Magistratura democratica

Questioni di genere in magistratura: tra femminilizzazione e complessità

di Costanza Agnella

Il contributo si focalizza sulle differenze di genere in magistratura alla luce della ricerca, sottolineando i principali elementi emersi sul punto nelle interviste con magistrate e magistrati. Particolare attenzione è posta alla questione della maternità – tematica ricorrente nelle interviste –, ricostruendo le varie prospettive che si sono delineate sulla questione. In considerazione della femminilizzazione numerica della magistratura, nel contributo vengono inoltre elaborate alcune riflessioni sulle esperienze delle donne negli uffici giudiziari e sulla – persistente – minore presenza femminile negli incarichi direttivi e semidirettivi.

1. Introduzione / 2. Maternità: tutela formale e criticità sostanziali / 3. Essere donne nella quotidianità degli uffici giudiziari / 4. La magistratura come professione di genere / 4.1. La massiccia presenza delle donne in servizio… / 4.2. … e le persistenti disparità negli incarichi direttivi

 

1. Introduzione

Nel presente contributo vengono sviluppate alcune riflessioni sulle differenze di genere in magistratura a partire dalla percezione di alcuni magistrati intervistati. In via preliminare, occorre considerare che, nell’ambito della ricerca, ci si è concentrati prevalentemente sul genere femminile, in quanto storicamente fondato sull’esclusione dal lavoro retribuito. Il tema è particolarmente pregnante per quanto riguarda la magistratura, che ha visto un ingresso tardivo delle donne nelle proprie fila a motivo di un’esclusione fondata su una cultura giuridica convinta di un’ontologica minorazione femminile[1]. L’ingresso consistente delle donne in magistratura che ha contraddistinto gli ultimi decenni sembra aver contribuito a un mutamento profondo della cultura giuridica rispetto a questo elemento, che non lascia traccia nelle prospettive degli intervistati e delle intervistate[2]. Tuttavia, alcune differenze tra donne e uomini in magistratura sono state richiamate nelle interviste, specialmente per quanto riguarda la conciliazione lavoro/vita privata, la persistenza di atteggiamenti ostili nei confronti della donna-magistrato nelle esperienze di alcune intervistate, le disuguaglianze nelle posizioni direttive. 

 

2. Maternità: tutela formale e criticità sostanziali

Dalle interviste realizzate emerge una visione della magistratura come di una professione che, sotto il profilo della law in books[3], tutela la donna lavoratrice, in particolare per quanto concerne la questione della maternità. Quest’ultima viene normata come nel pubblico impiego, dunque prevedendo un congedo obbligatorio di maternità, della durata di cinque mesi[4]. Le tutele previste per la magistrata madre sono guardate da alcune intervistate a partire da due prospettive diverse.

Qualcuna ha sottolineato la discrepanza tra diritto sulla carta e diritto in azione, che si rinviene negli uffici giudiziari in relazione alle norme a tutela della maternità:

«per esempio, io ho ancora del periodo di congedo parentale, (…) quest’estate lo prenderò, ne ho parlato col mio presidente di sezione, che è stato molto comprensivo, e quindi non ho riscontrato grosse opposizioni, l’ho fatto anche due estati fa e ho trovato forse un po’ più di… Mi sono sentita molto mal giudicata dai colleghi quando ho comunicato che avrei preso del congedo parentale, peraltro non pagato» (intervista 2).

Le previsioni normative formali che tutelano la magistrata madre possono scontrarsi con le pressioni dei colleghi dell’ufficio giudiziario. Un’altra intervistata spiega, a questo proposito, che la maternità delle lavoratrici in magistratura può gravare sul lavoro dell’ufficio giudiziario di riferimento:

«penso che ormai, dato che siamo tutte donne, abbiamo una serie di tutele – la donna che rimane incinta, chiaramente, va in maternità, quindi si assenta dall’ufficio per un determinato periodo di tempo, più o meno lungo a seconda della scelta di ciascuno di noi. È chiaro che questo determina comunque, oggettivamente, un problema organizzativo, nel senso che in quel periodo i colleghi si devono far carico del fatto che c’è una persona in meno. Questo, per quanto mi riguarda, non è mai stato un problema: quando sono andata in maternità io, non è stato un problema per gli altri, e non è stato un problema per me sopperire alle maternità degli altri: c’è sempre stato un clima di massima collaborazione» (intervista 1).

Il “problema organizzativo” generato dalla maternità viene sottolineato anche da alcuni magistrati uomini intervistati, che precisano:

«allora, il problema non è che le tutele non ci sono: ci sono; tuttavia, al di là della tutela formale, esiste una tutela sostanziale che, come sappiamo, è ancora più importante in certi casi, e che permane rispetto ad altri settori, come il privato, dove in maniera più o meno velata, a volte (…) si rischia sostanzialmente di preferire assumere una persona di sesso maschile rispetto a una di sesso femminile, perché si sa che in futuro ci potrebbero esserci… gravidanze, quindi interruzioni del rapporto di lavoro. Naturalmente questa cosa, essendo nel pubblico, non si verifica a simili livelli, non si danno episodi così significativi» (intervista 3).

