Magistratura democratica
giurisprudenza di merito

La proposizione di ricorso per decreto ingiuntivo implica accettazione della giurisdizione del giudice italiano?

di Arturo Picciotto
Giudice presso il Tribunale di Trieste
Commento a sentenza Tribunale di Perugia, 4 aprile 2014
La proposizione di ricorso per decreto ingiuntivo implica accettazione della giurisdizione del giudice italiano?

La vicenda decisa dal Tribunale di Perugia offre lo spunto per alcune riflessioni.

Nel caso in esame, la società italiana Alfa aveva convenuto in giudizio – con citazione notificata nel febbraio 1999 - le società svizzere Beta e Gamma, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni conseguenti alla consegna di prodotti diversi da quelli ordinati, alla modificazione unilaterale delle condizioni di pagamento, al recesso illegittimo ed all’escussione ingiustificata di garanzia bancaria.

Le società svizzere Beta e Gamma si erano costituite in giudizio eccependo il difetto di giurisdizione del giudice italiano in favore del giudice svizzero, e contestando nel merito la domanda.

In data 15 febbraio 2000, su istanza della società svizzera Beta, il Tribunale di Perugia aveva emesso decreto ingiuntivo di pagamento per oltre € 220.000,00 quale corrispettivo non saldato dalla società italiana Alfa per la fornitura di confezioni di succo di limone. Il decreto ingiuntivo era opposto dalla società italiana che chiedeva la riunione dei due giudizi, la revoca del decreto ingiuntivo opposto e, previa compensazione dei reciproci crediti e chiamata in causa della società svizzera Gamma, la condanna delle società straniere al pagamento della somma residua.

Sia la creditrice opposta Beta che l'altra società svizzera Gamma, intervenuta volontariamente, eccepivano il difetto di giurisdizione del giudice italiano sul presupposto che la proposizione di un ricorso per decreto ingiuntivo non aveva significato, da parte della opposta, alcuna accettazione della giurisdizione italiana, rimanendo competente per la risoluzione del merito della controversia esclusivamente il giudice svizzero: in realtà la convenuta avrebbe “inteso utilizzare soltanto uno strumento di carattere provvisorio e cautelare qual è il decreto ingiuntivo al fine di munirsi in tempo breve di un titolo esecutivo che possa permettere la soddisfazione del credito vantato”.

Come si legge nella decisione in commento, dopo aver riuniti i due giudizi, il Giudice unico del Tribunale in epigrafe dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice italiano, ritenendo che entrambi i giudizi appartenessero alla giurisdizione del Giudice svizzero.

La società italiana Alfa proponeva appello solo con riferimento al “secondo giudizio (quello di opposizione a decreto ingiuntivo), per i motivi di seguito esposti”, lamentando la mancata revoca del decreto ingiuntivo da parte del giudice che pure aveva declinato la giurisdizione. Sosteneva inoltre che la giurisdizione del giudice italiano in merito al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo “attraeva anche la domanda riconvenzionale proposta dall’opponente in quel giudizio”, e chiedeva pertanto che venisse accertata la giurisdizione del giudice italiano in ordine al giudizio di opposizione “ivi compresa la domanda riconvenzionale dell’opponente” e che, in subordine, venisse dichiarata la nullità e/o l’inefficacia del decreto ingiuntivo in quanto erroneamente non revocato a seguito della sentenza declinatoria della giurisdizione. 

Le società svizzere, ribadite le proprie posizioni sulla natura del decreto ingiuntivo, anche alla luce delle disposizioni della “Convenzione di Bruxell” (id est: la Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, concernente la competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale) e sulle conseguenze della scelta processuale monitoria, la cui “fase di opposizione non costituisce in nessun caso un’ulteriore fase del medesimo procedimento perché se ne distingue per caratteristiche e presupposti”, chiedevano il rigetto dell’appello e la conferma integrale della sentenza impugnata.

