Magistratura democratica
giurisprudenza di legittimità

La Cassazione chiude la vicenda Abu Omar con una pronuncia “a rime obbligate”

di Stefano Pazienza
Avvocato in Roma e dottorando diritto penale università del Salento
Nota a Cass. Pen. sez. I, 24 febbraio 2014 (dep. 16 maggio 2014) n. 20447, Pres. Siotto, Est. Zampetti
La Cassazione chiude la vicenda Abu Omar con una pronuncia “a rime obbligate”

La sentenza in commento chiude definitivamente la vicenda processuale relativa al sequestro di Abu Omar (al secolo Hassan Mustafa Osama Nasr), cittadino egiziano rifugiato politico in Italia, rapito il 17 febbraio del 2003 da uomini della CIA e dei servizi segreti italiani nell’ambito di una cd. “extraordinary rendition” finalizzata ad ottenere informazioni sulle attività del terrorismo islamico.

L’ultimo filone processuale ancora aperto riguardava la responsabilità di cinque imputati, tutti appartenenti al SISMI e che a vario titolo avevano contribuito – con i servizi segreti statunitensi – al rapimento dell’imam.

La vicenda, per quanto nota nei suoi aspetti giudiziari e nei suoi risvolti politici, merita un breve approfondimento, anche e soprattutto per ripercorrerne i complicati snodi processuali.

A seguito del rapimento di Abu Omar, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano aveva aperto un’indagine nei confronti di più di 30 persone, tra agenti della CIA, appartenenti alle forze armate italiane e personale del SISMI.

In relazione a questi ultimi, il materiale probatorio si fondava in larga parte su della documentazione sequestrata nel 2006 presso un appartamento romano in uso ai servizi segreti e sulle dichiarazioni - assunte in incidente probatorio - di alcuni esponenti del SISMI.

In relazione a tale materiale, però, in sede dibattimentale era stato opposto dagli imputati il Segreto di Stato, il che aveva dato vita ad una serie di conflitti di attribuzione sollevati – sempre nel corso del primo grado di giudizio – dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nei confronti dei vari organi della Magistratura meneghina (Procura della Repubblica, Giudice dell’Udienza Preliminare e Giudice del Dibattimento), in cui si lamentava, in estrema sintesi, un’invasione da parte degli organi giurisdizionali della sfera di competenze politiche riservate dalla legge alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

La Corte Costituzionale in funzione di giudice del conflitto, intervenuta con sentenza n. 106/09, aveva sostanzialmente accolto le istanze della Presidenza del Consiglio, dichiarando di fatto inutilizzabili in dibattimento tutte le prove coperte dal segreto di Stato (per un commento alla pronuncia vgs. Anzon Demmig A., Il segreto di Stato ancora una volta tra il Presidente del Consiglio, autorità giudiziaria e Corte Costituzionale, in www.giurcost.org; Pilli G., Il segreto di Stato nel caso Abu Omar ed equilibri(smi) di sistema, in www.forumcostituzionale.it). 

Più in particolare, la Corte, in parte riprendendo le argomentazioni di precedenti sentenze che si erano soffermate sul tema (cfr. Corte cost. sent. nn. 86/77; 110/98 e 498/98), afferma in primo luogo come la disciplina del segreto di Stato serva a tutelare il “supremo interesse della sicurezza dello Stato nella sua personalità internazionale, e cioè l’interesse dello Stato-comunità alla propria integrità territoriale, alla propria indipendenza e – al limite – alla stessa sua sopravvivenza” e che “la sicurezza dello Stato costituisce interesse essenziale, insopprimibile della collettività, con palese carattere di assoluta preminenza su ogni altro, in quanto tocca l’esistenza stessa dello Stato” (sul bilanciamento tra esigenze di tutela dello Stato ed esigenze di accertamento giurisdizionale della commissione di reati, nonché sul bilanciamento di tali interessi  rispetto ai profili di tutela dei diritti di difesa dell’imputato vgs. Panzavolta M., La Corte Costituzionale e la cortina del segreto (dell’imputato) sull’accusa di attività di attività “deviata” dei servizi segreti, in Cass. pen., 2012, p. 3275 ss., di commento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 40/12).

