Magistratura democratica
giurisprudenza di merito

Fideiussione alla fideiussione e non solo: risvolti processuali

di Franco Pastorelli
Giudice del Tribunale di Livorno
Commento a Tribunale di Piacenza: sentenza 19 novembre 2013
Fideiussione alla fideiussione e non solo: risvolti processuali

1. L'art.269 c.p.c. si concilia col procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo?

La sentenza in commento affronta tre questioni di effettivo interesse in materia processuale.

In primo luogo il giudice piacentino ribadisce il principio di diritto affermato nelle richiamate sentenze della Cassazione (Cass. sez. III, 1 marzo 2007, 4800; Cass. sez. III, 27 gennaio 2003, 1185; Cass. sez. I, 27 giugno 2000, 8718;) riportando le testuali parole della Suprema Corte leggibili nelle stesse, secondo le quali “in tema di procedimento per ingiunzione, per effetto  dell’opposizione non si verifica alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti nel giudizio contenzioso, nel senso che il creditore mantiene la veste di attore e l’opponente quella di convenuto, ciò che esplica i suoi effetti non solo in tema di onere della prova, ma, anche in ordine ai poteri ed alle preclusioni processuali rispettivamente previsti per ciascuna delle parti.

Ne consegue che il disposto dell’art 269 c.p.c. che disciplina le modalità della chiamata di terzo in causa, non si concilia con l’opposizione al decreto, dovendo in ogni caso l’opponente citare unicamente il soggetto che ha ottenuto detto provvedimento e non potendo le parti originariamente essere altre che il soggetto istante per l’ingiunzione e il soggetto nei cui confronti la domanda è diretta, così che l’opponente deve necessariamente chiedere al Giudice con l’atto di opposizione, l’autorizzazione a chiamare in giudizio il terzo al quale ritenga comune la causa sulla base dell’esposizione dei fatti e delle considerazioni giuridiche contenute nel ricorso per decreto per dichiarare inammissibile la chiamata in causa di un terzo (diverso dal ricorrente opposto), senza aver previamente richiesto la autorizzazione del giudice.

La riaffermazione di tale principio, costante nella giurisprudenza di legittimità offre il destro per interrogarci sulla correttezza di tale indirizzo, ormai tralaticio nella giurisprudenza della Suprema Corte.

Sebbene tale indirizzo giurisprudenziale sia consolidato, non rinvenendosi nella giurisprudenza della Suprema Corte, dopo la sentenza 8718/2000, pronunce contrarie, tuttavia, a parere di chi scrive, lo stesso non merita adesione per i motivi che in modo sintetico vado ad esporre.

Proprio perché per effetto dell’opposizione non si verifica alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti nel giudizio contenzioso, non pare dubbio che l’opponente debba essere posto nella stessa posizione (di qualunque convenuto) rispetto al potere di azione (di cui è espressione la facoltà di chiamata in causa del terzo, come ricordato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 80/1997), che egli avrebbe nel caso in cui il giudizio fosse stato introdotto non nelle forme di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c. ma in quelle di cui al II libro del codice di rito.

Ma se così è, la conclusione cui è giunta la sentenza in commento si giustifica solo alla luce della giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. SU 4309/2010) secondo la quale “in tema di chiamata in causa di un terzo su istanza di parte, al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario di cui all'art. 102 cod. proc. civ., è discrezionale il provvedimento del giudice di fissazione di una nuova udienza per consentire la citazione del terzo, chiesta tempestivamente dal convenuto ai sensi dell'art. 269 cod. proc. civ., come modificato dalla legge 26 novembre 1990, n. 353; conseguentemente, qualora sia stata chiesta dal convenuto la chiamata in causa del terzo, in manleva o in regresso, il giudice può rifiutare di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del terzo, motivando la propria scelta sulla base di esigenze di economia processuale e di ragionevole durata del processo”.

Solo ove infatti si ritenga, contrariamente al dettato testuale dell’art 269 comma 2° c.p.c. , che il giudice abbia il potere discrezionale di autorizzare o meno la chiamata in causa del terzo da parte del convenuto si può affermare, con fondamento, che il giudice abbia altresì il potere di negare all’opponente la possibilità di chiamare in causa un terzo e che dunque la citazione dello stesso sia subordinata alla sua autorizzazione.

Diversamente opinando invece, ove volesse comunque affermarsi il principio di diritto di cui alla sentenza in commento, si avrebbe la conseguenza di sostenere che i poteri processuali dell’opponente, che è convenuto in senso sostanziale, vengono ridotti dalla iniziativa processuale del ricorrente solo perché egli, invece che agire nelle forme della cognizione ordinaria di cui al secondo libro, ha deciso di agire in via monitoria.