La Corte di Appello di Perugia, con sentenza n. 252/2009, prendeva atto della esplicita acquiescenza da parte della società italiana appellante al capo della sentenza con cui era stata affermata la giurisdizione svizzera sull’azione risarcitoria introdotta con la prima domanda (citazione notificata nel febbraio 1999 dalla società italiana). Affermava poi che a causa della proposizione della domanda monitoria da parte della società svizzera Beta, “non solo doveva essere ritenuta la giurisdizione italiana in merito alla domanda di condanna al pagamento della merce ma anche in merito alla riconvenzionale”. Dichiarata dunque la giurisdizione del giudice nazionale a decidere nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, rimetteva le parti dinanzi al Tribunale.

Nella decisione qui in commento, dopo aver rettamente definito il procedimento monitorio come uno dei “procedimenti anticipatori di condanna a contraddittorio differito”, piuttosto che come “strumento provvisorio e cautelare”, ed averne tratto le ordinarie conseguenze in tema di posizioni processuali ed oneri connessi, il giudice perugino ha omesso la decisione nel merito, ritenendo che “il comportamento processuale dell’intimante-opposto (che è il creditore sostanziale) il quale, ottenuto il decreto in suo favore, eccepisca poi nel successivo giudizio a cognizione piena il difetto di giurisdizione di quello stesso giudice che aveva adito” debba essere qualificato quale “condotta abusiva del processo”. Al riguardo ha fatto rinvio ad orientamenti dottrinari, recepiti da provvedimenti giudiziari, tra i quali viene citata la sentenza n. 656/2012 della Quinta sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato in data 7 luglio 2012.

Ha così sostenuto nel provvedimento in esame che l’intimante-opposto non potrebbe eccepire il difetto di giurisdizione di quello stesso giudice che pure aveva adito con ricorso in sede monitoria, in più pretendendo dallo stesso giudice nazionale anche la conferma del provvedimento monitorio, sul presupposto che la verifica – in contraddittorio ed a cognizione piena -  del merito della pretesa sia invece riservata alla giurisdizione di un giudice straniero. Né sarebbe possibile chiedere la concessione della provvisoria esecuzione del decreto opposto, in quanto ciò sarebbe incompatibile con la reale intenzione dell’opposto (parsa evidente al giudice, per quanto implicita), che sarebbe quella di ottenere solo una sentenza assolutoria in rito sull'opposizione e, con essa, la definitività del provvedimento monitorio.

In altri termini, nel ragionamento del giudice perugino, proponendo l’eccezione di difetto di giurisdizione in primo grado, e chiedendo la conferma in secondo grado della sentenza che aveva accolto la decisione di rito, il convenuto opposto avrebbe inteso “avvalersi di un effetto “deviato” della pronunzia  sulla giurisdizione, effetto consistente nell’irrevocabilità del decreto ingiuntivo opposto  (che non veniva revocato dal giudice che aveva  declinato la giurisdizione in ordine al giudizio) in assenza, come invece imposto  dallo schema processuale tipico, della verifica, in contradditorio e nel merito, della fondatezza della pretesa creditoria”.

Il giudicante ha quindi ritenuto che con l’eccezione del difetto di giurisdizione del giudice nazionale, proposta fino dal primo grado, il creditore-opposto avrebbe “rinunziato a che il merito  della sua domanda fosse valutato dal giudice italiano, ossia, in forza delle considerazioni sopra dette, il  merito  della pretesa creditoria fatta valere con il ricorso monitorio”. A suo giudizio, quindi, il fatto di avere eccepito reiteratamente la carenza di giurisdizione equivarrebbe “ad una rinunzia tacita all’azione dinanzi al giudice nazionale che la medesima parte attrice, a seguito dell’instaurazione della fase a cognizione piena a seguito dell’opposizione proposta dall’opponente, riconosceva come non ritualmente proposta”, ed in sostanza significherebbe un “tacito abbandono della domanda dinanzi al giudice nazionale adito, giacché la stessa parte istante intendeva  che su quella pretesa sostanziale dovesse pronunziarsi il giudice straniero”.