Secondo questo intervistato, la “tutela sostanziale” delle donne in magistratura è presente anche nella law in action, sempre in ragione della disciplina prevista per le lavoratrici del pubblico impiego, rispetto al caso del lavoro nel settore privato. D’altro canto, l’intervistato mette in luce le difficoltà che l’assenza dal lavoro può ingenerare nell’ufficio giudiziario, ma anche nel lavoro della magistrata che si ritrova a dover interrompere l’attività per mesi:

«Sicuramente – avendolo visto per esempio con mia moglie, che appunto è una collega, nel lavoro giudiziario l’interruzione protratta per più mesi dell’attività è, innanzitutto, una cosa non facile; poi, non solo la ripresa, ma comunque… Se a me ora dicessero di aspettare, di interrompere l’attività, andrei incontro a grosse difficoltà. Quindi c’è, da un lato, questo aspetto oggettivo di difficoltà e, dall’altro, il fatto che, essendo comunque le risorse limitate, essendoci sempre un problema di copertura di magistrati e cose del genere… Non voglio dire – è chiaro – che la maternità sia una cattiva notizia, ma talvolta, purtroppo, per una collega essa può diventare fonte di una sorta – non dico di “colpevolizzazione”, ora uso un termine forte, però sicuramente – di disagio, perlomeno in ambiente lavorativo. In buona sostanza si tratta di una collega che per alcuni mesi non ci sarà, con il conseguente carico “a pioggia” su tutti gli altri colleghi. Però, ripeto, solo questo… Ciò non toglie ovviamente che, sia a livello formale che sostanziale oggettivo, la maternità sia tutelata – così mi sembra» (intervista 3).

Nello stesso senso, il seguente intervistato afferma:

«in una sezione, laddove una collega dovesse esercitare il proprio sacrosanto diritto di andare in maternità, ha senso dire che verrebbero a crearsi delle problematiche. Sembra brutto dirlo, è orrendo, ma il problema non è quello della tutela giuridica, che è sacrosanto ci sia e, anzi, deve essere implementata. Il problema è proprio il funzionamento degli uffici. È quello. Poi, naturalmente, potrebbero crearsi delle problematiche, ma così come avverrebbe se un collega dovesse malauguratamente andare in malattia. Sarebbe la stessa identica cosa» (intervista 4). 

Quest’ultimo riferimento alla “malattia” del magistrato in servizio lascia trasparire non tanto la stigmatizzazione della maternità di per sé, bensì una preoccupazione per il carico di lavoro in più da sopportare negli uffici giudiziari nei casi di assenza. La seguente intervistata ha, a questo proposito, sollevato il problema delle maternità “fuori sede”:

«posso dire che, da dipendenti pubblici, siamo ampiamente tutelati, vai in maternità tutti i tuoi mesi (…). Molte colleghe che qui sono da sole hanno i mariti/compagni fuori, quindi nessuna fa gli ordinari cinque mesi. C’è chi è tornata, e scatta la battuta: “Ah, è tornata, sì, il figlio oramai guida… ”, cioè i figli hanno già un anno e mezzo quando tornano, con tutte le decurtazioni. Però mi rendo conto che, se il marito lavora [in un altro luogo], tenere un bimbo piccolo qui è un po’ problematico, quindi cercano di portare il bimbo a un’età tale da essere abbastanza autonomo. Perciò una maternità, per noi, comporta una scopertura di un anno e mezzo, a volte (…). Subiamo un po’ questa cosa, di avere non tanto “mamme”, ma “mamme fuori sede» (intervista 5).

Le problematiche concrete della maternità di una magistrata che vive in un luogo diverso da quello in cui lavora sono richiamate anche dalla seguente intervistata:

«non so se sia un mio limite, io ho una figlia che adesso ha dieci anni, quindi non è piccolissima, però sarà anche il fatto che io sono di [dice il nome della propria città di provenienza – ndr] e lavoro a [dice il nome della sede di lavoro, che si trova a 50-60km dal luogo di provenienza – ndr], quindi prendo il treno alle sette e mezza, sì… È comunque un lavoro molto impegnativo, anche mentalmente, anche quando si arriva a casa. Faccio fatica a fare tutto quello che vorrei fare» (intervista 2).

La maternità fa, quindi, emergere il tema della difficoltà della conciliazione del lavoro con la vita familiare[5].

