Magistratura democratica

Il diritto penale nella giurisprudenza della Corte costituzionale degli ultimi anni

di Raffaele Gargiulo

Lo scritto si propone di esaminare alcune significative pronunce della Corte costituzionale rese nell’ultimo lustro nella materia del diritto penale e, in particolare, della procedura penale, analizzandone i contenuti, le rationes e i residui profili problematici. Si sono privilegiate soprattutto quelle pronunce che si inseriscono in filoni già oggetto di attenzione da parte della Corte, attinenti alla procedura penale. 

1. L’inviolabilità della libertà personale / 1.1. Automatismi nell’individuazione delle misure cautelari (il reato di associazione di tipo mafioso e quello di associazione a scopo di terrorismo) / 1.2. La deroga all’obbligo di custodia cautelare in carcere per il genitore di figlio infraseienne / 1.3. La riserva di legge in materia di libertà personale / 2. Il diritto di azione e di difesa / 2.1. La legittimazione dello Stato in via esclusiva a costituirsi parte civile per il danno ambientale / 2.2. Il divieto di chiamata in giudizio del responsabile civile da parte dell’imputato, notaio assicurato per obbligo di legge / 2.3. Diritto di accesso e diritto di difesa nei riti speciali / 2.4. Contestazioni suppletive e diritto di accesso ai riti speciali / 2.5. Diversa qualificazione del fatto e accesso alla messa alla prova / 3. Il principio del contraddittorio nella formazione della prova / 4. La ragionevole durata del processo / 5. Terzietà e imparzialità del giudice / 6. Le regole sul processo della Cedu, di altre convenzioni internazionali e del diritto dell’Unione come parametri interposti / 6.1. Principio di pubblicità delle udienze e riesame / 6.2. Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio / 6.2.1. I riflessi della sentenza Grande Stevens c. Italia sulla giurisprudenza costituzionale / 6.2.2. I riflessi della sentenza A e B c. Norvegia sulla giurisprudenza costituzionale / 6.2.3. Ne bis in idem nell’ambito della Cedu e nell’ambito dell’Unione europea / 6.2.4. Ne bis in idem alla luce della giurisprudenza convenzionale: idem factum e concorso formale di reati / 6.2.5. Un ulteriore incidente di costituzionalità motivato dalla necessità di conformarsi alla sentenza della Corte Edu Scoppola c. Italia (fattispecie relativa alla richiesta di giudizio abbreviato formulato nella vigenza del dl n. 341/2000) / 7. La messa alla prova: l’acquisizione degli atti delle indagini preliminari ai fini della decisione sulla richiesta di messa alla prova; il principio di presunzione di innocenza sino alla condanna definitiva; il principio di legalità penale; le prerogative del potere giudiziario 

 

1. L’inviolabilità della libertà personale

 

1.1. Automatismi nell’individuazione delle misure cautelari (il reato di associazione di tipo mafioso e quello di associazione a scopo di terrorismo)

La produzione della giurisprudenza costituzionale a proposito di inviolabilità della libertà personale, e della relativa riserva di legge e di giurisdizione, è stata nel tempo piuttosto cospicua. 

Nel periodo di riferimento, occorre registrare due recenti interventi della Corte relativamente ai vincoli posti, nella materia cautelare personale, alla discrezionalità del giudice. Ciò con riguardo all’individuazione della misura restrittiva necessaria e sufficiente a garantire le esigenze indicate all’art. 274 cpp e avuto riguardo alla novella che, nel 2015, ha interessato l’art. 275 cpp. 

Giova ricordare che nel corso del 2015, proprio e anche in conseguenza della lunga serie di pronunce della Corte iniziata con la pronuncia n. 265 nel 2010, il legislatore ha quasi completamente rinunciato allo strumento della presunzione per la determinazione della misura cautelare personale applicabile nei singoli casi di specie. Nel contesto di un’ampia riforma delle cautele (legge 16 aprile 2015, n. 47, recante «Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visita a persone affette da handicap in situazione di gravità»), il testo del comma 3 dell’art. 275 cpp è stato novellato sì che l’applicazione necessaria della custodia in carcere – sempreché non debba escludersi la ricorrenza di esigenze cautelari – risulta ormai disposta solo per delitti associativi di matrice sovversiva, terroristica o mafiosa, come sanzionati dagli artt. 270, 270-bis e 416-bis cp. 

È proprio in relazione alla presunzione concernente il reato di cui all’art. 416-bis cp che è nuovamente intervenuta la Corte, confermando sostanzialmente, anche con riguardo alla nuova formulazione della disposizione, sia il precedente risalente al 1995 sia in generale la sua giurisprudenza più recente, la quale aveva sempre posto in evidenza la peculiarità della fattispecie dell’associazione a delinquere di stampo mafioso. Peraltro si è chiuso, in qualche modo, il cerchio, in quanto la Corte si è occupata per la prima volta anche della presunzione assoluta in tema di reato di cui all’art. 289-bis cp, vale a dire dell’associazione a delinquere a fini di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico. Anche in tal caso la pronuncia, sicuramente di interesse, ha concluso per l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata. 

Al fine di meglio chiarire il senso della pronuncia intervenuta nel periodo in esame, giova ricordare che vi è stata una rilevante evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia, la quale è intervenuta con riferimento alla previgente formulazione dell’art. 275, comma 3, cpp. Essa stabiliva, a fianco di una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari («salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari»), una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare della custodia in carcere, applicabile in rapporto a un’ampia serie di reati. 

Il punto di svolta si è avuto con la sentenza n. 265 del 2010, che ha posto il primo freno alla sopraindicata presunzione assoluta presente nella norma. Ad essa ne sono seguite molte altre (sentt. nn. 164, 231, 331 del 2011, 110 del 2012, 57, 213, 232 del 2013, 48 del 2015) che hanno riguardato i reati richiamati nella citata disposizione.

Tra i criteri utilizzati dalla Corte per valutare il testo vigente all’epoca dell’art. 275, comma 3, cpp vi è quello per cui «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit». Si è dunque specificato come l’irragionevolezza della presunzione assoluta si colga tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta alla base della presunzione medesima.

Alla luce di questi principi, la Corte ha esaminato i casi in cui la «carcerazione obbligatoria» veniva stabilita sulla base del titolo del reato contestato all’indagato o all’imputato. 

Giova ricordare che, con le riforme attuate fino al 2009, la platea dei reati a «carcerazione obbligatoria» era stata fortemente ampliata, fino a comprendere gran parte dei delitti sessuali, l’omicidio volontario e i più gravi tra i reati attribuiti alla cognizione del procuratore «distrettuale» (a norma dei commi 3-bis e 3-quater dell’art. 51 cpp). La dilatazione progressiva dei delitti rispetto ai quali operava la presunzione ha indebolito la relativa base empirica, senza più assicurare un’accettabile frequenza delle corrispondenze tra caratteristiche del caso concreto e previsione astratta[1].

Inoltre, la Corte, nell’opera di applicazione dei principi enunciati in apertura, ha conferito rilievo risolutivo alle differenze tra i reati di mafia e quelli nella specie sottoposti alla sua valutazione. 

La Corte, nell’ambito di una logica di auto-contenimento già adottata a proposito del patrocinio a spese dell’erario, ha ritenuto illegittima la presunzione in relazione al suo carattere assoluto, di fatto riconoscendo al legislatore la possibilità di fondare sul titolo del reato modificazioni del regime di prova in punto di adeguatezza del trattamento cautelare. 

In conclusione, la norma censurata contrastava con l’art. 3 Cost., ma anche con l’art. 13, primo comma, quale parametro fondamentale per il regime delle misure cautelari privative della libertà personale, e con l’art. 27, secondo comma, in quanto attribuiva alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della sanzione.

La Corte, pertanto, seguendo il medesimo schema nelle varie pronunce, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, cpp, come modificato dall’art. 2 dl n. 11/2009, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai singoli delitti di volta in volta oggetto di esame, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

Al riguardo vanno ricordate le sentenze: n. 265 del 2010, riguardante i delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater cp; n. 164 del 2011, riguardante il delitto di cui all’art. 575 cp (omicidio); n. 231 del 2011, in tema di associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico (art. 74 dPR n. 309/1990); n. 110 del 2012, in tema di associazione per delinquere “semplice”, art. 416 cp, quando commessa al fine di realizzare illeciti pertinenti alla contraffazione dei marchi e al commercio di cose con segni mendaci e marchi contraffatti (artt. 473 e 474 cp); n. 57 del 2013, riguardante i delitti commessi mediante il cd. «metodo mafioso», o commessi al fine di agevolare l’attività di un’organizzazione mafiosa, per i quali è previsto un aggravamento di pena (art. 7 dl 13 maggio 1991, oggi inserito nell’art. 416-bis.1); n. 213 del 2013, in tema di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 cp); n. 232 del 2013, riguardante la violenza sessuale di gruppo; n. 48 del 2015, in tema di concorso esterno nel reato di cui all’art. 416-bis cp. In relazione alla sentenza n. 331 del 2011, la quale non ha riguardato l’art. 275, comma 3, cpp, ma una norma speciale, il comma 4-bis dell’art. 12 d.lgs 25 luglio 1998, n. 286, di contenuto corrispondente a quella del codice di rito, che imponeva l’applicazione della custodia in carcere con riguardo ai reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, la dichiarazione di illegittimità si è articolata comunque nel medesimo verso delle precedenti. Sostanzialmente, la presunzione assoluta si è trasformata in presunzione relativa.

Particolarmente rilevanti, ai fini dell’esame della pronuncia n. 136 del 2017, rientrante nel periodo in esame, appaiono le pronunce n. 57 del 2013 e n. 47 del 2015, relative a due fattispecie contigue all’associazione mafiosa. In particolare la sent. n. 57/2013 riguarda i delitti commessi mediante il cosiddetto «metodo mafioso», o commessi al fine di agevolare l’attività di una organizzazione mafiosa, per i quali è previsto un aggravamento di pena (art. 7 dl 13 maggio 1991, recante «Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, l. 12 luglio 1991, n. 203, oggi confluito nell’art. 416-bis.1 cp) e in relazione ai quali, per effetto dell’inclusione nel novero dei reati di competenza della cd. procura distrettuale (art. 51, comma 3-bis, cpp), era appunto vigente l’obbligo sancito dal comma 3 dell’art. 275.

Secondo un metodo ormai collaudato, la Corte ha valutato nel dettaglio la portata della fattispecie sostanziale, al fine di verificare la maggiore o minore omogeneità dei comportamenti in essa ricompresi, e dunque la ricorrenza di una costante nel senso della pericolosità più elevata. L’ha fatto, in particolare, con riguardo alla fattispecie come interpretata dal diritto vivente: considerandola dunque integrata a fronte di un qualsiasi effetto di agevolazione, e anche a fronte di condotte riferibili a persone non partecipi dell’organizzazione interessata. Proprio la possibilità di applicazione nei confronti di soggetti estranei al vincolo associativo ha comportato la differenza essenziale del caso da decidere rispetto a quello attinente all’associazione a delinquere di stampo mafioso, richiamato già dalla sentenza n. 265 del 2010: è “agevole” concepire casi di integrazione della fattispecie da parte di soggetti che, pur responsabili di fatti dalla connotazione mafiosa (magari in modo occasionale), siano liberi da quei vincoli interni di intimidazione e di condizionamento territoriale che hanno storicamente ed empiricamente reso assai probabile la reiterazione di comportamenti delittuosi.