Di qui la decisione di dichiarare cessata la materia del contendere con riferimento sia al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (inteso quale giudizio destinato alla verifica in contraddittorio della pretesa creditoria), sia alla domanda riconvenzionale proposta dall’opponente, non senza avere revocato il decreto ingiuntivo opposto.

In sintesi: un nulla di fatto.

Dopo questa sintesi delle ragioni della decisione, è quindi possibile operare qualche considerazione sulla di essa e sulla vicenda.

Purtroppo non sono state esplicitate nel provvedimento le ragioni per le quali il primo giudice ha negato – in modo non corretto - la giurisdizione del giudice italiano, né quelle in forza delle quali la Corte d’Appello Perugia ha riformato tale decisione, nei limiti dell’appellato.

Sembra però potersi affermare con una certa fondatezza che, anche in ragione della riunione dei due procedimenti, alla vicenda fosse applicabile il disposto dell'art. 6 n. 3 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 (resa esecutiva con la legge 21 giugno 1971 n. 804), per effetto dell'art. 3, comma 2, della legge 31 maggio 1995 n. 218 di riforma del sistema di diritto internazionale privato. Infatti, come peraltro deciso in un caso del tutto analogo dalla Suprema Corte di Cassazione in sede di regolamento preventivo della giurisdizione (sez. un., ord. n. 503 del 2002), la controversia concerneva la materia contrattuale, rientrante – ratione temporis - nel campo di applicazione definito dall'art. 1 della stessa Convenzione.

Come chiaramente evidenziato dalla Corte in relazione ad altro Paese non aderente, è del tutto irrilevante che (in questo caso) la Svizzera non avesse firmato la Convenzione di Bruxelles, perché l'applicabilità della Convenzione derivava comunque dalla legge italiana di diritto privato internazionale, la quale ha esteso l'ambito soggettivo di parte della Convenzione anche al caso in cui il convenuto in Italia "non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente": l’effetto è infatti quello della parificazione del convenuto domiciliato sul territorio di uno Stato contraente della Convenzione al convenuto domiciliato altrove. Oggi sarebbe applicabile, negli stessi termini, la disposizione dell’art. 4, co. 1, del Regolamento n. 44 del 2001 (cd. Bruxelles I), che ha sostituito la Convenzione di Bruxelles del 1968, e secondo il quale “Se il convenuto non è domiciliato nel territorio di uno Stato membro, la competenza è disciplinata, in ciascuno Stato membro, dalla legge di tale Stato, salva l'applicazione degli articoli 22 e 23”.

Sostanzialmente invariata, tranne che per il riferimento ai mutati casi di competenze inderogabili, la disposizione dell’art. 6 del Regolamento n. 1215 del 2012 (cd. Bruxelles I Bis), che entrerà in vigore il 10 gennaio 2015 e sostituirà in Regolamento Bruxelles I. È peraltro solo in caso di precisare che a far data dal 1 gennaio 2011 è entrata in vigore anche per la Svizzera la Convenzione concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni  in materia civile e commerciale, conclusa a Lugano il 30 ottobre 2007. La Convenzione di Lugano era stata stipulata il 16 settembre 1988 tra gli allora Stati membri delle Comunità europee e alcuni Stati EFTA, ed è a tutti gli effetti considerata una convenzione parallela a quella di Bruxelles del 1968, la cui applicazione non è pregiudicata neanche dal Regolamento Bruxelles I bis (art. 73).

Come nei fatti rettamente deciso dalla sentenza Corte d’Appello di Perugia (di cui peraltro non si conoscono le motivazioni), ai sensi dell'art. 6 n. 3 della Convenzione di Bruxelles (stesso articolo e stesso capoverso nel Regolamento Bruxelles I, che è divenuto ora l’art. 8, n. 3. del Regolamento n. 1215 del 2012), il convenuto straniero può essere citato, "qualora si tratti di una domanda riconvenzionale nascente dal contratto o dal titolo su cui si fonda la domanda principale, davanti al giudice presso il quale è stata proposta la domanda principale".