In generale, gli intervistati che hanno affrontato questo argomento non sembrano interpretare in modo esplicitamente critico la concezione, su cui si fonda la disciplina della maternità sul posto di lavoro, secondo cui la cura dei figli deve essere, nei primi mesi di vita del bambino, affidata quasi esclusivamente alla donna-madre. Il congedo obbligatorio per paternità è, infatti, previsto per «un periodo di dieci giorni lavorativi», con «diritto di fruire dell’astensione dal lavoro per tutta la durata del congedo di maternità obbligatorio ovvero per la parte residua che sarebbe spettata alla madre, quando le circostanze del caso non ne consentono la fruizione da parte della madre. Ciò è previsto in particolare nei casi di morte o grave infermità della madre, abbandono del figlio da parte della madre, riconoscimento o affidamento esclusivo del figlio al padre»[6], vale a dire in via del tutto eccezionale. La decostruzione dei ruoli di genere e dei codici maschili e femminili ad essa associati, che potrebbe favorire la conciliazione della dimensione del lavoro fuori casa con quella del caregiving per tutte e tutti[7], non solo per le donne, non sembra essere considerata dai magistrati come un orizzonte di possibilità. La critica della disciplina della maternità si limita a sottolineare i possibili eccessi e problemi, ma in fondo non scollega la cura nei primi mesi di vita del bambino dal genere femminile:

«Forse, si sta arrivando all’eccesso opposto. A una tutela che poi, in certa misura, potrebbe risultare eccessiva e discriminatoria in senso inverso… Perché se siamo tutte donne, dico io, e se siamo tutte madri – o siamo perlopiù donne e perlopiù madri – non è che poi gli uomini… Io mi posso valere di tutte le tutele garantite dalla legge (congedi, etc.) a discapito di chi è uomo o di chi è donna, ma non è madre. Ora, secondo me, più che donna vs. uomo (dove il rapporto mi sembra abbastanza paritetico), il problema è donna madre vs. uomo/donna non madre. Parliamo di tutta una legislazione che c’è (…), non so dove sia il punto di equilibrio. Un’eccessiva tutela non della “donna”, ma della maternità, che è una cosa diversa pur riguardando la donna, perché chi è madre è donna, naturalmente parlando (…) fino a che punto si deve spingere…» (intervista 1).

L’intervistata sottolinea che «chi è madre è donna, naturalmente parlando», quindi la tutela prevista per la maternità va a scapito degli uomini, compresi i padri, ma anche delle donne che non sono madri. Allo stesso tempo, non viene esplicitamente criticata l’idea secondo cui la madre è il soggetto principalmente coinvolto nella cura dei figli[8].

Un bagaglio sconfinato di studi, specialmente nell’ambito delle prospettive femministe, ha indagato la questione della maternità sotto molteplici punti di vista. In questa sede, sarà utile limitarsi a considerare che la maternità può essere concepita in una doppia accezione: da una parte, può essere presa in considerazione come potenzialità biologica ed esperienza concreta di alcune persone di sesso femminile; dall’altra parte, può essere analizzata come concetto ideale, istituzionalizzato. In quest’ultima accezione, la maternità ha storicamente costituito – e costituisce tuttora – il principale elemento culturalmente associato alla sfera simbolica del genere femminile, «che mira a garantire che tale potenziale [biologico delle persone di sesso femminile] sia limitato e degradato sotto il dominio maschile»[9]. La maternità continua a essere uno dei principali elementi associati al genere femminile sotto il profilo simbolico, di qui la conseguenza per cui la cura dei figli viene culturalmente e concretamente attribuita più alle donne che agli uomini.

Il tema è stato sfiorato anche in un’altra intervista, in cui, nuovamente, la mancanza di tutele per il magistrato padre non è stata apertamente problematizzata. Inoltre, la disparità tra condizione della lavoratrice “dipendente” e condizione della “libera professionista” non sembra essere messa in discussione sotto il profilo giuridico:

«Mi ricordo che c’era una mamma fuori sede, e un papà in sede si lamentava: a lei spettano tutte le cortesie, a me no. Ecco, una frase un po’… Non è questione del papà o della mamma, però prendiamo un po’ le differenze. La tutela c’è, è formalizzata: la mamma, la lavoratrice ha diritto di scegliere lei cosa vuole fare, cioè di passare su quei ruoli, avere quegli esoneri da quell’attività un po’ più pesante, ecco… I collegi penali sono quelli che durano tanto, molte ore, quindi ecco che la madre ha diritto di dire: io non li voglio fare. Quando rientra, è il magistrato che dice qual è la disponibilità che dà. Quindi, da questo punto di vista, è pienamente tutelato. Per esempio non ci sono i turni, la funzione del GIP che non ha orari: le madri hanno diritto all’esonero. Pertanto, criticità non ne vedo, almeno io non ne ho viste, sotto questo profilo. Anzi, il magistrato madre ha… Ricordo che, quando ero un giovane avvocato (non ero sposata e non avevo figli), le avvocatesse madri dicevano: “che bello, loro si mettono in maternità e noi no”. Però è una critica che lascia il tempo che trova: lei è un dipendente, tu sei un libero professionista. Anzi, se vogliamo dirlo, da avvocato non c’era nessuna tutela, proprio nessuna… Perché per tutto il periodo di astensione hai diritto a 500 euro, sicché uno dice: “con 500 euro cosa ci faccio?”. Quindi nessun avvocato va in maternità, ed ecco che ti trovi i pancioni in udienza. Erano, da un certo punto di vista, costrette: la Cassa forense non le tutelava.