Da ciò ne discende che in questo campo “il Presidente del Consiglio è investito di un ampio potere che può essere limitato solo dalla necessità che siano esplicitate, al Parlamento, le ragioni essenziali poste a fondamento delle determinazioni assunte e dal divieto di opporre il segreto in relazione a fatti eversivi dell’ordine costituzionale” e ciò perché la valutazione sui fatti o le notizie che devono rimanere segreti è “ampiamente discrezionale e, più precisamente, di una discrezionalità che supera l’ambito e i limiti di una discrezionalità ampiamente amministrativa, in quanto tocca la salus rei publicae. In queste condizioni, quindi, è escluso (…) qualsiasi sindacato del potere giurisdizionale non solo sull’an ma anche sul quomodo del potere di segretazione, atteso che il giudizio sui mezzi idonei e necessari per garantire la sicurezza dello Stato ha natura squisitamente politica e, quindi, mentre è connaturato agli organi ed alle autorità politiche preposte alla sua tutela, certamente non è consentito all’attività del giudice”.

Quanto alle conseguenze della scelta di secretazione di talune notizie, la Corte osserva come l’apposizione del segreto di Stato abbia l’effetto “non già di impedire in via assoluta al pubblico ministero di compiere atti di indagine e di esercitare l’azione penale rispetto ai fatti oggetto di notitia ciminis, bensì l’effetto di impedire all’autorità giudiziaria di acquisire e conseguentemente utilizzare gli elementi di conoscenza e di prova coperti dal segreto”.

Tale divieto, inoltre “riguarda l’utilizzazione degli atti e documenti coperti da segreto di Stato sia in via diretta, per fondare su di essi l’azione penale, sia in via indiretta, per trarne spunto ai fini di ulteriori atti di indagine, in quanto le eventuali risultanze sarebbero a loro volta viziate dall’illegittimità della loro origine”.

Infine, la Corte osserva come, nel caso di specie, la secretazione riguardasse non già il fatto storico del rapimento di Abu Omar, quanto piuttosto i rapporti tra i servizi segreti italiani e stranieri, nonché gli assetti organizzativi e le decisioni operative adottate dal servizio segreto (cd. interna corporis).   

Date queste premesse, il giudice del conflitto afferma come non spettasse all’Autorità giudiziaria fondare le proprie decisioni sui documenti e gli incidenti probatori su cui era stato apposto il segreto di Stato.

Di conseguenza la Corte di Appello, in sede di rinvio, aveva dichiarato il non doversi procedere nei confronti dei cinque imputati appartenenti al SISMI ai sensi dell’art. 202, comma 3, c.p.p., in cui si prevede che “qualora il segreto sia confermato e per la definizione del procedimento risulti essenziale la conoscenza di quanto coperto dal segreto di Sato, il giudice dichiara il non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato”.

Su ricorso per cassazione proposto dal Procuratore Generale e dalle parti civili, però, la quinta sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 46340 del 14 luglio 2012, annulla con rinvio la sentenza della Corte di Appello e, con una lunga e articolata motivazione che ripercorre tutti gli snodi fondamentali sia della disciplina del segreto di Stato così come interpretata dalla giurisprudenza costituzionale, sia della vicenda concreta da cui è scaturito il procedimento penale, sancisce nella sostanza l’utilizzabilità del materiale probatorio che i giudici di merito – sulla base della sentenza n. 106/09 della Corte costituzionale – avevano ritenuto inutilizzabile (per un commento alla sentenza vgs. Viganò F., La sentenza della Cassazione sul caso Abu Omar, in www.penalecontemporaneo.it).

In primo luogo, nota la Cassazione in adesione alle argomentazioni del giudice del conflitto, l’apposizione del segreto di Stato, in linea di principio, non preclude l’accertamento giudiziale di una notitia crimins, ma solo l’utilizzazione, ai fini decisionali, di quegli atti coperti dal segreto.

Tanto premesso, osserva la Corte come, se è vero che il segreto copre le informazioni relative ai rapporti con i servizi segreti statunitensi e gli interna corporis del SISMI, è anche vero che la partecipazione degli agenti al sequestro di Abu Omar deve ritenersi avvenuta a titolo personale e non come adempimento delle mansioni istituzionalmente affidate ai servizi segreti.

