Magistratura democratica

Una ricerca sulla cultura giuridica dei giovani magistrati

di Costanza Agnella

Il contributo presenta gli obiettivi, la metodologia e un quadro complessivo dei risultati della ricerca sulla giovane magistratura, oggetto di questo numero monografico. I risultati della ricerca vengono analizzati in modo maggiormente approfondito nei contributi di Claudio Sarzotti, Costanza Agnella, Cecilia Blengino, Chiara De Robertis, Michele Miravalle, Giovanni Torrente, Daniela Ronco, componenti del gruppo di ricerca.

1. Oggetto della ricerca e metodologia / 2. Descrizione del campione / 3. I risultati della ricerca: opinioni, orientamenti ed esperienze della giovane magistratura / 3.1. Le motivazioni alla base delle scelte professionali / 3.2. Formazione accademica, concorso ed esperienze post lauream / 3.3. Il lavoro del magistrato / 3.4. I giovani magistrati e gli organi di autogoverno della magistratura / 3.5. La riforma dell’ordinamento giudiziario / 3.6. L’associazionismo

 

1. Oggetto della ricerca e metodologia 

Oggetto dello studio è la cultura giuridica[1] di quella che è stata definita, nell’ambito della ricerca, la giovane magistratura, in quanto corrispondente ai magistrati che hanno conseguito fino alla seconda valutazione di professionalità ai sensi del d.lgs n. 160/2006, con particolare riferimento alle opinioni sulla professione del magistrato e alle esperienze formative e professionali. Il campione della ricerca comprende magistrati selezionati tra coloro i quali sono stati nominati con decreto ministeriale tra il 2013 e il 2021. L’interesse per i giovani magistrati nasce dalla sensazione diffusa, nel mondo dei giuristi e non solo, che negli ultimi decenni si siano verificate profonde trasformazioni nel modo di concepire la figura del magistrato, ma che esse siano state scarsamente indagate anche rispetto alle loro conseguenze in termini di propensione ad impegnarsi nella dimensione associativa della professione. 

La ricerca empirica, di carattere socio-giuridico, è stata condotta con un metodo qualitativo, tramite l’utilizzo dello strumento dell’intervista semi-strutturata e del focus group[2]. Tali strumenti sono stati scelti in quanto consentono di «acquisire una rappresentazione accurata dell’esperienza» dei soggetti studiati[3]. Si tratta di strumenti di indagine particolarmente adatti a sondare aspetti della realtà sociale e culturale ancora scarsamente analizzati, che consentono di porre le basi euristiche per successive ricerche di carattere quantitativo su campioni più ampi.

Nell’ambito della ricerca, dal mese di aprile 2022 al mese di febbraio 2023 sono state condotte 41 interviste discorsive (o semi-strutturate) e sono stati realizzati tre focus group. L’intervista discorsiva è uno strumento della ricerca qualitativa che consiste in una conversazione tra intervistatore e intervistato finalizzata a uno scopo conoscitivo, volto a comprendere la prospettiva dell’intervistato e a cogliere il suo punto di vista. L’intervistatore guida l’intervista, stabilendo «gli obiettivi cognitivi della conversazione» e dettando «il ritmo ponendo domande cui l’intervistato o l’intervistata sono chiamati a rispondere»[4]. La conduzione dell’intervista avviene sulla base di una “traccia”, organizzata secondo temi principali e sotto-domande di approfondimento. Gli individui da intervistare possono essere reclutati dal ricercatore o anche da un mediatore, «una persona che intrattiene una relazione con la popolazione in studio e può presentare ai potenziali partecipanti le finalità dello studio»[5]. Dopo aver individuato le persone da intervistare, l’intervistatore le rassicura sulla confidenzialità dell’intervista e precisa che essa si configura come «una conversazione – online o in presenza – sui temi sui quali l’interlocutore è competente e che potrà gestire come meglio crede»[6]. Il conduttore avvia l’intervista a partire da uno dei macro-temi, e pone le domande di approfondimento solo nell’eventualità in cui l’intervistato non abbia risposto in modo approfondito alle domande principali, assicurandosi di adottare un atteggiamento di «ascolto, accettazione e sostegno dei discorsi che chi ci sta di fronte consegna»[7]

Nella traccia di intervista adottata nell’ambito della ricerca sono stati trattati i seguenti macro-temi: 

1. il percorso formativo e professionale antecedente al concorso in magistratura;

2. le motivazioni alla base della decisione di intraprendere tale percorso professionale;

3. il momento dell’inserimento in ruolo e le funzioni svolte al momento dell’intervista;

4. alcuni approfondimenti sull’esperienza vissuta sino all’intervista, con particolare riferimento al momento del concorso per l’ingresso nella magistratura e alla formazione universitaria ricevuta;

5. la formazione – iniziale e permanente – presso la Scuola superiore della magistratura;

6. le opinioni e le percezioni relative all’attività dell’organo di autogoverno della magistratura;

7. il rapporto con l’associazionismo della magistratura;

8. il futuro professionale.

Come poco sopra anticipato, sono stati condotti tre focus group. Si tratta di uno strumento della ricerca sociale di tipo qualitativo, che «consegna al ricercatore un insieme di discorsi centrati su un tema che viene individuato e proposto [a un gruppo limitato di partecipanti] da chi conduce la discussione»[8]. Il focus group è condotto da un moderatore, che propone al gruppo alcuni temi da dibattere e stimola/modera la discussione tra i partecipanti, e da un osservatore, che ha il compito di «puntare l’attenzione sull’interazione dei partecipanti fra loro e con il moderatore»[9]. Nell’ambito del focus group, è rilevante non solo quanto affermato dai partecipanti, ma anche «l’interazione fra loro, che prende forma, oltre che con i discorsi, con il linguaggio del corpo»[10]. Nel caso di specie, i temi trattati nel corso dei focus group sono stati selezionati dal gruppo di ricerca a partire dai macro-temi della traccia di intervista discorsiva, nello specifico:

- le motivazioni alla base della scelta di svolgere la professione del magistrato;

- la rappresentazione della magistratura antecedente allo svolgimento del concorso;

- l’approccio al mondo della professione;

- le opinioni sulla formazione ricevuta antecedentemente allo svolgimento del concorso per l’ingresso in magistratura;

- le opinioni sull’associazionismo nella magistratura.

Come si è accennato, il campione è costituito da 41 magistrati coinvolti nell’ambito delle interviste discorsive. Ai tre focus group hanno partecipato, rispettivamente, 7 magistrati (focus group n. 1), 7 magistrati (focus group n. 2), 5 magistrati (focus group n. 3). I magistrati appartenenti al target di riferimento che hanno partecipato alla ricerca sono quindi, in totale, 60. Il campione è stato reclutato grazie alla mediazione di un gruppo di magistrati, a loro volta corrispondenti al target della ricerca, sulla base dei criteri di seguito richiamati:

a) criteri per il reclutamento dei magistrati partecipanti alle interviste:

- rappresentazione in misura il più possibile paritaria tra i due generi;

- selezione di magistrati provenienti dal Nord, dal Centro e dal Sud della Penisola, possibilmente in sedi diverse da quelle dei magistrati partecipanti ai focus group;

- rappresentazione della magistratura civile, penale, di sorveglianza, minorile, del lavoro, etc.;

- nell’ambito penalistico, rappresentazione di magistrati che esercitano funzione giudicante e di magistrati che esercitano funzione requirente;

b) criteri per il reclutamento dei magistrati partecipanti ai focus group:

- selezione di magistrati che provengono dal medesimo contesto territoriale, ovvero la città o dintorni dei luoghi di svolgimento del focus group;

- rappresentazione in misura il più possibile paritaria tra i due generi; 

- rappresentazione, per quanto possibile, di settori diversi e funzioni diverse;

- evitare la compresenza nello stesso focus group di magistrati in rapporto gerarchico (sia formale che informale).

Mediatori nel reclutamento dei partecipanti alla ricerca sono stati i “pari” dei magistrati oggetto della ricerca. Per quanto concerne le interviste, dopo un primo contatto con i partecipanti avvenuto su iniziativa dei mediatori, nominativi e contatti sono stati trasmessi a un referente del gruppo di ricerca, che, tramite posta elettronica in un primo momento e per mezzo di una telefonata in un secondo momento, ha precisato le finalità e le modalità di svolgimento dell’intervista discorsiva. Per quanto riguarda i focus group, due (nn. 1 e 2) sono stati condotti con magistrati in servizio nel Sud Italia, e uno (n. 3) è stato condotto con magistrati in servizio nel Nord Italia. Anche in questo caso, il reclutamento è stato effettuato da giovani magistrati “pari” dei partecipanti alla ricerca.

Le interviste, della durata media di circa un’ora, sono state condotte prevalentemente con il metodo delle interviste “a distanza (online) sincrone” video[11]: 37 interviste sono state condotte adottando tale modalità e 4 interviste sono state svolte in presenza. Il gruppo di ricerca si è interrogato sull’opportunità di adottare tecniche di intervista ibride: la letteratura sulla metodologia della ricerca sociale riflette da tempo sull’utilizzo di tali strumenti e, soprattutto dopo la pandemia da Covid-19, i contributi sul tema si sono resi maggiormente urgenti[12]. Sono stati individuati vantaggi e svantaggi con riferimento alle interviste sincrone online, che sono paragonabili in tutto e per tutto a una videochiamata o teleconferenza[13]. Nel caso di specie, dopo avere sperimentato entrambi i metodi nell’ambito delle prime interviste, il gruppo di ricerca ha ritenuto che gli svantaggi dell’intervista online, in particolare il rischio di una interazione poco fluida, fredda, che ostacola chi non ha dimestichezza con le nuove tecnologie[14], e quello di non riuscire a cogliere gli elementi del contesto in cui è inserito l’intervistato[15], non avrebbero superato i vantaggi. Infatti, in generale, i giovani magistrati intervistati hanno dimostrato sin dalle prime interviste condotte online una certa dimestichezza nell’utilizzo degli strumenti informatici – che, peraltro, essi utilizzano anche nel lavoro. Inoltre, data la mole degli impegni lavorativi del campione degli intervistati, le tecniche di intervista ibride hanno consentito una maggiore flessibilità nell’organizzazione delle interviste e, in alcuni casi, favorito la possibilità di organizzarle. Alcuni intervistati, principalmente magistrati che esercitano funzioni giudicanti, hanno preferito programmare l’intervista in un momento in cui si trovavano a casa, luogo in cui – hanno precisato alcuni – talvolta si trovano a lavorare, specialmente quando si dedicano alla scrittura di sentenze. Il setting online in taluni casi, anche se non sempre, ha favorito un’interazione confidenziale tra intervistatore e intervistato, al contrario di quanto avvenuto in alcune interviste svolte in presenza, caratterizzate «da un maggior grado di sacralità e dal vincolo informale alla prosecuzione dell’intervista»[16]. Inoltre, l’adozione dell’intervista online ha consentito al gruppo di ricerca di svolgere, con magistrati in servizio in tutta Italia, un numero di interviste decisamente superiore a quanto inizialmente prospettato insieme al committente[17].

I focus group, che hanno avuto una durata media di due ore e quindici minuti, sono invece stati realizzati in presenza: nonostante vi siano riflessioni metodologiche a supporto della possibilità di svolgere focus group online[18], il gruppo di ricerca ha ritenuto, data la complessità della gestione dell’interazione tra diversi partecipanti, di condurre tutti i focus group in presenza. 

 

2. Descrizione del campione

Sono stati intervistati 23 donne e 18 uomini. Ai tre focus group hanno partecipato, in totale, 9 donne e 10 uomini e, rispettivamente: 4 donne e 3 uomini al focus group n. 1; 3 donne e 4 uomini al focus group n. 2; 2 donne e 3 uomini al focus group n. 3. In totale, pertanto, hanno partecipato alla ricerca 32 donne e 28 uomini.

Per quanto concerne la composizione regionale del campione, i magistrati che al momento delle interviste prestavano servizio nelle Regioni del Nord erano 14[19]; 5 erano in servizio presso le Regioni del Centro[20]; 22 erano in servizio presso le Regioni del Sud[21].

 

 

 

 

 

 

 

 


Grafico relativo ai magistrati in servizio per regione - Interviste

 

Il campione è stato particolarmente variegato sotto il profilo degli anni di servizio: alle interviste hanno partecipato 4 magistrati nominati magistrati ordinari con dm 2 maggio 2013; 5 nominati con dm 20 febbraio 2014; 4 nominati con dm 18 gennaio 2016; 10 nominati con dm 3 febbraio 2017; 4 nominati con dm 7 febbraio 2018; 11 nominati con dm 12 febbraio 2019; 2 nominati con dm 3 gennaio 2020; 1 nominato con dm 2 marzo 2021. Circa il 68% dei magistrati che hanno partecipato alle interviste sono quindi destinatari di un decreto di nomina datato dal 2017 al 2021. I magistrati dotati di un’esperienza professionale maggiormente prolungata nel tempo – ossia coloro i quali sono destinatari di decreti di nomina approvati tra il 2013 e il 2016 – costituiscono comunque una fetta consistente degli intervistati (circa il 32%).

Ai focus group nn. 1 e 2 hanno partecipato esclusivamente magistrati nominati dal 2017 al 2020: al focus group n. 1 hanno partecipato 2 magistrati nominati con dm 3 febbraio 2017, 4 nominati con dm 7 febbraio 2018, 1 nominato con dm 3 gennaio 2020; il focus group n. 2 ha interessato 2 magistrati nominati con dm 3 febbraio 2017 e 5 magistrati nominati con dm 12 febbraio 2019; al focus group n. 3 hanno partecipato soprattutto magistrati destinatari di dm di nomina maggiormente risalenti (2 nominati con dm 2 maggio 2013 e 1 nominato con dm 20 febbraio 2014). Vi sono, poi, un magistrato nominato con dm 18 gennaio 2016 e un solo magistrato nominato con dm 12 febbraio 2019.

Tra gli intervistati, 31 magistrati esercitavano al momento dell’intervista la funzione giudicante, di cui 2 svolgevano la funzione di giudice di sorveglianza, e 9 la funzione requirente. Uno solo degli intervistati era magistrato ordinario in tirocinio al momento dell’intervista: anch’esso, terminato il periodo da MOT, sarebbe stato assegnato a un ufficio di sorveglianza. Tra gli intervistati, 17 svolgevano la funzione giudicante nel settore civile e 11 la funzione giudicante nel settore penale. Un magistrato intervistato esercitava la funzione giudicante sia nel settore civile che nel settore penale. Nel settore civile, tra gli intervistati figurano, al momento dello svolgimento delle interviste, 3 giudici in servizio presso la sezione lavoro e 1 giudice in servizio presso la sezione immigrazione. 


N.    FUNZIONE     SETTORE
1     Giudicante      Penale
2     Giudicante      Civile
3     Requirente      Penale
4     Giudicante      Civile
5     Giudicante      Penale
6     Giudicante      Civile
7     MOT                Sorveglianza
8     Requirente      Penale
9     Giudicante      Penale
10   Giudicante      Civile
11   Giudicante      Penale
12   Giudicante      Penale
13   Giudicante      Civile
14   Requirente      Penale
15   Giudicante      Civile
16   Giudicante      Civile
17   Giudicante      Penale
18   Giudicante      Penale
19   Giudicante      Civile
20   Requirente      Penale
21   Requirente      Penale
22   Giudicante      Sorveglianza
23   Giudicante      Civile
24   Giudicante      Penale
25   Requirente      Penale
26   Giudicante      Civile
27   Giudicante      Civile
28   Giudicante      Civile
29   Giudicante      Penale
30   Requirente      Penale
31   Giudicante      Civile
32   Requirente      Penale
33   Requirente      Penale
34   Giudicante      Penale
35   Giudicante      Civile
36   Giudicante      Penale
37   Giudicante      Civile
38   Giudicante      Civile
39   Giudicante      Civile
40   Giudicante      Civile/Penale
41   Giudicante      Sorveglianza


Elenco 1: riepilogo funzioni e settori - Interviste

 

I 7 magistrati che hanno partecipato al focus group n. 1 esercitavano in 5 la funzione requirente e in 2 la funzione giudicante nel settore civile (di cui uno nel settore lavoro). I 7 magistrati che hanno partecipato al focus group n. 2 esercitavano in 4 la funzione giudicante, di cui 3 nel settore penale e 1 nel settore civile. Al momento della realizzazione del focus group, 3 magistrati esercitavano la funzione requirente. Al focus group n. 3 hanno partecipato 5 magistrati che esercitavano la funzione giudicante, dei quali 4 la funzione giudicante nel settore civile (di cui 2 nel settore lavoro) e 1 la funzione giudicante penale presso la sezione gip/gup.


FOCUS GR.   FUNZIONE    SETTORE
1                    Requirente    Penale
1                    Giudicante    Civile
1                    Requirente    Penale
1                    Requirente    Penale
1                    Requirente    Penale
1                    Giudicante    Civile
1                    Requirente    Penale
2                    Requirente    Penale
2                    Requirente    Penale
2                    Giudicante    Penale
2                    Giudicante    Civile
2                    Requirente    Penale
2                    Giudicante    Penale
2                    Giudicante    Penale
3                    Giudicante    Civile
3                    Giudicante    Civile
3                    Giudicante    Civile
3                    Giudicante    Civile
3                    Giudicante    Penale


Elenco 2.: riepilogo funzioni e settori - Focus group

 

3. I risultati della ricerca: opinioni, orientamenti ed esperienze della giovane magistratura

 

3.1. Le motivazioni alla base delle scelte professionali

A) L’ingresso in magistratura

Nel corso delle interviste e dei focus group, è stato affrontato l’argomento delle motivazioni che hanno condotto i partecipanti alla ricerca a scegliere di dedicarsi alla preparazione del concorso in magistratura. 