Qui la tutela c’è, e a volte – purtroppo, devo dirlo – è usata come arma di ricatto. Chi vede le cose che vanno male fa il figlio… Questa stortura esiste. Però c’è piena tutela, da quello che vedo. Adesso abbiamo due colleghe in maternità e una in esonero maternità. E il presidente: “no, ma lei è in maternità (…), ma poverina, non ce la fa”… » (intervista 5).

Lo status quo normativo non viene quindi espressamente criticato, anche se vengono riconosciute le disparità di trattamento nei confronti dei magistrati padri e delle avvocate madri. Allo stesso tempo, è interessante che in chiusura sia sottolineata la condizione di minorazione[10] – «poverina» – che, nel caso citato di questo presidente, viene attribuita con sguardo paternalista, benché benevolo, alle donne che fruiscono di tutele specifiche. 

 

3. Essere donne nella quotidianità degli uffici giudiziari

Alcuni studi e ricerche hanno messo in evidenza la progressiva “femminilizzazione” delle professioni giudiziarie, compresa la magistratura, avvenuta negli ultimi decenni[11]. Come è noto, le donne hanno fatto ingresso in magistratura per la prima volta nel 1965, sulla base della legge n. 6 del 1963. Alla fine degli anni ottanta, il numero delle vincitrici del concorso in magistratura ha superato per la prima volta il numero dei vincitori, e dalla fine degli anni novanta a oggi le prime sono sempre state in maggioranza all’esito dei concorsi che si sono succeduti, anche se è solo dal 2015 che le donne magistrato in servizio sono più degli uomini. I dati più recenti del Csm evidenziano che le donne si attestano al 56% circa dei magistrati in servizio, per un totale di 5321, a fronte di 4213 uomini[12]

Un’intervistata ha interpretato tali numeri come un fattore che riduce – se non annulla – le discriminazioni nei confronti delle donne in questa professione:

«no, allora, se stiamo parlando di una percezione di discriminazione nei miei confronti in quanto donna, assolutamente no, in quanto madre – perché ho un figlio –; da quando ho avuto il bambino, assolutamente no. Parlo, ovviamente, della mia esperienza (…), dei colleghi con cui ho lavorato io… Però, come diceva lei, ci sono tantissime donne ormai, sono la maggioranza, quindi… dal punto di vista pratico, non potrebbe essere diversamente (…). Si è molto attenti a questo aspetto e nessuno al giorno d’oggi – almeno, nessuno con me – si è mai sognato di dire: “e tu, in quanto donna… ”, ma non saprei neanche immaginare che cosa… Cioè, niente: tu fai il tuo lavoro, io faccio il mio, e così è» (intervista 1).

D’altro canto, diverse sono le intervistate che hanno sottolineato di aver dovuto affrontare, nello svolgimento della professione di magistrato, atteggiamenti ostili da parte di colleghi, direttivi, o anche da parte di altri professionisti del diritto, a motivo del proprio sesso biologico:

«purtroppo, mi è capitato di assistere a episodi di maschilismo abbastanza pesanti quando ero MOT. Cioè, proprio di… scortesia, risposte sgarbate da parte di presidenti di sezione, che si rivolgevano in maniera molto più scostante alle donne rispetto agli uomini. Ma soprattutto, ahimè, minacce costanti alle giovani colleghe entrate in magistratura, no? Sempre, questo, nella mia prima sede… Da parte del presidente del tribunale, un continuo: “No, perché poi lo so che vanno in maternità e… ”, tutto così… Continuamente a dire: “Perché lo so che poi andate in maternità”. Secondo me questo è discriminatorio: nel momento in cui sono in maternità, ne parliamo; ma quando sono qua e sto lavorando, non mi devi pressare. Tu magari non lo sai se io posso avere figli, non posso averne, se ne voglio o no, se sono lesbica… Saranno benedetti affari miei… e questo io lo trovo discriminatorio, perché a un uomo non l’ho mai sentito dire. Invece, alle giovani colleghe è riservata un sacco di pressa su ‘sta cosa della maternità… Addirittura, se uno prendeva una settimana di ferie fuori periodo… riferito poi dalla segretaria del tribunale… il presidente chiedeva: “Ah, ma non è che si deve riposare, perché magari è incinta?” Così… secondo me, è vergognoso» (intervista 15). 

Ancora una volta, dunque, l’ombra della maternità è fatta ricadere sulle donne che svolgono la professione di magistrato con una valenza simbolica stigmatizzante e scollegata dalla realtà. Questo atteggiamento sembra porsi in continuità con la lunga storia della cultura giuridica, che vedeva con occhio ostile l’ingresso delle donne in magistratura, ritenendole inadatte allo svolgimento della professione di magistrato a motivo del potenziale biologico femminile che, secondo questa impostazione, renderebbe le donne troppo emotive, non equilibrate[13]. Com’è noto, riferendosi alle ragioni fisiologiche, i giuristi che sostenevano l’esclusione delle donne dalla magistratura per eccesso di emotività intendevano alludere, più o meno esplicitamente, al ciclo mestruale come elemento destabilizzante, proprio del corpo sessuato femminile. Lo stigma del ciclo viene menzionato anche da un’intervistata, che fa trasparire una percezione della persistenza di tali convinzioni anche nella cultura giuridica delle persone che entrano nel campo giuridico del tribunale come parte o come imputato del processo:

