Associazionismo e autogoverno. Appunti e riflessioni per una rinnovata fiducia
L’autogoverno e l’associazionismo giudiziario scontano al giorno d’oggi una forte sfiducia e una crisi di legittimazione nel corpo della magistratura, soprattutto di quella più giovane. Molteplici sono le cause del fenomeno, alcune esogene ed altre da ricercare nelle dinamiche interne alla magistratura stessa. Nelle righe a seguire proveremo a illustrare la nostra percezione del fenomeno e a individuare una possibile strada da percorrere per incidere sullo stato delle cose.
1. I giovani magistrati, il governo autonomo e l’associazionismo giudiziario: tra sfiducia e indifferenza / 2. Appunti per una rinnovata fiducia / 2.1. La funzione “politica” dell’autogoverno / 2.2. La funzione dell’associazionismo giudiziario e la “corrente” come gruppo di valori
1. I giovani magistrati, il governo autonomo e l’associazionismo giudiziario: tra sfiducia e indifferenza
Si sente spesso dire che i giovani magistrati – espressione dal carattere tanto evocativo quanto davvero poco denotativo, categoria dai confini vaghi e sempre mobili – si sentono, e in realtà sono, lontani dal mondo del governo autonomo e dell’associazionismo giudiziario. Percepiscono un’incolmabile distanza tra sé e i luoghi dove la magistratura discute e decide di sé, anziché, come abituata a fare, sugli e degli altri: le cd. “correnti”, l’Associazione nazionale magistrati, i consigli giudiziari, il Consiglio superiore della magistratura.
Si tratta di un’affermazione spesso abusata e generalizzante, ma che affonda le radici in un innegabile nucleo di verità. Le ragioni del disinteresse e dell’allontanamento sono probabilmente variegate, anche se in parte interconnesse.
Sicuramente un ruolo importante è rappresentato dall’introduzione del concorso di secondo grado – soluzione oggi condivisibilmente superata – e dalla conseguente immissione in ruolo di magistrati dall’età più avanzata, che spesso vantano pregresse esperienze lavorative – per lo più precarie – e ambiscono ora alla formazione di una famiglia, a una maggiore stabilità esistenziale e lavorativa, esigenze difficilmente compatibili con l’approfondimento di tematiche relative all’ordinamento giudiziario o con l’impegno associativo, soprattutto se la sede di lavoro è lontana dalla città di origine.
Su un piano non secondario, però, le origini vanno ricercate anche nella sempre crescente tecnicizzazione del diritto e nella connessa maggiore complessità del ruolo del magistrato (in realtà, di qualsiasi altro operatore del diritto) rispetto agli scorsi decenni; nel pesante carico dei ruoli, spesso concentrato nelle realtà giudiziarie meno ambite e più periferiche e, in queste, affidato ai colleghi più giovani, su cui grava la responsabilità di immani arretrati; nell’angoscia produttivistica, aziendalistica ed efficientista verso cui sempre più spinge l’organizzazione giudiziaria: tutti elementi, questi, che rendono i più giovani magistrati riluttanti a dedicare lo scarsissimo tempo libero a un ambito comunque connesso a quello lavorativo e a concentrare, semmai, il loro interesse su questioni più strettamente – per dir così – sindacali.
Tutto ciò, però, si muove in un ben più ampio contesto sociale e culturale di impoverimento della discussione e del confronto politici, sul cui sfondo si stagliano, come sempre, il tramonto delle grandi narrazioni del secolo scorso e l’incapacità, tutta postmoderna, di vedere oltre il particolare, di sentirsi parte di un corpo più ampio, di riuscire a percepire la dimensione comunitaria e collettiva del proprio ruolo e, nello specifico, di riuscire a concepire la funzione giurisdizionale come elemento fondamentale delle istituzioni repubblicane, parte attiva nel funzionamento del sistema democratico e coessenziale alla concreta attuazione dell’assetto di interessi e del complessi dei diritti, propri dello Stato sociale di diritto, disegnato dalla Costituzione.