La Corte ha giudicato illegittima (alla luce degli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost.) la previsione di un automatismo non superabile, stabilendo che la custodia in carcere potesse essere evitata in presenza di «elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure». Nella specie si è, però, precisato che il giudice non avrebbe potuto trascurare quale elemento fondamentale, per la valutazione di ciascun caso concreto, la posizione di intraneità o di estraneità dell’agente alla compagine associativa cui viene eventualmente riferita la condotta in contestazione.

Nel caso della sentenza n. 48 del 2015, la Corte si è occupata invece della fattispecie di “concorso esterno” nell’associazione mafiosa, pervenendo alla medesima dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, nel senso di ribaltare la presunzione legislativa, da assoluta a relativa. Il giudizio della Corte si è fondato proprio sull’idea centrale che caratterizza le contestazioni di concorso esterno, cioè che un soggetto possa partecipare a un fatto associativo, assumendone la corresponsabilità, pur senza essere strutturalmente partecipe dell’organizzazione e dunque senza essere legato ad essa da quel vincolo, fondato anche sull’intimidazione interna, che rende statisticamente implausibile ipotesi di una rottura con l’ambiente criminale, e dunque di una diminuzione della pericolosità. La Corte ha preso atto, inoltre, che la condotta di concorso esterno può essere integrata anche da un solo contributo alla sopravvivenza o al rafforzamento dell’organizzazione, circostanza che, a sua volta, può rendere inefficace il ragionamento presuntivo che riguarda i futuri comportamenti della persona accusata. 

L’ordinanza n. 136 del 2017, ha dichiarato, invece, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., dell’art. 275, comma 3, cpp, «nella parte in cui nel prevedere che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis c.p. è applicata la misura della custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure». 

La questione concerne l’art. 4, comma 1, l. n. 47/2015, il quale sostituendo il secondo periodo del comma 3 dell’art. 275 cpp, ha limitato la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere ai reati di cui agli artt. 270, 270-bis e 416-bis cp, mentre per gli altri reati oggetto della disposizione previgente ha previsto una presunzione relativa, stabilendo che possono essere applicate anche misure cautelari personali diverse dalla custodia in carcere, quando in concreto risultano sufficienti a soddisfare le esigenze cautelari. 

La Corte sottolinea che con la modifica legislativa sopraindicata il legislatore «ha recepito la giurisprudenza della Corte, la quale, dapprima con la sentenza n. 265 del 2010 e successivamente con varie altre, ha dichiarato, rispetto ad alcuni delitti, costituzionalmente illegittimo l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non faceva salva, altresì, l’ipotesi in cui fossero stati acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risultava che le esigenze cautelari potevano essere soddisfatte con altre misure». 

La Corte precisa di avere, fin dalla sentenza n. 265 del 2010 e, poi, in altre pronunce, «delineato la ratio giustificativa del particolare regime stabilito per gli imputati del reato previsto dall’art. 416-bis cod. pen., rilevando che l’appartenenza a un’associazione di tipo mafioso implica, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, un’esigenza cautelare che può essere soddisfatta solo con la custodia in carcere, non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza in modo da neutralizzarne la pericolosità». 

Tale ratio era stata ribadita «anche nella sentenza relativa ai delitti aggravati dall’uso del metodo mafioso o dalla finalità di agevolazione mafiosa (sentenza n. 57 del 2013) e in quella relativa al concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso (sentenza n. 48 del 2015), che hanno riguardato fattispecie “contigue” a quella dell’art. 416-bis cod. pen., ma non caratterizzate da un’uguale esigenza». 

La Corte richiama la metodologia argomentativa seguita nelle pronunce concernenti il previgente art. 275, comma 3, cpp, rappresentata da «una comparazione tra gli altri reati previsti da tale disposizione e oggetto delle varie questioni di legittimità costituzionale, da un lato, e l’associazione di tipo mafioso, dall’altro, rimarcando di volta in volta la diversità di quest’ultima». In particolare, individua un valido termine di riferimento nel delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, ma nell’effettuare il test di comparazione, rileva che delitto di associazione di tipo mafioso, pur essendo come l’altro di natura associativa, «è “normativamente connotato – di riflesso ad un dato empirico-sociologico – come quello in cui il vincolo associativo esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di omertà, che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti”». La specificità del vincolo mafioso implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, «una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall’altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso”». 

Snodo cruciale nell’argomentazione della pronuncia è quello secondo cui «[s]ono tali peculiari connotazioni a fornire una congrua “base statistica” alla presunzione considerata, rendendo ragionevole la convinzione che, nella generalità dei casi, le esigenze cautelari derivanti dal delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria, in quanto idonea – per valersi delle parole della Corte europea dei diritti dell’uomo – “a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine”, minimizzando “il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti” (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia)» (sentenza n. 231 del 2011). 

La Corte precisa che, in sede di comparazione, con riferimento all’art. 416-bis cp si è generalmente riferita alla fattispecie della partecipazione all’associazione di tipo mafioso. L’elemento ritenuto in grado di legittimare costituzionalmente «la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere è rappresentato infatti dallo stabile inserimento nell’associazione di tipo mafioso, il quale, per le caratteristiche del vincolo, capace di permanere inalterato nonostante le vicende personali dell’associato e di mantenerne viva la pericolosità, fa ritenere che questa non sia adeguatamente fronteggiabile con misure cautelari “minori”». In tale ottica, pertanto «la diversa graduazione di gravità e di pericolosità tra le condotte dei singoli appartenenti all’associazione rileva ai fini della determinazione della pena da irrogare in concreto, ma non incide sulle esigenze cautelari, perché anche la semplice partecipazione è idonea, per le connotazioni criminologiche del fenomeno mafioso, a giustificare la presunzione sulla quale si basa la norma in questione». 

Smentendo l’assunto del giudice a quo, la Corte nega che abbia rilievo la distinzione tra la posizione del partecipe e quella degli associati con ruoli apicali, perché, «quali che siano le specifiche condotte dei diversi associati e i ruoli da loro ricoperti nell’organizzazione criminale, il dato che rileva, e che sotto l’aspetto cautelare li riguarda tutti ugualmente, è costituito dal tipo di vincolo che li lega nel contesto associativo, vincolo che fa ritenere la custodia in carcere l’unica misura in grado di “troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità”». Consegue a tali rilievi la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale in relazione a tutti i parametri evocati. 

Va aggiunto che la citata l. n. 47/2015 ha determinato, tra l’altro, l’ordinanza n. 41 del 2016, di restituzione degli atti della questione riguardante l’art. 275, comma 3, cpp in relazione al delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, di cui all’art. 260 d.lgs 3 aprile 2006, n. 152 («Norme in materia ambientale»).

L’ultima pronuncia su tale tema specifico è stata la sentenza n. 191 del 2020, riguardante l’altra fattispecie residua, vale a dire l’associazione a delinquere a scopo di terrorismo, caratterizzata dal punto di vista cautelare dalle due presunzioni, l’una relativa circa la sussistenza delle esigenze cautelari e l’altra assoluta, in ordine alla adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere. È proprio tale ultima presunzione che è stata oggetto della questione di legittimità costituzionale sulla quale si è pronunciata la Corte con la sentenza sopraindicata. Essa ha dichiarato non fondate, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di assise di Torino con riguardo all’art. 275, comma 3, cpp, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 270-bis cp, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con altre misure meno afflittive.

La Corte analizza in modo specifico l’evoluzione legislativa che ha riguardato l’art. 275, comma 3, cpp e il susseguirsi delle sue pronunce in materia, che hanno portato all’ultima modifica normativa rappresentata dall’art. 4 l. n. 47/2015. La pronuncia è calibrata non già sulla generalità dei reati compiuti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, e in ispecie sui “reati fine” dell’associazione di cui all’art. 270-bis cpp, bensì proprio e specialmente sulle condotte associative (di promozione, costituzione, organizzazione, direzione, finanziamento e mera partecipazione) contemplate dalla norma incriminatrice in questione.

Nel percorso argomentativo della pronuncia assume rilievo centrale la giurisprudenza della Cassazione sul reato in questione, richiamata con dovizia di particolari. La formula legislativa allude dunque a un doppio livello finalistico che deve caratterizzare l’associazione nel suo complesso: a un primo livello, l’intento di compiere atti di violenza; a un livello ulteriore, la finalità ultima di tali condotte, indicata come «terrorismo» o «eversione dell’ordine democratico». Una particolare attenzione è dedicata proprio alla nozione di finalità di terrorismo, regolata dall’art. 270-sexies cp, il quale considera, in particolare, «condotte con finalità di terrorismo» quelle che, sul piano oggettivo, «per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale»; e, sul piano soggettivo, sono compiute con una delle tre finalità alternative indicate dalla norma, e cioè lo scopo: a) di intimidire la popolazione, b) di costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale al compimento o al mancato compimento di un atto, ovvero c) di «destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale». Appare rilevante sottolineare che la pronuncia, nell’analizzare le finalità in questione, richiamandosi alla giurisprudenza della Cassazione, rileva che «la terza finalità corrisponde in larga parte alla tradizionale nozione di finalità di “eversione dell’ordine democratico”, divenuta così – oggi – una sottoipotesi della stessa finalità di terrorismo, così come definita dall’art. 270-sexies cod. pen.; sicché la loro duplice menzione, che pure è conservata nel testo e nella rubrica dell’art. 270-bis cod. pen. così come in varie altre norme incriminatrici, costituisce ormai una mera endiadi».

Uno degli snodi principali della pronuncia attiene al consueto confronto con la fattispecie di cui all’art. 416-bis cp. A differenza di quest’ultima, infatti, l’art. 270-bis cp non fornisce alcuna descrizione del modus operandi dell’associazione criminosa ivi disciplinata, né contempla alcun requisito di natura oggettiva in grado di orientare la discrezionalità dell’interprete. Anche in questo caso sono richiamate le sentenze della Cassazione che fissano i requisiti dell’ipotesi di reato considerata e in particolar modo quelle che, in ossequio al principio costituzionale di offensività, hanno in proposito chiarito che, «pur non richiedendosi la predisposizione di un programma operativo di azioni terroristiche, ai fini del riconoscimento di un’associazione ex art. 270-bis cod. pen. occorrerà tuttavia che risulti provata la “costituzione di una struttura organizzativa con un livello di ‘effettività’ che renda possibile la realizzazione del progetto criminoso (…). Ne deriva che la rilevanza penale dell’associazione si lega non alla generica tensione della stessa verso la finalità terroristica o eversiva, ma al proporsi il sodalizio la realizzazione di atti violenti qualificati da detta finalità: costituiscono pertanto elementi necessari, per l’esistenza del reato, in primo luogo, l’individuazione di atti terroristici posti come obiettivo dell’associazione, quantomeno nella loro tipologia; e, in secondo luogo, la capacità della struttura associativa di dare agli atti stessi effettiva realizzazione nella lettura della fattispecie criminosa” (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 14 luglio-14 novembre 2016, n. 48001; in senso analogo, ex multis, sezione sesta penale, sentenza n. 46308 del 2012; sezione sesta penale, sentenza n. 25863 del 2009)».

