Magistratura democratica

Dalle motivazioni all’ufficio giudiziario: la percezione del ruolo del giovane magistrato

di Costanza Agnella

Il presente contributo pone attenzione sulla dimensione motivazionale dei giovani magistrati partecipanti alla ricerca. Prendendo avvio dalle motivazioni espresse nelle interviste e nei focus group circa l’ingresso in magistratura, vengono delineate le diverse prospettive sul tema. Successivamente, l’attenzione viene focalizzata sulle (diverse) motivazioni alla base della scelta del settore – civile o penale – o della funzione, giudicante o requirente. Vengono illustrate, in particolare, anche le motivazioni espresse dai magistrati che hanno scelto di prestare servizio nella magistratura di sorveglianza. Infine, viene messo in luce l’incontro/scontro tra le idee, le opinioni, le percezioni del ruolo del magistrato antecedenti all’ingresso in magistratura con il lavoro, reale e concreto, negli uffici giudiziari.

1. Le motivazioni alla base dell’ingresso in magistratura… / 2. … e quelle alla base della scelta del settore e della funzione / 3. La percezione del ruolo: incontro/scontro con la realtà degli uffici giudiziari

 

1. Le motivazioni alla base dell’ingresso in magistratura…

Una questione ampiamente affrontata nell’ambito della ricerca attiene alle motivazioni che conducono un giovane laureato in giurisprudenza a intraprendere la strada del concorso in magistratura tra i diversi percorsi professionali possibili. Infatti la motivazione, quale dimensione spesso correlata ai valori, ai principi, alle idee[1], può essere un elemento che incide significativamente sulla cultura giuridica del magistrato. 

In linea con la «frantumazione di posizioni»[2] che connota la cultura giuridica della magistratura, nelle risposte degli intervistati sono individuabili tre approcci. 

Un primo approccio è quello condiviso da un gruppo consistente, ma non maggioritario, di intervistati, che ha dichiarato di avere «sempre» (intervista 1) avuto l’idea di fare ingresso in magistratura:

«sempre, sempre non mi ha mai abbandonato. È sempre stato il mio sogno fin da bambina. Tanto è vero che mia mamma ironizza e dice: hai detto prima “magistrato” e poi “mamma”. È sempre stato il mio sogno e non l’ho mai abbandonato» (intervista 40).

Questo frame narrativo viene evocato dai magistrati intervistati richiamandosi principalmente al contesto familiare di riferimento, all’ammirazione per figure di magistrati celebri, all’approfondimento di tematiche proprie del mondo della giustizia tramite la fruizione di percorsi formativi o di prodotti culturali. In questo senso, alcuni intervistati hanno precisato di avere avuto contatti con il mondo del diritto, e dunque con la cultura giuridica interna[3], a partire dalla propria famiglia: non soltanto grazie alla presenza di familiari avvocati o magistrati, ma anche di familiari appartenenti alle forze dell’ordine. Tra le figure di magistrati illustri maggiormente richiamate ci sono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che una partecipante alla ricerca ha definito esempi di magistrato «con la schiena dritta» (focus group 1), ma sono stati menzionati anche altri magistrati, come Gian Carlo Caselli, Nicola Gratteri, Rosario Livatino. È interessante segnalare che uno degli intervistati – che aveva precedentemente intrapreso un altro percorso professionale, ma che ha sempre coltivato il desiderio di fare ingresso in magistratura – ha menzionato un magistrato realmente conosciuto, che è stato rilevante nella decisione di intraprendere la strada del concorso. Un magistrato ha descritto la propria motivazione originaria richiamando una «visione adolescenziale fanciullesca» che consisteva nel «prendere il cattivo per salvare il buono», mentre un’altra magistrata ha fatto riferimento all’idea della magistratura come lavoro che consente l’applicazione «di principi comunque votati agli altri» (focus group 1). Alcuni intervistati, nel rispondere alle domande inerenti al tema della motivazione, hanno risposto dando per scontato che l’ingresso in magistratura sia l’obiettivo «più alto» (intervista 12) per uno studente di giurisprudenza, o comunque l’obiettivo maggiormente ambizioso. Quello del magistrato è stato descritto come un lavoro «perfetto» (focus group 3), che consente di coniugare l’approfondimento teorico con l’approccio pratico e la possibilità di incidere concretamente sulla realtà. Una persona intervistata ha fatto riferimento ad alcuni progetti sulla legalità realizzati nei gruppi giovanili dell’Azione cattolica, che sono stati rilevanti nel suo percorso per avvicinarsi alla tematica (intervista 40). 

L’approccio maggioritario è quello degli intervistati che hanno dichiarato di avere maturato il desiderio di intraprendere la strada della magistratura tramite esperienze di studio o di lavoro. Questi intervistati hanno fatto riferimento principalmente a due aspetti, che si potrebbero definire due lati della stessa medaglia: l’assunzione della consapevolezza di non essere portati per la professione forense e l’attrazione verso alcune caratteristiche ritenute tipiche del lavoro del magistrato. Alcuni intervistati hanno infatti sottolineato che per svolgere il ruolo dell’avvocato è necessario possedere alcune caratteristiche specifiche, facendo riferimento all’avvocato come libero professionista sottoposto alle regole del mercato[4]: la professione forense richiede la capacità di saper promuovere se stessi per «cercare clienti» (intervista 23). In questo senso, alcuni intervistati hanno dichiarato esplicitamente di non possedere quest’abilità. Un’altra capacità professionale che alcuni intervistati hanno associato all’avvocatura è la «sicurezza di sé», a prescindere dall’effettiva preparazione tecnica su specifiche questioni giuridiche. Come è stato affermato da Aurelio Gentili, «la prassi forense è un discorso persuasivo»[5]. In questo senso, uno degli intervistati, che aveva precedentemente svolto la professione di avvocato, ha sottolineato le grandi difficoltà sperimentate nel momento in cui veniva chiamato a fornire risposte immediate al cliente senza aver avuto tempo e modo di approfondire lo studio della questione giuridica prospettata. Un altro aspetto che emerge dalle parole degli intervistati riguarda la necessità, tipica della professione dell’avvocato, di «sposare la tesi» (interviste 16 e 23) più favorevole al cliente: alcuni intervistati hanno riferito che non sarebbero mai riusciti – o che sarebbero riusciti con grande difficoltà – a svolgere al meglio la professione sotto questo profilo, che è stato definito in letteratura «cinismo avvocatesco»[6]. Questo elemento è stato individuato come problematico soprattutto nel settore penale:

«Poi, obiettivamente, facendo pratica in uno studio di penale mi sono reso conto che non sarei stato in grado di difendere qualcuno nel penale, sinceramente no. Non ce l’avrei fatta. A sostenere l’insostenibile non… o comunque, cioè… non ce l’avrei fatta a sostenere una tesi nell’interesse del cliente con problemi di coscienza, e non comunque per tutti i reati» (intervista 37).