Sono questi gli elementi di contesto che, considerati nel loro insieme, crediamo abbiano contribuito a segnare un solco spesso difficilmente colmabile tra il lavoro quotidiano della maggior parte dei magistrati – ma, innegabilmente, soprattutto dei più giovani – e non solo l’associazionismo giudiziario, ma anche gli organi del governo autonomo, soprattutto quello centrale, visto come un’entità distante dalla propria quotidianità lavorativa, per lo più immerso nei propri riti e nelle proprie non sempre cristalline logiche; un organo che, a eccezione dei casi in cui si occupa di istanze o vicende relative al singolo interessato o al relativo ufficio di appartenenza, assume decisioni la cui diretta portata non è immediatamente percepibile in modo chiaro dalla generalità, e che spesso vengono misconosciute o semplicemente ignorate.
A questi fattori, che in certa misura potremmo definire “esogeni” perché per lo più indipendenti da responsabilità interne al corpo della magistratura, si aggiungono il giusto sdegno e la profonda disillusione causati dalle note vicende degli ultimi anni e dallo scandalo che ha colpito parte della magistratura associata. Questi eventi, anche al di là delle (e a prescindere dalle) responsabilità dei singoli e dei gruppi di appartenenza, hanno prodotto un effetto dirompente nell’aggravare ancor più quella sensazione di distanza da un mondo percepito come ostaggio (più che appannaggio) di pochi, dalle associazioni tra magistrati viste come meri gruppi di potere tra colleghi interessati alla carriera e alla spartizione di incarichi, di più o meno significative fette di potere. Vi è, dunque, una generalizzata perdita di fiducia negli organi del governo autonomo, da un lato, e dell’associazionismo giudiziario, dall’altro, percepito come mero veicolo e strumento di pilotaggio dei primi e delle relative decisioni.
Va però anche messa in evidenza, in quest’ambito, la rilevanza di ulteriori due fattori, tra loro strettamente interconnessi, soprattutto se si parla di magistrati meno anziani.
Un primo innegabile elemento è rappresentato dalla materia stessa dell’ordinamento giudiziario, in sé non appassionante, che appare spesso farraginosa, complessa e per lo più a-sistematica, la cui regolamentazione è rimessa a non sempre esaustive circolari consiliari, quando non addirittura contenuta in singole risposte a quesiti.
Il ruolo della formazione in quest’ambito è pressoché nullo, poiché si tratta di una materia quasi mai affrontata negli anni del tirocinio, che sconta anche nei colleghi più anziani un generalizzato disinteresse e che viene quindi per lo più ignorata dal corpo dei magistrati, sostanzialmente rimessa ai dirigenti degli uffici.
Negli ultimi anni, la Scuola superiore della magistratura sembra aver intrapreso una strada formativa incentrata essenzialmente su una sorta di ritorno al tecnicismo, caratterizzata da corsi densissimi di contenuti e informazioni, che, anche quando non privi di un certo interesse scientifico o di una qualche utilità pratica, sono però da un lato decisamente privi di un più ampio respiro culturale e, dall’altro, neppure durante la formazione iniziale, orientati a fornire ai neo-magistrati gli strumenti formativi per orientarsi al meglio nel mondo della nuova professione, soprattutto in materia ordinamentale.
Il secondo e connesso ruolo è giocato dal fatto che il principale – se non unico – aspetto ordinamentale che, sin dalle prime fasi del tirocinio, è invece affrontato anche in modo particolarmente approfondito – per non dire convulsamente “agitato” contro i più giovani colleghi – è quello del procedimento disciplinare, cui sono dedicate lezioni sin dalle fasi del tirocinio generico.