Il confronto con l’art. 416-bis cp induce la Corte costituzionale a ritenere che l’art. 270-bis cp non fornisce alcuna definizione nemmeno delle singole condotte relative all’associazione menzionate nel primo e nel secondo comma. Anche in questo caso si attinge pertanto al cd. “diritto vivente”, che in modo costituzionalmente orientato ha precisato che la (mera) “partecipazione”, che integra l’ipotesi meno grave tra quelle contemplate dalla norma e al tempo stesso segna la soglia minima della rilevanza penale della condotta associativa, «non può essere desunta dal solo riferimento all’adesione ideale al programma criminale, dalla comunanza di pensiero ed aspirazioni, ma occorre l’effettivo inserimento nella struttura organizzata, desumibile da condotte univocamente evocative e sintomatiche, consistenti nello svolgimento di attività preparatorie per l’esecuzione del programma e nell’assunzione di un ruolo concreto nell’organigramma criminale (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 22 marzo-27 maggio 2013, n. 22719 e in senso analogo, più di recente, sezione seconda penale, sentenza 4 dicembre 2019-27 febbraio 2020, n. 7808)».

Pur individuando ulteriori differenze tra l’associazione terroristica e quella di tipo mafioso, attinenti alla struttura rudimentale della prima rispetto alla seconda, che è invece caratterizzata da rigide gerarchie e precise regole di ingresso nel sodalizio, il nucleo dell’argomentazione della pronuncia si coglie nel requisito dell’adesione a un’ideologia propugnante la violenza, che caratterizza la fattispecie in esame. La Corte costituzionale precisa infatti che «la “partecipazione” a un’associazione terroristica – e il rilievo vale, a maggior ragione, per le altre più gravi condotte descritte dalla norma incriminatrice – non si esaurisce nel compimento, pur necessario, di azioni concrete espressive del ruolo acquisito all’interno del sodalizio, ma presuppone altresì l’adesione a un’ideologia che, qualunque sia la visione del mondo ad essa sottesa e l’obiettivo ultimo perseguito, teorizza l’uso della violenza in una scala dimensionale tale da poter cagionare un “grave danno” a intere collettività. Ed è proprio una simile adesione ideologica a contrassegnare nel modo più profondo la “appartenenza” del singolo all’associazione terroristica: un’appartenenza che – proprio come quella che lega, pur con modalità diverse, il partecipe all’associazione mafiosa – normalmente perdura anche durante le indagini e il processo, e comunque non viene meno per il solo fatto dell’ingresso in carcere del soggetto, continuando così a essere indicativa di una sua pericolosità particolarmente accentuata». È proprio il (normale) permanere del vincolo di appartenenza del singolo all’associazione terroristica che è ritenuto alla base della valutazione legislativa che considera «le misure cautelari non custodiali, in primis gli arresti domiciliari», inidonee a controllare la sua del tutto peculiare pericolosità. Al riguardo, si evidenzia la pratica impossibilità di impedire che la persona sottoposta a misura extramuraria riprenda i contatti con gli altri associati ancora in libertà attraverso l’uso di telefoni e di internet, in quanto tale prospettiva non appare efficacemente neutralizzabile mediante la semplice imposizione dei corrispondenti divieti all’atto della concessione della misura. Da ciò nasce il pericolo, osserva la Corte, che il soggetto si allontani senza autorizzazione dalla propria abitazione e commetta gravi reati in esecuzione del programma criminoso dell’associazione, di cui continua a far parte e dalla quale potrebbe continuare a ricevere ordini, ciò soprattutto in considerazione della struttura fluida, “a rete” di tali associazioni e in particolare dell’utilizzazione di internet e dei social media non solo come mezzo di reclutamento e di indottrinamento degli associati, ma anche come strumento di pianificazione e organizzazione degli attentati nei quali si sostanzia lo stesso programma criminoso dell’associazione. In conclusione, secondo la Corte, di fronte alla grandezza dei rischi derivanti da misure diverse dalla custodia in carcere, la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare appare sostenuta da una congrua base empirico-fattuale, sì da sottrarsi al giudizio di irragionevolezza che ha colpito l’analoga presunzione che operava rispetto alle figure di reato – diverse dalla partecipazione all’associazione di tipo mafioso – sinora esaminate. 

Aggiunge la Corte che «La compressione, peraltro solo parziale, dei poteri discrezionali del giudice trova qui giustificazione, nell’ambito di un bilanciamento che questa Corte non ritiene di poter censurare dal punto di vista della sua legittimità costituzionale, in relazione alla finalità di tutelare la collettività contro i gravissimi rischi che potrebbero derivare dall’eventuale sopravvalutazione, da parte del giudice, dell’adeguatezza di una misura non carceraria a contenere il pericolo di commissione di reati, pur ritenuto sussistente nel caso di specie». Il giudice deve peraltro valutare, nella fase genetica e poi nell’intero arco della vicenda cautelare, l’effettiva sussistenza e permanenza delle esigenze cautelari, e di disporre la revoca della misura in essere ogniqualvolta risulti che, nel caso concreto, tali esigenze non sussistano o siano cessate, anche alla luce dell’eventuale percorso di distacco dall’associazione e dai suoi programmi criminosi che l’imputato abbia nel frattempo compiuto.

 

1.2. La deroga all’obbligo di custodia cautelare in carcere per il genitore di figlio infraseienne

Sempre in materia di libertà personale, si è registrata una pronuncia di rilievo anche riguardo alla deroga all’obbligo di custodia cautelare in carcere per la madre di figlio infraseienne. 

Essa riguarda anche il tema del bilanciamento tra le esigenze di difesa sociale e la garanzia della funzione genitoriale, quale presidio primario di diritti riconosciuti ai bambini, anche in sede sovranazionale. Tale pronuncia si segnala anche per riaffermare la distinzione tra lo status di detenuto in espiazione di pena e quello di detenuto in esecuzione di misura cautelare personale. 

Con l’ordinanza n. 17 del 2017, in particolare, la Corte ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 31 e 111 Cost., dell’art. 275, comma 4, cpp, «nella parte in cui prevede che non possa essere disposta o mantenuta la custodia cautelare in carcere nei confronti di imputati, detenuti per gravi reati, che siano genitori di prole solo di età non superiore a sei anni». 

La Corte parte dalla premessa secondo cui «l’individuazione normativa del limite dei sei anni di età del minore per l’applicazione del divieto di custodia cautelare in carcere non può essere accostata alle presunzioni legali assolute che comportano l’applicazione di determinate misure o pene sulla base di un titolo di reato, con l’effetto di impedire al giudice di tenere conto delle situazioni concrete o delle condizioni personali del destinatario della misura o della pena».

La pronuncia chiarisce il diverso meccanismo alla base dei commi 3 e 4 dell’art. 275 cpp, precisando che l’automatismo che il rimettente lamenta è, semmai, quello contenuto nel citato art. 275, comma 3, il quale, «laddove sussistano esigenze cautelari, prevede – per gli imputati di alcuni gravi reati, fra i quali quello di cui all’art. 416-bis cod. pen. – che esse siano soddisfatte solo attraverso la custodia in carcere. È questa presunzione, in realtà, ad impedire al giudice di valutare la specifica idoneità di ciascuna misura in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari». La Corte, però, anticipando in un certo senso il contenuto dell’ordinanza n. 136 del 2017 (vds. supra), rileva che «tale presunzione è stata considerata non irragionevole da questa Corte, poiché i tratti tipici della criminalità mafiosa (qualificata da forte radicamento territoriale, fitta rete di collegamenti personali, alta capacità di intimidazione) forniscono un fondamento razionale alla valutazione legislativa –basata su dati di esperienza generalizzata, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit – di adeguatezza della sola misura custodiale carceraria».

La disposizione espressamente censurata, cioè il successivo comma 4 dell’art. 275 cpp, invece, contiene «un divieto di applicazione della custodia cautelare in carcere, riferito ad alcune categorie di imputati (tra i quali la madre di figli minori infraseienni con lei conviventi); un divieto, si osservi, di carattere generale, che prescinde, cioè, dal titolo di reato e non è riferibile, pertanto, alle sole ipotesi considerate all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.». La Corte, aderendo alla giurisprudenza di legittimità, precisa che «non si è in presenza di una “situazione di automatismo”, ma, al contrario, di una deroga (sia pur soggetta a condizioni e limiti) ai criteri che i commi precedenti del medesimo articolo dettano in tema di applicazione delle misure cautelari e, quindi, anche alla presunzione legale stabilita al comma precedente».

L’attenzione della pronuncia si focalizza, poi, su un’ulteriore censura sollevata nell’ordinanza del giudice a quo, consistente nel porre in discussione, alla luce degli artt. 3 e 31 Cost., la valutazione che il legislatore ha compiuto in astratto, bilanciando le esigenze di difesa sociale, da un lato, e l’interesse del minore, dall’altro.

Osserva pertanto la Corte che il divieto posto dall’art. 275, comma 4, cpp «è frutto del giudizio di valore operato dal legislatore, il quale stabilisce che, nei termini e nei limiti ricordati, sulla esigenza processuale e sociale della coercizione intramuraria deve prevalere la tutela di un altro interesse di rango costituzionale, quello correlato alla protezione costituzionale dell’infanzia, garantita dall’art. 31 Cost.».

Dopo avere ripercorso l’evoluzione legislativa riguardante il comma 4 dell’art. 275 cpp, che ha comportato varie modulazioni del citato bilanciamento, «caratterizzate dal progressivo ampliamento della tutela accordata» all’interesse del minore, fino ad arrivare alla disposizione oggetto di scrutinio, la Corte rileva che la scelta legislativa, pur riconoscendo «[l]’elevato rango dell’interesse del minore a fruire in modo continuativo dell’affetto e delle cure materne, tuttavia, non lo sottrae in assoluto ad un possibile bilanciamento con interessi contrapposti, pure di rilievo costituzionale, quali sono certamente quelli di difesa sociale, sottesi alle esigenze cautelari, laddove la madre sia imputata di gravi delitti», come si evince dalla stessa disposizione censurata, «che fa comunque salve le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza anche in presenza di un figlio minore di sei anni».

Tale scelta «appare non irragionevolmente giustificata dalla considerazione che tale età coincide con l’assunzione, da parte del minore, dei primi obblighi di scolarizzazione e, dunque, con l’inizio di un processo di (relativa) autonomizzazione rispetto alla madre».

La Corte aggiunge che l’accoglimento della questione, nei termini dell’addizione richiesta, avrebbe assegnato una «prevalenza assoluta all’interesse del minore, a prescindere dalla sua età, a mantenere un rapporto continuativo con la madre, cancellando il bilanciamento compiuto dal legislatore», mentre la soluzione di affidare alla discrezionalità del giudice l’apprezzamento caso per caso della particolare condizione del minore, avrebbe incongruamente assegnato al giudice penale il compito di applicare una misura all’imputato, sulla base di valutazioni relative non già a quest’ultimo, ma a un soggetto terzo – il minore – estraneo al processo.