«Sicuramente, nelle persone che hanno a che fare con noi… Io non ho esperienze al Nord, quindi non posso parlare di quel che accade su, però da noi sicuramente l’idea di essere giudicati da una femmina non è sempre ben… Cioè, percepisci che ad alcune persone questa cosa dà fastidio, oppure si pensa un po’ così: “vabbè, quella oggi sta storta perché c’ha il ciclo”… Per cui, sul fatto che la donna debba giudicare e che abbia la serenità per farlo, a volte avverto resistenza in una parte (spero minoritaria) della popolazione; ma l’idea che la donna non sia adatta a giudicare, appunto perché è questo che faccio io, c’è ancora» (intervista 9).

Analogamente, un’altra intervistata si è espressa nei seguenti termini:

«Ad esempio, il tribunale è composto in prevalenza da donne, e questo – come immagine, come “apparenza” – potrebbe far pensare a un’inversione di tendenza rispetto a dinamiche conosciute, che sono a scapito del genere femminile. E ti dico che è più apparente che reale, perché poi, nel trattamento concreto che si ha in udienza, che si ha nel gestire la cancelleria, nel gestire gli avvocati… si sconta perennemente questo tipo di… differenza. E si vede. È proprio tangibile (...). Le donne, alla fine (…) hanno l’ultima parola. Nella pratica è… difficile da gestire. Parlo di donne giovani, che stanno là a interfacciarsi con avvocati uomini anche con trenta o quarant’anni di esperienza, e non è proprio facile» (intervista 16).

In questo caso, l’intervistata ha sottolineato la manifestazione di atteggiamenti particolarmente oppositivi da parte di alcuni avvocati del foro di riferimento nei confronti delle donne, soprattutto giovani, che esercitano la funzione giudicante. Su questa linea, un’altra intervistata afferma:

«Diciamo che andrebbero esaminati vari aspetti. Per quanto riguarda il rapporto tra presidente e colleghi, cioè di noi giudici coi presidenti di sezione e colleghi, non credo, non ho notato niente. Forse, però, molti avvocati percepiscono il fatto di avere davanti una donna anziché un uomo, questo sì (…). Non ho in mente episodi specifici, sono più sensazioni, diciamo. Però sì, questa sensazione da parte del foro c’è. Magari, dopo un po’ di tempo, ti conoscono, e cominciano a non valutarti più per il genere… Però, probabilmente, all’inizio questa percezione esiste» (intervista 13).

La femminilizzazione della professione del magistrato si scontra quindi con la persistenza di una cultura giuridica, sia interna sia esterna[14], ostile nei confronti delle donne. In futuro sarà interessante aprire ulteriori piste di ricerca volte ad indagare le culture giuridiche locali[15] di alcuni specifici uffici giudiziari, al fine di analizzare gli effetti della cultura giuridica maschilista in contesti territoriali diversificati.

 

4. La magistratura come professione di genere

 

4.1. La massiccia presenza delle donne in servizio…

Meno esplicitamente indagate nella ricerca sono le motivazioni della scelta del concorso in magistratura in relazione al genere della persona intervistata, per quanto non manchi qualche spunto interessante, soprattutto da parte delle intervistate. 

In tal senso, in un’intervista viene precisato: 

«il motivo per cui siamo tutti, tutte, per la maggior parte, donne è un motivo sociale. Riflettevo – perché non ho elementi per dirlo – che noi entriamo in magistratura con un percorso secondo me assurdo, sbagliato… anche abbastanza “grandi”, oramai. La mia generazione – e oramai, appunto, da un po’ di concorsi a questa parte – siamo tutti più o meno intorno ai trenta… anno più, anno meno. Abbiamo la necessità di stare tante ore impegnati nello studio, e dunque non abbiamo la possibilità, salvi rari casi (…). Io – lo dico – ritengo di avere un’intelligenza media, per cui o lavoravo o studiavo, insomma non riuscivo a fare entrambe le cose: studiando dieci ore al giorno, il tempo per lavorare non lo avevo. Però ho avuto qualcuno che mi ha mantenuto. È chiaro che questo, socialmente, antropologicamente per un maschio, è più difficile da accettare. Quindi, sicuramente, noi donne abbiamo maggior propensione allo studio – e quindi a “metterti lì”, no? Però non è solo quello. E ritengo che, dove ci sono gli squilibri, è sempre sbagliato. Sono femmina, sono donna, e quindi chiaramente ritengo che le donne debbano stare ovunque, ci mancherebbe altro. Però anche questa sproporzione non è corretta (…). Culturalmente, non siamo ancora pronti a immaginare un uomo che sta a casa fino a trent’anni per studiare… Queste sono le differenze di genere che io percepisco» (intervista 9).