E la spasmodica attenzione a questo tema, a nostro avviso, lungi dal contribuire a formare un magistrato più consapevole della delicatezza del proprio ruolo e del peso delle proprie decisioni nella vita delle persone, risulta al contrario – in modo più o meno consapevole – funzionale ad alimentare un approccio più timido e timoroso alla giurisdizione. L’eterno e ricorrente timore del disciplinare, soprattutto se unito all’angoscia della definizione data dall’approccio burocratizzante e aziendalistico, induce giocoforza a privilegiare, tra le varie decisioni astrattamente possibili in base alla legge, quelle più conformiste rispetto al precedente, che perciò più rassicurano il magistrato da ogni forma di esposizione e appaiono maggiormente tranquillizzanti per la sua sfera personale e professionale, ma che inevitabilmente mortificano l’interpretazione evolutiva e l’effettiva tutela delle situazioni giuridiche soggettive, soprattutto di quelle “nuove” e soprattutto di quelle dei soggetti meno garantiti.
Questi due aspetti, come detto, “si tengono” l’un l’altro e, insieme, contribuiscono ancor più ad accreditare una distorta idea del ruolo dell’associazionismo giudiziario e dei suoi rapporti con gli organi del governo autonomo. Infatti, proprio nella distanza tra il destinatario delle regole e le regole ordinamentali stesse, nella loro (almeno percepita) non diretta accessibilità, da un lato, e nel timore per la propria sfera personale e professionale, dall’altro, trovano terreno fertile le offerte di sapere e di protezione, fatte da colleghi più anziani, spesso interessati a carpire la fiducia del giovane collega sin (e soprattutto) dalle primissime fasi del tirocinio, in vista di un suo avvicinamento alla corrente di appartenenza e di un futuro appoggio elettorale.
E, inevitabilmente, proprio questa più bieca attività correntizia, che vede nell’offerta non solo di informazioni, ma soprattutto di tutela e di protezione, il fulcro e l’essenza stessa dell’appartenenza associativa in vista e in funzione della costruzione della carriera, se da un lato sarà ben accolta da qualcuno, ideologicamente e caratterialmente più incline a valorizzare questi aspetti deteriori della “politica” giudiziaria, dall’altro contribuisce ancor più ad allontanare da questo mondo quei più giovani magistrati che, pur astrattamente interessati a un diverso modo di intendere la politica associativa, sono però, per le ragioni anzidette, già autonomamente restii a un’attiva partecipazione.
A nostro avviso, su questo stato di cose è ancora possibile incidere.
2. Appunti per una rinnovata fiducia
2.1. La funzione “politica” dell’autogoverno
Si è lungamente discusso sulla questione della natura giuridica del Consiglio superiore della magistratura, in particolare se esso sia organo costituzionale, di rilievo costituzionale o soltanto di “alta amministrazione”.
In questa sede riteniamo di aderire all’opinione di autorevole dottrina, secondo cui tale dibattito rischia di divenire sterile e meramente nominalistico, dato che «Il problema reale è quello di valutare il peso e l’incidenza di ciascun organo, previsto e disciplinato direttamente dalla Costituzione, sul complesso degli equilibri necessari a mantenere operante la separazione e l’incontro tra i poteri dello Stato costituzionale»[1].
In tale ottica, se è indubbio che il Consiglio è chiamato a svolgere compiti di alta amministrazione – «i cui riflessi latamente politici non sono peraltro da escludere»[2] –, è altrettanto innegabile che esso, in quanto organo posto a presidio dei principi di autonomia e indipendenza della magistratura, svolge un insostituibile ruolo costituzionale e, al contempo, di garanzia. La sua eventuale mancanza, infatti, «incide[rebbe] con effetti disgreganti sul nucleo essenziale dei principi costituzionali»[3]: in questi termini, dunque, esso, oltre ad assurgere al rango di organo costituzionale, assume anche un ruolo essenzialmente “politico”, perché «esprime orientamenti destinati ad incidere sulla qualità della giurisdizione ordinaria intesa come servizio ai cittadini, condizione indispensabile perché l’indipendenza dell’ordine giudiziario e dei singoli magistrati non rimanga un insieme di prerogative personali e corporative, ma sia garanzia di una retta amministrazione della giustizia in tutte le pieghe di una società complessa, ovunque emerga la necessità della tutela dei diritti e l’adempimento dei doveri stabiliti dalla Costituzione e dalle leggi»[4].