Le riflessioni degli intervistati su questo aspetto fanno emergere tre approcci. 

Un primo approccio, condiviso da un numero significativo di intervistati, è quello di coloro i quali hanno specificato di aver «sempre» (interviste nn. 1 e 40) voluto sostenere il concorso in magistratura. 

Di seguito, alcune considerazioni dei partecipanti alla ricerca in linea con questo frame narrativo:

«Ho sempre voluto fare il magistrato, non saprei dire perché, (…) cioè vedevo questo ambiente che mi circondava, erano gli anni in cui c’erano molte fiction, anche quando ero ragazzina, su Falcone, su Borsellino, sui grandi magistrati di un tempo, e quindi era un ideale, un modello ideale il poter contribuire con questo lavoro alla giustizia e al progresso della società tramite l’amministrazione della giustizia» (intervista 1);

«Io mi sono iscritto a Giurisprudenza già con l’idea di fare il magistrato. Le dico sinceramente, forse all’epoca, in fondo dopo la scuola, dopo il liceo… non c’è molto spesso, credo, una coscienza così sviluppata per fare scelte in maniera così oculata, ecco… Probabilmente sono stato influenzato da esperienze familiari, perché ho dei parenti magistrati… e un po’ forse, rivedendo il loro percorso professionale, avevo pensato di seguire le loro orme, quindi sono stato forse anche spinto da quello. In generale, in famiglia ho vari avvocati, insomma, un background giuridico» (intervista 6);

«Fino a quando mi sono iscritta all’università (Giurisprudenza), l’idea di fare il magistrato, se non anche da prima, al liceo, l’ho sempre avuta. Da un punto di vista ideale è una professione che mi ha sempre attirato, diciamo che ero innamorata di questa funzione a livello ideale, e ho perseguito questa mia aspirazione» (intervista 25);

«L’idea del concorso l’ho avuta sì dall’inizio. (…) Sono cose che maturano magari anche quando uno è più piccolo, può essere – non lo so –, durante le superiori, quando si inizia a parlare di mafia nelle scuole, oppure vedere dei film, delle cose… formandosi sui giornali di cronaca giudiziaria… Una cosa che è venuta gradualmente, non c’era un motivo specifico» (intervista 33);

«Diciamo che ho sempre avuto una propensione forse irrazionale verso questo lavoro, nel senso che sono neofita, non ho familiari che in precedenza l’abbiano svolto, né amici o conoscenti stretti, però ero affascinata dall’idea di poter studiare, ma allo stesso tempo mettere in pratica. Mi è sempre piaciuto molto scrivere. È un lavoro che combina la passione per la scrittura, per lo studio, per l’applicazione – come diceva la collega – di principi comunque votati agli altri» (focus group n. 1).

L’ammirazione per il lavoro di alcuni magistrati, sia celebri sia personalmente conosciuti, la presenza di operatori del diritto nel proprio background familiare, la fruizione di prodotti culturali focalizzati sull’approfondimento di questioni relative al mondo della giustizia vengono richiamate dagli intervistati come elementi rilevanti nella propria propensione verso il lavoro di magistrato.

Inoltre, è interessante come alcuni intervistati abbiano dato per scontato che l’ingresso in magistratura sia l’obiettivo maggiormente ambizioso per uno studente di giurisprudenza: «Mi dava questa motivazione in più: sia essere utili alla propria terra, alla propria società, sia conseguire il massimo obiettivo per uno studente di Giurisprudenza; per me, è stato sempre l’obiettivo più alto cui potessi ambire» (intervista 12).

Un secondo approccio è quello condiviso dalla maggioranza dei partecipanti, che non hanno fatto riferimento a un’idea presente da sempre, ma che hanno maturato la decisione di intraprendere il percorso per diventare magistrato tramite esperienze di studio o di lavoro. Coloro i quali hanno mostrato di avere adottato questo tipo di approccio hanno spesso sottolineato due aspetti rilevanti: l’assunzione della consapevolezza di non essere portati per la professione forense e l’affinità personale verso alcune caratteristiche del lavoro del magistrato.

Rispetto al primo elemento, consapevoli che l’avvocatura, in quanto libera professione, è soggetta alle regole del «libero mercato»[22], e contraddistinta da abilità persuasive[23] e «cinismo»[24], molti magistrati partecipanti hanno dichiarato di non avere percepito come affini queste caratteristiche:

«Le caratteristiche dell’avvocato (…) la capacità, in qualche modo, di sapersi proporre, di sapersi valorizzare nel libero mercato degli avvocati, che è (…) una guerra costante… questa cosa la devi saper fare, cioè devi essere abbastanza bravo nel proporti, cosa che (…) non rientra nelle mie caratteristiche… (…) dal punto di vista più, diciamo, di ruolo all’interno della società, il fatto di dover prendere delle posizioni che non sono sempre quelle che poi corrispondono a una propria onestà intellettuale, no? Allora questa cosa la si fa per un ritorno, per un guadagno, per una cosa del genere… Anche questo era quello che poi, in fondo, mi ha spinto a non fare l’avvocato, cioè l’idea di poter essere sempre, tra virgolette, “a posto con la coscienza” dal punto di vista intellettuale, di approccio» (intervista 16);

«mentre facevo l’avvocato, mi rendevo conto di non essere tagliato (…). Mancavo completamente di questo aspetto commerciale, per me andare in udienza da avvocato era un incubo. O cercare clienti… Insomma, quando mi veniva qualcuno in studio che, anche per le cose più banali, cominciavo subito a fare mille problemi – per cui, se sembri insicuro, ovviamente questi prendono e vanno da un’altra parte. E poi, comunque, effettivamente bisogna essere tagliati. Insomma, andare a cercare clienti, riuscire a creare delle relazioni» (intervista 23).

Questi aspetti tipici della professione forense vengono contrapposti dagli intervistati ad alcune caratteristiche associate al lavoro del magistrato, come la stabilità professionale derivante dal posto pubblico in contrapposizione alla libera professione, il grande approfondimento delle questioni giuridiche, l’indipendenza del magistrato di fronte ai casi affrontati:

«Sono nato, forse sono cresciuto in questo mito, non lo so, del posto statale, del posto fisso» (intervista 14); 

«Trovavo insomma questo lavoro, e lo trovo tutt’ora, abbastanza coerente con le mie caratteristiche, le mie propensioni… sia caratteriali – e mi piaceva quindi molto anche quell’idea della terzietà o, comunque, di esser “fuori dalle parti”; per questo ho convintamente scelto di fare il giudice e non il pubblico ministero –, sia di studio… mi piaceva studiare, approfondire gli argomenti, molto più che dibattere nell’agone dell’aula» (intervista 24);

«L’amore per il diritto studiato (…) poi anche applicato con libertà piena di pensiero e di coscienza, cioè rimanendo veramente libera di interpretarlo sulla base… di principi, senza essere un po’ piegati alla logica dell’interesse della parte rappresentata in quel singolo momento. Quindi questo, essenzialmente. E l’aver visto un po’ entrambi i lati applicati in concreto, forse anche per una questione di attitudini… magari anche una capacità relazionale non così spiccata, che è invece sicuramente una dote per chi vuole fare una professione [forense], mi ha anche portato a dire che forse [in magistratura] poteva essere meglio messa a servizio la mia capacità» (intervista 35).

Un gruppo minoritario di intervistati ha specificato invece di aver scelto la magistratura per motivazioni «non ideologiche» (intervista 2; intervista 7), spesso come seconda scelta dopo la conclusione di un altro percorso professionale, in alcuni casi consistente nella carriera accademica. Il lavoro del magistrato viene percepito come affine all’accademia per quanto concerne l’approfondimento delle questioni giuridiche, con il vantaggio di una maggiore stabilità contrattuale. Peraltro, alcuni intervistati che hanno intrapreso la strada della magistratura con questa motivazione ritengono comunque apprezzabili, sotto il profilo ideale, caratteristiche del ruolo di magistrato come l’indipendenza e la grande responsabilità connaturate a tale percorso lavorativo.

Trasversalmente a questi tre approcci, un gruppo minoritario, ma consistente di intervistati ha sottolineato l’utilità sociale del lavoro in magistratura:

«È certo che, dietro questa scelta, c’è anche una spinta di tipo ideale, nel senso di riconoscere comunque che quello del magistrato è un ruolo attraverso il quale si può sicuramente svolgere un servizio molto importante all’interno di una collettività» (intervista 8);

«Probabilmente si è aggiunta anche la fascinazione di quella che poi è l’immagine della magistratura… Come lavoro, come funzione sociale, come possibilità d’intervento nella realtà, nel tessuto sociale… in quello che ci circonda. Quindi, sicuramente, unire tutto questo: la prospettiva di un lavoro fatto di studio, di libri per tutta la vita, alla possibilità d’incidere in maniera diretta… sul funzionamento della nostra società» (intervista 34). 

Altri elementi che alcuni intervistati hanno associato alla magistratura – e in generale alle professioni giuridiche tradizionali – riguardano l’oralità e la capacità oratoria, sottolineando di avere riconosciuto tra le proprie caratteristiche personali tali abilità nel momento della scelta professionale.

In generale, diversi intervistati hanno specificato di aver voluto intraprendere il percorso di pratica forense o altri percorsi professionali prima di superare il concorso in magistratura, per aprire altri sbocchi professionali. 

In linea con quanto messo in luce da Nadio Delai e Stefano Rolando in una recente ricerca[25], si può affermare che le motivazioni ideali, pur non essendo sempre indicate come prioritarie nell’intraprendere la strada del concorso in magistratura, costituiscono comunque un elemento significativo nell’ambito della scelta del percorso professionale.

 

B) La scelta del settore e della funzione

La ricerca si è focalizzata sulle motivazioni alla base della scelta tra settore civile e settore penale. Gli elementi ricorrenti nell’ambito della scelta del settore civile sono: la propensione per l’approfondimento teorico del diritto rispetto alle questioni di fatto, l’autonomia organizzativa, la digitalizzazione del processo civile. 

Il primo elemento riguarda la centralità delle questioni di diritto in ambito civile, ritenuta prevalente rispetto al settore penale, come sottolineato dai seguenti passaggi delle interviste:

«Fondamentalmente, siamo – perdoni l’espressione – dei “topi di biblioteca”. Il giudice civile è uno che fa una, due udienze la settimana, sta sempre sulle carte, parla molto poco, è poco protagonista del processo» (intervista 5);

«Mentre il diritto penale, il processo penale è molto più orientato sulla risoluzione di questioni di fatto, invece il processo civile è molto spesso orientato su… innanzitutto, questioni di diritto e poi, anche, su questioni di fatto» (intervista 6);

«il diritto civile è, spesso, qualcosa di estremamente tecnico (…). Anche il diritto penale chiaramente ha tutta una serie di regole, però è un diritto molto “in fatto”, per cui, come dire: su certe cose, anche l’uomo della strada (…) ne può avere una percezione un po’ più diretta in qualche modo, forse più corrispondente al reale. Del diritto civile mi piace molto quella che è un po’ la verità processuale… Cioè: una verità processuale si stabilisce in base a delle regole, regole processuali (…), allegazioni tempestive, fatte in un certo modo, entro certi termini… quindi, in base a quello che c’è effettivamente (…) agli atti del processo, si decide la causa» (intervista 15);

«[Nel settore civile] il fatto è sulla scena, ma poi emergono le questioni di diritto. Nel diritto penale, invece, è diverso. È il fatto che risulta essere preminente, sul quale poi si innestano ulteriori questioni giuridiche. Però il diritto civile, secondo me, richiede un lavoro di studio, di approfondimento notevole» (intervista 40). 

È stata anche presentata l’idea secondo cui, «mentre il passaggio dal civile al penale dicono sia più semplice, difficile invece sarebbe il passaggio inverso» (intervista 13). E ancora: «chi fa civile riesce in qualche modo ad approcciarsi al penale, o comunque alla procedura penale in maniera più distesa… I colleghi che, invece, fanno penale sono proprio totalmente chiusi rispetto a questa possibilità» (intervista 16).

Per quanto concerne l’autonomia organizzativa, alcuni magistrati hanno evidenziato come il giudice civile tenda a essere meno vincolato all’organizzazione e all’attività dei colleghi dell’ufficio di riferimento, come nel caso della seguente intervista:

«Nel civile comunque, certo, uno è responsabile del proprio ruolo, e limitatamente va a gravare sui colleghi nel momento in cui manca – solo in una certa misura, minore –, mentre nel penale si influisce molto di più sui colleghi perché ci sono i “turni direttissima”, ci sono i collegi penali che si devono interrompere o si deve essere sostituiti da altri colleghi. Questa, pertanto, è stata una delle ragioni per cui ho pensato che passare al civile mi consentiva di essere più autonoma in queste scelte – appunto, magari, di prendermi del congedo parentale» (intervista 2). In questo senso, quello del civilista – specialmente nel caso del giudice monocratico – è stato definito un lavoro «solitario» (intervista 15). 

Correlato al tema dell’organizzazione vi è quello del processo civile telematico, da alcuni ritenuto un aspetto che ha un’influenza positiva sull’organizzazione del lavoro: 

«visto che amo viaggiare leggera, cioè ormai mi porto solo il pc e non ho praticamente un fascicolo cartaceo al seguito, non mi faccio stampare niente, non stampo nulla… Piuttosto perdo la vista, ma preferisco avere tutti gli atti in pdf… Invece, con il penale, si viaggia ancora tanto con faldoni e faldoni cartacei, quindi, finché lavorerò in una sede diversa da quella in cui abito, trovo sinceramente più comodo avere un ruolo di civile» (intervista 15);

«siccome il processo civile telematico è ormai avviato da anni, e devo dire che effettivamente funziona, dà appunto la possibilità di poter lavorare in qualsiasi posto (…); io infatti lavoro a casa come in aeroporto o come in aereo, come in ufficio o in tribunale… Adesso, con l’introduzione delle udienze a distanza, quindi o con trattazione scritta o con modalità telematica, anche qui permette eventualmente di fare le udienze, di provvedere sulle istanze, di depositare provvedimenti anche se uno non è fisicamente in tribunale. Dal punto di vista organizzativo, si tratta di vantaggi che, in questo momento, la funzione giudicante penale – peggio ancora la funzione requirente – non ha» (intervista 28).

D’altro canto, per quanto concerne la scelta del settore penale, una persona intervistata ha richiamato la preponderanza delle questioni di fatto come uno degli aspetti più interessanti nell’ambito del settore: «mentre il civile – il civile che piaceva a me – era il civile di interpretazione del diritto, ma quello ti astrae, ti eleva in qualche misura, ti consente di porti dei problemi appunto “giuridici”, che però ti portano “su”, il penale secondo me un po’ ti porta “giù”, sul fatto; e vedere la varietà dell’umanità… lo trovo interessantissimo, molto, molto bello, mi piace l’udienza, mi piace vedere le persone» (intervista 1). 

Alcuni intervistati hanno associato la passione per il diritto penale alla passione per il valore della giustizia: 

«Sono cresciuta, come penso moltissimi della mia generazione, con le figure di Falcone e Borsellino (…). Quindi, sicuramente, c’è stata una spinta ideale dietro, l’idea che potesse essere un modo per impiegare i miei studi a servizio della collettività» (intervista 8).

Con riferimento alla “Giustizia” con la “G” maiuscola, altri hanno affermato:

«non ho scelto il penale perché volevo brandire la spada della Giustizia, ecco, per intenderci» (intervista 36);

«Ad essere sincero, non ho mai avuto un’esaltazione di questa funzione, nel senso che non ho mai pensato di avere il fuoco sacro per la Giustizia o questo tipo di cose» (intervista 17).

Interessante come una persona intervistata – che attualmente opera nel settore penale, ma che in passato ha operato nel settore civile – abbia voluto esprimere un’idea di giustizia che comprende sia il diritto penale sia il diritto civile: «Tu hai avuto un sopruso mafioso, e va beh, tu aspiri che venga tutelato in quel modo. (...) non è che tutti sono vittime della mafia (…). Cioè, per me dare 2000 euro a chi non si è visto pagare l’affitto con un contratto, o la vendita dell’appartamento, è la stessa cosa che poi punire chi ha avuto una vittima, un’estorsione o un danneggiamento» (intervista 5). 

