Magistratura democratica

Il tirocinio dei magistrati: dal superamento del concorso alla presa delle funzioni, un viaggio entusiasmante accompagnato da sapienti guide

di Giulia Locati

L’articolo propone alcune riflessioni a partire dallo studio dell’Università di Torino che apre questo numero monografico. Il tirocinio è il momento della formazione, attraverso la trasmissione di nozioni pratiche da parte dei magistrati affidatari e il confronto, a livello nazionale, all’interno della Scuola superiore della magistratura. Un momento di presa di coscienza della funzione che si andrà a rivestire e di riflessione sul come si vorrà farlo.

Si diventa magistrati quando, dopo aver superato la prova scritta e la prova orale del concorso, si presta giuramento innanzi a un collegio del proprio distretto di corte d’appello. Dopo un lungo percorso di studio e di impegno (durante il percorso universitario, e anche dopo), finalmente si conclude l’iter di formazione per cominciare la nuova funzione. 

O forse la fine coincide con un (nuovo) inizio? Essere formalmente magistrati è infatti cosa ben diversa da saper esercitare il ruolo di magistrato: lo studio, il sapere, le nozioni teoriche non bastano più. Si lascia la riva confortante di quel mare in cui si aveva nuotato fino a quel momento e si veleggia verso il mare aperto. Un luogo ignoto, fatto di sapere concreto, prassi, modi di fare e di essere, che si apprendono nel corso del tempo, vivendo situazioni diverse e anche commettendo errori. Quando si pensa di aver finalmente raggiunto l’obiettivo, si è in realtà solo all’inizio di un percorso che prende l’avvio con il periodo di tirocinio, di esclusiva formazione, e che in fondo non si concluderà mai, visto che l’obbligo di aggiornamento prosegue nel corso del tempo. 

Questo viaggio potrebbe spaventare, ma fortunatamente non si è soli: durante il tirocinio (secondo il vecchio gergo, l’uditorato) si è circondati dai magistrati affidatari, che – come moderni Virgilio o Beatrice – aiutano i neo-colleghi ad arrivare al momento finale, la presa delle funzioni. 

La ricerca che qui presentiamo si concentra anche su questo periodo, descritto dalla maggior parte degli intervistati come positivo, utile per diverse ragioni. 

I magistrati affidatari guidano gli uditori nella complessa attività di concretizzare le tante nozioni apprese, nel comprendere che dietro ogni questione giuridica ci sono persone in carne e ossa, della cui esistenza non ci dobbiamo mai dimenticare. Li introducono all’interpretazione della norma alla luce del caso concreto, all’applicazione della regola di diritto in relazione a una fattispecie determinata, a mettere in connessione una realtà complessa e sfaccettata con i diversi istituti codicistici. 

Gli affidatari forniscono, poi, un modello al quale conformarsi, o dal quale distanziarsi. Ogni collega affronta questo lavoro in modo peculiare, esprime e incarna un’idea di giurisdizione diversa. Ci sono giudici con la porta sempre aperta, pronti ad accogliere pubblici ministeri e avvocati, inclini a confrontarsi in itinere sulle questioni che sorgono. Ci sono, al contrario, colleghi più riservati, che vivono questo lavoro in maniera solitaria. Alcuni sono più riflessivi, altri più dinamici: starà a ciascun uditore decidere il punto di equilibrio tra una risposta veloce e una risposta accurata, imparando man mano a concentrarsi sugli aspetti più problematici. 

Una parte degli intervistati ha criticato l’aleatorietà della scelta degli affidatari: si può essere più o meno fortunati nell’incontrare persone con la voglia di formare una giovane leva e con l’affinità elettiva che, certamente, aiuta il rapporto che si dovrà instaurare. 

In realtà questo aspetto ha anche un lato positivo: non solo, come anticipato, permette di capire che tipo di giudice si vorrebbe essere in futuro, ma sprona a trovare punti di contatto con persone che hanno idee diverse dalle nostre, ad assumere il punto di vista dell’altro, caratteristica che non dovrebbe mai abbandonarci, neanche dopo aver preso le funzioni. 

Inoltre, il tirocinio generico permette di confrontarsi con diverse materie e funzioni: nelle interviste emerge l’importanza di allontanarsi dalla materia di elezione, sulla quale si è magari discussa la tesi di laurea, e che si crede essere più congeniale, per immergersi in mondi nuovi e trovare stimoli da essi. È un momento in cui le preferenze del singolo non contano ed è necessario mettersi alla prova in ambiti anche molto distanti tra loro. Al termine del tirocinio, alcuni civilisti si sono trovati a scegliere le funzioni di pubblico ministero; alcuni penalisti a rimanere colpiti dal tecnicismo della materia successoria. È la conseguenza del vivere in maniera aperta questo periodo di scoperta delle diverse funzioni che si potranno ricoprire nel corso della vita lavorativa. 