Del resto, il Consiglio di Stato, sia pure nel riconoscere al Csm la natura di organo di rilievo costituzionale e non già costituzionale tout court, ha rimarcato più volte che esso è titolare «di un’ampia discrezionalità, il cui contenuto resta estraneo al sindacato di legittimità del giudice amministrativo salvo che per irragionevolezza, omissione o travisamento dei fatti, arbitrarietà o difetto di motivazione, senza alcun apprezzamento che sconfini nella valutazione di opportunità, convenienza o condivisibilità della scelta»[5].
Quanto affermato trova conferma anche nella stessa composizione del Csm. I Costituenti, infatti, consapevoli dell’intrinseca “politicità” del ruolo assegnato all’organo di autogoverno, sentirono l’esigenza di controbilanciare la componente togata con una non trascurabile presenza di membri “laici” eletti dal Parlamento, ponendovi al vertice il Presidente della Repubblica.
In definitiva, la “politicità” dell’organo, lungi dall’identificarsi con la sua vicinanza a una determinata parte politica, intesa quale contrapposizione tra opposti schieramenti parlamentari, risiede al contrario nella sua capacità di ergersi quale attuatore dei principi costituzionali in materia giudiziaria e custode dell’indipendenza della magistratura proprio da indebiti condizionamenti di quegli stessi schieramenti.
Viceversa, le recenti dinamiche di appiattimento della “politica giudiziaria” su interessi di parte hanno tradito quella suprema funzione “politica” di garanzia, peraltro e paradossalmente ad opera di esponenti di correnti della magistratura che da sempre propugnano, da una parte, la neutralità e l’a-politicità della giurisdizione; dall’altra, la natura essenzialmente amministrativa dell’organo di autogoverno.
Crediamo, invece, che la fiducia del corpo della magistratura – e innanzitutto dei più giovani – risieda proprio nella coraggiosa rivendicazione dei connotati di “politicità”, come sopra intesa, che la Costituzione ha attribuito al Csm.
In primo luogo, occorre dunque recuperare la politicità della funzione di autogoverno, la quale, com’è noto, si esplica anche nelle attività di para-normazione secondaria e consultiva alle proposte di normazione primaria, in relazione alle quali il Consiglio non assume mai un ruolo “di parte”, giacché esso, come detto, è titolare di un potere di indirizzo sulla politica giudiziaria, seppur latamente inteso.
Si tratta, in altri termini, di riconoscere che, così come avviene in ogni settore del diritto, anche l’attività esegetica e applicativa degli organi di governo autonomo corrisponde sempre a una concretizzazione tecnica di opzioni ideologiche e valoriali di fondo, sicché saper riconoscere e attuare quell’opzione, in conformità ai principi costituzionali, all’atto dell’interpretazione e applicazione della norma, lungi dall’esorbitare dalle funzioni dell’organo, ne costituisce invece il momento più centrale e importante.
In secondo luogo, se è vero, come detto sopra, che il Csm è costantemente impegnato nell’esercizio di un potere discrezionale, è necessario allora garantire maggiore trasparenza e adeguata pubblicità delle sue attività, della calendarizzazione delle questioni da affrontare, delle questioni esaminate, delle proposte fatte, dei voti espressi dai singoli consiglieri, delle decisioni assunte. Siamo consapevoli che, nella maggior parte dei casi, le proposte di delibera vengono regolarmente diffuse e i lavori del plenum sono trasmessi anche in diretta sul web: riteniamo, però, che non basti una semplice pubblicità, per dir così, “passiva”, in quanto essa veicola conoscenza solo a chi già in principio è interessato alla singola questione o alla seduta nel suo complesso, e comunque quando l’esame di una determinata questione è stato già calendarizzato. Viceversa, riteniamo urgente e necessaria una maggiore pubblicizzazione anche del momento di calendarizzazione delle questioni, mediante la creazione di un canale pubblico e immediato di conoscenza e diffusione, tra tutti i colleghi, che inglobi tutto il procedimento nella sua interezza. Solo in questo modo crediamo sia possibile, da un lato, rendere indipendenti tutti i magistrati alla ricerca di informazioni su una determinata pratica, eliminando quegli opachi servizi di “intermediazione” spesso offerti in cambio di appoggio elettorale; e, dall’altro, restituire credibilità all’organo nel suo complesso, processo che può e deve passare attraverso una maggiore trasparenza delle attività del Consiglio, delle posizioni assunte dai singoli componenti, nella possibilità di dare a tutti conoscenza e quindi porli nelle condizioni di valutare, e criticare nel dibattito pubblico, le decisioni assunte, le posizioni sostenute – in altre parole, la possibilità di valutare la coerenza nel momento attuativo dei margini di discrezionalità “politica”.
