Magistratura democratica

Perché si entra in magistratura

di Ilario Nasso e Davide Lucisano

Muovendo sia dai dati sociologici raccolti dall’Università di Torino sia dall’esperienza personale, gli Autori analizzano le motivazioni individuali della scelta a favore dell’impegno in magistratura: ne deriva uno spaccato delle aspirazioni, degli ideali e anche delle… precomprensioni proprie delle nuove generazioni di titolari della funzione giudiziaria, in cui traspare anche il modo di intendere oggi l’esercizio della giurisdizione, da parte di chi – per la prima volta – vi si accosta, o spera (o crede doveroso) di farlo.

1. Come ben evidenziato dallo studio realizzato dal gruppo della cattedra di Sociologia del diritto del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino, «Una ricerca sulla cultura giuridica dei giovani magistrati», interrogarsi sulle ragioni dell’ingresso in magistratura risulta interessante per diversi ordini di motivi.

Anzitutto perché emerge plasticamente l’assenza di motivazioni univoche alla base della scelta dei colleghi più giovani, vincitori del concorso. E non poteva che essere così, considerata l’aleatorietà del concorso, la lunghezza degli studi, la loro difficile compatibilità con il contestuale svolgimento di altre professioni. Il meccanismo concorsuale, del resto, vale per la magistratura come per gli altri impieghi pubblici (all’art. 97, comma 4 della Costituzione si prevede che «Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge»), e dunque non risulta inusuale una preparazione “per i concorsi”, magari con uno sguardo privilegiato a quello in magistratura. Parlare di vocazione in un contesto nel quale il giovane laureato in giurisprudenza si trova a dover fare ingresso nel mondo del lavoro, districandosi tra una pluralità di scelte possibili, risulta complicato. Molte volte ci si ritrova magistrati, anche senza una particolare vocazione. E, del resto, forse è anche meglio così: la vocazione spesso si trasforma in missione e questa mal si concilia con la tutela dei diritti e con la figura costituzionale del magistrato. Il “terribile” potere giudiziario, secondo l’insegnamento di Montesquieu, deve continuare a spaventare prima di tutto chi ne fa parte, con la consapevolezza che ad incidere sulla vita, sulla libertà personale, sui beni di una persona non è un portatore di bene, un purificatore della società, ma un giurista attento, garante della legalità processuale. In breve, un potere che mal si attaglia a chi lo ricerca, calzando decisamente meglio a chi non l’ha nemmeno particolarmente desiderato. 

Proprio dalla lettura del rapporto emerge una pluralità di motivazioni alla base della scelta di entrare in magistratura; in questo non può non evidenziarsi, come del resto ribadito nelle conclusioni dello studio, come le spinte “ideali” non siano spesso risultate fondamentali nelle indicazioni date dai partecipanti. 

Questo però, a voler azzardare un’interpretazione del dato (anche alla luce della conoscenza di tanti giovani colleghi), non significa un conseguente esercizio “inconsapevole” della giurisdizione, senza coscienza dei diritti in gioco, da freddo burocrate: significa semplicemente un approccio umile, quasi in punta di piedi, consci dell’enormità del potere che si esercita e della necessità di ancorarlo al rispetto delle regole, delle parti processuali, di chi quotidianamente lavora negli uffici giudiziari e garantisce il servizio giustizia. 

Del resto, non può trascurarsi il fatto che circa un quarto dei partecipanti abbia riferito che l’esempio di grandi figure (ad esempio, Falcone e Borsellino) ha costituito una fonte di ispirazione nel fare ingresso in magistratura, risultando dunque la spinta ideale tutt’altro che assente.

Ma lo studio – cui ovviamente si rimanda, non potendo in questa sede ripercorrersi le numerose risposte date dai partecipanti – risulta interessante anche rispetto all’interrogativo che pone in chi, da magistrato, lo esamina e prova a chiedersi quali siano stati (tra i tanti) i fattori principali della propria scelta personale. 