La Corte rileva, inoltre, che «Tutte le misure che i codici penale e di procedura penale, nonché la legge 26 luglio 1975, n. 354, recante “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, prevedono a tutela dei minori, in relazione alla condizione detentiva dei genitori, indicano al giudice un criterio oggettivo, calibrato sull’età del minore (oltre alla disposizione oggetto del presente giudizio e a quella, ad essa collegata, contenuta all’art. 285-bis cod. proc. pen., si ricordino gli artt. 146 e 147 cod. pen. e gli artt. 21-bis, 21-ter, 47-ter e 47-quinquies della legge n. 354 del 1975). E non può trascurarsi che tali criteri oggettivi – posti dal legislatore in riferimento alla condizione di un soggetto, il minore, estraneo al processo e non coinvolto nelle valutazioni sulla pericolosità dell’imputato – costituiscono anche un efficace usbergo della serenità del giudice, chiamato a delicate decisioni, in special modo nei casi relativi a gravi delitti di criminalità organizzata».

Di conseguenza la Corte ha escluso che la norma de qua determinasse un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto a disposizioni dell’ordinamento penitenziario che tutelano il preminente interesse dei minori, figli di condannati in via definitiva, sino al compimento dei dieci anni. A fronte dell’identico interesse del minore a mantenere un rapporto costante ed equilibrato con le figure genitoriali e della perdurante necessità di evitare che il costo della strategia di lotta al crimine venga irragionevolmente traslato su un soggetto terzo estraneo alle attività delittuose delle quali un genitore sia imputato o in conseguenza delle quali sia stato definitivamente condannato, il carattere cautelare o esecutivo del titolo di detenzione della madre o del padre condiziona profondamente le contrapposte esigenze di difesa sociale. 

La Corte precisa che «le disposizioni in materia cautelare finalizzate alla tutela dell’interesse dei minori figli di genitori imputati non costituiscono idonei tertia comparationis rispetto a quelle analoghe dettate dall’ordinamento penitenziario per i genitori ristretti a seguito di condanna», sottolineando, da un lato, «la non assimilabilità, ai fini di uno scrutinio di eguaglianza, di status fra loro eterogenei, quello dell’imputato sottoposto ad una misura cautelare personale, (…) e quello del condannato in fase di esecuzione della pena»; e, dall’altro, le diverse funzioni della pena e della custodia cautelare in carcere, che come tutte le misure cautelari, a differenza della pena, è volta a presidiare i pericula libertatis, cioè a evitare la fuga, l’inquinamento delle prove e la commissione di reati.

Se le rispettive esigenze di difesa sociale sono di natura profondamente diversa, ne consegue – secondo la Corte – che il principio da porre in bilanciamento con l’interesse del minore è, nei due casi, differente e non raggiunge, pertanto, il livello della irragionevolezza manifesta la circostanza che il bilanciamento tra tali distinte esigenze e l’interesse del minore fornisca esiti non coincidenti. 

Infine, la Corte osserva che le disposizioni del codice di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario, sono «attualmente orientate nel senso di assicurare in via primaria il rapporto del minore con la madre». L’allegata assenza del padre non avrebbe potuto giustificare l’estensione del divieto di applicazione della custodia cautelare alle imputate madri di figli di età superiore ai sei anni, poiché questa soluzione ispirata al principio dell’indispensabile presenza di uno dei due genitori, condurrebbe a giustificare persino la custodia in carcere della madre, se il padre è presente, secondo una ratio del tutto eccentrica rispetto al contesto normativo sopraindicato.

 

1.3. La riserva di legge in materia di libertà personale

Altro filone della giurisprudenza costituzionale riguarda la disciplina dell’astensione dalle udienze degli avvocati, che viene in rilievo con riguardo al principio della riserva di legge assoluta in materia di libertà personale stabilita dall’art. 13, comma 5, Cost. 

La sentenza n. 180 del 2018 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2-bis l. 13 giugno 1990, n. 146[2], nella parte in cui consente che il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati – adottato in data 4 aprile 2007 dall’Organismo unitario dell’avvocatura (Oua) e da altre associazioni categoriali (Ucpi, Anf, Aiga, Uncc), valutato idoneo dalla Commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali con delibera n. 07/749 del 13 dicembre 2007 e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 3 del 2008 – nel regolare, all’art. 4, comma 1, lett. b, l’astensione degli avvocati nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare, interferisca con la disciplina della libertà personale dell’imputato.

La pronuncia presenta molteplici aspetti di interesse: oltre ai significativi profili di merito, si è occupata di una questione interpretativa di non scarso rilievo, in materia di processo costituzionale, attinente ai contenuti e all’estensione dell’obbligo, conseguente alla sollevazione di una questione di costituzionalità, di sospendere il processo principale ex art. 23, comma 2, l. n. 87/1953[3]

Nel merito, la Corte ritiene che la «questione posta in riferimento all’art. 13, quinto comma, Cost. è fondata nei limiti e nei termini che seguono, con conseguente assorbimento degli altri profili di dedotta illegittimità costituzionale». 

Essa muove dalla sentenza n. 171 del 1996, che ha riconosciuto che «“l’astensione dalle udienze degli avvocati e procuratori è manifestazione incisiva della dinamica associativa volta alla tutela di questa forma di lavoro autonomo”, in relazione alla quale è identificabile, più che una mera facoltà di rilievo costituzionale, un vero e proprio diritto di libertà», da porre in bilanciamento «con altri valori costituzionali meritevoli di tutela, tenendo conto che il secondo comma, lettera a), dell’art. 1, della legge 146 del 1990 indica fra i servizi pubblici essenziali “l’amministrazione della giustizia, con particolare riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione”». Nel bilanciamento tra questi valori e il diritto del difensore di aderire all’astensione collettiva, i primi hanno una «forza prevalente».

La Corte osserva che la legge n. 146/1990, che non aveva operato tale bilanciamento non avendo affatto previsto l’astensione collettiva dei professionisti, era risultata (all’epoca) carente, non prevedendo una razionale e coerente disciplina che includesse tutte le altre manifestazioni collettive capaci di comprimere detti valori primari. Con la sentenza n. 171 del 1996, quindi, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1 e 5, l. n. 146/1990, nella parte in cui non prevedeva, nel caso dell’astensione collettiva dall’attività defensionale degli avvocati e dei procuratori legali, l’obbligo di un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell’astensione e, altresì, nella parte in cui non prevedeva gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni essenziali durante l’astensione stessa, nonché le procedure e le misure conseguenziali nell’ipotesi di inosservanza. 

Il legislatore è intervenuto solo qualche anno dopo, con la legge 11 aprile 2000, n. 83[4], inserendo nella l. n. 146/1990 il censurato art. 2-bis.

La Corte ha quindi chiarito che tale articolo «riconosce il diritto (sindacale) di “astensione collettiva dalle prestazioni, a fini di protesta o di rivendicazione di categoria” e fissa, al contempo, il principio del necessario “contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente tutelati”, ma poi coinvolge gli stessi destinatari di questo bilanciamento richiedendo l’adozione, da parte “delle associazioni o degli organismi di rappresentanza delle categorie interessate”, di “codici di autoregolamentazione”. 

Il suddetto rinvio è ritenuto formale perché rimette alla disciplina subprimaria il completamento della regolamentazione, ossia l’individuazione delle fattispecie di “prestazioni indispensabili”, e non già materiale, che richiede invece che «il richiamo sia indirizzato a norme determinate ed esattamente individuate dalla stessa norma che lo effettua”».

È stato inoltre evidenziato che il codice di autoregolamentazione, in virtù della delibera di idoneità adottata dalla Commissione di garanzia, autorità amministrativa indipendente, costituisce una vera e propria normativa subprimaria e non già solo un atto di autonomia privata delle associazioni categoriali che raggruppano gli avvocati nell’esercizio del diritto di associarsi (art. 18 Cost.), con validità erga omnes. Tale codice vincola il giudice, se le sue disposizioni sono conformi alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.). 

La Corte osserva che la «disposizione del codice di autoregolamentazione (art. 4, comma 1, lettera b) richiama in particolare l’art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen. che stabilisce che il giudice provvede a norma del comma 1, rinviando ad una nuova udienza, nel caso di assenza del difensore, quando risulta che l’assenza stessa è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento, con conseguente sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare ai sensi dell’art. 304 cod. proc. pen., salvo che l’imputato chieda che si proceda in assenza del difensore impedito. Espressamente, quindi, la disposizione del codice di autoregolamentazione mira ad introdurre – ed introduce – una fattispecie analoga e parallela a quella legale che, dando rilievo all’assenso dell’imputato, incide parimenti sul prolungamento, o no, dei termini di durata massima della custodia cautelare, e finisce per toccare proprio la disciplina legale di tali termini». 

Proprio per tale profilo, la Corte ha ritenuto la normativa censurata in contrasto con la prescrizione della riserva di legge di carattere assoluto posta dall’art. 13, quinto comma, Cost., in quanto solo la legge può stabilire i limiti massimi della carcerazione preventiva, oggi custodia cautelare. A livello di fonti primarie, il «codice di rito prevede un’articolata disciplina dei termini di durata, fissando termini finali complessivi, in funzione di limite massimo insuperabile, sì da coprire l’intera durata del procedimento, garantendo, da un lato, un ragionevole limite di durata della custodia cautelare, e, dall’altro, attribuendo al giudice una discrezionalità vincolata nella valutazione della sussistenza dei presupposti per la sua sospensione ex art. 304 cod. proc. pen. (sentenza n. 204 del 2012)».

La Corte ha ribadito che i «“limiti che deve incontrare la durata della custodia cautelare, discendono direttamente dalla natura servente che la Costituzione assegna alla carcerazione preventiva rispetto al perseguimento delle finalità del processo, da un lato, e alle esigenze di tutela della collettività, dall’altro, tali da giustificare, nel bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della libertà personale di chi non è ancora stato giudicato colpevole in via definitiva” (sentenze n. 219 del 2008 e n. 229 del 2005)». 

Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha concluso nel senso che la norma censurata viola la riserva di legge posta dall’art. 13, quinto comma, Cost., nella parte in cui consente al codice di autoregolamentazione di interferire nella disciplina nella libertà personale; interferenza consistente nella previsione che l’imputato sottoposto a custodia cautelare possa richiedere, o no, in forma espressa, di procedere malgrado l’astensione del suo difensore, con l’effetto di determinare, o no, la sospensione, e quindi il prolungamento, dei termini massimi (di fase) di custodia cautelare.