In definitiva, a nostro avviso, la ripresa di autorevolezza non avviene – e non deve avvenire – attraverso l’illusoria eliminazione di margini di discrezionalità del Csm, ma anzi esattamente al contrario: questo deve impegnarsi sempre più a essere organo costituzionale, in quanto titolare e attuatore degli indirizzi costituzionali in ambito giudiziario, riappropriandosi del proprio ruolo “politico” e non neutrale rispetto agli assetti di interessi voluti dal costituente, al contempo assicurando alla generalità dei magistrati e, con essi, dei cittadini, un costante e trasparente controllo orizzontale sulla correttezza e sulla coerenza del suo operato.
2.2. La funzione dell’associazionismo giudiziario e la “corrente” come gruppo di valori
Com’è stato autorevolmente sostenuto[6], dal punto di vista storico l’associazionismo giudiziario ha sin dall’inizio svolto il compito di «liberare la funzione costituzionale, che il magistrato assolve, dalla cappa burocratica, in ciò che quest’ultima aveva di incompatibile con il nuovo assetto costituzionale». È stato, ancora, osservato che l’Associazione generale fra i magistrati italiani – che si fa risalire, nella sua primissima composizione, addirittura al 1909 – è nata, in sostanza, per emancipare la figura del giudice da quella del burocrate funzionario di governo. Infatti, mentre quest’ultimo promuoveva l’interesse pubblico nei limiti del diritto, nel nuovo modello istituzionale configurato dalla Costituzione repubblicana, invece, vi era la necessità che il giudice provvedesse all’attuazione del diritto conforme a Costituzione, con ciò assegnandosi all’interprete il compito di promozione dei “nuovi” diritti in essa sanciti. È possibile affermare, dunque, che quando vi è stata la necessità di “migrare” dal modello giudiziario burocratico di origine napoleonica a quello repubblicano-democratico fondato sull’indipendenza del potere giudiziario, l’associazionismo è stato un veicolo decisivo di costituzionalizzazione della magistratura.
Ma, al di là dell’origine storica dell’associazionismo giudiziario quale soggetto in grado di promuovere una nuova visione costituzionale di giudice – e dei suoi successivi sviluppi –, la vera ragione della sua esistenza risiede nell’ineliminabile contributo che i magistrati associati avrebbero potuto dare all’attuazione del principio costituzionale per il quale essi, in base all’art. 107, comma 3, Cost., «si distinguono fra loro soltanto per funzioni». Quest’ultima disposizione – com’è noto –, nel suo significato minimo, «sembra vietare non sole le gerarchie (…) ma anche le carriere»[7]. La ratio del duplice divieto risiede nella consapevolezza dei Costituenti che tanto la gerarchia quanto l’ansia di carriera avrebbero potuto alimentare, da parte dei magistrati, «una subordinazione ostile al libero e corretto esercizio della funzione»[8].
Tuttavia, non può sfuggire che il sistema congegnato dal legislatore repubblicano – pur abolendo le gerarchie e il precedente sistema di promozioni a ruoli chiusi – nell’introdurre le qualifiche a ruoli aperti e nell’assegnare al magistrato il ruolo fondamentale di soggetto di garanzia, non poteva che accentuare «a dismisura la discrezionalità, e la politicità, delle scelte del CSM», non solo «nell’individuazione in concreto del magistrato da assegnare all’esercizio delle funzioni superiori»[9], ma anche (come si è argomentato nel paragrafo precedente) nelle altre e più disparate funzioni di autogoverno.