Tra le varie motivazioni addotte dai partecipanti allo studio non c’è, da quello che leggo, una componente che personalmente ritengo assolutamente fondamentale nel lavoro del magistrato: quello del magistrato è un lavoro che consente di essere liberi, di determinarsi autonomamente, di non dover scendere a patti con la propria coscienza. L’autonomia e l’indipendenza ordinamentale (che appartiene a giudici e pubblici ministeri)[1] refluisce ovviamente sulla persona del singolo magistrato, sull’organizzazione del proprio lavoro e sulle proprie azioni quotidiane: è, questo, un aspetto che ho attentamente valutato nella scelta di tentare il concorso in magistratura. L’assenza di condizionamenti è (o dovrebbe essere) il vero habitus mentale del magistrato, nel rispetto della legalità e nel solco costituzionale, a garanzia dei diritti di tutti.

Non può tutelare adeguatamente i diritti delle persone chi agisce per conto di qualcuno (sia esso un controllore o lo stesso popolo italiano, nel nome - e non per conto del quale - si pronunciano le sentenze), chi agisce nel terrore di fare un dispiacere a un potente o, peggio, chi tenta di accreditarsi presso dei centri di potere (siano essi esterni o addirittura interni alla stessa magistratura). Soprattutto in tempi nei quali appare evidente il disegno politico di ripristinare forme di controllo sulla giurisdizione – si pensi alle paventate riforme costituzionali con la presenza di metà consiglieri del Csm di nomina politica, al tentativo di allontanare il pm dalla stessa giurisdizione facendone un avvocato della polizia che deve esercitare l’azione penale secondo quanto stabilito dal decisore politico – non appare peregrino ricordare la figura del magistrato, realmente autonomo e indipendente, disegnata dal Costituente, vero garante della collettività.

Proprio la tutela dei diritti emerge nitidamente nella testimonianza di Ilario Nasso, qui di seguito riportata (par. 2) e legata indissolubilmente alla biografia del collega. A ulteriore conferma della pluralità delle motivazioni poste alla base della scelta della nostra affascinante professione.

 

2. Chissà se le motivazioni di una scelta – quella di diventare magistrato – non dipendano dall’età alla quale ci sia chiesto di illustrarle…

Forse il tempo incide retrospettivamente sulla consapevolezza di esse: le perfeziona o magari le smitizza, modellandole alla luce dell’esperienza, delle aspettative soddisfatte e di quelle frustrate, allo stesso modo in cui il vissuto contribuisce a fare anche del magistrato un lavoratore soddisfatto o frustrato.

Sono un magistrato da sette anni. Ho vinto nel 2016 il concorso del 2014: tirocinante a Reggio e quindi giudice del lavoro, a Vibo Valentia, dal 2018.

Sette anni bastano per fare il primo tagliando di un mestiere. Qualcuno li direbbe – come in altri contesti – un possibile passaggio obbligato, attraversando il quale saggiare la solidità delle proprie ragioni (e ritornare, dunque, su quelle scelte - l’apparato motivazionale, in perfetta «antilingua» del giurista[2] - per le quali oggi ognuno è quel che è).

Io proverò a farlo sforzandomi di garantire l’autenticità del tentativo: ma Gadamer – specie per i giuristi – è sempre dietro l’angolo, e la domanda condiziona inevitabilmente la risposta.

“Piccolo” passo indietro.

In un’aula accaldata del suo liceo scientifico, un maturando si appresta a sostenere l’orale. La commissione è tutta interna, tranne il presidente. Il quale lo ascolta, e gli chiede delle sue intenzioni “da grande”. «Andrò a ingegneria», gli dice. «No, fai giurisprudenza», è la risposta.

Quel ragazzo si fida: tre mesi dopo è seduto fra i banchi della Facoltà di Giurisprudenza di Messina.

Ho deciso ben presto – già in quei primi mesi di studi giuridici – di voler diventare un magistrato. Non tanto per considerazioni generali sulla funzione o l’appetibilità della professione (mediamente inaccessibili a una matricola), ma – essenzialmente – per vicende familiari.

Devo pure precisare – più nel dettaglio – d’aver espresso, in quei frangenti, la mia risoluta opzione per la giustizia del lavoro: a essere precisi, ho praticamente assunto allora l’impegno a sostenere il concorso in magistratura… del lavoro.

Una brutta faccenda di demansionamento e mobbing in danno di persone a me care, con allegri strascichi processuali penali e amministrativi, ha occasionato il mio precoce tirocinio giudiziario, parallelo all’università e svolto in tutti i rami della giurisdizione.