Nella fattispecie decisa dalla Corte di Cassazione, non diversamente da quanto accaduto innanzi al Tribunale di Perugia, la società straniera Beta aveva richiesto ad un tribunale italiano un decreto ingiuntivo contro la società italiana per ottenere il pagamento di merce ad essa venduta; e la società italiana, opponendosi al decreto ingiuntivo aveva sostanzialmente riproposto le domande già azionate nella prima causa, ottenendo la riunione dei due giudizi. Il primo giudice della vicenda qui in commento, quindi, si è trovato a decidere questioni sostanziali presumibilmente identiche, nel loro contenuto, ancorché veicolate in atti processuali e giudizi diversi. In questa situazione, come indicato dalla citata decisione della Suprema Corte di Cassazione, il disposto dell’art. 6 n. 3 della Convenzione di Bruxelles non può essere limitato alla giurisdizione del giudice italiano sulla opposizione a decreto ingiuntivo, in quanto l'identità sostanziale della opposizione con la precedente citazione autonoma, notificata dalla società italiana, rende sussistente la giurisdizione italiana anche rispetto a questo giudizio, non a caso unificato al primo. Opinare diversamente comporterebbe la giurisdizione di giudici diversi in contrasto con la finalità dello strumento Convenzionale citato, che è quella di consentire la concentrazione presso uno stesso giudice della cognizione di controversie relative allo stesso contratto.

Una lettura più consapevole della vicenda, con riferimento alla normativa convenzionale, avrebbe forse messo in risalto che il tentativo operato dalla difesa delle società svizzere era quello di indurre il giudice a declinare giurisdizione facendo applicazione dell’art. 24 della Convenzione di Bruxelles del 1968, secondo cui “I provvedimenti provvisori o cautelari, previsti dalla legge di uno Stato contraente, possono essere richiesti all'autorità giudiziaria di detto Stato anche se, in forza della presente convenzione, la competenza a conoscere nel merito è riconosciuta al giudice di un altro Stato contraente” (la norma è sostanzialmente identica nell’art. 31 del Regolamento Bruxelles I e nell’art. 35 del Regolamento Bruxelles I bis).

Questa condotta difensiva, però, non avrebbe comunque potuto sortire l’effetto sperato, in caso di corretta applicazione della normativa e di ossequio alla giurisprudenza della Corte di Giustizia. È infatti pacifico (si vedano anche i lavori della Commissione sfociati nella proposta di revisione del Regolamento Bruxelles I) che dalla nozione di ”provvedimenti provvisori o cautelari” debbano essere esclusi quei provvedimenti che non abbiano tale valenza nella disciplina dei singoli Paesi. Invero, nella sentenza del 21 maggio 1980 (causa 125/79, Denilauler, punti 15 e 16 della motivazione) la Corte ha rilevato che l'esame della funzione attribuita nell' insieme del sistema della Convenzione all' art. 24 porti alla conclusione che, per quanto riguarda tale genere di provvedimenti, è stato concepito un regime speciale onde tener conto della particolare circospezione e della conoscenza approfondita delle circostanze concrete richieste dai provvedimenti da emanarsi, nonché dalla determinazione delle modalità e delle condizioni necessarie per garantire il carattere provvisorio o cautelare del provvedimento disposto. E nella sentenza del 26 marzo 1992 (causa 261/90, Reichert, punto 34 della decisione) la Corte ha più direttamente insegnato che per “provvedimenti provvisori o cautelari ai sensi dell' art. 24 devono pertanto intendersi i provvedimenti volti, nelle materie oggetto della Convenzione, alla conservazione di una situazione di fatto o di diritto onde preservare diritti dei quali spetterà poi al giudice del merito accertare l' esistenza”.

Appare quindi forzata l’interpretazione del giudice perugino che, piuttosto di prendere atto della pacifica sussistenza della giurisdizione e di rigettare espressamente la domanda di applicazione del disposto dell’art. 24 della Convenzione di Bruxelles del 1968, per poi decidere nel merito la controversia, ha invece fatto ricorso – peraltro senza apparente utilità ai fini della decisione – alla figura della “condotta abusiva del processo”, per trarne infine conseguenze comunque distoniche rispetto al percorso giurisprudenziale.