Tale pronuncia lascia aperto il problema delle sue ricadute, in ordine al quale si è cimentata la dottrina[5]. Sembra evidente che, stante la dichiarazione di illegittimità costituzionale sopraindicata, in assenza di una nuova disposizione di legge, non è consentita ai difensori l’adesione a iniziative di astensione dalle udienze proclamate dalle associazioni di categoria nei procedimenti con imputati detenuti (per i fatti per cui si procede)[6]. L’astensione dei difensori nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trova in stato di custodia cautelare oggi è priva di copertura normativa, tenuto conto che la disciplina subprimaria contenuta nel richiamato art. 4, comma 1, lett. b del codice di autoregolamentazione, la quale trovava fondamento nella norma primaria, ritenuta illegittima proprio nella parte in cui fa rinvio al citato art. 4, non è più applicabile. Se si volesse ritenere che, in astratto, nei procedimenti in cui l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare, il difensore possa ancora esercitare il diritto di aderire all’astensione collettiva[7], non sarebbe possibile un rinvio del procedimento penale ad altra udienza e, soprattutto, non sarebbe più consentita la sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare ai sensi dell’art. 304 cpp. Al riguardo appare estremamente significativo che, in occasione della proclamazione dell’astensione dalle udienze per i giorni dal 20 al 23 novembre 2018, la giunta dell’Unione delle camere penali italiane, con la decisione dell’8 novembre, ha deliberato «secondo le vigenti regole di autoregolamentazione, nel rispetto della sentenza della Corte costituzionale n. 180 del 2018 e dunque con esclusione dei processi con imputati detenuti in custodia cautelare».

 

2. Il diritto di azione e di difesa

2.1. La legittimazione dello Stato in via esclusiva a costituirsi parte civile per il danno ambientale

Con riferimento al diritto di difesa, con riguardo in particolare al diritto di promuovere una certa azione e di prendere parte a un determinato procedimento penale, vanno segnalate numerose pronunce. La sentenza n. 126 del 2016 ha affrontato la tematica relativa alla legittimazione dello Stato in via esclusiva a costituirsi parte civile per il danno ambientale. La questione di legittimità costituzionale è sollevata con riguardo alla normativa posta dal codice dell’ambiente, la quale costituisce il punto di arrivo di un’evoluzione complessa, frutto anche dell’influenza determinante esplicata dalla disciplina europea.

La questione sollevata dal Tribunale ordinario di Lanusei nel procedimento penale promosso a carico di M.F. e altri, per il reato di cui all’art. 437, commi 1 e 2, cp ha ad oggetto, in riferimento agli artt. 2, 3, 9 24 e 32 Cost., l’art. 311, comma 1, d.lgs 3 aprile 2006, n. 152 («Norme in materia ambientale»), nella parte in cui attribuisce al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, e per esso allo Stato, la legittimazione all’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno ambientale, escludendo quella concorrente o sostitutiva della Regione e degli enti locali sul cui territorio si è verificato il danno. 

Con la sentenza n. 126 del 2016, la Corte ha ritenuto infondato il dubbio di costituzionalità che si sostanzierebbe, in sintesi, nell’asserita inadeguatezza della disciplina impugnata a salvaguardare la tutela dell’ambiente, anche in relazione al ruolo delle autonomie locali.

La Corte, dopo aver analizzato l’evoluzione della normativa ambientale, evidenzia che, in attuazione della direttiva n. 220/35/CE, il codice dell’ambiente (d.lgs n. 152/2006) ha statuito «la priorità delle misure di “riparazione” rispetto al risarcimento per equivalente pecuniario, quale conseguenza dell’assoluta peculiarità del danno al bene o risorsa “ambiente”». Pertanto due sono le opzioni di scelta che il citato art. 311 riconosce al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare: la via giudiziaria o quella amministrativa. Nel secondo caso (artt. 313 e 314 codice dell’ambiente), «con ordinanza immediatamente esecutiva, il Ministero ingiunge a coloro che siano risultati responsabili del fatto il ripristino ambientale a titolo di risarcimento in forma specifica entro un termine fissato». In caso di mancato adempimento in tutto o in parte al ripristino, il Ministro «determina i costi delle attività necessarie a conseguire la completa attuazione delle misure anzidette secondo i criteri definiti con il decreto di cui al comma 3 dell’art. 311 e, al fine di procedere alla realizzazione delle stesse, con ordinanza ingiunge il pagamento, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica, delle somme corrispondenti». 

Si rileva che «la scelta di attribuire all’amministrazione statale le funzioni amministrative trova una non implausibile giustificazione nell’esigenza di assicurare che l’esercizio dei compiti di prevenzione e riparazione del danno ambientale risponda a criteri di uniformità e unitarietà, atteso che il livello di tutela ambientale non può variare da zona a zona e considerato anche il carattere diffusivo e transfrontaliero dei problemi ecologici, in ragione del quale gli effetti del danno ambientale sono difficilmente circoscrivibili entro un preciso e limitato ambito territoriale».

La disciplina censurata che «ha riservato allo Stato, ed in particolare al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, il potere di agire, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale (art. 311), e ha mantenuto solo “il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi” (art. 313, comma 7, secondo periodo)», costituisce secondo la Corte la conseguenza logica del cambiamento di prospettiva intervenuto nella materia. All’esigenza di «unitarietà della gestione del bene “ambiente” non può infatti sottrarsi la fase risarcitoria. Essa, pur non essendo certo qualificabile come amministrativa, ne costituisce il naturale completamento, essendo volta a garantire alla istituzione su cui incombe la responsabilità del risanamento, la disponibilità delle risorse necessarie, risorse che hanno appunto questa specifica ed esclusiva destinazione».

L’assetto ora descritto «non esclude che ai sensi dell’art. 311 del d.lgs. n. 152 del 2006 sussista il potere di agire di altri soggetti, comprese le istituzioni rappresentative di comunità locali, per i danni specifici da essi subiti». La Corte ricorda, infatti, al riguardo proprio la giurisprudenza della Corte di cassazione, che ha più volte affermato in proposito «che la normativa speciale sul danno ambientale si affianca (non sussistendo alcuna antinomia reale) alla disciplina generale del danno posta dal codice civile, non potendosi pertanto dubitare della legittimazione degli enti territoriali a costituirsi parte civile iure proprio, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all’ambiente, per il risarcimento non del danno all’ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico, di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale».

Infine, la Corte ha escluso il paventato rischio di una inazione statuale, nel caso di mancata costituzione di parte civile. Fermo restando che la proposizione della domanda nel processo penale è solo una delle opzioni previste dal legislatore, potendo lo Stato agire direttamente in sede civile, o in via amministrativa, «l’interesse giuridicamente rilevante di cui sono portatori gli altri soggetti istituzionali non può che attenere alla tempestività ed effettività degli interventi di risanamento» e il codice dell’ambiente consente alle Regioni, alle Province autonome e agli enti locali, anche associati, oltre agli altri soggetti ivi previsti, di presentare al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, denunce e osservazioni, corredate da documenti e informazioni, concernenti qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno ambientale e di chiedere l’intervento statale a tutela dell’ambiente, esplicitando l’azionabilità di tale interesse dinanzi al giudice amministrativo.

 

2.2. Il divieto di chiamata in giudizio del responsabile civile da parte dell’imputato, notaio assicurato per obbligo di legge

La Corte, con la sentenza n. 34 del 2018, ha dichiarato non fondate, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83 cpp «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di citare in giudizio il proprio assicuratore, quando questo sia responsabile civile ex lege per danni derivanti da attività professionale».

Le questioni sono state sollevate nell’ambito di un processo penale a carico di un notaio, assicurato per obbligo di legge contro la responsabilità civile per i danni derivanti dall’esercizio della propria attività professionale.

La Corte non ha ritenuto estensibile all’assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile del notaio la ratio decidendi della sentenza n. 112 del 1998, che aveva giudicato lesiva dell’art. 3 Cost. la denunciata disposizione nella parte in cui non prevedeva che, nel caso di responsabilità civile derivante dalla assicurazione obbligatoria prevista dalla legge 24 dicembre 1969, n. 990, l’assicuratore potesse essere citato nel processo penale a richiesta dall’imputato. 

Secondo la Corte, le enunciazioni di principio racchiuse nella sentenza n. 112 del 1998 «si presentano intimamente saldate alle “specifiche caratteristiche che rendono del tutto peculiare la posizione dell’assicuratore chiamato a rispondere, ai sensi della legge n. 990 del 1969, dei danni derivanti dalla circolazione dei veicoli e dei natanti”, implicando “una correlazione tra le posizioni coinvolte di spessore tale da rendere necessariamente omologabile il (…) regime ad esse riservato, tanto in sede civile che nella ipotesi di esercizio della domanda risarcitoria in sede penale” (sentenza n. 75 del 2001)». 

La decisione del 1998 ha messo risalto due aspetti: «gli artt. 18 e 23 della legge n. 990 del 1969 (trasfusi nell’art. 144 del Codice delle assicurazioni private), prevedendo, rispettivamente, l’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore e il litisconsorzio necessario fra responsabile del danno e assicuratore nel giudizio promosso contro quest’ultimo, consentono di collocare la particolare ipotesi di responsabilità civile in discorso fra i casi ai quali si riferisce il secondo comma dell’art. 185 cod. pen., tradizionalmente raccordato alla assunzione di una posizione di garanzia per il fatto altrui»; la possibilità di «chiamare in causa l’assicuratore – offerta al danneggiante convenuto in sede civile dall’art. 1917, ultimo comma, del codice civile e dall’art. 106 del codice di procedura civile – risulta connessa “al diritto dell’assicurato di vedersi manlevato dalle pretese risarcitorie, con correlativo potere di regresso, al contrario escluso per l’assicuratore” (sentenza n. 75 del 2001)». 

A tale «funzione plurima» del rapporto di garanzia – in quanto destinato a salvaguardare direttamente sia la vittima sia il danneggiante – si è ritenuto che «dovesse necessariamente corrispondere l’allineamento, anche in sede penale, dei poteri processuali di “chiamata” riconosciuti in sede civile, onde evitare che l’effettività della predetta funzione venga pregiudicata dalla scelta del danneggiato di far valere la sua pretesa risarcitoria mediante costituzione di parte civile nel processo penale, anziché nella sede naturale». 

La Corte ha richiamato la giurisprudenza successiva, che aveva già escluso che la ratio decidendi della sentenza n. 112 del 1998 fosse estensibile alla generalità delle ipotesi di responsabilità civile ex lege per fatto altrui. In particolare, la Corte ricorda che è stata negata «l’esigenza costituzionale di attribuire all’imputato la facoltà di chiamare in giudizio il proprio assicuratore della responsabilità civile, nel caso di assicurazione facoltativa, in quanto con l’ordinario contratto di assicurazione l’assicuratore non assume alcun obbligo di risarcimento nei confronti dei terzi, ma soltanto un obbligo di tenere indenne l’assicurato che ne faccia richiesta ai sensi dell’art. 1917, secondo comma, cod. civ., per cui mancano nel processo penale, sia il presupposto oggettivo-sostanziale (obbligo del risarcimento ex lege), sia il presupposto soggettivo-processuale (destinatario del diritto all’indennizzo) per l’esercizio diretto dell’azione civile da parte del danneggiato, donde l’evidente diversità della posizione dell’assicuratore rispetto a quella che caratterizza la figura del responsabile civile, a norma dell’art. 185, secondo comma, cod. pen.». In sostanza, una pronuncia additiva nei sensi poco sopra indicati «non solo avrebbe riguardato una “ipotesi eccentrica” rispetto alla fattispecie esaminata nella sentenza n. 112 del 1998, ma si sarebbe addirittura risolta “in una prospettiva profondamente innovativa e riservata alla scelta discrezionale del legislatore”, mirando la relativa “richiesta a consentire l’inserimento eventuale di una nuova figura processuale nel procedimento penale” (sentenza n. 75 del 2001)». 