Gli intervistati contrappongono questi tre aspetti, ritenuti tipici della professione forense, ad alcune caratteristiche che essi considerano tipiche del lavoro del magistrato. Alcuni intervistati sottolineano di avere coltivato il «mito del posto pubblico» o comunque «fisso» (interviste 14 e 16), in contrapposizione alla libera professione, anche per la stabilità economica e organizzativa che caratterizza il settore pubblico. Inoltre, molti intervistati hanno dichiarato di aver percepito la professione del magistrato come un lavoro che consente un grande approfondimento delle questioni giuridiche. Qualcuno ha contrapposto espressamente la preparazione richiesta al magistrato rispetto a quella richiesta all’avvocato, ritenendo la prima, in generale, superiore[7]. Infine, una caratteristica che è stata menzionata da molti intervistati, anche in contrapposizione alla professione forense, è quella dell’indipendenza e della terzietà della magistratura rispetto alle questioni trattate: come ha efficacemente sottolineato qualcuno, la sensazione di «poter essere sempre “a posto” con la coscienza dal punto di vista intellettuale, di approccio» (intervista 16). 

Un gruppo minoritario, ma comunque presente, di intervistati ha specificato invece di avere intrapreso la strada del concorso in magistratura per motivazioni «non ideologiche» (interviste 2 e 7), principalmente come «seconda scelta», dopo la fine di un altro percorso professionale, che per la maggior parte degli intervistati che condividono questa prospettiva coincide con la carriera accademica. In generale, la magistratura è stata percepita come la strada maggiormente affine all’accademia sotto il profilo dell’approfondimento e dello studio dedicato alle questioni giuridiche, con una prospettiva più solida e stabile sotto il profilo contrattuale. D’altro canto, come evidenzia Claudio Sarzotti[8], in taluni casi questa idea potrebbe sposare una concezione tradizionalista della professione del magistrato, che ritiene l’approfondimento dottrinario superiore alla pratica del diritto. Un magistrato che si inserisce in questo filone, peraltro, ha sottolineato il potenziale critico dell’accademia nei confronti dell’esercizio del potere della magistratura, sotto questo profilo maggiormente affine alla prospettiva della professione forense:

«ad essere sincero, non ho mai avuto un’esaltazione di questa funzione [della magistratura], nel senso che non ho mai pensato di avere il “fuoco sacro” per la giustizia o questo tipo di cose. Sono un poco più dubbioso, ecco, su questi aspetti. Però, insomma, l’ho sempre reputata una funzione importante… sebbene poi, con gli anni del dottorato, vedessi anche nella magistratura l’espressione di un… di alcuni atteggiamenti forse giustizialisti, forse troppo rigoristici per quanto riguarda la mia materia [il diritto penale], che poi mi portava anche a criticare… sotto il piano delle scelte dei criteri scientifici che si adottavano nelle sentenze, alcune delle loro… delle posizioni della magistratura, ecco. (…) Non ho mai avuto una considerazione enfatica ed esaltata dell’idea del magistrato; anzi, la vedevo anche come… con un approccio critico a questa funzione, al suo concreto dispiegarsi. (…) Forse l’avrei avuta di più per fare l’avvocato, la motivazione ideale. (…) In quello avrei visto, probabilmente… la necessità di difesa, di contrasto… di limite al potere, ai suoi possibili abusi e quindi forse è più vicino a… ma poi è un discorso quasi di indole personale (…) però, insomma, si può fare il magistrato anche… cercando di limitare il potere e i suoi possibili abusi, quindi… per questa motivazione ideologica (…) può darsi che fossi più vicino a quella che, comunemente, è vista come una funzione ideale dell’avvocato» (intervista 17).

Anche gli intervistati che hanno intrapreso la strada della magistratura come seconda scelta richiamano alcune caratteristiche del magistrato particolarmente apprezzabili sotto il profilo ideale, come l’indipendenza e la grande responsabilità che permea il lavoro negli uffici giudiziari. Un magistrato, che si è dimostrato più “tiepido” di altri in relazione alla scelta della magistratura, ha precisato di aver optato per il concorso poiché, al termine degli studi, «uno un lavoro se lo deve pur trovare» e solamente il concorso in magistratura era bandito «con cadenza regolare» (focus group 2). Peraltro, alcuni magistrati che hanno definito il proprio percorso come «accidentato» e come «una serie di seconde scelte» hanno comunque voluto sottolineare che, anche se il lavoro di magistrato non aveva sempre rappresentato la prima aspirazione professionale, sono ampiamente soddisfatti del proprio percorso in magistratura (focus group 3). 

Trasversalmente alle tre categorie di risposte qui richiamate, un gruppo consistente – anche se non maggioritario – di intervistati ha menzionato, come caratteristica del lavoro del magistrato particolarmente apprezzata, la possibilità di rendersi utili alla società (intervista 12), di tutelare i diritti, di «fare la propria parte» (intervista 21): sono le tracce del «magistrato deviante-innovatore» nella magistratura contemporanea, in relazione a cui si rimanda nuovamente al contributo di Sarzotti[9].

Un’altra caratteristica che, in generale, gli intervistati hanno associato alla magistratura è la propensione all’oralità: alcuni hanno ritenuto di essere portati per il lavoro del magistrato per avere riconosciuto tra le proprie caratteristiche personali una certa «capacità oratoria» (intervista 19), o perché tale capacità è stata loro riconosciuta da soggetti esterni, come docenti o conoscenti. Un intervistato ha precisato che, al momento di effettuare la scelta del percorso professionale, associava questa abilità alle professioni giuridiche in generale, secondo l’idea che queste professioni siano retoriche e argomentative[10], idea che, peraltro, ha una lunga storia nella cultura giuridica occidentale[11]

«Credevo che [la professione giuridica] fosse prettamente improntata all’oralità, quindi – siccome sono sempre stato uno che non ha mai avuto difficoltà nel parlare, andavo molto bene nelle interrogazioni, mi esprimevo bene per l’età che avevo – questa idea un po’ naïf che il professionista del diritto – avvocato, giudice, o altro – fosse, diciamo, un oratore è stata uno dei fattori che mi hanno portato verso questa scelta» (intervista 4).

Inoltre alcuni intervistati, anche molto motivati, hanno sottolineato di aver vissuto la preoccupazione, prima del superamento del concorso, di «fossilizzarsi» eccessivamente sullo studio per il medesimo, senza avere coltivato un’alternativa professionale. Per questa ragione molti, contestualmente allo studio per il concorso, hanno intrapreso il percorso di pratica forense o altri percorsi professionali: 

«Ho sempre avuto come sogno ed obiettivo quello di diventare magistrato. Quindi, anche laddove ho fatto, intrapreso esperienze diverse, ho sempre continuato a studiare (…). Perché poi, inevitabilmente, in maniera semplicistica il concorso si può fare al massimo tre volte. (…) inevitabilmente c’è stata anche la volontà di aprire altre strade, insomma il “piano B”, qualora poi non andasse bene» (intervista 40).