Soffermandosi sulla scelta tra funzione giudicante e requirente, i magistrati partecipanti alla ricerca hanno descritto la prima come maggiormente riflessiva, connotata dalla responsabilità della decisione finale, e la seconda come particolarmente concitata, connotata dalla responsabilità di dare un imprinting iniziale alle indagini: «non so se sarei sufficientemente adeguata nel decidere bene e in poco tempo, io ho bisogno di leggere, ho bisogno di studiare, cioè, anche il pubblico ministero lo fa, non è che decide tutto così all’acqua di rose; però ci sono delle situazioni in cui deve decidere bene e deve decidere in fretta, e io credo di non… non credo che sarei adeguata, per come sono io di carattere» (intervista 1); 

«[quello del pubblico ministero] è il ruolo d’impulso, è il ruolo di selezione e, chiaramente, da questo punto di vista – anche se paradossalmente non siamo noi a decidere –, siamo quelli che decidono che cosa va davanti al giudice e come ci va, soprattutto. Questa è la cosa importante» (intervista 3);

«Spesso si dice il giudicante, però, deve mettere insieme i pezzi, ha il peso della decisione… e quindi è più difficile. Sì, è vero. Però, secondo me, è anche vero che, intanto, io devo fare il primo vaglio. Cioè, se io decido che il fascicolo X deve essere archiviato, decido sulla vita di una persona e intanto lo archivio. Poi è chiaro: ci sarà un vaglio del giudice, però intanto la prima fase la devi indirizzare tu. Il che vuole anche dire che magari, a volte, è difficile prendere una decisione nell’immediato, perché quella decisione immediata che tu vai a prendere potrebbe essere quella giusta, e indirizzi correttamente le indagini, ma, se sottovaluti qualcosa, magari sbagli e comprometti tutta l’indagine» (intervista 21);

«ci si immagina il pubblico ministero come quello che va in giro, che ha una vita movimentata… ma in realtà (…), a meno che non capiti l’indagine bellissima e stimolante, che ti porta a muoverti… Ma quante ne potranno capitare nella vita? È un lavoro prevalentemente d’ufficio, senza contatto col pubblico e individualistico. A a me piaceva l’udienza, mi è sempre piaciuta l’idea dell’udienza… Oltre all’aspetto di prendere la decisione. Ecco, forse sempre quell’idea – che era la motivazione che mi aveva spinto a fare il concorso e a studiare –: quello che mi piaceva era l’idea di poter incidere sull’evoluzione giurisprudenziale» (intervista 11).

La concitazione che caratterizza il lavoro del pm, secondo l’opinione che alcuni intervistati avevano prima di iniziare il lavoro, avrebbe contratto il tempo destinato all’approfondimento delle questioni giuridiche. D’altro canto, uno degli intervistati non si è mostrato d’accordo con questo approccio, ritenendo che la funzione requirente consista in un lavoro «prevalentemente d’ufficio, senza contatto col pubblico e individualistico» (intervista 11, cit. supra), affermando di avere scelto la funzione giudicante pensando, al contrario, che la medesima avrebbe consentito di trascorrere molto tempo in udienza.

Qualche altro intervistato ha menzionato, come caratteristica positiva del lavoro del pubblico ministero, il compito di svolgere le indagini e la possibilità di interfacciarsi con soggetti diversi, come la polizia giudiziaria:

«Mi affascinava l’aspetto delle indagini (…) mi piaceva la figura del pubblico ministero, e questo rapporto che hai con la polizia giudiziaria (…). Scopri un po’ la storia che sta dietro, mettiamo, a una querela che ti viene presentata, la porti avanti, a volte non arrivi a nulla, altre volte, invece, magari scopri cose che non ti aspettavi. Questo aspetto dell’investigazione, dello scoprire, del mettere insieme i pezzi mi piaceva molto» (intervista 21);

«Caratterialmente, forse sarei anche più affine a una funzione giudicante come tipo d’impostazione; però (…) insomma, essendo giovane, tutta la procura è un ruolo più dinamico, in cui hai a che fare con tante più persone. Il giudice, comunque, sta molto… Il suo è un ruolo molto solitario, molto chiuso in se stesso. Quindi ho detto: beh, avendo davanti quarant’anni di carriera, il tempo per fare il giudice lo avrò – speriamo» (intervista 30).

Anche con riferimento alla scelta tra giudicante e requirente, le motivazioni che hanno spinto alcuni magistrati a scegliere una funzione rispetto all’altra possono essere le medesime che spingono altri a non scegliere quella medesima funzione e viceversa.

 

3.2. Formazione accademica, concorso ed esperienze post lauream

A) La formazione universitaria

Il tema della formazione giuridica è stato affrontato nell’ambito delle interviste e dei focus group realizzati nella ricerca, con l’obiettivo di cogliere la prospettiva dei magistrati partecipanti sulla propria esperienza di apprendimento del diritto in università.

Nello specifico, è stato domandato al campione di esprimere la propria opinione sulla formazione accademica ricevuta ai fini del superamento del concorso in magistratura, ai fini della comprensione delle caratteristiche del lavoro di magistrato, nonché dell’acquisizione di strumenti utili all’ingresso nel mondo del lavoro.

Quasi tutti i magistrati intervistati hanno ritenuto la formazione universitaria ricevuta non idonea o, comunque, non sufficiente ai fini del superamento del concorso in magistratura. Le motivazioni che ricorrono maggiormente tra gli intervistati relativamente a questa posizione sono, principalmente: la mancanza di prove scritte, la carenza di approccio pratico, le carenze nell’approfondimento teorico. 

La scrittura è un aspetto fondamentale nell’ambito del concorso in magistratura: l’assenza di esercizio nella scrittura nell’ambito della maggior parte degli esami universitari va, per molti degli intervistati, a scapito del superamento del medesimo:

«Devo dire che, semmai, mi è servito invece di più il dottorato sull’aspetto della scrittura. Dato che le prime prove sono degli scritti, lì il dottorato è stato utile, perché dà un allenamento alla scrittura di temi giuridici che all’università, invece, si ha solo al momento della laurea. Di esami scritti ne avrò fatti due, in cinque anni di studi» (intervista 33).

Secondo molti intervistati, inoltre, la carenza di approccio pratico nel percorso di studi giuridici renderebbe ostica la comprensione di alcune questioni, soprattutto correlate al diritto processuale. Tali questioni vengono infatti comprese solo al momento del contatto con il mondo del lavoro, tramite tirocini e pratica forense[26], svolti principalmente dopo la laurea. Inoltre, molti intervistati ritengono che l’approfondimento teorico sviluppato nei corsi di laurea in giurisprudenza sia insufficiente ai fini del superamento del concorso: qualcuno ha definito «orizzontale» (intervista 10) lo studio che si affronta all’università: si tratta di studiare molte materie in modo poco approfondito; lo studio richiesto ai fini del concorso è stato invece definito, almeno per quanto riguarda le prove scritte, «verticale» (intervista 10), in quanto esso si concentra su un numero limitato di materie, che tuttavia devono essere approfondite in modo molto dettagliato. Qualcuno degli intervistati ha precisato che il limite dell’approfondimento garantito dall’università si manifesta soprattutto quando le prove scritte del concorso sono particolarmente improntate alle novità giurisprudenziali: questa evenienza tenderebbe a favorire candidati che frequentano i corsi privati di preparazione al concorso, come evidenziato dal seguente intervistato:

«Se tutti si preparano ai corsi privati, ovviamente sale il livello medio di preparazione, perché tu non devi prepararti solo con i tuoi mezzi, con i tuoi strumenti, ma hai qualcuno che già produce per te del materiale, che tu devi solo assimilare; quindi elimini tutta quella parte di ricerca, di acquisizione di materiale… Ricerca, cioè, della sentenza: devi solo studiarla, perché c’è qualcuno che ha già fatto il lavoro preparatorio per te. E, inevitabilmente, questo fa salire il livello» (intervista 7). Gli intervistati che hanno sostenuto questa posizione ritengono che la preparazione fornita dall’università potrebbe essere sufficiente qualora le tracce delle prove scritte tornassero definitivamente a esser mirate, in via principale, a sondare la preparazione generale del candidato, e non a sondare la sua conoscenza in merito alle novità giurisprudenziali. Peraltro, alcuni intervistati ritengono la formazione universitaria, prettamente teorica e generalizzata su molte materie, se non proprio sufficiente, «una buona base» per avviare la preparazione del concorso: 

«Approcciarsi a questi maxi-esami con uno studio, diciamo, soltanto solitario tra te e il libro è quello che ti capita per il concorso. Invece, dove si sconta, secondo me, molto la nostra formazione è sul lavoro, cioè su cosa vuol dire, poi, immaginarsi una professionalità, un mestiere. Su questo c’è un grande scarto, nel senso che non si ha la più pallida idea di cosa voglia dire, secondo me, né fare l’avvocato, che comunque è un lavoro importantissimo, né tantomeno fare il magistrato» (intervista 16). 

«Io direi di sì, perché comunque la facoltà di Giurisprudenza – poi anche il dottorato, ma soprattutto il sostenere esami all’università – dà un allenamento allo studio, anche massivo, scadenzato per sessioni di esami, eccetera, che allena in prospettiva a fare dei concorsi pubblici, anche gestire banalmente la mole di pagine da studiare, dare una tabella… Quella è una cosa che l’università è in grado di anticipare, di formare» (intervista 33).

Il concorso in magistratura si basa per lo più su una conoscenza formalistica e mnemonica delle norme e degli istituti giuridici: per alcuni intervistati la pratica può essere utile, ma non è essenziale per il superamento del concorso. D’altro canto, implementare un approccio orientato al diritto in azione[27] e all’analisi di casi pratici all’università sarebbe funzionale, secondo molti intervistati, a comprendere le caratteristiche del lavoro del magistrato (o dell’avvocato) prima dell’ingresso in magistratura, ma anche ad apprendere competenze utili nell’esercizio della funzione, come la capacità di applicare il diritto alla realtà, la capacità di problem solving, la capacità organizzativa:

«… Delle parentesi pratiche, che facciano comprendere anche allo studente universitario com’è poi concretamente l’attività giudiziaria, (…) questo manca; almeno, a me è mancato totalmente. Forse ora qualcosa è cambiato, ma a me è mancato; le ripeto, non ho avuto… non avevo mai messo piede in un tribunale prima di andare alla scuola di specializzazione. Ora, a prescindere da questo, il tipo di preparazione che l’università ha offerto – sebbene sia stata una preparazione eccellente, io credo veramente ottima (…) ricordo professori di altissimo livello… – comunque rimane troppo teorica e, alla fine, è solo una base per la preparazione del concorso, nulla di più» (intervista 6);

«il problema del sistema universitario italiano, forse anche in altre materie, è l’approccio pratico. Diciamo che all’università… non si scrive mai. Insomma, in cinque anni di corso di studi, forse soltanto in qualche corso – ma è tutto rimesso alla sensibilità e alle impostazioni del singolo docente – si svolgono elaborati pratici» (intervista 11);

«se sono stata contenta di fare questo tirocinio è perché appunto ho potuto toccare con mano (…) una cosa che era completamente immaginata, perché quando uno studia, legge sempre in questi libri: “il legislatore”, “il giudice”… uno si immagina non so che cosa. Appena uscita dall’università, ho potuto constatare che comunque era una cosa che mi piaceva e che è, in effetti, completamente diversa da quella che si immagina e si vede sui libri (…). Non che si rimanga “delusi”… Semplicemente, il passaggio dallo studio alla pratica è molto… almeno io l’ho vissuto in maniera abbastanza… non dico traumatica, però non c’è un passaggio intermedio» (intervista 12);

«[La mia università prevedeva] uno studio molto, molto teorico; per cui, per esempio, studiare le procedure, per carità… Uno ti dice: questo è il precetto, oppure la richiesta di rinvio a giudizio… E ti immagini chissà che robe iperuraniche quando, in realtà, se ci fossero dei laboratori pratici o cose del genere, sarebbe molto più utile studiare. Come fanno un po’ i Paesi anglosassoni, no? Dove fanno tutte queste simulazioni o cose simili. Da me non le ho mai viste e mai sentite» (intervista 23);

«sicuramente [l’università] non prepara (…), ma perché è un lavoro che presenta aspetti manageriali, di gestione del tempo e delle attività, che sono eterogenee, purtroppo anche in supplenza di altre figure che mancano nell’organizzazione dell’amministrazione della giustizia, e l’università per antonomasia non ti prepara a tutto questo. Poi, magari, ti prepara al concorso, però ovviamente non in maniera sufficiente visto il grado di approfondimento – almeno, mi riferisco a quando ho fatto io il concorso. Sono cambiate anche le modalità… Però, ecco, sicuramente no, l’università non prepara. Così come il tirocinio ex art. 73 può dare un’idea, si inizia veramente un po’ ad aprire gli occhi su quello che è l’esercizio concreto della funzione (…). Ma come non ti prepara l’università neanche alla professione di avvocato… c’è molta distanza» (intervista 35).

«Se, sin dall’università, già si cerca di far aprire la mente al giurista pratico, cioè di dire: “guarda che tu poi andrai a fare… l’avvocato; anche all’avvocato questo interessa…”. Queste sono le cose, secondo me, più difficili, anche per il civile, cioè andare proprio sulle cose tecniche extra-giuridiche, ma su cui noi dobbiamo andare per forza… E quindi avere già, insomma, un’apertura mentale in questo senso da parte dello studente. La ritengo una cosa assolutamente apprezzabile» (focus group n. 3).

Sembra che molti magistrati partecipanti auspichino, quindi, l’implementazione di esperienze di apprendimento del know-how, che consiste nel «sapere come fare in casi specifici per risolvere i singoli problemi», anche definito «apprendimento attraverso l’esperienza»[28].

D’altro canto, alcuni intervistati ritengono che l’università non debba necessariamente insegnare gli aspetti concreti della professione del magistrato:

«È giusto che l’università dia un taglio teorico. E il taglio dell’università è teorico. E giustamente, insomma, il taglio pratico… viene dopo, è eventuale. Non tutti quelli che studiano giurisprudenza andranno a fare gli avvocati, i magistrati o i notai. E poi, la pratica… la si apprende sul campo» (intervista 22); 

«Dal punto di vista pratico, non credo che l’università debba insegnare come fare il magistrato, l’università deve insegnare a ragionare. La mia ha assolto perfettamente questa funzione, e così credo tante altre università italiane… Quindi, no, non suggerirei alcunché di differente. Soltanto, costringere lo studente al ragionamento, perché il dramma ormai è l’anestesia delle coscienze. Il magistrato dev’essere una persona preparata, ma anche senziente, perché non può chiudersi all’interno di un ambiente asettico in cui l’erudizione giuridica possa fingere di bastare a se stessa, questo mai. Il magistrato deve calarsi, come dicevo all’inizio, nei drammi della vita quotidiana delle persone…» (intervista 19). 

Affinché la magistratura sia messa nella condizione di «calarsi nei drammi della vita quotidiana delle persone», pare tuttavia necessario «fornire ai magistrati un’adeguata conoscenza della società nella quale agiscono»[29], con la trasmissione di saperi provenienti da campi extra-giuridici quali, ad esempio, la sociologia e la criminologia. A questo stesso fine dovrebbe essere orientata una formazione giuridica mirata all’insegnamento del diritto in azione. 

La formazione del giurista sta attraversando una fase di mutamento. Da una parte, è ancora presente nei corsi di laurea in giurisprudenza una modalità di insegnamento che tende a «ridurre il diritto alla sua validità formale mettendo in secondo piano ogni considerazione sulle questioni che riguardano sia la sua efficacia (…) sia la sua giustizia valoriale»[30], che di fatto riproduce un’idea di diritto «funzionale alla trasmissione aproblematica e acritica di sostanze normative ordinate a sistema e di verità cristallizzate nelle categorie senza tempo della dogmatica»[31]. Dall’altro lato, anche come conseguenza delle sollecitazioni che provengono dallo «Spazio europeo dell’istruzione superiore», si sta assistendo in ambito accademico a un’«inedita riflessione sui metodi della formazione giuridica, i cui primi risultati si intravedono nell’avvio, da parte di diverse università, di laboratori di scrittura giuridica, simulazioni processuali, mootcourts e dal successo riscontrato negli ultimi anni dalle cliniche legali»[32]. Le metodologie didattiche che adottano il metodo learning by doing consentono, infatti, l’apprendimento di competenze, abilità e conoscenze che ricadono nell’ambito del know-how[33] necessario per risolvere problemi specifici nel mondo del lavoro. 

Come si è visto, tuttavia, non mancano intervistati che ritengono che la didattica esperienziale distolga, nell’ambito universitario, l’attenzione dello studente dallo sviluppare la capacità di riflettere criticamente sulle questioni giuridiche affrontate, come quando in un focus group è stato affermato: «la pratica uccide il pensiero» (focus group n. 1). 

Questa preoccupazione sembra essere una conseguenza della diffusione di esperienze di didattica esperienziale esclusivamente fondate sullo sviluppo professionalizzante di abilità e competenze[34]. Alcune metodologie di didattica esperienziale prevedono, peraltro, la compresenza di approccio pratico e riflessione critica sul diritto in azione: in questo senso, con l’educazione clinica legale gli studenti apprendono il diritto tramite il lavoro su casi reali, con l’obiettivo di promuovere l’accesso alla giustizia delle persone in condizione di vulnerabilità sociale[35] e di rendere gli studenti consapevoli del ruolo sociale del giurista[36]. Le cliniche legali consentono la costituzione di «uno spazio di riflessione sulle pratiche esistenti e, al contempo, di promuovere pratiche alternative per garantire giustizia sociale e diritti»[37], con l’obiettivo di formare professionisti riflessivi[38] in grado di comprendere le complessità del diritto in azione[39]. Nell’ambito di uno dei focus group, è emersa una discussione sul metodo clinico-legale e la maggior parte dei magistrati partecipanti si è detta favorevole all’adozione di tale metodo, proprio nell’ottica di sviluppare competenze utili all’esercizio della professione già a partire dall’università.