La sentenza, sul punto, richiama infatti alcune note della Presidenza del Consiglio, ed in particolare la nota dell’11 novembre  2005, in cui si affermava l’estraneità del Governo rispetto a qualsivoglia coinvolgimento nel sequestro dell’imam egiziano, per concludere come “il segreto non può essere apposto, contrariamente a quanto sostenuto dalla corte di merito, sull’operato dei singoli funzionari che abbiano agito al di fuori delle proprie funzioni” e ciò perché il perimetro del segreto può estendersi “soltanto alle operazioni del servizio di informazione debitamente disposte e/o approvate dal direttore dello stesso e che rientrino nelle finalità istituzionali del servizio stesso, ma non alla condotta illegale posta in essere da singoli agenti del servizio che abbiano partecipato a titolo individuale ad una operazione della CIA”.

Infine, il terzo caposaldo argomentativo su cui si fonda la sentenza n. 46340 del 14 luglio 2012 poggia sull’esegesi delle ragioni poste a fondamento della disciplina del segreto di Stato.

Se, infatti, come detto dalla Corte Costituzionale e come anche esplicitato dalla legge, la ragione ultima della normativa a tutela del segreto consiste nell’evitare la divulgazione di notizie potenzialmente lesive per i supremi interessi nazionali, è evidente che la previa divulgazione della notizia elimina ogni concreta offensività di un’eventuale condotta di ulteriore divulgazione (e utilizzazione) delle notizie coperte dal segreto.

Nel caso di specie, infatti, gli agenti del SISMI non avevano opposto immediatamente il segreto di Stato nella fase delle indagini preliminari e non si erano opposti alla perquisizione presso la propria sede ed al successivo sequestro documentale, di talché non solo tali informazioni erano state utilizzate legittimamente dalla Procura della Repubblica ed altrettanto legittimamente acquisite a dibattimento e quindi rese conoscibili ad una vasta rete di soggetti, ma vi era stata anche una trasmissione degli atti al Parlamento Europeo, che ne aveva comportato una parziale divulgazione su alcuni siti internet.

Rifacendosi a quel filone giurisprudenziale che, in tema di rivelazione di segreti di ufficio, ha sostenuto come la previa diffusione della notizia coperta da segreto elimini ogni offensività alla ulteriore condotta di divulgazione (cfr. ex plurimis, Cass. pen., sez I, n. 23036/09; Cass. pen., sez., V, n. 6319/88), nonché alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che costantemente ha sancito la non tutelabilità della notizia già di dominio pubblico (cfr. ex plurimis, Corte EDU sentenza Vereninging Weekblad Balus c. Olanda del 9 febbraio 1995; Corte EDU sentenza Observer and Guardian c. Regno Unito del 26 novembre 1991) ha correttamente concluso che nel caso di specie l’inutilizzabilità indiscriminata di tutti gli atti coperti da segreto – e quindi anche di quelli che erano stati legittimamente divulgati nel momento in cui gli indagati non avevano ancora opposto il segreto – si risolveva in un illegittimo e illogico meccanismo di immunità soggettiva per gli agenti del SISMI anche in relazione a gravi illeciti commessi a titolo personale.

D’altra parte, afferma la sentenza, “una interpretazione rigorosa delle norme in materia si impone perché l’apposizione del segreto costituisce, comunque, un vulnus per il corretto dispiegarsi della vita democratica, che è fondata sulla trasparenza e sulla conoscenza da parte dei cittadini delle decisioni e degli atti di governo, cosicché si deve ad esso ricorrere nei casi assolutamente indispensabili”.

Da tutte queste premesse argomentative scaturiva una pronuncia di annullamento con rinvio della sentenza di appello e una conseguente condanna emessa dalla Corte di Appello di Milano che, in applicazione dei principi fissati dal giudice di legittimità, riteneva utilizzabili gli atti di indagine e fondava sugli stessi un’affermazione di penale responsabilità dei cinque agenti del SISMI imputati (per un commento alla sentenza di appello vgs. Viganò F., Il caso Abu Omar: le motivazioni della sentenza di rinvio della Corte d'Appello che condanna vertici e funzionari del SISMI, in www.penalecontemporaneo.it).

