento dell'arresto? E cosa induce il PG presso la Cassazione a dare manforte in questa iniziativa?

La risposta che mi sono dato è la seguente.

La miseria è una brutta bestia. Ci commuove quando la incontriamo nei nostri viaggi turistici o quando viene descritta nei reportages televisivi; cominciamo a temerla quando veniamo sfiorati dalla gonna colorata di una donna ROM durante una passeggiata in centro o in attesa indifesa alla fermata di un autobus. Ma ci spiazza letteralmente quando la incontriamo nell'esercizio dei nostri compiti istituzionali sotto forma di occupazioni abusive, furtarelli al supermercato, reazioni inconsulte verso l'ennesimo controllo di polizia e in tutte le altre molteplici manifestazioni che i giudici "di trincea" conoscono benissimo.

In questi ultimi casi, alla faccia della certezza del diritto e delle possibili varianti interpretative, hanno la meglio i fattori emotivi e culturali che mobilitano le nostre reazioni. Per esempio, dire che la Sig.ra D. è "incline a fare la spesa senza pagare" e, per questa ragione, è meritevole di essere arrestata di essere collocata in carcere, costituisce una reazione di enorme paura verso la miseria. Proprio perché la donna è povera e non ha remore verso l'altruità delle cose, la sua miseria è considerata - in questa prospettiva - ragionevolmente pericolosa. L'unico rimedio alla sua miseria è, quindi, il disinnesco forzato delle sue attitudini pericolose.

Il tentativo fatto, in questo caso, dal giudice della convalida di rovesciare l'ordine degli elementi da analizzare nel giudizio di pericolosità non è neppure compreso dai vertici della nostra giurisdizione che gli rimprovera l'adozione di una "formula quasi di stile" in luogo della necessaria motivazione.

Eppure l'argomentazione è molto semplice: il fatto si spiega (ma, ovviamente, non può essere giustificato) con una condizione di bisogno di cui il giudice come il poliziotto deve tener conto. Proprio perché il giudizio di pericolosità deve concernere la persona e non la sua condizione o il suo status, nel caso concreto sono persino clamorosi i fattori determinanti l'illecito (desumibili dalla natura e valore dei beni sottratti nonché dalle modalità del fatto) i quali non devono sviare il procedimento valutativo del giudicante. La donna non èincline a rubare: semplicemente, se determinate condizioni non vengono rimosse, è possibile (non probabile) che l'illecito venga ripetuto.

Ma non spetta al giudice reprimere gli effetti della miseria reprimendo le persone che ne soffrono.

06/05/2013
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