È un’interessante prospettiva sulla questione, che non può essere comprovata o confutata dai dati raccolti nell’ambito della ricerca. Si può comunque considerare che, in magistratura, si è sviluppata una certa attenzione al tema della parità di genere: a titolo esemplificativo, si può ricordare che sia il Csm sia l’Anm hanno istituito tempestivamente, nella propria struttura, le Commissioni per le pari opportunità dopo l’entrata in vigore della normativa relativa alle «Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro»[16]. Si è già accennato al fatto che il sorpasso delle donne magistrato rispetto agli uomini magistrato nel superamento del concorso è stato relativamente recente, ma comunque persistente negli ultimi decenni, dunque per tutti gli anni del concorso di secondo grado[17]. La professione di avvocato vede una presenza femminile leggermente inferiore rispetto al contesto della magistratura e, soprattutto, un reddito medio annuo decisamente inferiore per le donne[18]. Come accennato anche in un’intervista riportata nel paragrafo precedente, essendo libere professioniste, le avvocate hanno maggiori ostacoli nella conciliazione delle dimensioni “lavoro/famiglia”, soprattutto in relazione alle tutele previste per la maternità[19]. A questo proposito, è stato evidenziato da alcune ricerche come gli elementi valutati positivamente dalle donne al momento della scelta di iscriversi al concorso in magistratura siano «la stabilità d’impiego» e «le prospettive di carriera»[20]

Alcune magistrate intervistate hanno messo in luce le possibilità di auto-organizzazione che alcuni specifici settori della magistratura, come alcuni ambiti del settore civile, consentono a una lavoratrice che abbia la necessità di lavorare con tempi e orari flessibili:

«Questo infatti è il problema: il sentirsi, alla fine, poco libero. Questo mi ha indotto a passare dal penale al civile, perché nel civile, comunque, uno è responsabile del proprio ruolo, e va a gravare limitatamente sui colleghi nel momento in cui manca, solo in misura minore… mentre nel penale si influisce molto di più sui colleghi, perché ci sono i turni per le direttissime, ci sono i collegi penali che si devono interrompere o si deve essere sostituiti da altri colleghi. Questa è stata una delle ragioni: passare al civile mi consentiva di essere più autonoma in queste scelte, appunto, magari prendendomi il congedo parentale» (intervista 2).

Per contro, un’intervistata che lavora come sostituto procuratore sottolinea come questo ruolo consenta scarsa libertà di auto-organizzazione:

«… E poi, da un punto di vista sostanziale… io sfido, cioè ammiro anche [ride]… Ho le colleghe in Procura che hanno un paio di figli: io mi chiedo come facciano… Il carico di lavoro è notevole, soprattutto per un ruolo come quello del pubblico ministero. Il ruolo del giudice… Per carità, non l’ho mai svolto. Mio padre ha fatto sia il giudice sia il pubblico ministero, e ricordo che quando era giudice – ed ero piccola – trascorrevo molto tempo con lui, che stava a casa a scrivere le sentenze. Nel frattempo, insomma, ero lì, quindi poteva stare a casa… Il pubblico ministero, già solo per il fatto che tendenzialmente è sempre in ufficio (…), per una donna è veramente complicato da gestire. Quindi, da un punto di vista sostanziale… Non ci sono più di tanto strumenti per venire incontro a queste esigenze; il nostro lavoro è molto bello, appunto, in quanto siamo molto liberi da un punto di vista organizzativo nostro: non abbiamo un orario di ufficio, non dobbiamo timbrare il cartellino, ecco… Però questo, diciamo, vale nel bene e nel male, nel senso che uno può fare di meno, ma anche molto di più, perché non hai… perché i limiti te li devi dare tu, no? Per gestire vita privata e vita lavorativa bisogna trovare un equilibrio, e non sempre è facilissimo, soprattutto all’inizio… Io ho avuto la fortuna, fin da quando studiavo, di essere sempre stata molto veloce nel fare… Però sento tanti colleghi che, magari i primi due o tre anni, il weekend per dire non lo vivono proprio, non esiste. E, quindi, s’immagini costruire una famiglia… Questo vale un po’ per gli uomini e per le donne; ma, alla fine, è inutile che ce la raccontiamo: quando ci sono dei figli, chiaramente è la donna che, quantomeno in prima battuta, se ne prende cura» (intervista 30).

Torna quindi la consapevolezza di una cura “gendered”, culturalmente e socialmente affidata alle donne e non a tutte le persone, donne e uomini. Questo modello sembra tuttora esprimere una visione essenzialista della cura pregiudicando la parità, che, secondo alcune pensatrici, potrebbe essere promossa realmente solo decostruendo l’opposizione tra lavoro di cura non retribuito e lavoro fuori casa, secondo un modello che integri attività che al momento sono nettamente separate, eliminando il “gender coding” di tali attività e incoraggiando gli uomini a praticare la cura[21].