Tale ultimo rilievo è ritenuto dalla Corte estensibile all’assicurazione per la responsabilità civile del notaio connessa all’esercizio dell’attività professionale.

Essa per un verso garantisce, come ogni altra, l’assicurato, per altro verso è destinata a tutelare anche «l’interesse del terzo danneggiato dall’attività notarile alla certezza del ristoro del pregiudizio patito», in virtù del regime di obbligatorietà. Tuttavia, il legislatore non si è spinto sino a prevedere la possibilità di un’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore, «analoga a quella che contraddistingue la responsabilità civile automobilistica: elemento che resta, dunque, dirimente sia al fine di escludere che la posizione dell’assicuratore possa essere inquadrata nel paradigma del responsabile civile ex lege, quale delineato dall’art. 185, secondo comma, cod. pen., sia di attribuire correlativamente anche alla pronuncia additiva oggi richiesta la valenza di innovazione sistematica, riservata alla discrezionalità del legislatore».

 

2.3. Diritto di accesso e diritto di difesa nei riti speciali

Anche negli ultimi cinque anni, come negli anni più prossimi all’adozione dell’attuale codice di rito, la materia dei riti speciali è stata sottoposta con particolare intensità al controllo della Corte, e nuovamente incisa per aspetti non marginali, a riprova di un assestamento che non può ancora dirsi definitivo.

Sono state esaminate questioni varie, ma tutte riconducibili all’idea essenziale che, per i contenuti premiali generalmente connessi alla celebrazione del giudizio mediante riti speciali, l’accesso ai riti medesimi costituisce un’espressione del più generale diritto di difesa che la Costituzione garantisce all’imputato.

Per tale ragione, devono essere garantiti all’accusato i modi e tempi per la necessaria interlocuzione con il difensore tecnico, pur costituendo la decisione in merito al rito l’oggetto di un diritto personalissimo. Occorre dunque che l’articolazione dei singoli meccanismi procedurali non impedisca, o non renda particolarmente difficoltosa, l’opzione dell’accesso ai procedimenti speciali. Occorre, soprattutto, che le pur ammissibili decadenze, fissate allo scopo di regolare ordinatamente la progressione del giudizio, non costituiscano oggettivamente (o addirittura per l’effetto di scelte elusive della pubblica accusa) un transito idoneo a deprivare l’imputato, in assoluto, della possibilità di avvalersi dell’una o dell’altra forma speciale di definizione del procedimento.

Un provvedimento sul diritto di accesso è quello pertinente alla necessità di garantire all’imputato il tempo necessario per una consultazione, con il proprio difensore, circa l’opportunità del relativo esercizio, con riguardo alla facoltà di chiedere la sospensione con messa alla prova, in quanto l’avviso di tale facoltà non era contenuto nel decreto penale.

La sentenza n. 201 del 2016 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 460, comma 1, lett. e, cpp, nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna contenga l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere mediante l’opposizione la sospensione del procedimento con messa alla prova. 

La Corte premette quello che costituisce un leitmotiv della sua giurisprudenza in materia, vale a dire che l’istituto della messa alla prova, introdotto con gli artt. 168-bis, 168-ter e 168-quater cp, «ha effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è connotato da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice decide con ordinanza sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova (sentenza n. 240 del 2015)». 

Quindi si osserva che l’art. 464-bis, comma 2, cpp «stabilisce i termini entro i quali, a pena di decadenza, l’imputato può formulare la richiesta di messa alla prova. Sono termini diversi, articolati secondo le sequenze procedimentali dei vari riti, e la loro disciplina è “collegat[a] alle caratteristiche e alla funzione dell’istituto, che è alternativo al giudizio ed è destinato ad avere un rilevante effetto deflattivo” (sentenza n. 240 del 2015)». 

Come negli altri riti, anche nel procedimento per decreto deve ritenersi che la mancata formulazione della richiesta nel termine stabilito dall’art. 464-bis, comma 2, cpp, e cioè con l’atto di opposizione, determini una decadenza, sicché nel giudizio conseguente all’opposizione l’imputato che prima non l’abbia chiesta non può più chiedere la messa alla prova. 

Tuttavia, a differenza di quanto accade per gli altri riti speciali, l’art. 460, comma 1, cpp non prevede, tra i requisiti del decreto penale di condanna, l’avviso all’imputato che ha facoltà, nel fare opposizione, di chiedere la messa alla prova. 

La Corte, a questo punto, richiama un principio costante della sua giurisprudenza, quello secondo cui «la richiesta di riti alternativi “costituisce anch’essa una modalità, tra le più qualificanti (sentenza n. 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995e n. 76 del 1993)” (sentenza n. 237 del 2012)». Consegue a ciò che «l’avviso all’imputato della possibilità di richiedere i riti alternativi costituisca “una garanzia essenziale per il godimento di un diritto della difesa” (…), e che la sanzione della nullità ex art 178, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., nel caso di omissione dell’avviso prescritto, trovi “la sua ragione essenzialmente nella perdita irrimediabile della facoltà di chieder[li]”, se per la richiesta è stabilito un termine a pena di decadenza». 

La Corte, inoltre, ribadisce lo schema argomentativo in base al quale sono state risolte alcune questioni poste nel passato, secondo cui «quando il termine entro cui chiedere i riti alternativi è anticipato rispetto alla fase dibattimentale, sicché la mancanza o l’insufficienza del relativo avvertimento può determinare la perdita irrimediabile della facoltà di accedervi, “[l]a violazione della regola processuale che impone di dare all’imputato (esatto) avviso della sua facoltà comporta (…) la violazione del diritto di difesa” (sentenza n. 148 del 2004). Non è invece necessario alcun avvertimento quando il termine ultimo per avanzare tale richiesta viene a cadere “all’interno di una udienza a partecipazione necessaria, sia essa dibattimentale o preliminare, nel corso della quale l’imputato è obbligatoriamente assistito dal difensore” (ordinanza n. 309 del 2005)». 

L’applicazione del complesso dei principi, elaborati dalla giurisprudenza costituzionale, al nuovo procedimento di messa alla prova comporta l’illegittimità della disposizione censurata. Infatti, per consentirgli di determinarsi correttamente nelle sue scelte difensive occorre pertanto che all’imputato, come avviene per gli altri riti speciali, sia dato avviso della facoltà di richiederlo. La Corte conclude che, poiché «nel procedimento per decreto il termine entro il quale chiedere la messa alla prova è anticipato rispetto al giudizio, e corrisponde a quello per proporre opposizione, la mancata previsione tra i requisiti del decreto penale di condanna di un avviso, come quello previsto dall’art. 460, comma 1, lettera e), cod. proc. pen. per i riti speciali, della facoltà dell’imputato di chiedere la messa alla prova comporta una lesione del diritto di difesa e la violazione dell’art. 24, secondo comma, Cost.». L’omissione di questo avvertimento può infatti determinare un pregiudizio irreparabile, come quello verificatosi nel giudizio a quo, in cui l’imputato, nel fare opposizione al decreto, non essendo stato avvisato, ha formulato la richiesta in questione solo nel corso dell’udienza dibattimentale, e quindi tardivamente. Va rilevato che la censura relativa all’art. 3 Cost. è stata dichiarata assorbita.

Questioni di legittimità in parte analoghe sono state sollevate anche con riguardo al provvedimento di giudizio immediato e con riguardo al decreto di citazione diretta a giudizio, ma con due provvedimenti (rispettivamente ordinanza n. 85 del 2018 e ordinanza n. 7 del 2018) la Corte ha dovuto dichiararle manifestamente inammissibili per gravi vizi della motivazione in punto di rilevanza. Recentemente la Corte, con la sentenza n. 19 del 2020, ha però dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 456, comma 2, cpp, nella parte in cui non prevede che il decreto che dispone il giudizio immediato contenga l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova. La Corte ribadisce, in questo caso, le precedenti (in quanto espresse nella sentenza n. 201 del 2016) considerazioni sulla natura sostanziale e processuale della sospensione con messa alla prova; sulla richiesta di riti alternativi, che costituisce anch’essa una modalità, tra le più qualificanti, di esercizio del diritto di difesa; sulla necessità della verifica della scadenza del termine per proporre la richiesta di rito alternativo, se prima o nel corso del dibattimento, al fine di verificare la sussistenza di una violazione del diritto di difesa. 

La Corte afferma pertanto che, come nel procedimento per decreto, oggetto della sentenza n. 201 del 2016, anche nel giudizio immediato il termine entro cui chiedere i riti alternativi a contenuto premiale è anticipato rispetto al dibattimento, così che l’eventuale omissione del relativo avviso può «determinare un pregiudizio irreparabile, come quello verificatosi nel giudizio a quo, in cui l’imputato (…), non essendo stato avvisato, ha formulato la richiesta in questione solo nel corso dell’udienza dibattimentale, e quindi tardivamente» (sentenza n. 201 del 2016). 

Tali affermazioni, secondo la pronuncia in questione, non possono che essere ribadite in riferimento alla disciplina delineata dall’art. 456, comma 2, cpp, il quale va dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che il decreto che dispone il giudizio immediato contenga l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova. Ne discende – come già da tempo precisato dalla Corte con riferimento all’omesso o inesatto avviso della facoltà di chiedere il giudizio abbreviato nel decreto che dispone il giudizio immediato (sentenza n. 148 del 2004), e come esattamente ritenuto dal giudice a quo – che l’omissione dell’avviso qui in considerazione non potrà che integrare una nullità di ordine generale ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. c, cpp.

 

2.4. Contestazioni suppletive e diritto di accesso ai riti speciali

La recente giurisprudenza costituzionale, in continuità con un trend risalente al ventennio precedente, si è incentrata, più che su questioni attinenti ai meccanismi legali che regolano l’accesso ai riti, su un aspetto diverso e complementare: sugli strumenti necessari, cioè, a garantire l’effettività del diritto riconosciuto all’accusato, pur nel caso di comportamenti elusivi dell’autorità procedente, o comunque di fenomeni che inducano decadenze (asseritamente) non ragionevoli.

L’attenzione della Corte si è concentrata, in particolare, sulla materia delle contestazioni suppletive, cioè delle modifiche recate all’imputazione dopo l’esercizio dell’azione penale, in sede di udienza preliminare o nel corso del dibattimento, quando ormai i termini per l’accesso ai riti alternativi erano scaduti.