Le motivazioni che hanno spinto gli intervistati verso la magistratura si pongono in linea con quelle esposte nella recente ricerca condotta da Nadio Delai e Stefano Rolando. Tale ricerca ha evidenziato, tra le motivazioni principali che conducono i magistrati a intraprendere la professione, «un “intreccio” tra valore ideale della giustizia da perseguire, ruolo a forte valenza istituzionale e spinta vocazionale»; l’«opportunità di uno sbocco professionale che (…) si presenta (…) all’insegna di una selezione basata sul merito e di un buon prestigio sociale dei magistrati» e, infine, «la possibilità di svolgere un ruolo compatibile con le esigenze familiari»[12].

Per quanto concerne il campione dei giovani magistrati intervistati, in generale, le motivazioni ideali non sono sempre state indicate come prioritarie nell’intraprendere il percorso, ma per molti costituiscono comunque un elemento significativo. Come mette in luce Sarzotti, tali aspirazioni alla giustizia sociale sembrano peraltro configurarsi prevalentemente come «inclinazioni individuali»[13] del singolo magistrato.

 

2. … e quelle alla base della scelta del settore e della funzione

Per quanto concerne la scelta tra il settore civile e il settore penale, le motivazioni che ricorrono maggiormente tra le risposte degli intervistati in relazione all’ambito civilistico sono: la propensione per l’approfondimento teorico del diritto rispetto alle questioni di fatto, l’autonomia organizzativa, la maggiore digitalizzazione della giustizia civile. 

Uno degli intervistati ha motivato la scelta del settore civile specificando che:

«mentre il diritto penale, il processo penale è molto più orientato sulla risoluzione di questioni di fatto, invece il processo civile è molto spesso orientato su… innanzitutto questioni di diritto e, poi, anche su questioni di fatto» (intervista 6). 

Un’intervistata ha sottolineato: 

«[Nel civile] il fatto è sulla scena, ma poi emergono le questioni di diritto. Nel diritto penale, invece, è diverso. È il fatto che risulta essere preminente, sul quale poi si innestano ulteriori questioni giuridiche. Però il diritto civile, secondo me, richiede un lavoro di studio, di approfondimento che è notevole» (intervista 40).

Torna, negli argomenti avanzati, l’idea di una cultura giuridica orientata al formalismo[14], che, oltre a separare in modo dicotomico il diritto e il fatto, concepisce quest’ultimo in una posizione inevitabilmente subordinata[15]

Considerazioni analoghe sono state effettuate anche da altri intervistati, che hanno definito il settore civile come «un coacervo di questioni giuridiche» (intervista 10) e come «qualcosa di estremamente tecnico», specificando anche: «Mi piace… un po’ forse anche la cavillosità» (intervista 15). Qualcun altro ha contrapposto il diritto civile al diritto penale: 

«c’è un po’ questo mito – no? – del magistrato che è mosso dal sacro fuoco della giustizia, che va a combattere la mafia… devo dire che personalmente – poi magari non è neanche encomiabile come cosa, però – non mi affascina tutto il mondo del penale, lo trovo un po’ noioso» (intervista 23). 

Qualcuno degli intervistati ha peraltro affermato di avere iniziato il percorso professionale in magistratura nel settore civile, perché «mentre il passaggio dal civile al penale dicono sia più semplice, difficile invece sarebbe il passaggio inverso» (intervista 13). Nello stesso senso, la considerazione di un’altra intervistata – la quale, come magistrato civilista, si trova ad operare per necessità dell’ufficio anche nel settore penale –, che ha affermato: «chi fa civile riesce in qualche modo ad approcciarsi al penale, o comunque alla procedura penale in maniera più distesa… i colleghi che invece fanno penale sono proprio totalmente chiusi rispetto a questa possibilità» (intervista 16).

Alcuni magistrati hanno menzionato l’autonomia nell’organizzazione del lavoro come caratteristica particolarmente apprezzata del settore civile, in quanto consentirebbe al magistrato di non essere eccessivamente vincolato all’organizzazione dell’ufficio e alle attività dei colleghi. Per questa stessa ragione, quello del civilista è stato da alcuni definito un lavoro «solitario» (intervista 15), caratteristica che può assumere una valenza positiva o negativa a seconda delle circostanze e delle inclinazioni dei magistrati interessati. 

Anche il processo civile telematico[16] rientra nelle riflessioni dei magistrati come supporto all’organizzazione del lavoro, specialmente in relazione alla compatibilità degli impegni lavorativi con la vita privata. Questo elemento è stato apprezzato soprattutto da coloro i quali risiedono in un luogo distante dal proprio ufficio giudiziario:

«visto che io amo viaggiare leggera, cioè ormai mi porto solo il pc e non ho praticamente un fascicolo cartaceo al seguito, non mi faccio stampare niente, non stampo nulla… piuttosto perdo la vista, ma preferisco avere tutti gli atti in pdf… invece con il penale si viaggia ancora tanto con faldoni e faldoni cartacei, quindi, finché lavorerò in una sede diversa da quella in cui abito, trovo sinceramente più comodo avere un ruolo di civile» (intervista 15).

Per quanto concerne la scelta del settore, una persona intervistata ha evidenziato come la preponderanza delle questioni di fatto nel diritto penale costituisca l’aspetto di maggiore interesse per il settore stesso: 

«mentre il civile – il civile che piaceva a me – era il civile di interpretazione del diritto, ma quello ti astrae, ti eleva in qualche misura, ti consente di porti dei problemi appunto “giuridici”, che però ti portano “su”, il penale secondo me un po’ ti porta “giù”, sul fatto; e vedere la varietà dell’umanità… lo trovo interessantissimo, molto, molto bello, mi piace l’udienza, mi piace vedere le persone» (intervista 1).

È quindi interessante come questo aspetto, che ha condotto alcuni intervistati a optare per il settore civile, allo stesso tempo costituisca motivo di interesse per il penale. 

Per alcuni intervistati la passione per il diritto penale sembra coincidere con quella che può essere definita la passione per la “Giustizia” con la G maiuscola. Alcuni hanno infatti motivato la scelta per il penale con «una spinta di tipo ideale» che consente di «riconoscere comunque che quello del magistrato è un ruolo attraverso il quale si può sicuramente svolgere un servizio molto importante all’interno di una collettività» (intervista 8), anche facendo esplicito riferimento al contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso. Altri intervistati hanno operato un generico riferimento alla «passione» per il diritto penale, senza spiegarne le motivazioni. Interessante l’esperienza di uno degli intervistati, che ha specificato di aver scelto il settore penale dopo un’esperienza lavorativa in un istituto bancario, rilevando come la passione per questo ambito sia nata a partire da un interesse per gli aspetti tecnici e pratici del processo penale: «non ho scelto il penale perché volevo brandire la spada della Giustizia» (intervista 36). Queste parole confermano, ancora una volta, l’idea – condivisa anche da altri intervistati – che nella cultura giuridica, interna ed esterna, il penale venga spesso associato a un ideale di giustizia.