In primo luogo, per poter discutere di una condotta abusiva, occorreva che la posizione della controparte fosse gravata da pregiudizi evidenti a causa della proposizione della domanda monitoria: ma dalla lettura della decisione non si rinviene alcuna lamentela in termini di duplicazione dei costi, o di inutilità del secondo processo (quello di opposizione al decreto ingiuntivo), tanto che addirittura la società italiana, già attrice nel primo giudizio riunito e definito in rito, aveva poi abbandonato le domande ivi proposte, per coltivare quelle avanzate in via riconvenzionale in sede di opposizione a decreto ingiuntivo.

Il giudice perugino, peraltro, dopo essersi intrattenuto sulla figura della “condotta abusiva del processo” e sulle sue origini, l’ha di fatto relegata in secondo piano, senza neanche trarne le conseguenze delineate negli interventi delle note sentenze della Suprema Corte (S.U., sent. n. 23726 del 2007; n. 26961 del 2009), e pervenire quindi ad una pronuncia di preclusione all’esame del merito della domanda. Infatti il Tribunale di Perugia, in composizione monocratica, è pervenuto ad una decisione di cessazione della materia del contendere (di fatto equivalente al rifiuto di esame nel merito) attraverso un diverso percorso argomentativi, che merita di essere espressamente riportato, per non travisarne le motivazioni.

Sostiene infatti in sentenza il giudice perugino “che la parte opposta con l’eccezione del difetto di giurisdizione del giudice nazionale, proposta fino dal primo grado,  aveva – di fatto -  rinunziato a che il merito  della sua domanda fosse valutato dal giudice italiano, ossia, in forza delle considerazioni sopra dette, il  merito  della pretesa creditoria fatta valere con il ricorso monitorio. L’espressa e reiterata deduzione della giurisdizione straniera in ordine al  merito  della domanda, equivale, infatti, ad una rinunzia tacita all’azione dinanzi al giudice nazionale che la medesima parte attrice, a seguito dell’instaurazione della fase a cognizione piena a seguito dell’opposizione proposta dall’opponente, riconosceva come non ritualmente proposta. Considerata l’ “anomalia” dell’allegazione del difetto di giurisdizione da parte di colui  che aveva adito il giudice nazionale ( il difetto di giurisdizione nei confronti del giudice straniero è eccepito dal convenuto o rilevato anche d’uffizio dal giudice ove il convenuto sia contumace ovvero per effetto di una norma internazione ), un simile contegno processuale, dal quale non potrebbe certo derivare l’effetto, parimenti ‘anomalo’, della conferma di un titolo provvisorio che la stessa parte istante ritiene emesso in carenza di giurisdizione, non può valere che quale tacito abbandono della domanda dinanzi al giudice nazionale adito, giacché la stessa parte istante intendeva  che su quella pretesa sostanziale dovesse pronunziarsi il giudice straniero”.

La contraddizione della motivazione sembra però evidente, in quanto la tattica processuale della parte svizzera, quella cioè di trarre i massimi (ed illegittimi) effetti da una pronunzia abdicativa della giurisdizione (id est: la definitività del decreto ingiuntivo opposto), suggerendo al giudice in maniera neanche troppo larvata l’applicazione dell’art. 24 della Convenzione di Bruxelles, non costituisce altro se non l’onesto tentativo difensivo, plausibile per quanto infondato, di conservare al massimo gli effetti della pronuncia sul merito della propria pretesa, e cioè del decreto ingiuntivo. Non appaiono ricorrere, quindi, in tutta la loro necessaria evidenza, quegli univoci ancorché inespressi intenti di abbandono della domanda, in presenza dei quali soltanto poteva ritenersi giustificata la decisione di cessazione della materia del contendere, peraltro bilaterale.

La sentenza in commento può leggersi qui

30/06/2014
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