Ma siccome la tesi espressa dalle Sezioni Unite confligge con il dato testuale dell’art 269 comma 2° c.c. e con quanto statuito dalla Corte Costituzionale nella menzionata sentenza n. 80/1997 e merita pertanto di essere rivista, ne consegue che erroneo è anche il principio di diritto espresso dalla sentenza in commento, che dunque merita di essere abbandonato.

Occorre ricordare infatti che la Corte Costituzionale nella sentenza n. 80/1997 scrisse che: “l'art. 269, secondo comma, del codice di procedura civile pone a carico del convenuto, che intenda chiamare un terzo in causa, l'onere di farne dichiarazione nella comparsa di risposta e di chiedere contestualmente al giudice istruttore lo spostamento della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo, stabilendo che il giudice provveda con decreto a fissare la data della nuova udienza. La forma stessa di decreto, che caratterizza il provvedimento, mediante il quale il giudice, senza necessità di contraddittorio, fissa la data della nuova udienza, certamente dimostra che in questo momento, nel quale non viene sentito l'attore, non può essere esercitato alcun potere valutativo intorno all'esistenza dei presupposti della chiamata in causa.

Tuttavia, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice remittente, non è priva di ragionevolezza la previsione della insindacabile facoltà per il convenuto, all'atto della sua prima difesa, di estendere l'ambito soggettivo del processo, ove si consideri che l'attore per primo ha facoltà di convenire in giudizio qualunque soggetto, senza limitazioni di sorta e senza necessità, ovviamente, di autorizzazione alcuna. Per verificare che sia garantita alle parti un'identità di trattamento, la comparazione dei poteri ad esse attribuiti deve essere eseguita con riferimento ad uno stesso momento processuale, il quale, nella fattispecie, è da individuarsi nell'atto in cui ciascuna parte espone introduttivamente le proprie ragioni: in questo momento le parti devono essere poste in grado di compiere le medesime attività con eguali poteri. Ed in effetti, nell'indicato momento, la posizione dell'attore, che può liberamente scegliere i soggetti da convenire in giudizio, è del tutto corrispondente a quella del convenuto, cui è esattamente e correlativamente riconosciuta la facoltà di chiamare in causa qualsivoglia terzo, al quale ritenga comune la causa o dal quale pretenda essere garantito.".

Quindi, così come il convenuto ha diritto di citare in giudizio chi vuole (così come può fare l’attore) pena la affermazione di una sua posizione deteriore rispetto a quella dell’attore, con violazione del principio di parità delle armi di cui all’art 111 comma 2° Cost., tale diritto deve essere riconosciuto all’opponente quale convenuto in senso sostanziale anche nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo.

Quindi, in linea con parte della giurisprudenza di merito (cfr. ex multis Trib Viterbo, sez. distaccata Civita Castellana in ilcaso.it; Tribunale Reggio Calabria, 24 maggio 2004 in Giur. merito 2004, 1944; Tribunale Reggio Calabria, 24 ottobre 2003 in Giur. merito 2004, 920 (s.m.); Tribunale Torino, 31 maggio 2003 in Giur. merito 2003, 2424; Tribunale Salerno, 28 maggio 2003 in Giur. merito 2003, 2425; Tribunale Milano, 28 novembre 2002 in Giur. it. 2003, 1820 Tribunale Firenze, 5 luglio 2001 in Foro toscano 2001, 261), si deve affermare che l’opponente può chiamare direttamente il terzo per la stessa udienza da lui fissata per la comparizione dell’opposto, senza dover chiedere né il differimento dell’udienza (come ritenuto anche dalla giurisprudenza di legittimità) né l’autorizzazione alla chiamata del terzo.

Solo nella fase successiva, sempre utilizzando le parole della Corte Costituzionale, può dirsi infattiche qualunque altra istanza difensiva non può non essere sottoposta al controllo del giudice, al quale è rimessa sia la valutazione della utilità processuale, sia il controllo della tempestività della richiesta, particolarmente incisivo nell'attuale regime di preclusioni. Ed è proprio in tale successiva fase che si colloca la domanda dell'attore di chiamare in causa un terzo, chiamata che, a norma del terzo comma dell'art. 269 del codice di procedura civile, può essere autorizzata dal giudice solo se l'interesse dell'attore alla chiamata sia sorto a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta.".