In contrapposizione rispetto a questa opinione, una persona intervistata – che attualmente opera nel settore penale, ma che in passato ha operato nel settore civile – ha esplicitato un’idea di giustizia che comprende sia il diritto penale che il diritto civile: «Tu hai avuto un sopruso mafioso, e va beh, tu aspiri che venga tutelato in quel modo. (...) non è che tutti sono vittime della mafia (…). Cioè, per me dare 2000 euro a chi non si è visto pagare l’affitto con un contratto, o la vendita dell’appartamento, è la stessa cosa che poi punire chi ha avuto una vittima, un’estorsione o un danneggiamento» (intervista 5).

Le motivazioni maggiormente richiamate relativamente alla scelta della funzione giudicante riguardano le caratteristiche associate a tale funzione. Spesso, tali caratteristiche sono poste in contrapposizione a quelle richieste dal lavoro nelle procure. Tra coloro che hanno scelto la funzione giudicante, molti hanno precisato di avere «bisogno di tempo, (…) di riflettere, di valutare, di decidere, di ponderare» (intervista 1), in vista della decisione. Al contrario, il ruolo del pubblico ministero viene talvolta dipinto come più difficile, poiché, come è stato affermato: «interviene per primo; se il pubblico ministero sbaglia in un senso o nell’altro, se un’indagine è fatta male tutto va a rotoli dopo, deve essere bravissimo il pubblico ministero» (intervista 1). Anche tra coloro che hanno scelto la funzione requirente, alcuni riconoscono questa caratteristica del ruolo del pm, rilevando che effettivamente «si dà la prima coloritura giuridica al fatto» (intervista 3). Qualcuno ritiene che il pubblico ministero abbia la possibilità di approfondire meno le questioni giuridiche proprio per la concitazione che caratterizza il lavoro. D’altro canto, uno degli intervistati non si è mostrato d’accordo con questo approccio, ritenendo che la funzione requirente consista in un lavoro «prevalentemente d’ufficio, senza contatto col pubblico e individualistico» (intervista 11), che quindi garantisce la possibilità di approfondire maggiormente le questioni, affermando di avere scelto la funzione giudicante per trascorrere molto tempo in udienza a contatto con il pubblico. D’altro canto, qualche altro intervistato ha sottolineato di preferire la funzione requirente per l’«aspetto dell’investigazione, dello scoprire, mettere insieme i pezzi» (intervista 21) e perché tale funzione consente di interfacciarsi con molti soggetti, anche diversi dalla magistratura, come la polizia giudiziaria. In questo stesso senso, una magistrata descrive le motivazioni che l’hanno condotta a scegliere la procura:

«nonostante io forse, diciamo caratterialmente (…) sarei anche più affine a una funzione giudicante come tipo d’impostazione, però da un certo punto di vista, insomma, essendo giovane, tutta la Procura è un ruolo un po’ più dinamico, hai a che fare con tante più persone. Diciamo che il ruolo del giudice è comunque molto solitario, molto chiuso in se stesso. Quindi ho detto: beh, essendo giovane, avendo davanti quarant’anni di carriera, il tempo per fare il giudice l’avrò – speriamo» (intervista 30).

Un altro motivo alla base della scelta della funzione giudicante consiste nell’idea di poter incidere sulla giurisprudenza con la propria decisione[17]

«quello che mi piaceva era l’idea di poter incidere sull’evoluzione giurisprudenziale. E ritenevo di poterlo fare maggiormente da giudice» (intervista 11); «si ha la sensazione, in qualche modo, di poter incidere seriamente» (intervista 16).

Qualcuno degli intervistati che ha scelto la funzione requirente ha descritto questo elemento come «l’enorme difficoltà, poi, di adottare la decisione finale» (intervista 8). Ancora una volta, le motivazioni che spingono alcuni magistrati a scegliere una funzione rispetto all’altra possono essere le medesime che ne spingono altri a non scegliere quella medesima funzione, e viceversa.

Alcuni intervistati esercitavano, al momento dell’intervista, la funzione di giudice di sorveglianza: le motivazioni della scelta di questa funzione presentano peculiarità:

«Prima di fare il concorso ho collaborato [a] uno sportello al carcere di […]. Così come varie altre attività, così come prima ancora mi ero dedicata a fare sportelli per i migranti… quindi, insomma, conosco abbastanza bene il mondo carcerario (…). Ed è un mondo che mi interessa molto, anche perché penso che probabilmente, come funzione… non mi sentivo particolarmente a mio agio a immaginare di condannare qualcuno ad andare in carcere e, dall’altro lato, credo sia anche la funzione che in qualche modo incide sulla realtà in maniera più forte rispetto a tante altre perché si lavora su una realtà esistente, che è quella dei soggetti che sono già privati della libertà personale. Nella Sorveglianza c’è non solo un contatto umano reale, ma anche un’effettività della funzione. Non esistono prescrizioni, non esistono processi che vanno avanti per dieci anni, non esistono processi conclusi e ordini di esecuzione che arrivano a distanza di dieci anni, si lavora già nella fase in cui le scelte sono state prese e c’è un’attuazione della pena. Quindi, forse, sono tutte queste ragioni messe insieme che mi hanno portato a scegliere la Sorveglianza» (intervista 7).

La persona intervistata ha maturato la decisione di scegliere il settore della magistratura di sorveglianza in seguito a esperienze maturate nell’ambito di un impegno sociale pregresso rispetto all’ingresso in magistratura, nel campo dell’associazionismo e delle attività di sportello. La magistratura di sorveglianza viene quindi vista come un luogo particolarmente adatto per promuovere obiettivi di giustizia sociale. Particolarmente interessante è il riferimento all’influenza del ruolo sui soggetti e non sui fatti: inevitabilmente, tutte le funzioni giurisdizionali hanno una ricaduta, in alcuni casi piuttosto significativa, sulla vita degli individui che entrano in contatto con il campo giuridico, ma la magistratura di sorveglianza ha come mandato istituzionale la sorveglianza sull’esecuzione penale del condannato nell’ottica della sua risocializzazione[18], mentre il diritto penale si focalizza principalmente sul fatto di reato. Questa funzione del magistrato di sorveglianza viene considerata come un elemento di grande interesse anche da parte di un altro intervistato, che aveva scelto come prima destinazione il tribunale di sorveglianza per ragioni di vicinanza geografica al suo luogo di provenienza, ma che poi si è appassionato a questo ruolo:

«ho scelto questa funzione in primo luogo per la vicinanza. La sceglierei, invece, altre migliaia di volte perché mi ha appassionato e ancora mi appassiona, quindi è una funzione che mi sono trovato a scegliere per dei motivi; oggi la sceglierei ugualmente, ma per altri, perché mi arricchisce, mi ha dato tantissime soddisfazioni – tantissime, devo dire – nonostante sia generalmente percepita come una funzione minore; mi ha dato anche – mio malgrado, e a volte, invece, con mio preciso impegno – una visibilità che solitamente non viene riconosciuta ai magistrati di sorveglianza. (…) il magistrato di sorveglianza non è il magistrato del fatto, è il magistrato della persona, dell’uomo, della donna che si trova davanti. E quindi, almeno per come io concepisco debba essere esercitata questa funzione, è il magistrato che guarda il volto, volto umano… di chi è entrato nel circuito penale. E questo, secondo me, è un privilegio molto importante, perché consente di sollevare il velo che si posa sui fatti che hanno generato un reato… e se ne capiscono le motivazioni, se ne capiscono le ragioni, le lacerazioni, i travolgimenti che si celano dietro fatti di questo tipo» (intervista 41). 