Nei primi anni di applicazione del codice, aveva acquisito un rilievo dirimente la distinzione tra contestazioni suppletive “fisiologiche” e contestazioni “tardive” o “patologiche”. Con la prima espressione si allude alle variazioni dell’addebito che la legge consente per conformare l’imputazione alle emergenze scaturite dall’istruttoria dibattimentale (o dalle acquisizioni dell’udienza preliminare): a contestazioni, dunque, che non sarebbero state possibili nel momento in cui l’azione penale è stata promossa. Sono definite “tardive” o “patologiche”, invece, le variazioni effettuate dal pubblico ministero avvalendosi delle norme concernenti le contestazioni suppletive, sulla base di cognizioni già disponibili nella fase predibattimentale.

Per lungo tempo si è discusso se gli artt. 516 e 517 cpp davvero consentissero anche le contestazioni tardive. A un certo punto, però, anche in forza d’un intervento delle sezioni unite della Corte suprema (sentenza n. 4 del 1999), è prevalsa la soluzione affermativa, e da quel momento in poi la soluzione è divenuta “diritto vivente”.

In seguito alla lettura estensiva fornita dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui le nuove contestazioni previste dagli artt. 516 e 517 cpp possono essere basate anche sui soli elementi già acquisiti nel corso delle indagini preliminari, la Corte ha rilevato come l’istituto delle nuove contestazioni si connota «“non più soltanto come uno strumento – come detto, speciale e derogatorio – di risposta ad una evenienza pur “fisiologica” al processo accusatorio (quale l’emersione di nuovi elementi nel corso dell’istruzione dibattimentale), ma anche come possibile correttivo rispetto ad una evenienza “patologica”: potendo essere utilizzato pure per porre rimedio, tramite una rivisitazione degli elementi acquisiti nelle indagini preliminari, ad eventuali incompletezze od errori commessi dall’organo dell’accusa nella formulazione dell’imputazione (sentenza n. 333 del 2009)”» (sentenza n. 184 del 2014).

A fronte di tale interpretazione, occorreva però tenere conto delle contrapposte esigenze di salvaguardia del diritto di difesa. 

La Corte è inizialmente intervenuta per salvaguardare il diritto dell’imputato alla prova in caso di nuova contestazione dibattimentale, escludendo che esso potesse incontrare «limiti diversi e più penetranti di quelli vigenti in via generale per i “nova”» (sentenza n. 241 del 1992).

Nella prospettiva del codice di procedura penale «rimanevano, però, preclusi i riti alternativi a contenuto premiale (giudizio abbreviato e patteggiamento), riti che, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, costituiscono anch’essi «“modalità, tra le più qualificanti (sentenza n. 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995 e n. 76 del 1993)” (sentenza n. 237 del 2012), tali da incidere in senso limitativo, sull’entità della pena inflitta» (sentenza n. 184 del 2014).

La contestazione suppletiva in dibattimento non consentiva all’imputato di chiedere e ottenere la definizione del giudizio mediante un rito speciale (dovendo la richiesta intervenire, a pena di decadenza, a seconda dei casi, nella fase di avvio della celebrazione o nella fase dell’udienza preliminare ove prevista). Se la preclusione appariva tollerabile a fronte di contestazioni fisiologiche, che del resto rappresentano un rischio valutabile dalla difesa nel momento in cui si approssimano le soglie preclusive, altrettanto non poteva dirsi quanto ai reati che avrebbero potuto essere contestati in tempo utile per la domanda difensiva (cioè nell’udienza preliminare o con la citazione a giudizio). Qui la perdita di opportunità per l’imputato non dipendeva dall’inevitabile mutevolezza del quadro cognitivo e dalla necessaria flessibilità dell’imputazione, ma da un’inerzia colpevole del pubblico ministero.

Con i suoi primi provvedimenti la Corte aveva voluto evitare manipolazioni del sistema (sentenze nn. 593 del 1990 e 129 del 1993, ordinanza n. 213 del 1992), ma tale posizione è stata superata, la prima volta con riguardo al procedimento di applicazione della pena su richiesta. Gli artt. 516 e 517 cpp erano stati infatti dichiarati illegittimi nella parte in cui non consentivano la richiesta di patteggiamento ove la contestazione suppletiva intervenisse sulla base di elementi già acquisiti al momento di esercizio dell’azione penale, oppure se a suo tempo vi fosse stata richiesta dell’imputato rispetto alle contestazioni originarie (sentenza n. 265 del 1994, che aveva contestualmente ricusato un intervento dello stesso genere per il rito abbreviato). Analogamente, e dopo breve tempo (sentenza n. 530 del 1995), le norme erano state dichiarate illegittime nella parte in cui non consentivano che l’imputato potesse sollecitare l’oblazione per reati oggetto della contestazione suppletiva, sempreché naturalmente ricorressero le condizioni delineate agli artt. 162 e 162-bis cp.

Alla base delle due decisioni è il rilievo che le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito speciale dipendono dall’impostazione che il pubblico ministero conferisce all’accusa, cosicché, quando l’imputazione deve essere modificata per un errore o una negligenza dello stesso pubblico ministero (e non per la sopravvenienza di nuovi elementi di prova), la preclusione dell’accesso al rito sarebbe ingiustificatamente lesiva del diritto di difesa.

Più accidentato è stato il percorso riguardante il rito abbreviato, sebbene fosse già evidente che gli argomenti spesi per il patteggiamento e per l’oblazione ben potevano valere anche per il giudizio sullo stato degli atti (si vedano, a vario titolo, le ordinanze nn. 129 del 2003, 236 e 413 del 2005). Una delle ragioni fondamentali nel senso della preclusione derivava dalla difficoltà di innestare una procedura parallela di accertamento nel rito dibattimentale ordinario (la sentenza di oblazione o patteggiamento definisce “istantaneamente” l’addebito), e nell’indurre decisioni con plurime e differenziate basi cognitive. Una difficoltà considerata tanto grave che, da sempre, la giurisprudenza aveva escluso l’ammissibilità di richieste parziali di accesso al rito, cioè concernenti una parte soltanto dei capi di accusa, finanche quando non avessero comportato una decisione contestuale da parte dello stesso giudice. D’altra parte, sembrando irragionevole una rimessione in termini estesa ai reati contestati tempestivamente, il rimedio per i nuovi addebiti, pur tanto sollecitato dalla dottrina e da diversi giudici rimettenti, non poteva che attagliarsi a una domanda parziale, con conseguente frazionamento della regiudicanda (ordinanza n. 67 del 2008).

L’intervento additivo, alla fine, era intervenuto con la sentenza n. 333 del 2009. La Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cpp, nella parte in cui non prevede(va), nel caso di contestazione tardiva, la facoltà dell’imputato di richiedere il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente posto a oggetto del nuovo addebito. Inoltre, aveva dichiarato illegittimo anche l’art. 516 cpp, nella parte in cui non prevede(va) – sempre e solo per le contestazioni tardive – la facoltà dell’imputato di richiedere il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento.

Il ragionamento aveva preso le mosse dal diritto vivente, secondo il quale, come si è visto, le contestazioni suppletive sono ammissibili anche se tardive. Una volta maturata la scelta di non contrapporsi agli orientamenti della giurisprudenza maggioritaria, la Corte aveva ritenuto che il bilanciamento tra l’esigenza di garantire la necessaria sensibilità dell’imputazione rispetto ai mutamenti del quadro cognitivo, e il diritto dell’imputato di accedere ai riti speciali, non potesse trovare applicazione, attraverso la regola di inammissibilità della richiesta, nei casi in cui la contestazione tardiva dipenda dalla negligenza (o peggio) del pubblico ministero. D’altra parte, a giustificazione dell’overruling almeno parziale, la Corte aveva valorizzato i profondi cambiamenti indotti, oltreché dalla cd. “legge Carotti”, dalla sua stessa sentenza n. 169 del 2003, con la quale, al fine precipuo di assicurare un sindacato giudiziale sulla decisione di rigetto della domanda di accesso al rito, si erano create le condizioni per la celebrazione del giudizio abbreviato direttamente a opera del giudice dibattimentale.

Il percorso era continuato con la sentenza n. 237 del 2012, che segna un nuovo punto di svolta, in quanto viene individuato un nuovo profilo di illegittimità costituzionale dell’art. 517 cpp nella parte in cui non prevede(va) la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione. La Corte ha superato un altro argomento tradizionale, cioè la dipendenza della perdita di chance da una libera assunzione del rischio a opera dell’interessato. La Corte ha negato che l’argomento valga realmente a discriminare le contestazioni fisiologiche da quelle patologiche, ed è giunta anzi a notare che le prime sono anche più imprevedibili delle seconde, proprio perché non dipendono da risultanze già conosciute in precedenza. Un ulteriore indice è tratto dalla disciplina in tema di abbreviato, e in particolare dall’art. 441-bis cpp, secondo cui «quando muta in itinere il tema d’accusa, l’imputato deve poter rivedere le proprie opzioni riguardo al rito da seguire». Pertanto, la preclusione è stata ritenuta illogica dalla Corte, sia in rapporto a ogni altra forma di esercizio dell’azione penale per il reato concorrente, sia per l’eventualità che circostanze casuali comportino la regressione dell’intero giudizio (a cominciare dal carattere discrezionale della contestazione in udienza, invece che nell’ambito di un procedimento separato), sia infine rispetto alle stesse ipotesi di contestazione patologica, ormai “risolte” dalla sentenza n. 333 del 2009. In altri termini: «condizione primaria per l’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti (…) [S]e all’accusa originaria ne viene aggiunta un’altra, sia pure connessa (peraltro, nella lata nozione desumibile dal vigente art. 12, comma 1, lettera b, cod. proc. pen.), non possono non essere restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni».

La Corte quindi, con la sentenza n. 273 del 2014, ha ristabilito la simmetria interrotta dalla sentenza da ultimo citata, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 cpp, appunto nella parte in cui non prevede(va) la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione. 

Ulteriore tassello è stato rappresentato dalla sentenza n. 184 del 2014, in cui la Corte è tornata sul terreno delle mutazioni tardive dell’accusa, cioè quelle operate sulla base di elementi già noti al momento di esercizio dell’azione penale. La pronuncia riguarda il cd. patteggiamento, per il quale la domanda in sede dibattimentale era già stata da tempo consentita, come si è visto, riguardo al reato concorrente e al fatto diverso. Residuava il caso della contestazione patologica di una circostanza aggravante. Puntualmente, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cpp, nella parte in cui non prevede(va) la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena, a norma dell’art. 444 cpp, in seguito alla contestazione nel dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale. 

Pur essendo rimasti nell’ambito della contestazione patologica, per la prima volta, si è estesa l’illegittimità anche al caso di contestazione di un’aggravante. La Corte ha sottolineato che la configurazione ex novo di una circostanza accede, per definizione, a un fatto già correttamente e compiutamente delineato nelle sue linee essenziali (e con eventuale riguardo ad aggravanti diverse): un fatto per il quale la procedura ordinaria è frutto di una libera opzione dell’interessato, compiuta prima delle ordinarie soglie di decadenza. Nondimeno, la Corte ha inteso porre in luce che la trasformazione dell’originaria imputazione in un’ipotesi circostanziata (o pluricircostanziata) determina un significativo mutamento del quadro processuale, incidendo (anche solo in potenza, ed è quel che basta) sulla quantità e talvolta sulla stessa qualità della sanzione applicabile, oppure sul regime di procedibilità per l’illecito contestato. Ammessa la domanda “tardiva” riguardo a un fatto diverso da quello addebitato, è parsa ormai disarmonica la preclusione per un reato diversamente circostanziato (con riguardo anche in tal caso all’art. 3 Cost., rispetto all’ipotesi della contestazione fisiologica, oltreché in rapporto all’art. 24 Cost.).