Solo alcuni tra gli intervistati che ritengono l’università insufficiente alla preparazione del concorso in magistratura hanno anche sostenuto che l’università non abbia il compito di formare gli studenti al superamento del medesimo concorso, dato che i percorsi professionali possibili per un laureato in giurisprudenza sono molteplici. Un gruppo consistente degli intervistati che hanno manifestato l’idea che la formazione accademica sia insufficiente per preparare al concorso auspica, infatti, che la didattica venga integrata con elementi idonei a colmare le carenze pratiche, soprattutto in vista del ritorno della possibilità di sostenere il concorso in magistratura con il solo titolo della laurea in giurisprudenza[40], ma anche in quanto tali carenze penalizzano allo stesso modo gli studenti che intendono intraprendere le professioni di avvocato e di notaio.

 

B) Il concorso

La maggior parte degli intervistati guarda con favore al ritorno del concorso di primo livello, che è rientrato nell’ordinamento giuridico ad opera dell’art. 33 dl 23 settembre 2022, n. 144, al fine di ridurre la distanza tra il conseguimento del titolo di studio e l’avvio del percorso professionale. Molti intervistati hanno ipotizzato che questa previsione normativa favorisca una maggiore accessibilità del concorso in magistratura. In questo senso, è stato sottolineato come il concorso di secondo livello non garantisca l’accesso al concorso a tutti i laureati in giurisprudenza, ma solo a coloro i quali si possono permettere di non lavorare anche per alcuni anni dopo avere conseguito il titolo, come sottolineato dal seguente intervistato:

«Secondo me è estremamente criticabile il fatto che sia un concorso di secondo livello. Che ovviamente determina un’entrata in qualche modo… cioè, fa una prima scrematura per censo. E questo è inevitabile, laddove non tutti possono permettersi di… Diciamo, il minimo per riuscire a partecipare al concorso scritto sono tre anni/tre anni e mezzo dal giorno della laurea. Per avere i risultati, occorre un altro anno, per completare gli orali altri sei mesi, per l’immissione in servizio perlomeno altri sei mesi: stiamo parlando di – minimo – cinque/cinque anni e mezzo dalla laurea» (intervista 7).

Alcuni intervistati hanno auspicato una maggiore “diversificazione sociale” della composizione della magistratura, ritenendo che tale diversificazione possa giovare alla tutela dei diritti dei cittadini: «È necessario che i ranghi della magistratura ricomincino, non totalmente, perché ci sono… siano fortemente e nuovamente implementati da laureati in giurisprudenza che provengono da tutte le classi sociali, innanzitutto» (intervista 20). In alcune interviste sembra emergere, tra le righe, l’opinione che l’accesso alla magistratura sia stato condizionato negli ultimi anni dalle sempre più ampie disuguaglianze socioeconomiche della società globalizzata, e che questo fenomeno possa costituire un serio pericolo per una magistratura che, nel solco del modello dello Stato democratico di diritto, voglia e sappia cogliere le istanze che giungono dai gruppi sociali non privilegiati.

Alcuni intervistati hanno comunque sottolineato che, a loro avviso, sarà molto difficile per un neolaureato superare il concorso in magistratura, perché il livello di approfondimento richiesto nell’ambito di tale concorso è particolarmente elevato. Gli intervistati che si sono espressi in questi termini hanno altresì auspicato che il sistema universitario implementi una formazione specifica per gli studenti interessati a sostenere il concorso in magistratura. Infatti, diversi magistrati intervistati hanno espresso un giudizio prevalentemente negativo sulle scuole di specializzazione per le professioni legali, ritenute troppo generiche, poco orientate alla preparazione al concorso, e anche particolarmente costose. Le criticità sollevate in relazione alle scuole di specializzazione sono state poste in relazione anche all’esistenza dei corsi privati, che da una parte risultano maggiormente utili al superamento del concorso, in quanto consentono una preparazione mirata, ma, dall’altra, sono considerati da parte di molti intervistati come poco accessibili economicamente. 

Agli intervistati è stato anche chiesto di fornire una valutazione ex post della struttura del concorso in magistratura sostenuto, al fine di comprendere se sia ritenuto adeguato alla selezione dei magistrati. La maggior parte degli intervistati ha valutato in modo positivo il concorso e la sua struttura, ritenendolo adeguato alla selezione dei magistrati. Di seguito, alcune opinioni espresse in merito:

«È una delle volte nelle quali mi sono sentito fiero di essere italiano, nel senso che ho riscontrato una serietà assoluta durante il mio concorso; addirittura, controllavano alle ragazze in bagno il reggiseno… Questo per dire che cosa? Che ho sempre creduto, da quando ho studiato un po’, nella meritocrazia e nel fatto che chi ha i meriti è giusto possa emergere in una società, che abbia la possibilità di provare il suo valore, e il concorso in magistratura per me è stato questo. Chiaramente parlo col senno di poi… ma, anche se non l’avessi passato, l’impressione è quella di un concorso estremamente serio ed esigente – giustamente esigente – perché è tanto delicata la funzione che andiamo a svolgere, che è giusto pure che ci siano questi controlli» (intervista 3);

«Ritengo che sia un concorso serissimo, molto ben gestito; poi le storture sono rinvenibili ovunque, però, per come è strutturata attualmente la selezione, secondo me è un concorso che funziona. Parlo anche per quella che è l’esperienza: i colleghi che ho conosciuto in concorso sono persone estremamente preparate ed equilibrate, una qualità, oserei dire, indispensabile per il lavoro del magistrato, quindi ritengo che la selezione sia corretta» (intervista 4):

«[riferito ai magistrati:] comunque si tratta di persone preparate, che sono assolutamente in grado di svolgere questa attività lavorativa, quindi secondo me è un metodo che funziona» (intervista 6).

In generale, gli intervistati ritengono che il concorso in magistratura sia giustamente selettivo e che debba rimanere selettivo anche con il ritorno del concorso di primo livello, per la delicatezza e la complessità della funzione svolta. Peraltro, questi riferimenti alla selettività fondata sull’impegno necessario per acquisire una mole sterminata di nozioni, alla meritocrazia misurata sulla serietà dei controlli per impedire che i candidati “copino” durante le prove scritte, denotano una cultura giuridica ancora profondamente segnata da un’ideologia improntata al positivismo giuridico, in cui il giudice è concepito principalmente come un interprete di testi normativi e il suo sapere come essenzialmente di tipo esegetico.

I tre elaborati scritti che vertono su civile, penale e amministrativo in generale sono stati ritenuti idonei a selezionare i magistrati, poiché l’elaborato scritto consentirebbe una valutazione approfondita della preparazione e dell’abilità del candidato nel ragionamento giuridico. Alcuni hanno suggerito di integrare la prova scritta con uno o due elaborati sulle procedure (civile e penale), data la rilevanza del diritto processuale nella professione del magistrato. Alcuni hanno suggerito di eliminare la prova scritta di diritto amministrativo, in ragione del fatto che tale branca del diritto viene raramente utilizzata nell’ambito del lavoro quotidiano del magistrato ordinario. Come accennato supra, molti intervistati ritengono che le prove scritte debbano ruotare attorno a questioni giuridiche generali, che consentono di sondare non solo la preparazione del candidato, ma anche la sua capacità di collegare diversi ambiti del diritto. In questo stesso senso, molti ritengono che la prova focalizzata sull’ultima sentenza della Corte di cassazione non sia funzionale alla selezione dei candidati idonei, ma solo di quelli che hanno studiato quella specifica sentenza. In ogni caso, la percezione degli intervistati è che negli ultimi concorsi siano state presentate tracce mirate a sondare la preparazione generale del candidato.

Per quanto concerne la prova orale, molti l’hanno definita una prova «psicologica», utile non solo a sondare la preparazione del candidato, bensì a testare la capacità di reggere la tensione dell’aspirante magistrato. A titolo esemplificativo, si veda quanto affermato dal seguente intervistato:

«penso all’orale come a una prova tesa a vagliare la preparazione giuridica, ma anche a vagliare la capacità del candidato di riuscirci, nel senso di sapersela cavare, di saper rispondere reattivamente al problema che viene posto, oltre alla capacità di spaziare da una materia all’altra con facilità, che questo lavoro molto spesso richiede. Mi rendo conto che è una prova dura, ma tutto sommato penso sia un giusto step per vagliare l’idoneità del candidato... Perché comunque è un lavoro di grande responsabilità ed è giusto che sia sottoposto anche a questo tipo di verifica» (intervista 6).

Gli intervistati hanno infatti precisato che, dato che l’orale prevede la preparazione di un numero molto elevato di materie, è impossibile raggiungere un livello approfondito di preparazione su ogni materia. La preparazione per l’esame orale è, quindi, maggiormente superficiale rispetto a quella per le prove scritte. A ciò si aggiunga che la prova orale è talvolta sostenuta a circa un mese e mezzo/due mesi di distanza dalla comunicazione dei risultati delle prove scritte. L’opinione di molti intervistati è che la prova orale serva più che altro a testare la capacità di tenuta psicologica del candidato. Secondo alcuni intervistati, la prova orale presenta delle criticità: per alcuni lo stress cagionato dalla prova orale non è necessario, in quanto questo tipo di prova non consentirebbe di selezionare necessariamente i candidati maggiormente preparati. Inoltre, data la maggiore aleatorietà dell’orale rispetto alle prove scritte, alcuni ritengono critica la previsione secondo cui la valutazione conseguita all’orale contribuisce a determinare la posizione in graduatoria dei candidati idonei, posizione che assume una certa rilevanza anche nella scelta della sede e della funzione di destinazione.

In definitiva, le opinioni degli intervistati si dividono tra coloro i quali ritengono la preparazione della prova orale uno stress non idoneo alla selezione dei magistrati migliori e coloro i quali ritengono che tale prova sia idonea a tale selezione.

 

C) MOT e Scuola superiore della magistratura

Nell’ambito della ricerca, è stato altresì richiesto ai magistrati di esprimere la propria opinione sull’esperienza vissuta come magistrato ordinario in tirocinio e sulla Scuola superiore della magistratura. La maggior parte degli intervistati ha descritto il periodo di formazione da MOT come molto utile ai fini dell’apprendimento dei vari aspetti del lavoro del magistrato, soprattutto per quanto concerne il periodo di tirocinio mirato, finalizzato alla formazione sulla funzione di destinazione all’esito del tirocinio. In generale, il tirocinio è valutato positivamente, perché è un periodo che viene vissuto dopo il superamento del concorso, ma senza il peso della responsabilità del ruolo:

«ma per me è molto utile, sì (…) positivo. (…) utile soprattutto durante il tirocinio generico, perché lì si ha veramente modo di provare “sul campo” tutte le diverse funzioni che uno potrebbe andare a svolgere. E quindi stare a contatto diretto con un collega esperto, vedere in cosa consiste il lavoro, la quotidianità… dà proprio gli strumenti per capire poi qual è la strada che ognuno vuole prendere, ecco. Ho sempre fatto studi, soprattutto in diritto penale, all’università, al dottorato, eccetera… però ero arrivata là abbastanza aperta perché dicevo: non è che se all’università ho avuto la predilezione per una materia, allora… Quindi è stato molto interessante vedere, insomma, in cosa consisteva ogni singola funzione, ogni singola materia specifica. (…) Devo dire che, stando a contatto coi colleghi, uno impara tante cose, scopre ambiti che magari all’università non aveva approfondito, ai quali non aveva mai pensato. Per me è stato molto stimolante. E poi, oltre al contatto con il collega affidatario, è anche molto bello lo scambio che c’è con gli altri MOT, si crea un affiatamento destinato a continuare anche dopo» (intervista 33);

«È molto bello, perché era un momento in cui si faceva gruppo fra le varie corti d’appello… Poi, considera che fai un anno/un anno e mezzo in cui hai comunque uno stipendio assicurato e neanche brutto, responsabilità poca o assente completamente. C’era tutto un aspetto ludico-ricreativo… Quanto alle attività, anche lì: alcune erano molto utili e interessanti (…) perché si distribuisce materiale, si affrontano casi pratici, si creano dei rapporti anche con colleghi, per cui anche adesso, se ho un dubbio, so che la mia stessa materia la fanno dieci del mio concorso, e ci si sente» (intervista 23).

D’altra parte, l’assenza di responsabilità è stata talvolta descritta come una criticità del periodo da MOT, poiché alcuni hanno sostenuto che sia possibile comprendere davvero in cosa consista il lavoro del magistrato solo dopo la conclusione di tale periodo e l’assunzione delle responsabilità del ruolo. Alcuni intervistati hanno, infatti, specificato che gli affidatari da loro ritenuti migliori sono quelli che gli hanno attribuito compiti di responsabilità sin dall’inizio del periodo da MOT:

«Al generico, il mio affidatario alla prima volta [id est: alla prima occasione – ndr] mi ha detto: fai questa udienza, chiama questo processo. Che per me è stato: ma senza preavviso? Così, davanti a tutti? Che è la cosa che, secondo me, bisogna fare durante il tirocinio, (…) l’impatto proprio traumatico con il lavoro. Quindi, al generico, l’avevo fatto, paradossalmente. Mentre al mirato… sarà che è un tribunale molto giovane – il più anziano è alla prima valutazione ottenuta l’anno scorso –, un tribunale dove c’è molto ricambio, (…) un carico abbastanza importante di lavoro, (…). Al generico ho avuto questa opportunità; al mirato sono stata con un altro giudice, che invece mi ha sempre un po’ più “preservata”, (…) non mi ha mai fatto fare un’udienza dall’inizio alla fine e questa sarebbe stata secondo me… Se mai mi capiterà di avere dei tirocinanti, dei MOT, sarà la prima cosa che farò perché, dalla mia esperienza, è la cosa che più ti insegna, da cui puoi trarre più utilità» (intervista 12);

«È una figura, il MOT, veramente “senza arte né parte”: non sanno dove metterti, sei lì, guardi… Cioè, il tirocinante ha la sua struttura, no? Adesso ci sono gli UPP, hanno la loro struttura; il MOT è lì… Tra l’altro, tutti si aspettano che tu magari sappia di più, ma in realtà sei anche tu bisognoso di formazione, no? Quindi lì vivi un po’ una fase che, da un punto di vista professionale, a me non ha entusiasmato. Ho avuto la fortuna di avere degli affidatari molto bravi, ed è stata una fortuna, diciamo, personale, quindi ho imparato più dal comportamento del magistrato che… (…). A mio parere, non è una fase ben pensata sulle esigenze formative. Insomma, dipende da chi trovi come affidatario» (intervista 36).

Alcuni partecipanti alla ricerca hanno quindi sottolineato che il tipo di formazione ricevuta come MOT dipende dal magistrato affidatario a cui si viene assegnati. In questo senso, alcuni magistrati hanno anche precisato di aver compreso che tipo di magistrato avrebbero voluto o non voluto diventare proprio guardando all’affidatario. Secondo questa percezione, i magistrati affidatari trasmetterebbero al MOT non solo conoscenze, abilità e competenze, ma anche un esempio, un modello di magistrato, che il giovane magistrato può scegliere di far proprio o di rifiutare:

«Il tirocinio ci è servito molto per farci vedere che magistrati volevamo diventare e che magistrati non volevamo diventare. Perché abbiamo sicuramente tutti quanti noi avuto esperienze con colleghi che vedevano magari la professione molto diversamente da come la vediamo noi. Io ho avuto anche come ispirazione questi colleghi, come a dire: non voglio mai diventare come lui» (focus group n. 1).

Rispetto alla Scuola superiore della magistratura, ne è stata spesso messa in luce l’utilità come luogo d’incontro tra magistrati che provengono da territori, contesti ed esperienze diversi:

«È una grande esperienza aggregativa, che credo sia comunque molto utile, permettendo di comprendere meglio altre realtà territoriali, di conoscere i colleghi che provengono da quelle realtà, che poi è sempre un vantaggio anche dopo, in termini di contatti, di confronto… Senza questa esperienza, forse, tanti colleghi di altre parti d’Italia (…) non li avrei neppure conosciuti. Secondo me, questo è l’aspetto più importante della Scuola superiore: consentire un confronto tra realtà diverse» (intervista 11);

«Innanzitutto, è uno strumento di conoscenza reciproca, cioè la frequentazione dei corsi non serve solo per la lezione frontale, ma serve anche per conoscerci e per favorire, quindi, quella trasmissione di saperi» (intervista 24);

«A Scandicci è stato utile soprattutto il confronto con colleghi di altre sedi, di altre provenienze, quindi… no, io ho un ottimo ricordo» (intervista 33);

«La formazione da MOT, secondo me, è stata meravigliosa, anche se veramente intensa. Queste intere settimane passate a Scandicci, da conciliare col fatto che già ti senti un po’ “dentro” al ruolo – è vero che non hai il ruolo tu, però cominci ad avere delle cose da fare, questo o quell’altro… –, a volte le ho trovate assai faticose, con ritmi proprio serrati. (…) Ricordo un’esperienza intensissima, per lo più interessantissima; i formatori erano spesso davvero bravi, comunque persone con cui poi hai mantenuto i contatti… per tutta la vita. Tuttora ho i contatti, e so che se andassi a fare una certa materia potrei sentire il collega (…) però è anche faticosissimo» (intervista 15).