Nello stesso senso, un magistrato che in precedenza aveva esercitato funzioni penali, poi passato alla sorveglianza, la descrive come «un ruolo che è molto più umano e, in qualche modo, vede cadere quelle barriere che ci sono tra il magistrato e quello che prima è l’imputato. (…) Quando si tratta di responsabilità penale bisogna seguire, insomma, tutti i formalismi e le procedure del codice. Qui non si tratta più di responsabilità penale, la condanna è già arrivata (…) mentre il giudice penale guarda al fatto, più che alla persona… Poi, certo, deve valutare anche la persona, ma guarda al fatto. Qui si guarda alla persona e, quindi, anche alla storia di vita… È affascinante, è bello» (intervista 22).

Le caratteristiche del lavoro del magistrato di sorveglianza sembrano attirare maggiormente quei magistrati che desiderano sperimentare, permanentemente o temporaneamente, un lavoro diverso da quello del magistrato tradizionale[19], confermando in un certo senso l’idea che vede il ruolo di quest’ultimo come scollegato dalla realtà su cui si trova ad operare, distaccato rispetto alla vita dei soggetti nei cui confronti si rivolge. Si tratta dell’immagine del giurista che non dà «spazio alle proprie emozioni» e che si considera «neutrale rispetto ai valori»[20], tipica della cultura giuridica occidentale, che si scontra peraltro con la realtà delle aule di giustizia, in cui spesso le decisioni vengono assunte tramite pre-comprensioni, stereotipi e standardizzazioni[21].

 

3. La percezione del ruolo: incontro/scontro con la realtà degli uffici giudiziari

È stato domandato ai magistrati se l’esperienza concreta del lavoro corrisponda alla concezione della magistratura antecedente al concorso.

In generale, emerge un certo scollamento tra l’idea del lavoro del magistrato antecedente alla presa di servizio e la pratica quotidiana del diritto[22]. Molti intervistati, prima di svolgere le prove concorsuali, immaginavano il magistrato principalmente come uno studioso delle questioni giuridiche e la magistratura come una professione che consente di coniugare un grande approfondimento teorico con la concretezza delle questioni di fatto. Tuttavia, molti hanno messo in evidenza una discrepanza tra questa rappresentazione della magistratura e il lavoro quotidiano: i carichi di lavoro che i magistrati si trovano a dover smaltire, soprattutto in alcune sedi, costituiscono un ostacolo alla possibilità di studiare e di approfondire ogni questione giuridica, costringendo il magistrato a selezionare le questioni da trattare in modo approfondito rispetto alle altre[23]. A questo proposito, è interessante richiamare quanto affermato da uno degli intervistati: 

«I vecchi magistrati erano davvero... si potevano permettere di fare i giuristi, no? E quindi avevano molti meno fascicoli, molto meno il pensiero di dover rispettare statistiche, indici di abbattimento, di ricambio, cose del genere… e quindi tu leggevi queste sentenze, che poi tendenzialmente erano anche più o meno complicate dal punto di vista di tutta la disciplina… e la direttiva, e questo e quell’altro, il regolamento (...), quindi m’immaginavo fosse una cosa un po’ più così, meno movimentata, più di riflessione, di scrittura… poi, in realtà… Allora, sicuramente c’è il momento in cui bisogna mettersi lì, studiare, approfondire, discutere, scrivere, riscrivere e cesellare… C’è anche tutta una valanga di cose che si fanno in batteria, in cui (…) l’impegno intellettuale è pari praticamente a zero… quindi tutta una parte davvero di operatore pratico, che forse un po’ si perde, ma anche perché, appunto, ora c’è tutta una serie di competenze, di cose in più che ti vomitano addosso… e bisogna fare, smazzare… Poi, effettivamente, c’è anche tutta una preoccupazione per i numeri, per cui magari, tante volte, anziché indugiare a fare una conciliazione o a promuovere trattative, sai che c’è? Ti conviene scrivere la sentenza (...), scritta così, perché ovviamente non ti puoi permettere di scrivere dieci sentenze l’anno, che saranno pure dei capolavori, ma pesano tanto quanto dieci sentenze banalissime. Insomma, è molto più pratico di quello che m’immaginavo» (intervista 23). 

La mole di lavoro da dover affrontare, di cui il magistrato prende coscienza solo dopo la presa di servizio, ricorre come argomento anche nelle seguenti citazioni delle interviste:

«ma, allora, per quanto riguarda il tipo di lavoro in sé, e quindi di fatto appunto di scrivere le sentenze, le ordinanze, studiarsi i fascicoli del caso e quant’altro, questo è stato confermato. Nel senso che immaginavo fosse così, ed effettivamente è così. Quello che forse pensavo – ma, secondo me, questa è anche un po’ un’idea che uno ha del lavoro dei magistrati al di fuori – è di avere un pochino più di tempo libero [ride]; lo dico con molta franchezza: un pochino più di tempo libero… nel senso che, soprattutto il primo anno e mezzo (adesso sono ormai due anni che ho preso le funzioni), lavoravo notte e giorno, notte e giorno, e ancora adesso mi capita di lavorare fino a notte fonda, per smaltire tutto il lavoro. Quindi, non pensavo che fosse… cioè, portasse via così tanto tempo, ecco. Ma non è una critica… è il lavoro (…) e viene prima di tutto. Però… poi lì dipende tanto dai tribunali in cui uno si ritrova. Io sono in un tribunale che comunque è una sede disagiata, dove troviamo tutta una serie di problemi; è chiaro che il carico di lavoro sia diverso. Probabilmente, in altri tribunali i giudici hanno un carico di ruolo inferiore… Però non lo vedo come un aspetto negativo: fa parte del lavoro, e anzi… dal punto di vista professionale, soprattutto per chi è all’inizio come me, aiuta anche tanto a crescere e a maturare. Quindi è un qualcosa che non mi aspettavo, ma è un qualcosa che vedo come positivo per la mia crescita professionale» (intervista 28).