È interessante sottolineare che, da un lato, questo periodo è valutato così positivamente per l’assenza di responsabilità: l’aspetto formativo prevale su qualunque altro aspetto e si ha la possibilità di mettersi in gioco senza correre rischi. Dall’altro lato, però, sono stati particolarmente apprezzati quei momenti in cui gli affidatari hanno permesso al MOT di condurre in prima persona le udienze, assumendosi la responsabilità di ciò che stavano facendo. 

Nella mia personale esperienza, questo è stato un aspetto fondamentale: la mia affidataria del tirocinio mirato ha iniziato fin da subito ad assegnarmi alcuni fascicoli, per i quali tenevo l’udienza e scrivevo poi il provvedimento. Man mano che il tempo passava, erano sempre di più e sempre più complessi. Nel corso delle ultime settimane, tenevo udienza dall’inizio alla fine, trattando tutti i procedimenti chiamati per quella giornata. Ho sentito la sua mano sulla spalla, che mi teneva stretta e vicina, per poi allontanarsi lentamente e lasciare la presa. Il giorno in cui ho celebrato la mia prima udienza come giudice con funzioni, questo mi ha dato una grande forza e ha aumentato certamente la mia consapevolezza. Si tratta di una sorta di “educazione professionale” (dal latino “e-ducere”, “condurre fuori”): il bravo affidatario è colui che aiuta il MOT a camminare con le proprie gambe, ad allontanarsi dal recinto confortevole del periodo formativo, per essere finalmente e pienamente autonomo. 

Nell’ambito di questo percorso di formazione, esercita un ruolo certamente importante la Scuola superiore della magistratura: valutata positivamente da quasi tutti gli intervistati, ha il merito di permettere il confronto tra persone che provengono da realtà giudiziarie e territoriali molto diverse. Nell’assoluta consapevolezza che, per esempio, essere giudice del lavoro a Castrovillari o a Milano significa svolgere in concreto due lavori diversi – per quantità di fascicoli sul ruolo, tipologia delle materie sottoposte al vaglio del giudice, tempi della decisione –, è un modo per cercare di dare comunque una risposta il più unitaria e uniforme possibile, che tenga conto delle differenze ma si faccia anche carico dell’inserimento della risposta giudiziaria in un ambito nazionale e non solo locale. 

Alcune voci critiche hanno sottolineato l’eccessiva attenzione agli aspetti teorici, anche se la maggior parte dei colleghi ha evidenziato che, nelle settimane trascorse a Scandicci, i formatori hanno cercato di concentrarsi su casi pratici e di fornire materiale che si sarebbe rivelato utile una volta prese le funzioni. 

Pur con le enormi difficoltà dovute alla gestione della formazione nella situazione pandemica, la Scuola ha permesso la creazione di legami importanti, tra vincitori dello stesso concorso e con i formatori. Legami duraturi nel tempo e a cui tutti noi facciamo riferimento in caso di difficoltà e dubbi. 

Da entrambe le esperienze, quella negli uffici e quella presso la Scuola, emerge chiaramente un concetto fondamentale per poter esercitare in modo consapevole il nostro ruolo, ed è il concetto di comunità

Non siamo monadi, non siamo lupi solitari, non siamo lavoratori in competizione l’uno con l’altro alla ricerca di performance sempre migliori. Siamo parte di un’istituzione il cui compito è garantire un servizio, che deve essere celere e di qualità. Il modo migliore per farlo non è premiare i più efficienti e lasciare indietro chi incontra difficoltà, ma sostenerci l’un l’altro, confrontarci sui problemi, instillare negli altri dubbi ove prima c’erano certezze. 

Secondo la felice espressione di un magistrato di grande esperienza, che mi ha guidato durante i miei primi anni quale giudice del lavoro, la magistratura è come il corpo umano: se un organo sta male, ne risente tutto il fisico. È tutto il fisico, insieme, che deve farsi carico del benessere di quel singolo organo in sofferenza. 

Applicato all’esperienza concreta, i giovani che entrano in magistratura devono essere formati, guidati nel difficile compito della presa delle funzioni, supportati durante il primo anno, quando è infatti previsto un magistrato di riferimento a cui rivolgersi. 

Questo aspetto solidaristico, di comunità, di ragionamento collettivo sulle problematiche e di condivisione delle soluzioni, è ciò che ci permette di rendere un servizio il più possibile omogeneo e di qualità, ed è ciò che rende il nostro lavoro così speciale.