Alcuni forniscono una valutazione positiva dei corsi sostenuti presso la Scuola sotto il profilo dei contenuti, per quanto tali corsi vengano talvolta percepiti come scollegati dalla pratica negli uffici giudiziari: 

«Sulla Scuola superiore, in realtà, do un’ottima valutazione, perché trovo che sia molto attenta al profilo della formazione. Qualche critica, però, mi sentirei di avanzarla ugualmente. Ricordo che, durante la fase del tirocinio mirato e quel poco anche del generico, benché fosse poi tutto online, erano temi e argomenti di enorme interesse; purtroppo però tanti di questi argomenti, quando ancora non hai un ruolo tuo e non hai i “carboni” – mi passi l’espressione – sotto che ti bruciano, alcune cose non le comprendi davvero (…). Tantissime volte, nella mia pratica quotidiana, mi rammarico che non esistano registrazioni in formato audio/video di quelle lezioni durante il tirocinio. (…) Con le funzioni già prese, sarebbero un patrimonio incredibile» (intervista 29);

«C’è sempre la sensazione che uno, in ufficio, acquisisca più nozioni di quelle che acquisisce in un corso, perché sei tu il fautore del tuo tempo e hai un rapporto più diretto con l’affidatario (…), rispetto ai corsi del generico. Nel mirato, i corsi a Scandicci sono stati fortemente improntati a nozioni pratiche, diciamo a casistica, modelli, insomma, tutta una serie di cose che chiaramente, secondo me, hanno favorito, hanno aiutato l’ingresso in ruolo effettivo» (intervista 3).

Alcuni intervistati sono stati maggiormente critici nei confronti dei corsi presso Scuola proprio in quanto troppo incentrati sulla teoria e troppo poco focalizzati sull’approccio al lavoro, rilevando che, dopo molti anni di studio e dopo aver superato il concorso in magistratura, sia necessario ricevere una formazione mirata al lavoro quotidiano:

«Alla Scuola davano un taglio ancora teorico alle lezioni, del quale non c’è veramente nessun bisogno. Una volta usciti dal concorso non si ha nessun bisogno di continuare a parlare di teoria… Ci vuole solo la pratica, e quello probabilmente è stato carente, le lezioni di taglio proprio pratico (…) bisogna imparare negli uffici in cui si va, quindi, ecco… La formazione iniziale, devo dire, non è stata utilissima» (intervista 22);

«Assomiglia più all’università, perché lì chiaramente c’è una formazione più – non dico teorica, ma insomma – tradizionale, con la lezione frontale, oppure le esercitazioni… Mentre, chiaramente, se uno è nell’ufficio giudiziario, lì fa proprio il lavoro, fianco a fianco con l’affidatario» (intervista 33).

Anche nel contesto della Scuola, alcuni ritengono quindi che vi sia una carenza di formazione sul know-how del lavoro del magistrato, che «si acquisisce in larga misura, salvo eccezioni di poco impatto sull’intero sistema, all’interno della macchina giudiziaria»[41]. In questo senso, qualche criticità in più è stata sottolineata da magistrati che hanno affrontato la formazione da MOT durante il periodo pandemico, seguendo principalmente corsi a distanza:

«Per quanto riguarda le sessioni alla Scuola, noi abbiamo fatto tutto online, per cui abbiamo perso il 90% dell’ utilità. Personalmente, le vivevo come un po’ “scoccianti” (…). Stavamo quattro ore la mattina, tre ore al pomeriggio collegati senza vederci, non è stato proprio il massimo. Tutti i colleghi raccontano di un’esperienza molto (…) formativa, ma anche conoscitiva gli altri colleghi; noi non ci siamo assolutamente incontrati, quindi abbiamo perso molto della fase formativa. I corsi (…) non lo so quanto siano stati realmente utili, sempre per quel discorso che facevo prima del passaggio dalla teoria alla pratica» (intervista 12).

Rispetto alla formazione permanente presso la Ssm, i riscontri della maggior parte degli intervistati sono stati positivi, anche se sono state rilevate delle criticità, soprattutto per quanto riguarda la formazione a distanza, spesso – anche se non sempre – ritenuta poco interattiva:

«Trovo la formazione permanente svolta dalla Scuola comunque buona e di qualità, tranne per quanto riguarda l’aspetto della didattica a distanza… Per un problema relativo al “mezzo” impiegato, trovo particolarmente ostico e noioso seguire qualche cosa a distanza» (intervista 17);

«Ci sono corsi che sono chiaramente, come dire, dei “cuscinetti”, un po’ come delle valvole di sfogo… Altri, anche lì, sono utili… (…). Io, tendenzialmente, mi iscrivo a quelli specialistici per le mie materie (…) i relatori sono spesso sempre quelli, bravissimi, ma sempre quelli, e sono abbastanza utili; comunque, ti trovi con tanti colleghi che hanno i tuoi stessi problemi, quindi si mettono in circolo una serie di idee. (…) Uno deve mettersi lì, (…) comprarsi il libro e studiare. Poi, per carità, puoi andare al convegno (…) però, in fin dei conti, sta un po’ a te dover elaborare… » (intervista 23).

Qualche intervistato ha sottolineato la difficoltà di dedicare tempo ai corsi previsti nell’ambito della formazione permanente, a causa della mole di lavoro da gestire nel quotidiano. In questo senso, la formazione a distanza è percepita come un mezzo utile per risparmiare tempo, ma – come già richiamato – è anche percepita come meno efficace:

«Un disastro dal punto di vista del potersi permettere tre giorni di stacco per dedicarsi alla formazione con le scadenze… (…) veramente pesante. Da un lato, un po’ più gestibile con la formazione da remoto, però, va beh, non c’è la stessa resa. Obiettivamente, il fatto di prendersi un treno e andare in un posto dove ti trovi immerso mentalmente nella formazione, secondo me, è diverso. Cioè, la resa è diversa. Non mi è rimasto quasi niente delle formazioni da remoto, in tutta onestà. Ma non perché fossero fatte male o perché i relatori non fossero di qualità… Non lo so, forse sono io a non essere nella predisposizione mentale giusta per mantenere la concentrazione cento ore attaccata a un auricolare, davanti a un pc» (intervista 15).

Alcuni intervistati hanno ribadito l’importanza della formazione permanente nell’ambito del lavoro di un magistrato, come «baluardo culturale» centrato sulla riflessione giuridica, che si contrappone, almeno idealmente, all’approccio efficientista che si è sviluppato[42] nell’ambito del sistema giudiziario:

«Ritengo che il fatto di far parte di una categoria che, per tutta la propria vita lavorativa, ha l’obbligo di formarsi continuamente sia un privilegio. E quindi si dà la priorità a quello, nel senso che se vengo ammesso a un corso e quello stesso giorno ho udienza, l’udienza salta, e io vado al corso. Ciò significa dare la priorità a una componente formativa che, probabilmente, serve come baluardo culturale (…). Per tutta la tua vita dovrai formarti, quindi non puoi veramente credere che ormai sei arrivato e, superato il concorso, puoi tirare i remi in barca. Il fatto di avere un orizzonte lungo di formazione, di vedere colleghi alla settima valutazione di professionalità che continuano a frequentare i corsi al mio pari, mi trasmette sia un’idea di parità, di assenza di gerarchie tra di noi, sia un senso di respiro culturale che dovrebbe appartenerci, quell’attitudine alla riflessione giuridica permanente che dovrebbe caratterizzarci» (intervista 24).

Un magistrato intervistato che condivide questa idea ritiene tuttavia che la formazione permanente sia “poca”, proprio perché la gran parte del lavoro del magistrato è destinata alla produttività e all’efficientismo che caratterizzano il sistema:

«Mi diverto a fare i corsi. Il problema è che sono pochi, pochissimi… L’anno scorso sono stato preso a un corso online – poi sarò io sfortunato, però questa è la realtà – che mi è piaciuto, ma (…) la formazione è veramente poca, bisognerebbe fare molto di più. Capisco che è oneroso, che bisogna produrre, no? Ormai i tribunali sono dei “sentenzifici”, quello è l’unico obiettivo, l’unica cosa che conta, tutto il resto non conta nulla, zero; quello che conta è fare sentenze e farle più in fretta possibile, perché ormai abbiamo accettato che questo è il modo di fare i magistrati ed è sbagliatissimo a mio giudizio, però è così. Bisogna prenderne atto, perché viviamo nella storia, diamo un servizio e quindi non è che noi siamo fuori dal mondo. Però questo impatta molto, e si vede anche sulla formazione che è proprio messa lì (…). Farei un po’ più di corsi per dare anche una cornice culturale, che è un altro dei grandi temi e delle grandi carenze, secondo me, della magistratura, che ha perso un po’, secondo me, il suo ruolo culturale nel Paese ed è diventata qualcos’altro» (intervista 36).

 

3.3. Il lavoro del magistrato

A) Idea della professione e lavoro quotidiano

È stato chiesto ai magistrati partecipanti di soffermarsi sulle eventuali discrepanze tra l’esperienza concreta del lavoro e l’idea del lavoro del magistrato che avevano prima del concorso.

Prima del concorso, molti intervistati immaginavano il magistrato come uno studioso delle questioni giuridiche e la magistratura come una professione che consente di coniugare teoria e pratica, questioni di diritto e questioni di fatto. Tuttavia, per molti intervistati il lavoro quotidiano non riesce, per la mole di lavoro da affrontare, a prevedere grandi momenti di approfondimento giuridico:

«I vecchi magistrati erano davvero... si potevano permettere di fare i giuristi, no? E quindi avevano molti meno fascicoli, molto meno il pensiero di dover rispettare statistiche, indici di abbattimento, di ricambio, cose del genere… E quindi tu leggevi queste sentenze, che poi tendenzialmente erano anche più o meno complicate dal punto di vista di tutta la disciplina… e la direttiva, e questo e quell’altro, il regolamento (...), quindi m’immaginavo fosse una cosa un po’ più così, meno movimentata, più di riflessione, di scrittura… Poi, in realtà… Allora, sicuramente c’è il momento in cui bisogna mettersi lì, studiare, approfondire, discutere, scrivere, riscrivere e cesellare. C’è anche tutta una valanga di cose che si fanno “in batteria”, in cui (…) l’impegno intellettuale è pari praticamente a zero, tutta una parte davvero di operatore pratico, che forse un po’ si perde, anche perché, appunto, ora esiste una serie di competenze, di cose in più che ti vomitano addosso… e bisogna fare, smazzare… Poi, effettivamente, c’è anche tutta una preoccupazione per i numeri, per cui, tante volte, anziché indugiare a fare una conciliazione o a promuovere trattative, sai che c’è? Ti conviene scrivere la sentenza (...), scritta così, perché ovviamente non ti puoi permettere di scrivere dieci sentenze l’anno, che saranno pure dei capolavori, ma pesano tanto quanto dieci sentenze banalissime. Insomma, è molto più pratico di quello che m’immaginavo» (intervista 23). 

In questo senso, il carico di lavoro e le incombenze finalizzate allo smaltimento di tale carico impediscono ai magistrati di “fare i giuristi” nella quotidianità. Come evidenziato da Daniela Piana, le competenze che deve possedere un magistrato sono diverse poiché «la magistratura ha una natura intrinsecamente doppia», in quanto coesistono in essa il dovere di applicare la legge e l’appartenenza al settore pubblico, a cui consegue la richiesta di «fornire un servizio e amministrare le risorse pubbliche in modo efficace ed efficiente»[43]. I magistrati vengono formati approfonditamente sul contenuto del diritto, che è «il sapere su cui poggia l’intera struttura della magistratura»[44], mentre, come messo in luce dalle interviste, la preparazione propedeutica ad affrontare gli aspetti pratici del lavoro presenta delle carenze. Questo aspetto si collega al tema dell’organizzazione del lavoro del magistrato e alle criticità che un giovane magistrato che ha appena assunto le funzioni può trovarsi ad affrontare: 

«Ritengo che, ecco, l’organizzazione del lavoro sia più del 50% del lavoro stesso, perché, una volta che un lavoro è ben organizzato, poi fila tutto liscio» (intervista 22).

A fronte di questa considerazione, condivisa da alcuni intervistati, è stata comunque rilevata una scarsa formazione dei magistrati sui profili organizzativi, con una conseguente difficoltà a gestire questi aspetti dopo aver preso servizio:

«Fare il magistrato è fare tantissime cose, anche burocratiche, di organizzazione, che sono fondamentali e molto importanti. L’università deve preparare, dovrebbe preparare, tra virgolette, ma io non ho paura di usare questa parola: il “giurista”» (intervista 36);

«Nessuno ci insegna che questo è un lavoro che richiede una notevole capacità organizzativa. E, a meno che non si sia fortunati e durante il tirocinio non si venga affidati a un giudice lungimirante da questo punto di vista, nessuno, neanche in tirocinio, ci insegna che dobbiamo organizzarci e come dobbiamo organizzarci. Dobbiamo organizzare noi stessi, dobbiamo organizzare il ruolo… Dobbiamo, non organizzare direttamente, però gestire i rapporti con la cancelleria… e quella, secondo me, è sicuramente una grossissima criticità. E siccome, poi, è un ambiente molto formale, che vive di norme ma conosce prassi, dobbiamo imparare… (…) ho dovuto imparare tutta una serie di prassi organizzative complesse» (intervista 38).

La carenza di insegnamenti sulle materie organizzative nei corsi di laurea in giurisprudenza conferma quanto affermato dagli intervistati[45]. Negli uffici giudiziari la capacità organizzativa viene infatti demandata alla propensione personale e alle strategie adottate di volta in volta dal singolo magistrato, con possibili conseguenze sull’amministrazione della giustizia[46]. Infatti, «il modo in cui un giudice organizza il proprio lavoro nel tempo inevitabilmente si riverbera sugli iter processuali»[47].

 

B) Le criticità nell’approccio al lavoro: i carichi di lavoro e il turnover 

I magistrati partecipanti alla ricerca hanno messo in evidenza alcune criticità correlate alla presenza di carichi di lavoro particolarmente consistenti, facendo riferimento al fatto che tale problematica si presenta soprattutto negli uffici di piccole o medio-piccole dimensioni, prevalentemente nelle Regioni del Sud Italia. Il tema è stato affrontato da molti magistrati ed è strettamente correlato con la percezione di avere difficoltà a dedicare ad ogni questione lo studio e l’approfondimento adeguati:

«Il primo ostacolo che dobbiamo affrontare, diciamo, nell’esercizio delle funzioni è il carico di lavoro. Perché noi abbiamo veramente un carico tale che ci impedisce di fare le cose bene, per dirla molto… insomma, molto semplicemente (…) uno magari tenderebbe a perderci qualcosa in più su un fascicolo piuttosto di farlo bene; per farlo bene io sono completamente fuori gioco. Cioè (…) dopo tendi sempre ad accumulare arretrato, le cose che fai le fai anche bene e quant’altro, dopo hai sempre conferme e quant’altro, però accumuli sempre arretrato. E questa è purtroppo una realtà dei fatti che va contro quelli che tendono a voler fare le cose per il meglio, alla perfezione, a patto di perderci anche più tempo. Figure professionali come questa oggi sono completamente fuori gioco, sono spiazzate. Tanto più in un tempo come quello attuale, in cui la statistica e sempre la maggiore tendenza all’aziendalizzazione di tutto il sistema giustizia è la cosa che ha dato un po’ il colpo di grazia, no?» (focus group n. 2);

«In alcuni uffici ti scontri anche con un carico di lavoro esorbitante, e questo non ti consente di avere la situazione sotto controllo. È chiaro che se ciascuno di noi ha dieci procedimenti, dieci processi, a seconda della funzione esercitata, è un conto… ma quando ne hai trecento, milleottocento… Sono numeri che non ti consentono di fare il tuo lavoro in modo necessariamente performante, perché da un lato sei schiavo dei numeri, però dall’altro c’è anche il problema della qualità del servizio che offri al cittadino» (focus group n. 2).

La percezione è che il lavoro del magistrato sia costantemente permeato dalla necessità di smaltire il carico di lavoro, che viene messa in relazione all’approccio efficientista che connota il sistema giudiziario. Questo scenario produrrebbe conseguenze negative sulla capacità dei magistrati di rispondere adeguatamente alle istanze di tutela che provengono dai cittadini. Un aspetto correlato a questo tema, anch’esso rilevato dagli intervistati, riguarda le carenze di personale relative alle piante organiche degli uffici giudiziari, che contribuirebbero a influenzare negativamente il funzionamento della macchina della giustizia. In questo senso, è stato precisato da qualcuno degli intervistati che, di fatto, ogni maternità o malattia può costituire un problema per l’organizzazione del lavoro degli uffici maggiormente in difficoltà. 

Le criticità presentate da alcuni uffici portano i magistrati che vi operano a domandare il trasferimento «alla prima occasione», come evidenziato dal seguente magistrato:

«(…) ma anche perché i posti sono pochi, il lavoro è tantissimo, e la gente, alla prima occasione di andare via da questi tribunali, se ne scappa… Un turnover continuo, quindi ci sono sempre i giovani, magistrati di prima nomina che vengono mandati… Ora, dato che si è creato un circolo del genere, si dovrebbe fare una seria riforma sull’organico, sulle piante organiche degli uffici» (focus group n. 2).