La presidenza del Consiglio dei Ministri sollevava conflitto di attribuzioni sia nei confronti della sentenza della Corte di Cassazione, sia nei confronti della pronuncia di condanna della Corte di Appello.

Con sentenza n. 24 del 13 febbraio 2014 il giudice del Conflitto “annulla” la sentenza di condanna (per usare la dizione di Viganò F., La Corte costituzionale “annulla” la sentenza di condanna degli agenti dei Servizi italiani nel processo per il sequestro di Abu Omar, in www.penalecontemporaneo.it), dichiarando che non spettava al giudice di legittimità annullare la sentenza di non doversi procedere e che non spettava alla Corte di Appello emettere una sentenza di condanna sulla base della documentazione coperta da segreto (in dottrina vgs. Giupponi, T. F., Il segreto di Stato ancora davanti alla Corte (ovvero del bilanciamento impossibile), in www.penalecontemporaneo.it).

In estrema sintesi, la Corte Costituzionale si pone in aperto conflitto con la Cassazione, affermando in primo luogo come i plurimi conflitti di attribuzione formulati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri in relazione a tale vicenda siano di per sé elemento sufficiente a destituire di ogni fondamento la tesi dei giudici di legittimità secondo cui gli agenti del SISMI avrebbero agito al titolo personale e non nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali.

In secondo luogo, quand’anche esistesse uno specifico documento ufficiale del Governo con cui si autorizzavano gli agenti del SISMI alla partecipazione alla extraordinary rendition, anche tale documento sarebbe da considerarsi coperto dal segreto di Stato e quindi non conoscibile dagli organi giurisdizionali, di talché è impossibile comprendere se le operazioni compiute dagli imputati erano autorizzate o meno.

La Cassazione avrebbe pertanto eluso nella sostanza sia la perimetrazione del segreto di Stato operata dalla Presidenza del Consiglio che l’interpretazione data a tale perimetro dalla Corte Costituzionale nella precedente sentenza n. 106/09, perché, come affermato nella sentenza n. 24/14, “appare arduo negare che la copertura del segreto – il cui effettivo ambito non può, evidentemente, che essere tracciato dalla stessa autorità che lo ha apposto e confermato e che è titolare del relativo munus – si proietti su tutti i fatti, notizie e documenti concernenti le eventuali direttive operative, gli interna corporis di carattere organizzativo e operativo, nonché i rapporti con i Servizi stranieri, anche se riguardanti le renditions e il sequestro Abu Omar. Ciò, ovviamente, a condizione che gli atti e i comportamenti degli agenti siano oggettivamente orientati alla tutela della sicurezza dello Stato”.

Arriviamo, dunque, alla sentenza n. 20447/14, che si presenta in realtà come una pronuncia “a rime obbligate” (per un commento vgs. Zirulla S., Sul sequestro Abu Omar cala il “nero sipario” del segreto di Stato, in www.penalecontemporaneo.it).

L’incipit della parte in diritto della sentenza si apre con una frase fortemente indicativa dell’insofferenza con cui il giudice di legittimità prende atto dei principi sanciti  dal giudice del conflitto; si afferma, infatti che “la decisione che questa Corte di legittimità è chiamata oggi a pronunciare non può non essere profondamente incisa e radicalmente contrassegnata da quella sopra riportata n. 24/2014 della Corte Costituzionale – di cui occorre istituzionalmente prendere atto – fino a porsi quale effetto consequenziale, diretto e costituzionalmente ineludibile, della stessa”.

La pronuncia continua, nella sua parte argomentativa, ripercorre le motivazioni spese dalla Corte Costituzionale, colorandole peraltro di notazioni fortemente critiche; si sostiene, infatti, che “non si possono avere esitazioni nel definire tale pronuncia decisamente innovativa, sia nel panorama generale della giurisprudenza della Consulta, in relazione ai precedenti in materia, in quanto – come è saltato in evidenza agli occhi di ogni lettore – sembra abbattere alla radice la possibilità stessa di una verifica di legittimità, continenza e ragionevolezza dell’esercizio del potere di segretazione in capo alla competente autorità amministrativa, con compressione del dovere di accertamento dei reati da parte dell’autorità giudiziaria che inevitabilmente finisce per essere rimessa alla discrezionalità dell’autorità politica – il che non può non indurre ampie e profonde riflessioni che vanno al di là del caso singolo –, sia nella concreta incidenza nel presente procedimento, posto che esso si era mosso finora proprio e fedelmente sulla strada tracciata dalle precedenti pronunce, di diverso segno, emesse nello specifico dalla stessa Corte Costituzionale”.