«Ecco, questo non me lo aspettavo. Il peso, il carico giurisdizionale (…) In termini di numeri, io sono sempre stato in situazioni di carico grosse, perché… il Tribunale di […] è un tribunale molto gravato, e facevo sostanzialmente tre ruoli: civile, fallimentare, giudice del collegio penale. Sezione fallimentare di […] sono sempre stato abituato ad avere a che fare con situazioni di enormi carichi di lavoro (…). Non pensavo, non sapevo assolutamente – ma neanche da MOT me lo sarei potuto aspettare – di dover sostenere un carico giudiziario così grosso di responsabilità, di peso… proprio numerico, nel lavoro quotidiano. Sicuramente non me lo sarei aspettato all’inizio. Poi il lavoro… il lavoro è bellissimo» (intervista 37).

Dalle parole degli intervistati emerge una situazione territorialmente diversificata sotto il profilo organizzativo. L’agire organizzativo del singolo magistrato è influenzato dal ruolo che il singolo operatore ricopre e dalla cultura organizzativa dell’ufficio in cui opera[24]. La percezione del ruolo può essere condizionata dal fatto di operare all’interno di una sezione di un tribunale, in cui sono vigenti specifiche prassi e modalità operative[25], o dal fatto di operare all’interno di una procura che ha adottato, formalmente o informalmente, un determinato modello di leadership organizzativa[26]. Gettando uno sguardo generale sulle parole degli intervistati, è interessante sottolineare come il carico di lavoro e le incombenze finalizzate allo smaltimento di tale carico, di fatto, impediscano ai magistrati di «fare i giuristi»[27]. Le competenze che deve possedere un magistrato sono diverse, poiché «la magistratura ha una natura intrinsecamente doppia»: coesistono in essa il dovere di applicare la legge e l’appartenenza al settore pubblico, a cui consegue la richiesta di «fornire un servizio e amministrare le risorse pubbliche in modo efficace ed efficiente»[28]. I magistrati vengono formati approfonditamente sul contenuto del diritto, che è «il sapere su cui poggia l’intera struttura della magistratura»[29], mentre la preparazione propedeutica ad affrontare gli aspetti pratici del lavoro presenta delle carenze[30]. Questo aspetto si collega al tema dell’organizzazione del lavoro del magistrato e alle criticità che un magistrato che ha appena assunto le funzioni può trovarsi a fronteggiare: alcuni intervistati hanno dichiarato che non si aspettavano che le questioni organizzative avessero un ruolo così rilevante, sostenendo che «l’organizzazione del lavoro sia più del 50% del lavoro stesso perché, una volta che un lavoro è ben organizzato, poi fila tutto liscio» (intervista 22). A fronte di questa considerazione, condivisa da alcuni intervistati, è stata comunque rilevata una scarsa formazione dei magistrati sui profili organizzativi, con una conseguente difficoltà a gestire questi aspetti dopo aver preso servizio. La carenza di insegnamenti sulle materie organizzative, ma anche la scarsa diffusione e promozione nei corsi di laurea in giurisprudenza degli insegnamenti che forniscono ai giuristi in formazione gli strumenti per comprendere le dinamiche tipiche degli uffici giudiziari[31], confermano quanto affermato dagli intervistati[32]. Negli uffici giudiziari la capacità organizzativa viene infatti demandata alla propensione personale e alle strategie adottate di volta in volta dal singolo magistrato, con possibili conseguenze sull’amministrazione della giustizia[33]. Infatti, «il modo in cui un giudice organizza il proprio lavoro nel tempo inevitabilmente si riverbera sugli iter processuali»[34].

Alcuni intervistati – non molti – hanno poi ravvisato una percezione distonica tra l’esperienza maturata negli uffici e l’idea che avevano del corpo della magistratura prima di farvi ingresso: 

«Nella mia vita, rispetto a quanto mi è accaduto entrando in magistratura, difficilmente mi sono trovato al cospetto di una distanza così grande tra ciò che immaginavo e quello che ho trovato. Mi riferisco all’idea esterna – ripeto, forse un po’ adolescenziale – di una sorta di élite non solo intellettuale, ma anche morale, etica, deontologia, che… non ho riscontrato particolarmente. E questo ha molto a che fare con il fare giustizia. In particolar modo… non solo nel penale. Io, magari sbagliando, dico prevalentemente nel penale. Però l’etica, la deontologia con la quale si affronta il lavoro ha molto a che fare con il fare giustizia. (…) Che si tratti di imputazioni istruite in maniera sciatta – e che, quindi, rovinano la vita delle persone che si trovano catapultate a giudizio – oppure di disinteresse per fascicoli che ne meriterebbero… Che si tratti di un’enorme bancarotta (prima ho sempre fatto criminalità economica, quindi, fondamentalmente, è quello il mio terreno d’elezione) o di una truffa da quattro soldi… il precipitato in termini di denegata giustizia, che deriva dall’assenza di etica – quindi se dovessi lasciarle, diciamo, l’esperienza ereditata in questi primi dieci anni –, è essenzialmente questo: grosso senso di disillusione e di delusione. Poi, naturalmente, io sono artefice del meccanismo, quindi magari contribuisco anch’io… Se, però, devo ragionare da osservatore esterno, che riporta un dato interno, Le direi questo» (intervista 20);

«nei distretti di corte d’appello puoi trovare persone molto brave, o persone che magari hanno una certa anzianità… e a volte trovi anche persone che è da tanto che fanno questo lavoro. (…) Un po’ di disillusione (…) Da un lato, un po’ mi ha deluso il vedere persone ormai di una certa età, con grande esperienza, che avevano trasformato questo lavoro in una sorta di “attività burocratica”. Dall’altro, però, ho trovato anche magistrati molto in gamba, che mi hanno insegnato tanto, arrivando fondamentalmente a rafforzare in me questa volontà» (intervista 21).

Alcuni intervistati sono, quindi, rimasti delusi dall’incontro con coloro che sembrano corrispondere al modello del magistrato «alienato-burocratizzato» cui fa riferimento Sarzotti[35], e restituiscono una percezione di mancanza per quanto concerne l’orizzonte ideale della magistratura.

Un ulteriore aspetto, che merita di essere sollevato in questa sede, riguarda poi la percezione di spaesamento che hanno provato alcuni magistrati nei confronti delle proprie responsabilità professionali dopo l’ingresso in magistratura:

«allora, quando si è giovani si è molto incoscienti. Si vede… si tendono a vedere soltanto e soprattutto le cose belle, c’è davvero tanto entusiasmo. Tuttavia, sono una persona che sente molto il peso delle responsabilità. Mi riferisco – ciò che non mi aspettavo, e neanche l’uditorato, cioè neanche il percorso da MOT aiuta a capirlo – alla consistenza delle responsabilità del magistrato. Soprattutto del giudice civile, che studia, scrive, decide, fa udienza nel chiuso della propria stanza e… ed è una ragione e una missione di vita, un percorso che si costruisce come una formica tutti i giorni. L’ho ritrovato tutti i giorni nel mio lavoro. Non c’è stato un giorno in cui non mi sia piaciuto, non sia andato al lavoro e non abbia svolto la mia attività con grandissimo piacere. Tuttavia, essendo io una persona nella quale prevalgono due “anime”, ho sempre… insomma, vivo anche con molto peso il mio lavoro. Non riesco ad avere la mente… cioè, ho la mente libera per decidere sicuramente, però sento forte il carico, il peso delle mie responsabilità. E da ventitreenne, ventiquattrenne, venticinquenne non avrei mai pensato che sarebbe prevalso questo aspetto nel mio lavoro. Devo però dire che sono fortunato per il fatto stesso di questa preminenza, perché mi aiuta a coltivare il dubbio, a studiare e a migliorare tutti i giorni, a non dare mai nulla per scontato» (intervista 37).