Il tema del turnover, cioè del frequente ricambio di magistrati negli uffici in cui sono presenti maggiori criticità, è stato richiamato da molti magistrati che hanno partecipato alla ricerca, i quali hanno precisato che, spesso, negli uffici in cui la situazione è particolarmente critica sotto il profilo del carico di lavoro, vengono assegnati magistrati di prima nomina, che si trovano ad affrontare questioni molto complesse con poca esperienza alle spalle:

«Se hai appena iniziato, comunque ti caricano di scelte che, a volte, sono cose più grandi di te… Per cui tu non hai uno strumento e però ti ritrovi con la patata bollente» (focus group n. 2). 

La difficoltà di formare orientamenti giurisprudenziali uniformi nell’ambito di uffici giudiziari con alto tasso di turnover e di assenze viene menzionata come ulteriore potenziale criticità del sistema:

«Un conto è avere una sezione dove ci sono cinque giudici che rimangono quelli per almeno tre-quattro anni; un conto è avere una sezione in cui ci sono cinque giudici dove uno va maternità, l’altro si trasferisce, l’altro è in malattia, l’altro si mette fuori ruolo perché deve andare a fare il commissario del concorso di…, quell’altro si mette fuori ruolo perché deve andare al ministero, quell’altro deve andare a Parigi a fare il convegno (…). Così diventa più complicato riuscire a formare anche un collante giurisprudenziale uniforme e unitario, da poter presentare al cittadino come, diciamo, certezza delle decisioni e dei tempi» (intervista 39).

Qualcuno sottolinea la difficoltà di strutturare prassi organizzative stabili nel tempo in quegli uffici in cui la maggioranza dei magistrati è di prima nomina e ha l’obiettivo di trasferirsi alla prima occasione utile:

«Il problema fondamentale è che la nostra Procura attualmente è composta solo da magistrati di prima nomina. (…) la più anziana ha cinque anni di anzianità lavorativa… e poi quattro, tre, due, (…) e una che ha un anno; quindi, questo (…) porta l’ufficio a essere formato da persone che si pongono sempre gli stessi problemi che si sono posti altri e che devono ogni volta trovare la soluzione, perché molto spesso non c’è un tavolo di confronto con persone che hanno affrontato lo stesso problema, la stessa questione di prima, quindi molto spesso noi ci poniamo delle prime questioni che magari altri hanno già risolto in altro modo in anni precedenti, e questo sicuramente non va bene» (intervista 25).

La mole di lavoro da affrontare, che, come si è accennato, varia a seconda della sede di assegnazione, tende a impattare sul tempo dedicato alla vita personale del magistrato:

«Si sa che le sedi cambiano, che purtroppo c’è una grossa disomogeneità per quanto riguarda i carichi. (…) io venivo da un’amministrazione dove effettivamente anche il tempo del lavoro era molto definito rispetto al tempo della vita, se vogliamo entrare in questo ambito. Un ulteriore problema, o comunque un momento di adattamento che mi è toccato e che sapevo sarebbe accaduto, è che effettivamente si passa da una condizione più vincolata, ma che ha dei limiti chiari (nel senso che, terminato l’orario fuori dall’ufficio, quest’ultimo non entra nella tua vita), a un lavoro che, al contrario, ti consente degli spazi di autonomia, di autogestione, ma ti accompagna da quando ti svegli a quando vai a dormire» (intervista 27);

«Quello che non si vede dal di fuori, quello che non si capisce, è che la vita del magistrato è veramente sacrificata alla giustizia» (intervista 26).

 

C) Le dinamiche relazionali negli uffici

Relativamente alle relazioni all’interno degli uffici, in generale, molti magistrati del campione hanno sottolineato di avere instaurato relazioni positive con i colleghi del proprio ufficio. Questo elemento assume particolare rilevanza negli uffici maggiormente critici sotto il profilo dei carichi di lavoro:

«Io con i colleghi, glielo dico in tutta onestà, mi sono trovato e mi sto trovando benissimo. Anche con il personale dirigenziale. Poi, ho avuto la fortuna di trovare qui in sezione due colleghi che sono anche loro in prima nomina, però hanno sei anni di servizio. Quindi sono ancora giovani, ma hanno accumulato un’esperienza tale da consentire di trasmettere parecchio a noi nuovi arrivati. E quindi sono delle colonne per noi – parlo al plurale perché è riferito anche agli altri colleghi che sono arrivati qui con me. Siamo tutti giovani, per il motivo che le dicevo poc’anzi; l’età media si aggirerà intorno ai 35/36 anni; naturalmente, il presidente di sezione, il presidente del tribunale hanno un’età professionale e anagrafica maggiore, però anche con loro mi sono trovato benissimo» (intervista 4);

«Secondo me è una caratteristica delle sedi al Sud (…). Essendo sedi dove sono di norma destinati un gran numero di magistrati giovani, per cui periodicamente arrivano parecchi magistrati – consideri che con il mio concorso siamo arrivati in 17 –, questo fa sì che si crei un ambiente umano molto collaborativo (…). Arrivano tante persone che non sono della zona, quindi inevitabilmente si crea un gruppo anche al di fuori del tribunale, e questo poi influisce anche sull’ambiente di lavoro» (intervista 8);

«Il fatto di essere comunque un tribunale giovane: anche questo contribuisce. Poi, è chiaro: è sempre il singolo a fare la differenza, può anche esserci un collega giovane con cui non ti trovi. Però, secondo me, si tende più a creare una squadra, almeno questo è quello di cui ho avuto il sentore (…), c’è sempre disponibilità, quando qualcuno manca c’è una sostituzione tranquilla» (intervista 12);

«Sicuramente c’è un bello spirito, uno spirito di gruppo anche positivo, nel senso che [tra colleghi] ci si aiuta molto, quando si hanno dubbi ci si chiama… (…), si affrontano i casi insieme, i problemi in comune. Questa è una risorsa che, effettivamente, c’è in magistratura» (intervista 17);

«Se possiamo trovare un vantaggio nell’essere tutti di prima nomina, nel nostro caso specifico, c’è tra di noi un confronto costante: un qualsiasi dubbio che uno di noi si pone lo mette al tavolo con gli altri e si cerca di trovare una soluzione, però è una soluzione che viene trovata con persone che più o meno hanno i miei stessi strumenti» (intervista 25).

Qualcuno, per contro, ha fatto emergere qualche criticità rispetto ai rapporti con i colleghi, soprattutto in relazione alla tendenza di alcuni a «una mentalità molto burocratica» e «individualista», che limiterebbe il supporto reciproco: 

«Purtroppo riscontro anche – cosa che non mi aspettavo, devo dire la verità – uno spessore diciamo così culturale e di ambizione, di formazione dei colleghi molto basso. Io pensavo, mi aspettavo tutt’altro tipo di rapporti di colleganza, tutt’altro tipo di incontri, da questo punto di vista, di incontri professionali. Questo in maniera trasversale, sia da parte di colleghi un po’ più anziani (…), ma soprattutto tra i colleghi più giovani, c’è una mentalità molto burocratizzata e una lettura burocratica di questo lavoro, che poi si traduce in tanti piccoli screzi sul singolo giorno di ferie, sulla singola sostituzione, sul singolo fascicolo… Tutte cose che posso anche capire, perché sono sacrifici seri quelli che uno fa per arrivare a questo obiettivo; però pensavo che le finalità fossero un po’ più alte, diciamo così (…). C’è una logica molto individualista, ognuno guarda al suo orticello, cercando di fare (…) non dico meno possibile in termini proprio di lavoro, [ma] meno possibile nel senso di spendersi per una causa che, comunque, è quella di dare giustizia, di dare una risposta di giustizia ai cittadini, che non è cosa da poco» (intervista 16).

In alcuni casi sono state richiamate criticità relative a coloro i quali ricoprono incarichi direttivi o semidirettivi: qualcuno degli intervistati ha sottolineato come non sempre siano scelti magistrati particolarmente adatti a organizzare il lavoro altrui. Il tema si collega alla difficoltà di selezionare, per ricoprire incarichi direttivi e semidirettivi, magistrati che abbiano una propensione – e anche una formazione – all’organizzazione del lavoro dell’ufficio. In questo senso, qualcuno degli intervistati ha affermato che essere un buon magistrato non necessariamente equivale a essere un buon organizzatore:

«Io ho ottimi rapporti personali con i miei dirigenti, cioè con il presidente del tribunale; però, se devo dire che vi sia una cultura dell’organizzazione, per la quale le scelte organizzative dei dirigenti seguono un progetto manageriale, o comunque organizzativo pensato, programmato… questo no, non mi sembra. Cioè, sono magistrati prestati all’organizzazione. (…) quello che vedo è che non c’è una grande capacità organizzativa da parte dei dirigenti. Non per mancanza di buona volontà, ma per assenza di una formazione dedicata all’organizzazione. Cioè: sono magistrati, fanno i giudici e fanno i pubblici ministeri, lo hanno fatto tutta la vita; poi, arrivati a una certa età, a sessant’anni diventano degli organizzatori, però senza averlo mai fatto prima né senza essere formati in tal senso. Perciò, a volte, chi (…) è destinatario delle decisioni, vede un po’ di approssimazione nell’organizzazione» (intervista 17).

Un magistrato partecipante alla ricerca ha affermato di percepire il presidente della sezione di riferimento come distante dalle problematiche affrontate dai giovani magistrati dell’ufficio. Tale distanza è stata associata a una sorta di gerarchizzazione di fatto all’interno dell’ufficio giudiziario, che entra in contrasto con il principio di autonomia e indipendenza della magistratura e che si manifesterebbe nella concretezza del lavoro quotidiano. Inoltre, è stato messo in evidenza come, non di rado, ai giovani magistrati siano affidati, spesso senza un’adeguata preparazione, ruoli di responsabilità di fatto (ad esempio, nell’ambito di procedimenti particolarmente delicati sotto il profilo delle questioni trattate e della risonanza nell’opinione pubblica) senza che ciò si accompagni a una presenza in ruoli di responsabilità negli organi di autogoverno della magistratura:

«Noi siamo il cuore del tribunale, ma è come se… si sentisse che ci viene detto che tu non conti, alla fine. Cioè, oltre al nonnismo… è proprio una netta differenza tra chi prende le decisioni e chi non le prende (…). Sentirei il bisogno di un livellamento» (focus group n. 2).

Sembra emergere tra le righe una percezione di mancato riconoscimento del lavoro, spesso molto complesso, dei giovani magistrati da parte di alcuni magistrati con incarichi direttivi o semidirettivi. In un caso, è stata sollevata una criticità in merito all’assegnazione dei fascicoli ai magistrati da parte del presidente della sezione di riferimento, che non utilizzerebbe il sistema informatico di assegnazione, preferendo attribuire egli stesso i fascicoli con la motivazione secondo cui «il presidente assegna meglio che un computer i fascicoli…» (focus group n. 2). Emerge quindi la percezione di un “potere” discrezionale di stampo paternalistico, esercitato informalmente nei confronti dei giovani della sezione, a cui si accompagna un bisogno di maggiore democratizzazione delle decisioni che ricadono sui singoli magistrati.

 

D) Questioni di genere

Sono state espresse da alcuni magistrati opinioni in merito alle questioni che attengono alla differenza di genere in magistratura. Alcune persone intervistate ritengono che le differenze tra donne e uomini in magistratura siano state appianate, anche a motivo della presenza delle donne in magistratura, che costituiscono il 56% circa dei magistrati in servizio[48]:

«No, allora, se stiamo parlando di una percezione di discriminazione nei miei confronti in quanto donna, assolutamente no, in quanto madre – perché ho un figlio –; da quando ho avuto il bambino, assolutamente no. Parlo, ovviamente, della mia esperienza (…), dei colleghi con cui ho lavorato io… Però, come diceva lei, ci sono tantissime donne ormai, sono la maggioranza, quindi… dal punto di vista pratico, non potrebbe essere diversamente (…)» (intervista 1).

D’altro canto, è stata rilevata la mancanza di parità nell’attribuzione degli incarichi direttivi, che effettivamente sono assegnati per il 71% dei casi a uomini. Per quanto riguarda gli incarichi semidirettivi, lo scarto è minore: essi sono attribuiti a donne nel 46% dei casi[49]:

«I ruoli dirigenziali, tendenzialmente, sono ancora molto maschili. C’è qualche eccezione, però insomma, sì, i direttivi sono maschili» (intervista 30). 

Alcune intervistate hanno percepito un atteggiamento ostile nei confronti delle donne in magistratura da parte di alcuni dirigenti, così come da parte di alcuni avvocati:

«Purtroppo mi è capitato di assistere a episodi di maschilismo abbastanza pesanti quando ero MOT. Cioè, proprio di… scortesia, risposte sgarbate da parte di presidenti di sezione, che si rivolgevano in maniera molto più scostante alle donne rispetto agli uomini. Ma soprattutto, ahimè, minacce costanti alle giovani colleghe entrate in magistratura, no? Sempre, questo, nella mia prima sede… Da parte del presidente del tribunale, un continuo: “No, perché poi lo so che vanno in maternità e… ”, tutto così… Continuamente a dire: “Perché lo so che poi andate in maternità”. Secondo me questo è discriminatorio: nel momento in cui sono in maternità, ne parliamo; ma quando sono qua e sto lavorando, non mi devi pressare. Tu magari non lo sai se io posso avere figli, non posso averne, se ne voglio o no, se sono lesbica… Saranno benedetti affari miei… e questo io lo trovo discriminatorio, perché a un uomo non l’ho mai sentito dire. Invece, alle giovani colleghe è riservata un sacco di pressa su ‘sta cosa della maternità… Addirittura, se uno prendeva una settimana di ferie fuori periodo… riferito poi dalla segretaria del tribunale… il presidente chiedeva: “Ah, ma non è che si deve riposare perché magari è incinta?” Così… secondo me, è vergognoso» (intervista 15);

«Ad esempio, il tribunale è composto in prevalenza da donne, e questo – come immagine, come “apparenza” – potrebbe far pensare a un’inversione di tendenza rispetto a dinamiche conosciute, che sono a scapito del genere femminile. E ti dico che è più apparente che reale, perché poi, nel trattamento concreto che si ha in udienza, che si ha nel gestire la cancelleria, nel gestire gli avvocati… si sconta perennemente questo tipo di… differenza. E si vede. È proprio tangibile (...). Le donne, alla fine (…) hanno l’ultima parola. Nella pratica è… difficile da gestire. Parlo di donne giovani, che stanno là a interfacciarsi con avvocati uomini anche con trenta o quarant’anni di esperienza, e non è proprio facile» (intervista 16).

Tali considerazioni pongono la questione di come la cultura giuridica interna si sia modificata, negli ultimi decenni, in un contesto professionale per secoli riservato al genere maschile e che solo recentemente è stato interessato da una progressiva femminilizzazione[50].

 

3.4. I giovani magistrati e gli organi di autogoverno della magistratura

C’è una generale percezione di lontananza del Csm dal lavoro quotidiano dei giovani magistrati, ma molti intervistati non hanno rilevato criticità particolari nel funzionamento dell’organo di autogoverno della magistratura. Occorre precisare che diversi intervistati hanno riferito di aver fatto ingresso in magistratura da troppo poco tempo per poter esprimere una valutazione consapevole sull’attività del Csm:

«Forse a questa domanda non sono ancora molto pronta a rispondere… perché, alla fine, io ho preso le funzioni da (…) meno di due anni e quindi forse non ho ancora avuto troppo tempo per rapportarmi col Csm. Diciamo che il Csm lo vedo lontano, come un’entità lontana… I consigli giudiziari già meno, perché comunque ci arriva sempre il report e incidono significativamente sull’organizzazione» (intervista 21);

«[Il Csm] è un organo un po’ più lontano, che ha logiche che vanno studiate. Perché possono sembrare di primo acchito incomprensibili, ma sono legate a una struttura normativa complessa, che spesso non si conosce. Perché vive di circolari, vive di prassi estremamente intricate» (intervista 38);

«[Il Csm appare] distante. Forse il consiglio giudiziario [è] un po’ più vicino, più che altro perché (…) sono colleghi del distretto, li conosco, magari capita a volte di discutere… li sento discutere di questo, ma… no, lontano» (intervista 31);

«I primi due-tre anni della mia carriera sono stato in un certo senso “risucchiato” dagli aspetti, come posso dire, di lavoro quotidiano e quindi, sostanzialmente, non dico che lo vivi come qualcosa di lontano il Csm, ma proprio non riesci, almeno, io non sono riuscito a interessarmene sin da subito» (intervista 3).