2. Chiamata in causa di un terzo da parte dell'opposto in assenza dell'autorizzazione del giudice.

Ricollegandoci a tale ultimo inciso della citata sentenza del giudice delle leggi si può apprezzare la correttezza della soluzione data dal giudice piacentino, nella sentenza in commento, alla seconda questione processuale affrontata.

Nel caso di specie è avvenuto che l’opposto (attore in senso sostanziale) ha convenuto in giudizio un terzo, dopo averne richiesto la autorizzazione prima della prima udienza di comparazione delle parti, ma senza attendere che il giudice autorizzasse detta chiamata in causa e che il terzo chiamatoabbia eccepito la irritualità di detta chiamata in causa (almeno ciò sembra evincersi dalla lettura della sentenza in commento).

Esaminando detta questione il giudice piacentino ha statuito, correttamente, a parere di chi scrive, che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo la chiamata del terzo ad opera di parte opposta è subordinata  al rispetto di determinate formalità, dovendo essere formulata entro e non oltre la prima udienza di trattazione, ex art. 183 c.p.c.,  ed autorizzata del Giudice il quale, secondo lapropria valutazione discrezionale, deve verificare se l’esigenza di estensione del contraddittorio al terzo sia derivata dalle difese di parte opponente ed in difetto disattendere l’istanza.

Corretta appare altresì la decisione del giudice là dove ha tratto le conseguenze di tale anomalo modus procedendi utilizzato dall’opposto per chiamare in causa il terzo, dichiarando la nullità della citazione del terzo.

Se è vero che espressamente il legislatore non sanziona con la nullità la citazione del terzo in causa senza autorizzazione e se, a norma dell’art. 156 comma 1° c.p.c., la nullità di un atto può essere pronunciata solamente in caso di espressa comminatoria di legge, tuttavia la stessa deve essere dichiarata, nella fattispecie in esame, pur in assenza di espressa comminatoria di legge, ex art 156 comma 2° c.p.c., in quanto l’atto di chiamata in causa, senza la previa autorizzazione giudiziale,manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo.

Infatti poiché scopo della norma è quello di garantire il perseguimento dell’interesse pubblico, di rango costituzionale, al celere svolgimento del processo, con il conseguente sacrificio della iniziativa processuale della parte ove non giustificata dalle difese della controparte, tale scopo non può dirsi raggiunto dalla chiamata in causa avvenuta in assenza della autorizzazione giudiziale, con la conseguenza che la chiamata effettuata senza detta autorizzazione deve ritenersi affetta da nullità assoluta ed insuscettibile di essere sanata ex art. 157 comma 3° c.p.c. per effetto della mancata proposizione della relativa eccezione da parte del terzo chiamato (peraltro nel caso di specie invecespiegata). Infatti il diritto sotteso al perseguimento di detto scopo non è un diritto che rientra nella disponibilità della parte, che pertanto non può rinunciarvi implicitamente, non eccependo la nullità della chiamata in causa.

Si confronti sul punto, in giurisprudenza, Trib. Mantova 19.2.2004 in www.ilcaso.it., che giunge ad analoghe conclusioni, seppure sulla scorta di argomenti parzialmente differenti.

3. Giurisdizione e azione di surrogazione.

Infine di particolare interesse appare la terza questione trattata nella sentenza in commento.

Il giudice, dopo avere ritenuto ammissibile nell’ordinamento italiano l’istituto della fideiussione alla fideiussione, configurabile qualora il fideiussore si obblighi verso colui che è già fideiussore,per garantirgli, una volta che abbia pagato, la fruttuosità dell’azione di regresso nei confronti del debitore principale, rimanendo terzo rispetto alla prima fideiussione e ritenuto che l’esercizio dell’azione di regresso, ovvero dell’azione surrogatoria nei confronti del debitore originario non sia riconducibile nell’ambito della previsione di cui all’art 5 punto 1 della Convenzione di Lugano, ratificata in Italia con  Legge 198 del 1992, non vertendosi nell’ambito di “materia contrattuale” e non sia riconducibile nell’ambito del successivo punto 3 dello stesso articolo in tema di delitti e di quasi delitti, traendo origine da previsione di legge, ha ritenuto che, nel caso di specie, la autorità giudiziaria italiana adita fosse carente di giurisdizione, essendo la opponente sedente in Svizzera.