La duplice natura di lavoro molto soddisfacente e, al contempo, estremamente complesso e stancante viene messa in luce dalla seguente intervistata:

«è anche un lavoro che – non mi piace il termine “invadente”, perché ha sempre un’accezione negativa – ti permea ed entra a far parte di te… Forse chi svolge un lavoro differente, chi fa il turno dalle 8 alle 17, ha la possibilità di chiudere, di staccare per poi riprendere l’indomani. Ecco, io questo no, perché tutti i miei fascicoli, tutto il lavoro che svolgo quotidianamente mi accompagna sempre, durante tutta la giornata, tutto il weekend, tutte le festività… Ed è comunque un aspetto che, probabilmente, se non si ha contezza, non riesci ad immaginare prima. Al contempo, però, in realtà dico sempre: è il lavoro che ho scelto, che sognavo, ed è veramente il lavoro più bello del mondo, che non cambierei con altre attività» (intervista 40).

Il seguente passaggio mette in evidenza le possibili ripercussioni del lavoro del magistrato sulla propria salute mentale, un aspetto del lavoro a cui i giovani che fanno ingresso in magistratura non sembrano essere sufficientemente preparati:

«il rischio di burnout, il rischio di stress psichico, il rischio di… è molto alto nei magistrati; non si può dire perché è un tema tabù… perché il magistrato è percepito come (…) una sorta di essere impersonale (…), ma non è così, è proprio un errore. E se uno (…) fa il nostro lavoro, anche il più cinico (…), tutti subiscono un grosso peso emotivo, perché quando mandi in carcere una persona, o togli l’affido, togli un bambino alla sua famiglia, non puoi essere come il giorno prima. Non è possibile. Anche se reagisci con un grande cinismo, che spesso vedo come tecnica di difesa – ed è utile a volte –, fa breccia. (…) Questo è uno dei temi sui quali si può fare un discorso solo associativo, solo collettivo: (…) rischiare di essere considerati come “pazzi” è una cosa terribile perché, a volte, c’è invece necessità di aiuto per questa professione, e l’aiuto non c’è» (intervista 36).

Qui vengono esplicitamente richiamate le criticità dell’approccio positivistico nella cultura giuridica della magistratura, che, negando la presenza dei fattori emotivi[36], non razionali nell’agire del giudice, considera anche irrilevante lo sviluppo delle «competenze emotive»[37] per l’interprete del diritto. Le emozioni suscitate dalle esperienze vissute nell’esercizio della professione provocano spesso sofferenza, ma, come evidenziano molteplici studi e ricerche, debbono «essere riconosciute, elaborate ed integrate nel ragionamento»[38] per poter raggiungere in modo efficace gli obiettivi interpretativi nel «campo giuridico»[39]

 

 

1. L.M. Friedman, Il sistema giuridico nella prospettiva delle scienze sociali, Il Mulino, Bologna, 1978, p. 326.

2. V. Ferrari, Lineamenti di sociologia del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 259.

3. L.M. Friedman, Il sistema giuridico, op. cit., ibid.

4. C. Blengino, Interpretazione del diritto e cultura giuridica, in A. Cottino (a cura di), Lineamenti di sociologia del diritto, Giappichelli, Torino, 2022, p. 186.

5. A. Gentili, Il diritto come discorso, Giuffrè, Milano, 2013, p. 146.

6. M. Jori, Oggetto e metodo della scienza giuridica, in U. Scarpelli (a cura di), La teoria generale del diritto. Problemi e tendenze attuali. Studi dedicati a Norberto Bobbio, Edizioni di Comunità, Milano, 1983, p. 180. Sul punto, cfr. anche M. La Torre, Il giudice, l’avvocato e il concetto di diritto, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz), 2002.

7. Per quanto qualche intervistato abbia voluto precisare che alcuni avvocati possiedono una vasta preparazione, superiore rispetto a quella di molti magistrati.

8. La cultura giuridica della magistratura italiana all’alba del nuovo millennio: primi spunti di riflessione storico-sociologica, in questo fascicolo.

9. C. Sarzotti, op. ult. cit.

10. Cfr. A. Gentili, Il diritto come discorso, op. cit. 

11. Cfr. F. Cavalla, Retorica processo verità. Principi di filosofia forense, Franco Angeli, Milano, 2007.

12. N. Delai e S. Rolando, Magistrati e cittadini. Indagine su identità, ruolo e immagine sociale dei magistrati italiani, iniziativa promossa dalla Scuola superiore della magistratura, Franco Angeli, Milano, 2016, pp. 59-61. Sulla compatibilità del lavoro in magistratura con la vita familiare, specialmente per quanto riguarda le donne, mi permetto di rimandare anche al mio contributo Questioni di genere in magistratura: tra femminilizzazione e complessità, in questo fascicolo.

13. C. Sarzotti, La cultura giuridica, op. cit.

14. Cfr. anche i contributi di Claudio Sarzotti, op. ult. cit., Cecilia Blengino, Dall’università alla magistratura: considerazioni sul rapporto tra studio e lavoro, e Chiara De Robertis, Formazione e forma mentis del magistrato, in questo fascicolo.

15. Ciò corrisponde a quella «rottura epistemologica tra la dimensione del fatto e quella del diritto» che ha preso «avvio con l’umanesimo, mentre antecedentemente il diritto era concepito come azione, come “scienza pratica”»: così M. Vogliotti, Per una nuova educazione giuridica, in Diritto e questioni pubbliche, vol. XX, n. 2/2020, p. 244. Questo tema è stato ampiamente indagato dalla corrente del realismo giuridico (cfr., a titolo esemplificativo, J. Frank, Both Ends Against the Middle, in University of Pennsylvania Law Review, vol. 100, n. 1/1951, pp. 20-47) e dalle ricerche empiriche della psicologia cognitiva (vds., ad esempio, P. Catellani, Il giudice esperto. Psicologia cognitiva e ragionamento giudiziario, Il Mulino, Bologna, 1992).

16. Cfr. S. Zan, Tecnologia, Organizzazione e Giustizia. L’evoluzione del Processo Civile Telematico, Il Mulino, Bologna, 2004; S. Rossi, Riflessioni sull’implementazione del Processo Telematico e il cambiamento organizzativo degli uffici giudiziari, in M. Sciacca - L. Verzelloni - G. Miccoli (a cura di), Giustizia in bilico. I percorsi di innovazione giudiziaria: attori, risorse, governance, Aracne, Roma, 2013, pp. 415-429. Sugli strumenti tecnologici applicabili alla giustizia si rimanda anche al contributo di Michele Miravalle, La tecnologia per lavorare meno o per lavorare meglio? Riflessioni sul futuro della giustizia ad alta intensità tecnologica, in questo fascicolo.