Ad ogni modo, la conclusione della Cassazione non può che uniformarsi all’ultimo dictum del giudice del conflitto ed annullare senza rinvio la sentenza di condanna della Corte di Appello, perché l’azione penale non poteva essere proseguita a cagione dell’esistenza del segreto di Stato.

Volendo ora spendere alcune brevi riflessioni sulla vicenda in commento, basate sul complesso di pronunce ora brevemente ripercorse, occorre osservare come, nel dialogo tra Corte di Cassazione e Corte Costituzionale, la sentenza n. 24/14 della Consulta si presenti come criticabile – a parere di chi scrive – non tanto per quello che ivi si afferma, quanto piuttosto per quello che viene tralasciato.

In particolare, tale sentenza, pur con un’impostazione di particolare deferenza verso i poteri dell’autorità politica, afferma correttamente che è compito del Presidente del Consiglio decidere cosa coprire dal segreto di Stato, essendo precluso ad organi diversi un vaglio sulle motivazioni sottese a tale scelta; al contempo, però, la pronuncia non risponde ad un’argomentazione dirimente che aveva fatto la Corte di Cassazione nella sentenza n. 46340/12 in ordine alla divulgazione del “segreto” già precedentemente oggetto di divulgazione e quindi diventato di pubblico dominio.

Il problema dell’apponibilità del segreto nella vicenda concreta, più che fondarsi sulla riconducibilità della operazione ai compiti istituzionali dei servizi segreti piuttosto che ad iniziative personali dei singoli agenti, e più che concentrarsi sull’esatta individuazione del perimetro del segreto apposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, avrebbe dovuto focalizzarsi su di un problema che va più in radice e che coinvolge le ragioni stesse che possono legittimare l’apposizione del segreto.

Difatti, se la stessa legge afferma che la ragione che giustifica il meccanismo di secretazione di atti e documenti si fonda sulla necessità di tutelare gli interessi primari dello Stato-comunità dalla divulgazione di notizie pericolose e finanche esiziali, è assolutamente evidente come il segreto di Stato sia un meccanismo che non può trovare spazio qualora la notizia sia già di pubblico dominio (cfr. l. n. 124/2007, che, all’art. 39, afferma: “sono coperti da segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità delle Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare”).

Salvo che non si voglia ammettere come il potere politico del Presidente del Consiglio sia talmente illimitato (risolvendosi di fatto in una prerogativa regia) da consentire l’esercizio del potere di secretazione anche per permettere l’impunità di un imputato appartenente ai servizi, si deve concludere che la secretazione di un’informazione non più secreta è un’operazione illegittima che, come tale, necessita di essere censurata dalla Consulta.

Tale profilo è stato totalmente ignorato dall’ultima pronuncia della Corte Costituzionale che, così facendo, ha aggirato un ostacolo insormontabile (almeno a parere di chi scrive) all’apposizione del segreto di Stato nella vicenda in esame ed ha costretto una recalcitrante Corte di Cassazione a concludere con una sentenza di fatto assolutoria nei confronti degli imputati.

In estrema sintesi, pertanto, nella vicenda del sequestro Abu Omar la previa (e legittima) divulgazione delle notizie ha reso inutile (e quindi illegittima) la successiva apposizione del segreto di Stato, che è divenuto, in questa vicenda processuale, semplicemente un’arma di impunità per taluni soggetti e non già uno strumento posto a tutela dei supremi interessi dello Stato.

 

In questa rivista vedi anche:

Breve cronologia del processo relativo al rapimento di Abu Omar

Pier Francesco Poli, Extraordinary Renditions della Central Intelligence Agency in territorio europeo

Pier Francesco Poli, La Corte costituzionale ritorna sul caso Abu Omar: il primato della ragione di Stato

 

 

 

17/07/2014
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