 

4.2. … e le persistenti disparità negli incarichi direttivi

Nell’ambito delle interviste effettuate, sono state rilevate criticità relative a una persistente mancanza di parità nell’attribuzione degli incarichi direttivi:

«Allora, premesso che noi donne ormai siamo più degli uomini in magistratura, apparentemente direi di no. Sostanzialmente, mi sentirei di dire di sì. (…) I ruoli dirigenziali, tendenzialmente, sono ancora molto maschili. C’è qualche eccezione, però insomma, sì, i direttivi sono maschili» (intervista 30).

In questo stesso senso, un’altra intervistata afferma: 

«Noi siamo una delle pochissime categorie in cui la presenza delle donne è forte. Tuttavia – qualora dovessi mai avere un po’ di tempo, oppure non so se qualcun altro abbia fatto questa ricerca – sono curiosa di sapere quanti uomini ci sono nelle posizioni dirigenziali, direttive, perché a occhio a me sembra che, alla fine, nonostante ci siano pochissimi maschi, loro continuino a ricoprire le posizioni apicali» (intervista 9).

Effettivamente, gli ultimi dati presentati dal Csm evidenziano uno scarto significativo per quanto riguarda i ruoli direttivi, che risultano assegnati nel 71% dei casi a uomini, mentre solo nel 29% dei casi sono attribuiti alle donne. Le magistrate esercitano ruoli di direzione negli uffici giudicanti nel 33,9% dei casi, mentre sono presenti in misura minore – il 23% – tra i dirigenti degli uffici requirenti. Lo scarto è minore negli incarichi semidirettivi, che sono attribuiti alle donne nel 46% dei casi, percentuale che sale al 48,7% negli uffici giudicanti e scende al 33% negli uffici requirenti[22]. Alcune ricerche sulle donne in magistratura si sono occupate della questione degli incarichi direttivi e semidirettivi, sottolineando come, con il passare degli anni, sia stato sempre meno possibile attribuire lo squilibrio al criterio dell’anzianità, che, visto il ritardo dell’ingresso delle donne in magistratura, le ha penalizzate per alcuni decenni[23]. Vi sono stati studi e ricerche che hanno messo in luce una certa tendenza all’autoesclusione delle donne al momento della presentazione della domanda per i ruoli dirigenziali, secondo alcune ricostruzioni correlata a una difficoltà psicologica di vedere se stesse nell’ambito di ruoli tradizionalmente maschili, e secondo altre dovuta a motivazioni contingenti, come il carico di lavoro nell’ufficio giudiziario di appartenenza e gli impegni familiari[24]. Sarebbe, peraltro, interessante indagare in futuro se tra le magistrate sia o meno diffusa una concezione del lavoro nel campo giuridico refrattaria alla gerarchizzazione e alla rigidità[25]. Rispetto a questa idea, affine alle concezioni critiche del diritto care al movimento delle donne in Italia, sarebbe interessante aprire ulteriori piste di ricerca sulle motivazioni alla base della propensione personale a fare domanda o meno per gli incarichi direttivi e semidirettivi, eventualmente anche differenziata in base al genere[26]

 

 

1. Marina Graziosi si riferisce, in questo senso, alla categoria dell’“infirmitas sexus” come «presupposto al divieto, per il sesso femminile, di rivestire cariche pubbliche, di essere giudici, di assumere tutele, di postulare nec pro alio intervenire, cioè di esercitare l’avvocatura» – Ead., Infirmitas sexus. La donna nell’immaginario penalistico, in Democrazia e diritto, n. 2/1993, p. 107.

2. Per quanto (vds. infra) da alcune intervistate sia stata messa in luce la persistenza di una cultura giuridica ostile alle magistrate nell’ambito di specifici contesti e individui. 

3. Rispetto al binomio law in books/law in action, cfr. il celebre articolo di R. Pound, Law in Books and Law in Action, in American Law Review, vol. 44, n. 1/1910, pp. 12-36.

4. Cfr. art. 10 delibera Csm, 19 ottobre 2022 (pratica n. 23/VQ/2022) – «Circolare sulle assenze del magistrato di tutte le tipologie e congedi, aspettative e permessi posti a tutela della salute, della maternità/paternità e della formazione e relative problematiche» (www.csm.it/documents/21768/87331/circolare+assenze+e+congedi+%28delibera+19+ottobre+2022%29/fee8f76e-f3b2-4c2c-909c-0d2957d29405).

5. M. Cozza - A. Murgia - B. Poggio, Traiettorie ed intrecci nelle storie di carriera di uomini e donne. Una lettura di genere delle transizioni tra lavoro e non lavoro, in Sociologia del lavoro, n. 110/2008, p. 210.

6. Art. 13 delibera Csm, 19 ottobre 2022, cit.

7. Cfr. N. Fraser, After the Family Wage: Gender Equity and the Welfare State, in Political Theory, vol. 22, n. 4/1994, p. 612. 