Dalla sentenza in commento si evince che la società ricorrente opposta Nordmeccanica s.p.a. aveva prestato fideiussione alla Banca Monte dei Paschi di Siena fino alla concorrenza di lire 500.000.000, la quale a sua volta aveva prestato fideiussione in favore della Banca Popolare di Sondrio, sede di Lugano, con riguardo al finanziamento per tale importo da quest’ultima  concesso in favore della società Machinery and Plastic Packaging Holding sa., corrente in Lugano (Svizzera), e che la banca Popolare di Sondrio aveva escusso la fideiussione nei confronti della Banca Monte dei Paschi di Siena, a seguito del mancato ripianamento dell’esposizione contratta dalla società odierna attrice, alla quale  aveva successivamente revocato l’affidamento, e che la Nordmeccanica s.p.a., a sua volta richiesta dalla banca garantita Monte dei Paschi, aveva provveduto a corrispondere lo stesso importo in favore di quest’ultima,  richiedendo poi, nel presente giudizio, in via di regresso, la somma in contestazione nei confronti della società elvetica sopra indicata.

Del tutto correttamente, a parere di chi scrive, il giudice ha qualificato la fideiussione prestata dalla Nordmeccanica s.p.a. quale fideiussione alla fideiussione (istituto non codificato, ma pacificamente ammesso in giurisprudenza nelle rare pronunce che si sono occupate del tema - cfr. tra le altre la approfondita Cass. 6808/2002) e non quale cofideiussione, non avendo la stessa prestato fideiussione unitamente alla banca Monte dei Paschi per garantire il debito assunto nei confronti della Banca Popolare di Sondrio dalla Machinery and Plastic Packaging Holding sa, né quale fideiussione del fideiussore, non avendo la stessa garantito l'adempimento dell'obbligazione del primo fideiussore, essendosi invece obbligata nei confronti del fideiussore Monte dei paschi di Siena per garantirgli, una volta che egli avesse pagato, la fruttuosità dell'azione di regresso nei confronti del debitore principale.  

Da tale corretta qualificazione il giudice ha fatto derivare corrette conseguenze in ordine alla carenza di giurisdizione del giudice italiano.

Occorre ricordare che in linea generale la convenzione di Lugano del 16 settembre 1988, ratificata in Italia con  Legge 198 del 1992 (essendo la fattispecie de qua, ratione temporis, regolata da detta convenzione e non dalla convenzione conclusa a Lugano il 30 ottobre 2007, entrata in vigore per l’Italia il 1° gennaio 2010 e per la Svizzera il 1° gennaio 2011, ai sensi dell’art 69 commi 5 e 6 della stessa) prevede quale criterio di collegamento generale per l'individuazione del giudice competente a risolvere una controversia quello del domicilio del convenuto. A tale principio generale, solo quale facoltà aggiuntiva, la disciplina in questione prevede casi tassativi in cui il convenuto può essere citato in giudizio in uno Stato diverso da quello in cui il medesimo ha il proprio domicilio: icd. fori speciali o alternativi (cfr. Cass. S.U. Ordinanza, 25/11/2011, n. 24906).

Nel caso di specie non possono ritenersi sussistenti i criteri speciali in forza dei quali la opposta ha dedotto la sussistenza della giurisdizione della autorità giudiziaria italiana adita.

Infatti, posto che la fideiussione alla fideiussione è una autonoma fideiussione rispetto alla fideiussione prestata dal primo fideiussore e dà vita ad un autonomo contratto di fideiussione, concettualmente ed ontologicamente autonomo rispetto a quello che lega il fideiussore al debitore principale, per quanto, generalmente, funzionalmente collegato allo stesso, ne deriva che non può dirsi sussistere la competenza (giurisdizione secondo la nozione di diritto interno) della autorità giudiziaria italiana adita ai sensi dell’art 5 dell’art 5 punto 1 della Convenzione di Lugano del 16 settembre 1988, che prevede che il convenuto domiciliato nel territorio di uno Stato contraente può essere citato in un altro Stato contraente: 1) in materia contrattuale, davanti al giudice del luogo in cui l'obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita.

Infatti non essendo la Nordmeccanica s.p.a. e la Machinery and Plastic Packaging Holding sa legate da alcun rapporto contrattuale, essendo le due fideiussioni suddette, come detto, del tutto autonome,non può trovare applicazione detta disposizione, se si considera che la Suprema Corte nell’interpretare la identica disposizione della convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, sulla scorta della giurisprudenza della  Corte di Giustizia delle Comunità Europee, ha costantemente affermato che con la nozione di materia contrattuale vada intesa comericomprendente ogni fattispecie in cui esista un obbligo liberamente assunto da una parte nei confronti dell’altra, tanto che nell’esaminare una fattispecie, per certi versi analoga a quella in esame, ha statuito in forza della interpretazione vincolante data, con la sentenza in data 5 febbraio 2004, dalla CGCE, cui era stata rimessa la relativa questione interpretativa, che l'art. 5 n. 1 della Convenzione deve essere interpretato nel senso che nella nozione di "materia contrattuale" non è ricompresa l'obbligazione della quale il fideiussore, che in forza di un contratto di garanzia stipulato con lo spedizioniere abbia pagato i tributi doganali, chieda in giudizio l'adempimento in surrogazione nei diritti dell'amministrazione doganale ed in via di regresso nei confronti del proprietario della merce importata, qualora quest'ultimo, che non è parte del contratto fideiussorio, non abbia autorizzato la conclusione di detto contratto e dunque ha escluso che la materia contrattuale potesse essere estesa a ricomprendere fattispecie, pur astrattamente contrattuali, nelle quali però la domanda fosse proposta dall’attore nei confronti di una parte alla quale non era legata da alcun vincolo contrattuale.