A nostro avviso, è nell’ottica appena tracciata che, piuttosto che sminuirlo, andrebbe valorizzato il ruolo dell’associazionismo giudiziario. Esso, in un modello costituzionale orientato a una mera diversità delle funzioni dei magistrati, depurata dalla componente gerarchica, appare la sede giù congeniale dove dare sostanziale attuazione alla disposizione costituzionale dell’art. 107, comma 3, Cost. La magistratura associata, in armonia con la sua origine storica – ancor più in una società complessa come quella contemporanea –, svolge, dunque, un ineliminabile ruolo di connessione e confronto tra diverse idee e funzioni del “diritto” e tra contrapposte concezioni del ruolo e del significato da attribuire al momento dello ius dicere. È noto, infatti, che sopravvivano diversi modi di intendere la giurisdizione e vi è acceso dibattito sul ruolo che la magistratura debba in concreto svolgere in un modello normativo in continua e repentina trasformazione. In un mondo in continua evoluzione, allora, l’associazionismo giudiziario è la sede privilegiata dove i magistrati – soprattutto quelli più giovani, destinati a raccogliere l’eredità di quelli più esperti – si confrontano sull’interpretazione delle norme, sulle possibilità e sui limiti del riconoscimento di determinate esigenze – individuali e collettive – provenienti dalla società, sulla possibile tutela da garantire a nuovi bisogni, e si impegnano affinché questo confronto e gli esiti che ne sono scaturiti possa trovare concreta attuazione anche negli organi rappresentativi della magistratura. Nel luogo dove si associano i magistrati, pertanto, le norme vivono e i diritti si confrontano, diversamente da come accade nelle aule di giustizia e negli uffici giudiziari, dove spesso il magistrato è solo e si confronta con la giurisprudenza di riferimento, anche sovranazionale, solo in via cartolare. In quest’ottica, invece, l’esistenza di un luogo privilegiato di confronto democratico rompe i confini di un’interpretazione del diritto autoreferenziale e “chiusa in se stessa”, in definitiva sburocratizzando, in coerenza con le sue origini storiche, la figura del magistrato e l’organizzazione degli uffici giudiziari.
Viceversa, risulta scontato osservare che negli ultimi anni – forse decenni – si è assistito a uno stravolgimento di questo modello, dove l’Anm, lungi dal rappresentare un ineliminabile presidio posto a garanzia dell’art. 107, comma 3, Cost., si è prestata a note dinamiche ove sono prevalsi interessi di parte e ove, piuttosto che confrontarsi sui valori, ci si è scontrati sul potere.
Una rinnovata consapevolezza del corretto ruolo da assegnare alla magistratura associata, composta non più da gruppi di potere ma da gruppi di valori, unitamente a una riscoperta della cultura costituzionale della giurisdizione – di cui si sente sempre più il bisogno – potrebbe certamente far recuperare alla magistratura, intesa nel suo complesso, la perduta legittimazione, e ai più giovani una necessaria fiducia in un possibile futuro conforme a Costituzione.
1. G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2017, p. 21 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/466/qg_2017-4_03.pdf).
2. T. Martines, Diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 2005 (XI ed.), p. 421.
3. Ibid.
4. Ivi, p. 24.
5. Cons. Stato, sez. V, 14 gennaio 2022 (ud. 25 novembre 2021), n. 268.
6. E. Scoditti, Magistratura e associazionismo: in mezzo al guado, in Questione giustizia online, 25 giugno 2020 (www.questionegiustizia.it/articolo/magistratura-e-associazionismo-in-mezzo-al-guado).
7. A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia. La magistratura nel sistema politico e istituzionale, Einaudi, Torino, 1990 (III ed.), pp. 45 ss.
8. R. Bifulco - A. Celotto - M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, UTET Giuridica, Milano, 2006, p. 2058.
9. G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Giappichelli, Torino, 1997, p. 165.