8. Molteplici studi si sono concentrati sulla divisione dei ruoli all’interno della famiglia, mettendo in luce come il lavoro di cura dei figli e delle soggettività in condizione di vulnerabilità, ma anche il lavoro domestico in generale, siano ancora principalmente svolti dalle donne nelle società occidentali. Cfr. C. Saraceno, Beyond Care. The Persistent Invisibility of Unpaid Family Work, in Sociologica, n. 1/2011, p. 2; S.M. Bianchi - L.C. Sayer - M.A. Milkie - J.P. Robinson, Housework: Who Did, Does or Will Do It, and How Much Does It Matter?, in Social Forces, vol. 91, n. 1/2012, pp. 55-63; Iid., Is Anyone Doing the Housework? Trends in the Gender Division of Household Labor, ivi, vol. 79, n. 1/2000, pp. 191-228; S. Coltrane, Research on Household Labor: Modeling and Measuring the Social Embeddedness of Routine Family Work, in Journal of Marriage and Family, vol. 62, n. 4/2000, pp. 1208-1233.

9. F. Chicco, Decostruzione del simbolico materno. É. Badinter, B. Duden, A. Rich: un dibattito femminista tra “seconda” e “terza ondata”, in Post-Filosofie, n. 12/2019, p. 198.

10. Compare l’infirmitas sexus a cui, come richiamato in apertura, fa riferimento M. Graziosi, Infirmitas Sexus, op. cit., pp. 99-143.

11. Cfr., in particolare, F. Tacchi, Eva Togata. Donne e professioni giuridiche in Italia dall’Unità a oggi, UTET Giuridica, Milano, 2009, pp. 196-201.

12. Csm, Ufficio statistico, «Distribuzione per genere del personale di magistratura» (aggiornamento a marzo 2023; www.csm.it/documents/21768/137951/Donne+in+magistratura+%28aggiorn.+marzo+2023%29/99ed858a-e98f-17d1-aeec-f6e4228a617e#:~:text=Esattamente%20un%20anno%20fa%20la,tirocinanti%20il%2061%2C6%25). 

13. Alcuni riferimenti a questa cultura giuridica, risalente ma persistente, si trovano in D. Ippolito, Cultura giuridica e discriminazione femminile. In margine a un libro di Marina Graziosi, in Antigone, semestrale di critica del sistema penale e penitenziario, n. 2/2022, pp. 258-271; cfr. anche la ricostruzione di G. Di Federico e A. Negrini, La Grazia e la Giustizia, in P. David e G. Vicarelli (a cura di), Donne nelle Professioni degli Uomini, Franco Angeli, Milano, pp. 83-91, e i riferimenti in G. Alpa, L’ingresso della donna nelle professioni legali, in Sociologia del diritto, n. 1/2011, p. 22.

14. Con l’espressione “cultura giuridica interna” si intende la cultura giuridica di coloro che operano nel sistema giuridico come professionisti, mentre “cultura giuridica esterna” denota la cultura giuridica di tutti coloro i quali non sono giuristi. Cfr. L.M. Friedman, Il sistema giuridico nella prospettiva delle scienze sociali, Il Mulino, Bologna, 1978.

15. R. Cotterrell, Comparative Law and Legal Culture, in M. Reimann e R. Zimmermann (a cura di), The Oxford Handbook of Comparative Law, Oxford University Press, Oxford, 2006, pp. 709-737.

16. F. Tacchi, Eva Togata, op. cit., p. 200; cfr. anche Ead., Professioni giuridiche ed evoluzione di genere. Avvocate e magistrate in Italia dagli anni ’70 a oggi, in Economia e lavoro, n. 2/2008, pp. 35-36.

17. Cfr. il contributo di Chiara De Robertis, Formazione e forma mentis del magistrato, in questo fascicolo. 

18. Cfr. Cassa Forense, in collaborazione con Censis, Rapporto sull’Avvocatura 2023. L’Avvocatura oltre la crisi, prospettive di crescita della professione, aprile 2023 (www.cassaforense.it/media/10536/rapporto-avvocatura-2023.pdf).

19. F. Tacchi, Eva Togata, op. cit., p. 201.

20. Ibid.

21. N. Fraser, After the Family Wage, op cit., p. 611.

22. Csm, Ufficio statistico, «Distribuzione per genere del personale di magistratura», cit.

23. F. Tacchi, Eva Togata, op. cit., p. 207.

24. Ibid. Per una ricognizione degli studi e delle ricerche sul tema, cfr. anche F. Amato, Verso l’eguaglianza di genere nella magistratura italiana: nodi critici e prospettive, in Lavoro e diritto, n. 4/2006, p. 567.

25. Per approfondire le teorie critiche del diritto sviluppatesi nell’ambito del femminismo giuridico, cfr. A. Simone - I. Boiano - A. Condello (a cura di), Femminismo giuridico. Teorie e problemi, Mondadori, Milano, 2019.

26. Sull’idea della giustizia come attuazione dell’uguaglianza sostanziale, condivisa da alcune delle prime magistrate entrate in servizio alla fine degli anni sessanta, cfr. V. Pocar, Le donne magistrato: una ricerca pilota, in Sociologia del diritto, n. 3/1991, p. 80; F. Tacchi, Eva Togata, op. cit., p. 168.