Né può trovare applicazione la disposizione di cui all’art. 5 punto 3 delle convenzione che prevede che il convenuto domiciliato nel territorio di uno Stato contraente può essere citato in materia di delitti o quasi-delitti, davanti al giudice di altro Stato contraente del luogo in cui l'evento dannoso è avvenuto.

Infatti  alla luce della giurisprudenza della CGCE il criterio dettato dall'identico art. 5 n. 3 della Convenzione di Bruxelles citata stessa che fa riferimento alla categoria dei delitti e quasi delitti (abbandonato nell'art. 5 n. 3 del regolamento del Consiglio del 22 dicembre 2000 n. 44/2001 in favore del riferimento agli illeciti civili dolosi o colposi) deve essere interpretato non come categoria residuale nella quale rientrano tutte le fattispecie non sussumibili nella materia contrattuale, ma solo quelle caratterizzate da una parte sì dalla non riconducibilità alla materia contrattuale ma dall’altro da un ulteriore requisito costituito da uno specifico titolo di responsabilità per danni derivati dalla lesione di un diritto (si veda tra le altre Cass. SU 13905/2004).

Quindi non tutte le obbligazioni non attinenti alla materia contrattuale sono soggette al criterio di collegamento di cui all'art. 5 n. 3, esegesi che finirebbe per configurare quella dei delitti e quasi delitti come una categoria residuale, definita per sottrazione rispetto a quella contrattuale, postulandosi oltre a ciò, affinché possa operare il criterio di collegamento in esame, uno specifico riferimento all'area dell'illecito civile. Infatti dal momento che la Corte di Giustizia ha in più occasioni rilevato che l'opzione offerta all'attore dall'art. 5 n. 3 della Convenzione trova il suo fondamento nell'esistenza di un collegamento particolarmente stretto tra una determinata controversia e giudici diversi da quelli dello Stato del domicilio del convenuto, tale da giustificare un’attribuzione di competenza, ai fini della buona amministrazione della giustizia e di economia processuale, tale criterio deve essere interpretato in maniera aderente all’esigenza che il convenuto sia posto ragionevolmente in grado di prevedere davanti a quale giurisdizione, oltre quella dello Stato del suo domicilio, possa essere citato, con la conseguenza che lo stesso non può essereinterpretato in maniera tanto estesa da svuotare di contenuto il principio generale della competenza del giudice dello Stato contraente nel cui territorio il convenuto ha il proprio domicilio in favore della competenza del giudice del domicilio dell’attore, considerato con sfavore dalla Convenzione.

Ma se così è, non potendosi qualificare la azione proposta dalla parte ricorrente opposta come rinveniente il suo fondamento in un illecito commesso dalla opponente, trovando il suo fondamento nella legge, in un diverso fatto idoneo in conformità all’ordinamento giuridico a produrre l’obbligazione secondo la previsione dell’art. 1173 c.c., correttamente il giudice piacentino ha ritenuto insussistente la competenza, ha declinato la giurisdizione della autorità giudiziaria adita.

4. Non sempre i buoni frutti maturano velocemente

Infine un’ultima notazione: la sentenza in esame, emessa nelle forme di cui all’art 281 sexies c.p.c., che chiude la controversia in rito, viene depositata a quasi dieci anni dalla proposizione della domanda in via monitoria (essendo il decreto ingiuntivo del 16 giugno 2004, come si legge nella stessa). Sebbene la stessa sia pregevole, la sua pronuncia è l’emblema della disfunzione del sistema, che in troppi casi non riesce a decidere, neppure controversie in mero diritto, in tempi ragionevoli. Ma non conoscendosi i motivi per i quali ciò sia avvenuto nel caso di specie, nessun commento può essere fatto, al dì là di tale amara constatazione.

 

20/01/2014
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