La percezione di distanza del Csm non risulta, invece, in relazione ai consigli giudiziari, che in generale sono ritenuti maggiormente vicini al lavoro dei magistrati, se non altro in quanto i componenti sono spesso persone note a chi lavora nel distretto di corte d’appello, o perché le questioni che trattano toccano più da vicino l’organizzazione del lavoro degli intervistati. In relazione all’attività del proprio consiglio giudiziario di riferimento, qualcuno ha contrapposto le risposte fornite dall’organo in tema di organizzazione dell’ufficio con quelle fornite quando i magistrati dell’ufficio hanno sollevato criticità relative ai provvedimenti di un dirigente dell’ufficio: nel primo caso, le risposte sono state pronte e attente alle questioni sollevate; nel secondo caso, a parere del magistrato intervistato, non sono state fornite risposte adeguate: «Interfacciarsi anche con l’organo consiliare è stata una cosa poi soddisfacente, perché poi (…) su alcune cose ci hanno dato delle indicazioni, noi le abbiamo messe in pratica e alla fine c’è stata una dialettica, come dire, fruttuosa con il consiglio giudiziario. E questo è un aspetto, quindi, più organizzativo. Ci sono stati, invece, altri tipi di dinamiche per cui ci siamo dovuti interfacciare necessariamente col consiglio giudiziario… E quelle riguardano i provvedimenti del dirigente, nel senso che alcune cose sono state necessariamente poste all’attenzione del consiglio giudiziario, perché fatte (…) assolutamente non in malafede, però non con la dovuta attenzione… Perciò quello diventa necessariamente l’organo che può tutelare questo tipo di situazioni, e lì il riscontro è meno positivo: c’è una dinamica correntizia, di interessi altri, di situazioni altre, che francamente – forse perché sono da poco in magistratura –, allo stato, ancora mi sfuggono… Non riesco bene a capire, è una cosa complessa» (intervista 16). 

In relazione al Csm, alcune criticità sono comunque state riportate, spesso come voci di corridoio riferite da altri colleghi, come traspare dalle seguenti considerazioni:

«Quello che percepisco è che spesso ci sono situazioni – ma questo lo percepisco per sentito dire… – di cui non si prende atto o non si vuole prendere atto, e che poi vengono un po’ portate avanti, e i problemi si creano (…). Si sente sempre dire – ma questa è una cosa che (…) a me non è capitata – che i pareri e le valutazioni di professionalità son sempre uguali, son sempre gli stessi per tutti, e questo non consente di fare, al consiglio giudiziario prima e al Csm dopo, una valutazione sulle capacità del singolo magistrato. Quando poi ho letto il parere di professionalità fatto dal mio presidente su di me, che era l’unico che posso valutare (cioè: il mio presidente ha dato atto di quello che io ho fatto), non mi sembrava un parere standardizzato» (intervista 1). 

Anche rispetto alla selezione dei dirigenti sono stati effettuati dei rilievi. Una magistrata intervistato ha precisato come «per la mia piccola esperienza, perché poi sono da poco in magistratura, sulla scelta dei ruoli direttivi sono incredibilmente stupita della riscontrata mancanza di valore della scelta di alcune figure dirigenziali, come a volte piacevolmente stupita del fatto che persone anche estranee a logiche correntizie in realtà siano riuscite ad arrivare al posto che meritavano. (…) [c’è] il fatto che, alla fine, i dirigenti non bravi mirano a questi ruoli perché è anche un modo per lavorare di meno, per non fare attività giurisdizionale, e il punto è quello: un dirigente dovrebbe in realtà poter avere meno discrezionalità… Sì, secondo me dovrebbe esserci anche un modo, una possibilità di valutarli da parte delle persone che lavorano con loro, coi dirigenti» (intervista 2). 

Più in generale sul Csm, un intervistato ha affermato:

«È sempre più difficile, più onerosa come macchina da gestire, e spero che si possa progressivamente abbandonare, o meglio, porre un freno a determinati rischi – in parte è già successo in questa consiliatura – di degenerazione, che sono poi quelli emersi nel “caso Palamara”… Quindi, giudizio ovviamente in chiaroscuro nei confronti del Csm in generale. Vale a dire: per quanto riguarda la pratica ordinaria, diciamo amministrativa, di regolamentazione della mia carriera, non posso dire nulla (insomma, è ordinaria e va bene così); per quanto riguarda le funzioni nelle quali, ecco, c’è discrezionalità – a partire dal conferimento di incarichi –, purtroppo un momento di difficoltà, è innegabile, c’è stato. Stiamo reagendo, ma chiaramente c’è stato questo grosso crollo di credibilità e di fiducia nell’organo, da questo punto di vista» (intervista 3). Vengono quindi richiamate le note vicende relative al “caso Palamara” e la loro influenza negativa sulla fiducia che la magistratura nutre nei confronti dell’organo di autogoverno. D’altra parte, anche questo intervistato ha sottolineato come, nel proprio percorso professionale, eventuali criticità del Csm non si siano manifestate. 

In altri casi non sono state rilevate criticità sul contenuto dell’attività del Csm, bensì sulla lentezza delle procedure espletate dall’organo, che vengono percepite come macchinose: «Ma allora perché non lo liberiamo, il Csm, di tutte ‘ste pratiche che sono più di forma che di sostanza, e non rimane impegnato nelle cose sostanziali? Ci ha dovuto mettere sei mesi (…), c’era da deliberare chiaramente una questione, ma non complicata; di fatto, l’aveva già decisa trecento volte e ha deciso in conformità con la sua giurisprudenza, con la giurisprudenza del tar, del Consiglio di Stato, però non lo so… mi sembra molto, molto lento, e macchinoso» (intervista 15).

L’attività dei consigli giudiziari è in genere percepita come maggiormente vicina al lavoro concreto dei giovani magistrati, come risulta dalle seguenti considerazioni:

«[il Csm lo vedo lontano, come un’entità lontana… i consigli giudiziari già meno, perché comunque ci arriva sempre il report e incidono significativamente sull’organizzazione… – cit. supra] per esempio, quando io sono arrivata è stato fatto il piano dell’assegnazione dei miei fascicoli, il consiglio giudiziario l’ha valutato, ha fatto delle osservazioni, ha insomma rappresentato alcune criticità e altre cose che andavano bene… Quindi è comunque un’attività, quella del consiglio giudiziario, che un po’ la senti come più vicina…» (intervista 21). 

Tirando le somme, i giovani magistrati intervistati non hanno manifestato un giudizio positivo o negativo, vale a dire monolitico sull’attività del Csm e dei consigli giudiziari di riferimento. Le opinioni sono sfumate e sono talvolta influenzate da esperienze personali, talvolta dall’esperienza di altri o da ciò che viene sentito dire dai colleghi. Quest’ultimo aspetto riguarda soprattutto le opinioni sul Csm, per la maggiore distanza dell’organo dal lavoro dei magistrati sui territori.

 

3.5. La riforma dell’ordinamento giudiziario 

La questione della riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, approvata con la legge del 17 giugno 2022, n. 71, è stata posta in molte interviste e nell’ambito dei focus group, anche se il tema non era stato inizialmente inserito nella traccia di intervista. La questione è stata richiamata più volte nell’ambito delle prime interviste realizzate. Il gruppo di ricerca ha allora ritenuto di sondare questo tema, con particolare riferimento alle opinioni dei magistrati relative agli aspetti della riforma dell’o.g. che hanno trovato ampio spazio nel dibattito pubblico, anche in considerazione della significativa rilevanza mediatica assunta negli ultimi decenni dalle vicende relative al sistema giudiziario[51].

Emerge una visione critica della riforma proveniente dalla maggior parte dei magistrati che hanno partecipato alla ricerca. 

Una questione su cui gli intervistati si sono soffermati spesso è quella relativa alla limitazione posta ai passaggi tra funzioni giudicanti e funzioni requirenti, prevista dall’art. 12 l. n. 71/2022[52]. Nell’ambito delle interviste, il tema è stato affrontato con coloro i quali si occupano, sia svolgendo funzioni giudicanti sia funzioni requirenti, di diritto penale. In generale, è stato precisato dai magistrati che hanno partecipato alla ricerca che i passaggi di funzione in magistratura avvengono raramente[53]. L’ipotesi avanzata da alcuni intervistati è che il provvedimento abbia costituito, più che altro, un caso di legislazione “simbolica”[54], cioè una politica che «guarda agli affetti, alle emozioni, con l’intento di rassicurare una certa fascia della popolazione (e quindi dell’elettorato)»[55], finalizzata a punire la magistratura:

«Poi, bisognerà vederla attuata, adesso si parla sulla carta, ma… io sono stato uno di quelli che hanno scioperato quando è stato indetto lo sciopero dell’Anm… E penso sia stata un po’ simbolica, un po’ punitiva, con intento vagamente punitivo, magari neanche punitivo, però… certamente non rispondente a quelle che potevano essere le reali esigenze di riforma, ecco. Il pericolo di una deriva verticistica degli uffici, di un’entrata a gamba tesa del Ministero, e quindi del Governo, in quello che è l’autogoverno, che invece è rimesso alla magistratura… Questo è veramente il grosso rischio della riforma, vediamo…» (intervista 22).

Nello stesso senso, è stato affermato:

«L’ulteriore frustrazione è stata vedere il legislatore che, invece di farsi carico dei problemi della giustizia ha… – non il legislatore: i partiti, diciamo così, i politici hanno – cavalcato questa débâcle della magistratura, per poterle togliere l’indipendenza. Questo per me è stato veramente… doloroso. Anche quello che è stato fatto passare ai cittadini tramite i media (…), il far credere ai cittadini che la giustizia va lenta perché i magistrati non lavorano, quando in realtà quelli che hanno i ritardi – nonostante ci sia chi lavora meglio, chi lavora peggio, chi è appassionato, chi meno – si contano sulle dita… Io ne conoscerò uno che ha i ritardi… quindi, il problema della lentezza della giustizia non dipende a mio avviso dall’inefficienza del singolo magistrato, e questo il cittadino non lo capisce. In più la sanzione… Cioè, mi è sembrato si sia voluto cavalcare quest’onda per poter creare un vulnus alla democrazia, alla fine» (focus group n. 2);

«Non è che uno fa quello che vuole, si alza la mattina e fa quello che vuole, assolutamente, (…) però, ecco, bisogna stare attenti, soprattutto i giovani magistrati, all’indipendenza. Perché le valutazioni di professionalità sono delle cose piccole, ma possono minacciare. Così come la paura del disciplinare, che crea magistratura difensiva… bisogna stare attenti. Il rischio, poi, è che uno abbia un approccio conservativo… od “omertoso”, del tipo: “ma perché mi devo mettere contro il presidente di sezione?”» (intervista 36).

Diversi intervistati hanno quindi manifestato il timore che alcuni aspetti della riforma costituiscano un ostacolo all’indipendenza della magistratura, nonché un preludio a una maggiore gerarchizzazione delle procure[56]. Una questione che è stata sollevata concerne il rischio della sottoposizione del pubblico ministero al potere esecutivo e di un suo conseguente allontanamento dalla giurisdizione[57]. Molti intervistati ritengono che la subordinazione del ruolo del pm al potere giudiziario costituisca una tutela per le garanzie dei cittadini. In questo senso, alcuni hanno sottolineato che condividere una medesima cultura professionale, ma anche svolgere funzioni diverse, costituisca un arricchimento per il lavoro dei magistrati:

«La maggior parte dei magistrati da me conosciuti che ritengo più competenti e più bravi erano persone che avevano svolto entrambe le funzioni… E non è assolutamente vero quello che viene fatto passare, che se hai fatto il pm non puoi fare il giudice perché hai l’ottica accusatoria: non è così, semplicemente è un arricchimento che tu hai, secondo me… A maggior ragione passando da giudice a pm, probabilmente. Per chi ha fatto il pm aver fatto il giudice può risultare ancor più utile, perché ti cala ulteriormente nella prospettiva del dibattimento, cosa che impari a fare anche da pubblico ministero, però è un qualcosa che ti arricchisce, che ti arricchisce tanto…» (intervista 21).

Un altro aspetto della riforma criticato dagli intervistati concerne il criterio che riguarda la riforma del sistema di valutazione di professionalità, in base al quale si prevede che «il consiglio giudiziario acquisisca le informazioni necessarie ad accertare la sussistenza di gravi anomalie in relazione all’esito degli affari nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento, nonché, in ogni caso, che acquisisca, a campione, i provvedimenti relativi all’esito degli affari trattati dal magistrato in valutazione nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento e del giudizio»[58] e che si debba «prevedere l’istituzione del fascicolo per la valutazione del magistrato, contenente, per ogni anno di attività, i dati statistici e la documentazione necessari per valutare il complesso dell’attività svolta, compresa quella cautelare, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo, la tempestività nell’adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento e del giudizio, nonché ogni altro elemento richiesto ai fini della valutazione»[59]. L’idea generale è che questi provvedimenti favoriscano nella magistratura la tendenza a emettere provvedimenti conservativi, come affermato da alcuni intervistati:

«Trovo molto grave, molto pericoloso l’ancoramento della valutazione di professionalità al cosiddetto fascicolo della performance e alla verifica circa la tenuta dei provvedimenti nei gradi successivi, per i giudici, ai pubblici ministeri sulla base (…) dell’accoglimento delle proprie richieste. Credo che sia profondamente sbagliato dal punto di vista ideologico, nel senso che si favorisce un appiattimento e una conservazione… Credo, quindi, che sia una scelta molto conservatrice, mentre è evidente che le maggiori innovazioni provengono dal momento in cui si dissente dall’opinione maggioritaria, perché altrimenti ci sarebbe conformismo (…). Non è detto che sia un cattivo giudice se adotto un orientamento minoritario, anzi, forse proprio perché è minoritario, magari posso fare una splendida sentenza: non io personalmente, ma un giudice può fare una sentenza approfondita, con il più alto grado di cultura e preparazione, e viene riformato in appello con tre righi, in cui si copia una massima della Cassazione. Non significa che (…) il giudice d’appello sia più bravo del giudice di primo grado, anzi evidentemente il giudice di primo grado, seppur smentito – ed è legittimo che sia così –, magari ha dimostrato maggior bravura e preparazione… Quindi, la tenuta dei provvedimenti non è certamente uno strumento di valutazione della professionalità e della capacità del magistrato» (intervista 11). 

Dagli anni settanta ad oggi, la magistratura è divenuta un soggetto agente di riforme in campo civile e politico[60], intervenendo in «una pluralità di situazioni prive di copertura normativa e/o di stallo decisionale, nelle quali il potere giudiziario è chiamato, in un modo o nell’altro a intervenire»[61]. Secondo i magistrati che hanno partecipato alla ricerca, alcuni aspetti della riforma potrebbero minare la tutela giurisdizionale dei diritti dei cittadini[62]

In questo senso, è stato criticato il cd. “fascicolo della performance” del magistrato, che potrebbe rilevare sia in sede di valutazione di professionalità che ai fini dell’attribuzione di incarichi direttivi e semidirettivi: 

«Secondo me la vera stortura riguarda un po’ questa sorta di “pagella” dei magistrati, nel senso che applicare a un lavoro come il nostro, in cui si scontenta sempre qualcuno, una logica da social network va a discapito dei cittadini, perché saranno poi i cittadini a sapere che un magistrato ha avuto come voto in pagella 10 e un altro ha avuto 6: e perché io devo andare da quello scarso e non posso andare da quello bravo? Giustamente. Questa cosa è una follia» (intervista 16). Il fascicolo favorirebbe quindi «un approccio aziendalistico e produttivo del settore giustizia»[63], che, essendo contraddistinto da «una implicita pressante richiesta di risultati»[64], sacrifica inevitabilmente il dovere di fornire ai soggetti coinvolti in un procedimento una risposta di giustizia. 

In generale, molti partecipanti alla ricerca ritengono che la riforma, da una parte, sia il frutto dell’ignoranza del decisore politico in tema di funzionamento del sistema giustizia e che, dall’altra, corrisponda a una volontà di punire la magistratura, che è stata definita da uno degli intervistati una «categoria odiata»:

«(…) la vendetta nei confronti del magistrato, che oggi è la nuova categoria odiata dal pubblico, perché… chissà quanti soldi guadagna il magistrato… il magistrato non fa niente, perché effettivamente il cittadino percepisce che fa una causa il giorno X e arriva a sentenza dopo dieci anni, quindi il risultato più immediato, per chi non conosce il sistema giurisdizionale, oppure la dinamica dell’ufficio di un tribunale, è: il magistrato non fa niente, perché altrimenti l’avrebbe decisa, la causa» (focus group n. 2).

Secondo molti partecipanti, i principali temi su cui intervenire sarebbero le carenze di organico e di risorse economiche in cui versano gli uffici giudiziari italiani. La risposta politica viene quindi giudicata inadeguata a fronteggiare le problematiche dell’amministrazione della giustizia, che nella riforma sarebbero state affrontate focalizzandosi eccessivamente sulle mancanze dei magistrati, sia al fine di confermare «molti cittadini nelle loro convinzioni»[65] sulle storture della magistratura, sia al fine di limitare l’indipendenza del potere giudiziario.

 

3.6. L’associazionismo 

Con i partecipanti alle interviste e ai focus group è stato affrontato il tema dell’associazionismo in magistratura. Per quanto concerne il corpo associativo costituito dall’Associazione nazionale magistrati, pressoché la totalità dei magistrati che hanno partecipato alla ricerca – salvo qualcuno che non si è espresso nello specifico su questo aspetto – ha dichiarato di essere iscritto all’Anm, anche se molti hanno specificato che non partecipano attivamente all’Associazione e di essere iscritti «perché lo si fa. È il sindacato» (intervista 5). 