17. In queste affermazioni riecheggiano alcuni elementi della storia della magistratura, con particolare riferimento agli anni settanta del secolo scorso, che hanno visto una «fase di mutamento del ruolo del giudice», inteso come protagonista di una «rivoluzione legale, che provvide a tutelare il singolo individuo nella particolarità e concretezza della sua esistenza» tramite l’aspirazione all’attuazione della Costituzione – vds. E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Laterza, Bari-Roma, 2018, p. 114. Sui profili di tale modello che persistono nella cultura giuridica dei giovani magistrati di oggi e su quelli che sembrano non aver lasciato traccia, cfr. ancora C. Sarzotti, La cultura giuridica, op. cit.

18. Sulla magistratura di sorveglianza come «indispensabile strumento di gestione della pena in fase esecutiva (…) in funzione delle concrete esigenze implicate dal percorso rieducativo compiuto dal condannato», cfr. C. Renoldi, La magistratura di sorveglianza tra crisi di legittimazione e funzione rieducativa della pena, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 1/2007, p. 33. Alcune ricerche empiriche hanno peraltro definito «a macchia di leopardo» la giurisprudenza dei tribunali di sorveglianza, diversificata a seconda della realtà locale di riferimento – sul punto, vds. G. Torrente, Magistratura di sorveglianza e misure alternative. Un’analisi della giurisprudenza di alcuni tribunali, in D. Ronco - A. Scandurra - G. Torrente (a cura di), Le prigioni malate. Ottavo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, Edizioni dell’Asino, Roma, 2011, pp. 48-59 (www.rapportoantigone.it/wp-content/uploads/2021/03/2011-VIII-rapporto.pdf).

19. Francesca Vianello ha, peraltro, sottolineato le potenziali criticità insite nelle valutazioni del magistrato di sorveglianza, in quanto riconducibili «molto spesso ad una dimensione introspettiva, una dimensione molto difficile da indagare. (…) valutazioni che riguardano l’effettività del pentimento, la revisione critica del comportamento delinquenziale (o come si dice “della condotta antigiuridica”), la volontà reale di adoperarsi a favore della vittima, il bisogno di cercare il perdono (…) tutti elementi che rimandano ad una dimensione psicologica profonda, che pretendono di indagare l’anima del condannato»: Ead., Cultura giuridica ed esecuzione della pena: processi decisionali in tema di misure alternative alla detenzione, in questa Rivista trimestrale, n. 3/2018, p. 144 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/544/qg_2018-3_19.pdf).

20. C. Blengino, Svelare il diritto. La clinica legale come pratica riflessiva, Giappichelli, Torino, 2023, p. 40.

21. La letteratura sul tema è molto vasta; a titolo esemplificativo, cfr. J. Esser, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto: fondamenti di razionalità nella prassi decisionale del giudice, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1983; D.N. Sudnow, Reati normali. Aspetti sociologici del codice penale nella difesa d’ufficio, in P.P. Giglioli e A. Dal Lago (a cura di), Etnometodologia, Il Mulino, Bologna, 1983, pp. 145-176; C. Sarzotti, Processi di selezione del crimine. Procure della Repubblica e organizzazione giudiziaria, Giuffrè, Milano, 2007. 

22. Sul punto cfr. anche C. Blengino, Dall’università alla magistratura, op. cit.

23. Sulla selettività che contraddistingue il sistema giudiziario, cfr. G. Mosconi e D. Padovan (a cura di), La fabbrica dei delinquenti. Processo penale e meccanismi sociali di costruzione del condannato, L’Harmattan Italia, Torino, 2005; C. Sarzotti, Processi di selezione del crimine, op. cit.; R.M. Gennaro, Stranieri e repressione penale. I soggetti e le istituzioni, Franco Angeli, Milano, 2012; D. De Felice e G. Giura, Selettività della giurisprudenza di merito. Giudizio di legittimità e giurisprudenza locale, in Sociologia del diritto, n. 1/2016, pp. 135-158.

24. Cfr. C. Sarzotti, Processi di selezione del crimine, op. cit.

25. L. Verzelloni, Dietro alla cattedra del giudice. Pratiche, prassi e occasioni di apprendimento, Pendragon, Bologna, 2009; Id., Pratiche di sapere. I rituali dell’innovazione nella giustizia italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz), 2019.

26. G. Torrente, Le storie organizzative di due Procure della Repubblica tra obbligatorietà dell’azione penale e selezione del crimine, in C. Sarzotti, Processi di selezione del crimine, op. cit., pp. 227-356.

27. Per una lettura del rapporto tra carichi di lavoro e organizzazione della giustizia alla luce del New Public Management, cfr. Giovanni Torrente, New Public Management e organizzazione giudiziaria: la prospettiva dei magistrati, in questo fascicolo; per una riflessione sull’efficientismo negli uffici giudiziari, anche alla luce delle nuove tecnologie, cfr. M. Miravalle, La tecnologia, op. cit. 

28. D. Piana, Magistrati. Una professione al plurale, Carocci, Roma, 2010, pp. 161-162.

29. Ibid.

30. Cfr. C. Blengino, Dall’università alla magistratura, op. cit., e C. De Robertis, Formazione, op. cit.

31. Come le discipline sociologiche e le cliniche legali; sulla clinica legale come metodo educativo che può consentire agli studenti di giurisprudenza di sperimentare la realtà degli uffici giudiziari, cfr. C. Blengino, Svelare il diritto, op. cit., pp. 93-119. 

32. L. Verzelloni, Dietro alla cattedra del giudice, op. cit., p. 268.

33. Cfr. C. Blengino, Esercizio dell’azione penale e processi organizzativi: la selezione del crimine come output della Procura, in C. Sarzotti, Processi di selezione del crimine, op. cit., pp. 117 ss. 

34. L. Verzelloni, Dietro alla cattedra del giudice, op. cit., p. 267.

35. La cultura giuridica, op. cit.

36. In realtà, è stato evidenziato come tali fattori ricoprano un ruolo molto rilevante nell’ambito del ragionamento giudiziario – cfr. A. Forza - G. Menegon - R. Rumiati, Il giudice emotivo. La decisione tra ragione ed emozione, Il Mulino, Bologna, 2017.

37. C. Blengino, Svelare il diritto, op. cit., p. 48.

38. Ivi, p. 49; cfr. anche E. Illouz, Le emozioni nella società dei consumi, Feltrinelli, Milano, 2007.

39. P. Bourdieu, La force du droit. Éléments pour une sociologie du champ juridique, in Actes de la recherche en sciences sociales, vol. 64, 1986, pp. 3-19 (www.persee.fr/doc/arss_0335-5322_1986_num_64_1_2332).