Così, mentre on books familiarizzavo appena con le azioni nel diritto romano e le curve della domanda e dell’offerta, in action cominciavo a frequentare – a diciott’anni – i tribunali. 

Fra questi, sono stato stregato da quello del lavoro.

In cui – mi è parso di cogliere in quella esperienza da esordiente del diritto – si va al punto, le parti e il giudice dialogano circolarmente, i diaframmi tra verità sostanziale e processuale scompaiono, quasi in tempo reale, grazie alla pluralità e tempestività dei mezzi istruttori, e – soprattutto – il giudice, se vuole, può fare la differenza: nel capire come stanno le cose, nel sintonizzarsi – anche spiritualmente, perché no? Il diritto (come avrei appreso poche settimane dopo in facoltà) si occupa pure dei fatti di sentimento (e forse è esso stesso… un po’ fatto di sentimenti) – sulla lunghezza d’onda delle parti, nel propiziare una soluzione coerente col codice ma aderente alle circostanze.

Avrei incontrato la materia universitaria del diritto del lavoro solo l’anno successivo: nel frattempo avevo già introiettato abbastanza della sua declinazione processuale.

Addentrandomi nello studio, le... impressioni di settembre sarebbero state, poi, confermate. 

L’approfondimento del diritto costituzionale – mia più esaltante scoperta universitaria – generava, infatti, una sorta di apprendimento circolare; mi diventava progressivamente più chiara la superiore cornice d’inscrizione del giudiziario, e la sua collocazione fra i poteri, nel contraltare delle sue alterne fortune, storiche e istituzionali: mi sembrava, insomma, d’intravvedervi come la cartella clinica di una società organizzata, indicativa del suo stato di salute.

Nel momento in cui realizzavo l’insofferenza degli autoritarismi verso la distribuzione del potere in chiave di contenimento reciproco, apprendevo i concetti di diffusione e orizzontalità della magistratura.

Laddove comprendevo la correlazione – biunivoca e indispensabile – fra impermeabilità del giudiziario ai condizionamenti dei governanti e alle lusinghe dei centri di pressione, coglievo la rilevanza della funzione giudiziaria nella propulsione delle libertà fondamentali: e mi convincevo – presuntuosamente? – di voler essere parte di questa azione di sviluppo della persona come soggetto giuridico, di attuazione giurisdizionale del progetto d’inclusione, eguaglianza, giustizia sociale, solidarietà irrinunciabile, tutela dei deboli e degli asseritamente diversi, chiamato comprensivamente “Costituzione”. 

Davide Lucisano ha evidenziato soprattutto due profili, emergenti dal rapporto fra ideali individuali e opzione giudiziaria: se lo sbocco in magistratura non è (più) una certezza interiore dell’aspirante, bensì un’alternativa in legittima competizione con scenari differenti, tale approccio alla giurisdizione può rivelarsi provvidenziale, evitando sopravvalutazioni di sé e concezioni palingenetiche del fare giurisdizione.

È una prospettiva in cui mi riconosco, pur nelle peculiarità dei percorsi di vita. Non sono nato magistrato (ché, anzi, le primissime intenzioni professionali erano ben distanti dai codici), però ho imparato (appunto presto, ma - direi - sul campo) la… forza gentile, necessaria e trasformante di questo mestiere, cui mi sono semplicemente affezionato: un epilogo – ne siamo sicuri sia Davide sia io – comune alla quasi totalità degli esercenti il potere giudiziario, indipendentemente dalla strada per la quale siano giunti a indossare la toga.

 

 

*  Aprono il presente contributo le riflessioni di Davide Lucisano, seguite, al secondo paragrafo, dalla testimonianza di Ilario Nasso. 

1. Non inganni la gerarchizzazione dell’ufficio del pubblico ministero: si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alla libertà del pm di determinarsi in udienza (art. 53, comma 1, cpp), all’autonoma legittimazione all’impugnazione da parte del pm che ha presentato le conclusioni (art. 570, comma 2, cpp), all’istituto della rinuncia all’assegnazione del procedimento ove emergano contrasti col procuratore o con altri magistrati coassegnatari dell’indagine (art. 16 della circolare sull’organizzazione degli uffici di procura). 

2. Il riferimento è, naturalmente, all’articolo pubblicato da Italo Calvino sul Giorno del 3 febbraio 1965.