Molto più complesso è il rapporto tra i partecipanti e le cd. “correnti” della magistratura[66]. Le correnti sono percepite da alcuni magistrati come responsabili, almeno in parte, del discredito che avrebbe colpito la magistratura nel sistema mediatico e che si sarebbe diffuso anche tra i cittadini[67]: «Percepisco questo: che un discredito nei confronti della categoria derivi da quello che si legge sui giornali, da problemi di accordi tra correnti, cioè quello che si è sempre fatto – da quello che si legge sui giornali, io non sono mai stata al Csm, non ho mai fatto niente e non ho esperienza diretta –: si scelgono le cose sulla base di accordi tra correnti. Nei posti di potere molto importanti, cioè nelle nomine che contano. Non perché ci sia Tizio che è più bravo, Caio che è più bravo o Sempronio, ma perché c’è tutto questo… interscambio, tutto questo parlare su chi bisogna mettere… legato ai rapporti di corrente. Perciò si è sempre detto, anche quando sono entrata in magistratura: “se non stai con una corrente, non potrai fare niente, non potrai andare avanti”… nel senso che farai il tuo lavoro, ma sarà molto più difficile per te, se non sei sostenuto da qualcuno, diventare un giorno, se ti interesserà, presidente di sezione, presidente di tribunale, piuttosto che, non so, avere una nomina di fuori ruolo per andare al Ministero e svolgere qualche incarico in un fuori ruolo, piuttosto che essere eletto al Csm, piuttosto che tutta una serie di cose» (intervista 1). 

Il “correntismo”, secondo alcuni intervistati, sarebbe anche responsabile del crescente disimpegno dei magistrati nell’associazionismo della magistratura:

«Purtroppo, anche per gli scandali che ci sono stati, per quello che è successo negli anni scorsi, molti colleghi si sono molto distaccati dall’associazionismo; però, ecco, credo che invece non vada demolito, ma vada ricostruito, partendo magari proprio dei magistrati più giovani, per cercare comunque anche nel nostro confronto dialettico interno alla magistratura, di rappresentare all’esterno il nostro punto di vista. Penso che questo sia essenziale, come lo è, quindi, che soprattutto i magistrati più giovani non siano – ripeto – indifferenti a simili questioni. Un atteggiamento di totale estraneità e di “repulsione” rispetto all’associazionismo non aiuta nessuno, perché comunque ci sono questioni che vanno risolte, vanno affrontate, questo lo si può fare soltanto discutendone, cercando il modo di risolverle. Non rimanendo esterni» (intervista 6). Effettivamente, la partecipazione attiva dei magistrati intervistati alle associazioni della magistratura, senza fare distinzioni tra l’Anm e le correnti, riguarda un gruppo nutrito ma minoritario di intervistati. Se si guarda esclusivamente alla partecipazione attiva nelle correnti, il gruppo delle persone coinvolte scende ulteriormente.

La carenza di interesse dei giovani magistrati nei confronti dell’associazionismo, da una parte, viene compresa, ma dall’altra parte viene valutata negativamente da alcuni intervistati, che ritengono che una minore partecipazione dei giovani magistrati all’associazionismo favorisca le dinamiche di spartizione di potere tra le correnti. Alcuni partecipanti alla ricerca hanno sostenuto l’idea che le correnti della magistratura debbano svolgere soprattutto una funzione “culturale”, esprimendo un modello di magistratura e un insieme di valori e ideali condivisi:

«Oggi neanche l’iscritto alla corrente ha un modello culturale… perciò diventa una mera spartizione. Quindi – non faccio esempi… – tra il Procuratore (...) e l’altro collega, qual era la differenza culturale, scusate? Nessuna. Allora diventa solo di potere. Il mio appartiene a me e tizio appartiene a te. Allora il punto è che è un cane che si morde la coda» (focus group n. 1). La percezione di alcuni partecipanti è che le correnti abbiano abdicato al proprio ruolo culturale nella magistratura. 

Queste considerazioni non si accompagnano necessariamente a una mancanza di interesse, da parte dei giovani magistrati, per l’associazionismo. È vero che qualcuno ha affermato di non voler partecipare all’associazionismo della magistratura anche in conseguenza del clamore mediatico che si è diffuso relativamente al correntismo, ma sul tema sono state espresse posizioni diversificate. 

Come si è detto, un gruppo di magistrati intervistati ha dichiarato di partecipare attivamente all’associazionismo, come nel caso di chi ha definito il proprio rapporto con questo ambito come «integrato» (intervista 19):

«Ho una pre-comprensione assolutamente positiva dell’associazionismo, anche in ambito giudiziario, perché ovviamente l’amministrazione della giustizia, come tutti i tipi di amministrazione, non è neutra rispetto al valore. Nella stessa scelta di un dirigente piuttosto che di un altro incidono – credo che, da questo punto di vista, sia positivo – valutazioni ideali, valoriali… e, quindi, necessariamente politiche – intendendo, per “politica”, quella sana. Avere un determinato approccio rispetto alla giurisdizione piuttosto che un altro, ovviamente, è frutto di una scelta ideologica, su questo non c’è alcun dubbio… e “ideologica” in senso positivo, valoriale» (intervista 11). 

Occorre, poi, precisare che molti partecipanti che hanno dichiarato di non prender parte alla vita associativa, hanno motivato il proprio disimpegno in questo frangente con la mancanza di tempo da dedicare a questioni che non consistono nel lavoro quotidiano e nella vita personale e familiare. 

Ci sono, ancora, partecipanti che hanno manifestato un interesse per l’associazionismo, affermando che si stanno guardando attorno al fine di comprendere le caratteristiche dei diversi gruppi associativi, anche se non hanno ancora individuato il gruppo specifico in cui inserirsi:

«Diciamo che mi reputo abbastanza vicina alle idee di come svolgere questo lavoro, all’idea di giurisdizione di alcune correnti. Penso sia innegabile che, come dire, le esperienze personali, sociali, i valori di una persona influenzino anche il suo modo di esercitare questo mestiere, è fuor di dubbio. Chi lo nega si nasconde dietro un dito, ecco. Quindi, sicuramente sono vicina, non sono iscritta a nessuna corrente, sono appena entrata, non me la sarei sentita dall’inizio» (intervista 12);

«Non sono iscritta a correnti, voglio precisare. Non perché sia indecisa su quale io senta più vicina, lo so benissimo (…). Non mi iscrivo perché non mi sento pronta a dire: voglio farne parte» (focus group n. 2).

Infine, è interessante sottolineare che alcuni partecipanti alla ricerca hanno precisato che, a loro avviso, la minore partecipazione dei giovani magistrati all’associazionismo è da imputare al minore interesse che la società nutre per l’impegno politico in generale, affermando che la magistratura, in questo senso, è «lo specchio della società» (focus group n. 1).

 

 

1. L.M. Friedman, Il sistema giuridico nella prospettiva delle scienze sociali, Il Mulino, Bologna, 1978; sul concetto di «cultura giuridica» si rimanda anche a C. Pennisi - F. Prina - M.A. Quiroz Vitale - M. Raiteri (a cura di), Amministrazione, cultura giuridica e ricerca empirica, Maggioli, Santarcangelo di Romagna (Rn), 2018, pp. 3-17, e a M.L. Ghezzi - G. Mosconi - C. Pennisi, Processo penale, cultura giuridica e ricerca empirica, Maggioli, Santarcangelo di Romagna (Rn), 2017.

2. M. Cardano e L. Gariglio, Metodi qualitativi. Pratiche di ricerca in presenza, a distanza e ibride, Carocci, Roma, 2022; M. Cardano, La ricerca qualitativa, Il Mulino, Bologna, 2011.

3. M. Cardano e L. Gariglio, Metodi qualitativi, op. cit., p. 97.

4. Ibid.

5. Ivi, p. 110.

6. Ivi, p. 111.

7. Ivi, p. 117.

8. Ivi, p. 123.

9. Ivi, p. 144.

10. Ivi, p. 123.

11. Ivi, p. 273.

12. Cfr. C. De Villiers - M.B. Farooq - M. Molinari, Qualitative Research Interviews Using Online Video Technology – Challenges and Opportunities, in Meditari Accountancy Research, vol. 30, n. 6/2022, pp. 1764-1782.

13. M. Cardano e L. Gariglio, Metodi qualitativi, op. cit., p. 272.

14. Ivi, p. 273.

15. Ivi, p. 272.

16. Ivi, p. 271.

17. Sui vantaggi delle interviste discorsive sincrone condotte a distanza, si rimanda a H. Deakin e K. Wakefield, Skype interviewing: reflections of two PHD Researchers, in Qualitative Research, vol. 14, n. 5/2014, pp. 603-616; V. Lo Iacono - P. Symonds - D.H.K. Brown, Skype as a Tool for Qualitative Research Interviews, in Sociological Research Online, vol. 21, n. 2/2016, pp. 1-15; M.M. Archibald - R.C. Ambagtsheer - M.G. Casey - M. Lawless, Using Zoom Videoconferencing for Qualitative Data Collection: Perceptions and Experiences of Researchers and Partecipants, in International Journal of Qualitative Methods, vol. 18, 2019, pp. 1-8; M. Cardano e L. Gariglio, Metodi qualitativi, op. cit., p. 273. 

18. K.M. Abrams e T.J. Gaiser, Online Focus Groups, in N.G. Fielding - R.M. Lee - G. Blank (a cura di), The Sage Handbook of Online Research Methods, Sage, Londra, pp. 435-450; M. Cardano e L. Gariglio, Metodi qualitativi, op. cit., p. 278.

19. Ossia: 1 in Liguria, 6 in Lombardia, 3 in Piemonte, 1 in Emilia-Romagna e 3 in Veneto.

20. Di cui 3 nel Lazio e 2 in Toscana.

21. Di cui 1 in Abruzzo, 1 in Basilicata, 7 in Calabria, 5 in Campania, 1 in Molise, 1 in Puglia. Per quanto riguarda l’Italia insulare, 1 magistrato intervistato era in servizio in Sardegna e 5 magistrati intervistati erano in servizio in Sicilia.

22. C. Blengino, Interpretazione del diritto e cultura giuridica, in A. Cottino (a cura di), Lineamenti di sociologia del diritto, Giappichelli, Torino, 2022, p. 186.

23. A. Gentili, Il diritto come discorso, Giuffrè, Milano, 2013, p. 146.

24. M. Jori, Oggetto e metodo della scienza giuridica, in U. Scarpelli (a cura di), La teoria generale del diritto. Problemi e tendenze attuali. Studi dedicati a Norberto Bobbio, Edizioni di Comunità, Milano, 1983, p. 180.

25. N. Delai e S. Rolando, Magistrati e cittadini. Indagine su identità, ruolo e immagine sociale dei magistrati italiani, iniziativa promossa dalla Scuola superiore della magistratura, Franco Angeli, Milano, 2016, pp. 59-61.

26. Spesso si tratta del tirocinio ex art. 73 dl 21 giugno 2013, n. 69, conv. con modif. dalla l. 9 agosto 2013, n. 98 e succ. mod., o di periodi di tirocinio negli uffici giudiziari previsti dalle scuole di specializzazione per le professioni legali.

27. R. Pound, Law in the books and law in action, in American Law Review, vol. 44, n. 1, 1910, pp. 12-36.

28. D. Piana, Magistrati. Una professione al plurale, Carocci, Roma, 2010, p. 142; vds. anche L. Verzelloni, Pratiche, prassi e occasioni di apprendimento, Pendragon, Bologna, 2009, pp. 42 ss.

29. Ivi, p. 150.

30. C. Blengino e C. Sarzotti, La didattica esperienziale: una sfida per l’epistemologia giuridica e la sociologia del diritto, in Iid. (a cura di), Quale formazione per quale giurista? Insegnare il diritto nella prospettiva socio-giuridica, Quaderni del Dipartimento di Giurisprudenza, Università di Torino, n. 24/2021, p. 18.

31. M. Vogliotti, La fine del grande stile, in V. Barsotti (a cura di), L’identità delle scienze giuridiche in ordinamenti multilivello, Quaderni del Dottorato fiorentino in Scienze giuridiche, Maggioli, Santarcangelo di Romagna (Rn), 2014, p. 166.

32. C. Blengino e C. Sarzotti, La didattica esperienziale, op. cit., pp. 11-35.

33. D. Piana, Magistrati, op. cit., p. 142.

34. Cfr. E. Rigo, Learning by caring: a proposal for a feminist perspective on clinical legal education, in Roma Tre Law Review, n. 1/2023, pp. 109-117.

35. R. Castel, Disuguaglianze e vulnerabilità sociale, in Rassegna italiana di sociologia, vol. XXXVIII, n. 1/1997, pp. 41-56.

36. Cfr. C. Blengino, Formare il giurista oltre il senso comune penale: il ruolo della clinical legal education in carcere, in Ead. (a cura di), Stranieri e sicurezza. Riflessioni sul volto oscuro dello stato di diritto, ESI, Napoli, 2015, pp. 151-183; Ead., Fondamenti teorici di una pratica: approccio bottom up, prospettiva interdisciplinare e impegno civile nella clinica legale con detenuti e vittime di tratta, in A. Maestroni - P. Brambilla - M. Carrer (a cura di), Teorie e pratiche nelle cliniche legali, Giappichelli, Torino, 2018, pp. 233-260.

37. C. Blengino e C. Sarzotti, La didattica esperienziale, op. cit., pp. 8-9.

38. D. Schön, Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Dedalo, Bari, 1993.

39. K. Kruse, Getting Real About Legal Realism, New Legal Realism and Clinical Legal Education, in New York Law School Law Review, vol. 56, 2011 (https://open.mitchellhamline.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1383&context=facsch).

40. Cfr. infra, in questo paragrafo, lett. B).

41. D. Piana, Magistrati, op. cit., p. 142.

42. Cfr. infra, parr. 3.3., lett. B), e 3.6.

43. D. Piana, Magistrati, op. cit., pp. 161-162.

44. Ibid.

45. L. Verzelloni, Pratiche, op. cit., p. 268.

46. Cfr. C. Blengino, Esercizio dell’azione penale e processi organizzativi: la selezione del crimine come output della Procura, in C. Sarzotti, Processi di selezione del crimine. Procure della Repubblica e organizzazione giudiziaria, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 117-225.

47. L. Verzelloni, Pratiche, op. cit., p. 267.

48. Csm, Ufficio statistico, «Distribuzione per genere del personale di magistratura» (agg. a marzo 2023).

49. Ibid.

50. Cfr. part. F. Tacchi, Eva Togata. Donne e professioni giuridiche in Italia dall’Unità a oggi, UTET Giuridica, Milano, 2009, pp. 196-201.

51. Cfr. P. Giglioli - S. Cavicchioli - G. Fele, Rituali di degradazione. Anatomia del processo Cusani, Il Mulino, Bologna, 1997; E. Bruti Liberati, Delitti in prima pagina. La giustizia nella società dell’informazione, Raffaello Cortina, Milano, 2022.

52. Per alcune considerazioni sulla separazione delle carriere, anche alla luce della riforma, cfr. N. Rossi, Oltre la separazione delle carriere di giudici e pm. L’obiettivo è il governo della magistratura e dell’azione penale, in Questione giustizia online, 4 settembre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/oltre-separazione-carriere); V. Maisto, La separazione delle carriere tra argomenti tradizionali ed evoluzione del processo: un tema ancora attuale?, in questa Rivista trimestrale, n. 2-3/2022, pp. 184-188 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/1040/2-3_2022_qg_maisto.pdf).

53. Per un approfondimento statistico sui passaggi da funzioni requirenti a funzioni giudicanti e viceversa, cfr. il rapporto «La mobilità della magistratura italiana sul territorio» dell’Ufficio statistico del Csm (agg. al 2018 – www.csm.it/web/csm-internet/-/la-mobilita-della-magistratura-italiana-sul-territorio).

54. M. Edelman, Gli usi simbolici della politica, Guida, Napoli, 1987.

55. A. La Spina e E. Espa, Analisi e valutazione delle politiche pubbliche, Il Mulino, Bologna, 2011, p. 22.

56. Peraltro già avviata con il d.lgs n. 106/2006.

57. Sul punto vds. anche V. Maisto, La separazione, op. cit.

58. Art. 3, comma 1, lett. g, l. n. 71/2022.

59. Art. 3, comma 1, lett. h, n. 1, l. n. 71/2022.

60. A.M. Hespanha, La cultura giuridica europea, Il Mulino, Bologna, 2012.

61. A. Pizzorno, Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù, Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 7.

62. Cfr. M.R. Ferrarese, Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni, Il Mulino, Bologna, 2002.

63. V. Maccora, La dirigenza degli uffici giudiziari: luci e ombre della riforma, in questa Rivista trimestrale, n. 2-3/2022, p. 62 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-dirigenza-degli-uffici-giudiziari-luci-e-ombre-della-riforma).

64. O. Civitelli, La giustizia e la performance, in questa Rivista trimestrale, n. 2-3/2022, p. 90 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-giustizia-e-la-performance).

65. A. La Spina e E. Espa, Analisi, op. cit., p. 22.

66. Che trovano espressione anche all’interno del Csm: cfr. A. Nappi, Quattro anni a Palazzo dei Marescialli. Idee eretiche sul Consiglio Superiore della Magistratura, Aracne, Roma, 2014.

67. E. Bruti Liberati, Delitti, op. cit.