Con la sentenza n. 139 del 2015 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cpp, nella parte in cui, nel caso di contestazione di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato oggetto della nuova contestazione. Ovviamente, le ragioni dell’intervento sono sovrapponibili a quelle che avevano determinato la precedente e analoga pronuncia, riguardante l’applicazione di pena su richiesta.

Appare opportuno sottolineare che, con la stessa sentenza, la Corte ha stabilito l’infondatezza di una seconda questione con cui si chiedeva, in sostanza, che, una volta intervenuta una contestazione suppletiva a carattere patologico riguardo a un reato concorrente o a una circostanza aggravante, l’imputato fosse rimesso in termini per una domanda di giudizio abbreviato riguardo all’intera imputazione, cioè anche con riferimento ai reati contestati in precedenza, e liberamente valutati, in punto di convenienza del rito, quando ancora sarebbe stata possibile una richiesta tempestiva di definizione sullo stato degli atti. La Corte ha tra l’altro rilevato che non vi sono ragioni costituzionali tali da imporre al legislatore una riapertura generalizzata dei termini, quando si discute di reati volutamente sottoposti dall’imputato alle cure del giudice dibattimentale, individuando anche dei profili di sperequazione al contrario indotti da tale manipolazione del sistema. 

Questo, in sintesi, il quadro dei precedenti che la Corte ha valutato, negli ultimi anni, sul tema della “rimessione in termini” per il caso delle contestazioni suppletive (vds., amplius, STU 294[8]).

Nel periodo in questione la sentenza n. 206/2017 ha nuovamente esaminato la tematica delle contestazioni suppletive, soffermandosi sulla richiesta di patteggiamento relativamente alla cd. «contestazione fisiologica del fatto diverso ex art. 516 cod. proc. pen.».

La Corte, nell’occasione, ha accolto la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., dell’art. 516 cpp «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena, a norma dell’art. 444 c.p.p., relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto di nuova contestazione».

Dopo un accurato excursus sull’oggetto e sulla portata dei precedenti in materia, la Corte ricorda di essere intervenuta con due recenti sentenze «con riferimento specifico alle ipotesi, come quella in esame, di nuove contestazioni “fisiologiche”, volte, cioè, ad adeguare l’imputazione alle risultanze dell’istruzione dibattimentale». 

Con la prima (sentenza n. 237 del 2012) – superando il diverso indirizzo espresso in precedenti pronunce, risalenti agli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del nuovo codice di rito – ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione del principio di eguaglianza e del diritto di difesa (artt. 3 e 24, secondo comma, Cost.), l’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consente all’imputato di chiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il reato concorrente, emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, oggetto della nuova contestazione.

Con la seconda (sentenza n. 273 del 2014), sulla base di argomenti analoghi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 cpp, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il fatto diverso, emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, oggetto della nuova contestazione. 

La Corte rileva quindi che la questione al suo esame «è simile a quella affrontata con quest’ultima sentenza, e molti dei passaggi argomentativi che sorreggono questa decisione possono estendersi alla vicenda in esame, che si differenzia solo perché allora, dopo la modificazione dell’imputazione, era stato chiesto il giudizio abbreviato mentre oggi è stato chiesto il patteggiamento». 

La Corte osserva che in seguito «alla contestazione, ancorché “fisiologica”, del fatto diverso «l’imputato che subisce la nuova contestazione “viene a trovarsi in posizione diversa e deteriore – quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena – rispetto a chi, della stessa imputazione, fosse stato chiamato a rispondere sin dall’inizio”. Infatti, “condizione primaria per l’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti” (…) (sentenza n. 237 del 2012)” (sentenza n. 273 del 2014), e ciò vale non solo per il giudizio abbreviato, ma anche per il “patteggiamento”. In questo procedimento infatti la valutazione dell’imputato è indissolubilmente legata, “ancor più che nel giudizio abbreviato, alla natura dell’addebito, trattandosi non solo di avviare una procedura che permette di definire il merito del processo al di fuori e prima del dibattimento, ma di determinare lo stesso contenuto della decisione, il che non può avvenire se non in riferimento a una ben individuata fattispecie penale” (sentenza n. 265 del 1994). Perciò, anche rispetto al patteggiamento, quando l’accusa è modificata nei suoi aspetti essenziali, “non possono non essere restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni” (sentenza n. 237 del 2012)” (sentenza n. 273 del 2014)». 

La pronuncia si sofferma anche sulla nozione di “fatto diverso”, conformandosi alla giurisprudenza di legittimità. Si rileva infatti che «il dovere del pubblico ministero di modificare l’imputazione per diversità del fatto risulta strettamente collegato al principio della necessaria correlazione tra accusa e sentenza (art. 521 cod. proc. pen.), partecipando, quindi, della medesima ratio di garanzia. Dunque, come ritiene la giurisprudenza di legittimità, non qualsiasi variazione o puntualizzazione, anche meramente marginale, dell’accusa originaria comporta tale obbligo, “ma solo quella che, implicando una trasformazione dei tratti essenziali dell’addebito, incida sul diritto di difesa dell’imputato: in altre parole, la nozione strutturale di “fatto”, contenuta nell’art. 516 cod. proc. pen., va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni delle facoltà difensive. Correlativamente, è di fronte a simili situazioni – e solo ad esse – che emerge anche l’esigenza di riconoscere all’imputato la possibilità di rivalutare le proprie opzioni sul rito” (sentenza n. 273 del 2014)».

Rileva sempre la Corte che la modificazione dell’imputazione, oltre ad alterare in modo significativo la fisionomia fattuale del tema d’accusa, può avere riflessi di rilievo sull’entità della pena irrogabile all’imputato e, di conseguenza, sulla incidenza quantitativa dell’effetto premiale connesso al rito speciale.

La Corte ribadisce, quindi, il superamento degli argomenti contrari fatti valere in passato. Con riguardo «alla necessaria correlazione, nei procedimenti speciali, tra premialità e deflazione processuale», obietta che «l’accesso al rito alternativo dopo l’inizio del dibattimento rimane comunque idoneo a produrre un’economia processuale, anche se attenuata, sia consentendo al giudice di verificare l’esistenza delle condizioni per l’applicazione della pena, senza alcuna ulteriore attività istruttoria, sia escludendo l’appello e, almeno tendenzialmente, anche il ricorso per cassazione. In ogni caso, le ragioni della deflazione processuale debbono recedere di fronte ai princìpi posti dagli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., perché “l’esigenza della “corrispettività” fra riduzione di pena e deflazione processuale non può prendere il sopravvento sul principio di eguaglianza né tantomeno sul diritto di difesa” (sentenza n. 237 del 2012)». Il patteggiamento – sottolinea poi la Corte – «“è una forma di definizione pattizia del contenuto della sentenza, che non richiede particolari procedure e che pertanto, proprio per tali sue caratteristiche, si presta ad essere adottata in qualsiasi fase del procedimento, compreso il dibattimento” (sentenze n. 184 del 2014 e n. 265 del 1994; ordinanza n. 486 del 2002)». 

Con riguardo al profilo dell’assunzione, da parte dell’imputato (che non abbia tempestivamente chiesto il patteggiamento), del rischio della modificazione dell’imputazione per effetto di sopravvenienze, la Corte rileva che non può ritenersi che «in seguito a una modificazione “fisiologica” dell’imputazione possa rimanere preclusa la facoltà di chiedere il patteggiamento perché l’imputato, non avendolo chiesto prima, si sarebbe assunto il rischio di tale evenienza. Infatti “non si può pretendere che l’imputato valuti la convenienza di un rito speciale tenendo conto anche dell’eventualità che, a seguito dei futuri sviluppi dell’istruzione dibattimentale, l’accusa a lui mossa subisca una trasformazione, la cui portata resta ancora del tutto imprecisata al momento della scadenza del termine utile per la formulazione della richiesta” (sentenza n. 273 del 2014)».

La Corte aggiunge che, anche in rapporto alla contestazione dibattimentale “fisiologica” del fatto diverso, «è ravvisabile la ingiustificata disparità di trattamento – rilevata sia dalla sentenza n. 237 del 2012 che dalla sentenza n. 273 del 2014, con riguardo al giudizio abbreviato – rispetto al caso del recupero, da parte dell’imputato, della facoltà di accesso al patteggiamento per circostanze puramente “occasionali” che determinino la regressione del procedimento». 

Infine, un “nuovo” profilo di disparità di trattamento, messo in luce dallo stesso rimettente e condiviso dalla pronuncia, attiene al fatto che «per effetto della pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 516 cod. proc. pen., contenuta nella sentenza n. 273 del 2014, dopo una modificazione “fisiologica” dell’imputazione è riconosciuta all’imputato la facoltà di chiedere il giudizio abbreviato ma non anche quella di chiedere il patteggiamento».

Un ulteriore e rilevante capitolo degli interventi in tema di contestazione suppletiva è rappresentato dalla sentenza n. 141 del 2018, la quale ha dichiarato, per violazione degli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cpp, nella parte in cui, in seguito alla nuova contestazione di una circostanza aggravante, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova. In tal caso la pronuncia si segnala sia per aver esteso la propria giurisprudenza in tema di contestazioni suppletive al rito di nuovo conio rappresentato dalla sospensione con messa alla prova, sia per aver definitivamente superato la distinzione emergente dalle precedenti pronunce tra contestazione suppletiva patologica e fisiologica. 

Con riguardo al merito delle questioni, la Corte richiama le sue precedenti statuizioni in tema di messa alla prova, istituto che «ha effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è connotato da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice decide con ordinanza sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova (sentenza n. 240 del 2015)», sottolineando che i termini, stabiliti dall’art. 464-bis, comma 2, cpp, entro i quali, a pena di decadenza, l’imputato può formulare la richiesta di messa alla prova, sono diversi e «articolati secondo le sequenze procedimentali dei vari riti, e la loro disciplina è “collegat[a] alle caratteristiche e alla funzione dell’istituto, che è alternativo al giudizio ed è destinato ad avere un rilevante effetto deflattivo” (sentenza n. 240 del 2015)». 

Nel caso in esame, l’imputato, al momento dell’emanazione della legge n. 67/2014, priva di normativa transitoria, non era più in termini per richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, ma la contestazione, da parte del pubblico ministero, dell’aggravante di cui all’art. 186, comma 2-bis, d.lgs n. 285/1992 ha indotto il giudice a ritenere che, in presenza della nuova situazione accusatoria, impedire all’imputato di chiedere la messa alla prova costituisse una lesione delle sue facoltà difensive e fosse in contrasto con l’art. 3 Cost. 

Il giudice rimettente – rileva la Corte – si è lamentato, più specificamente, della mancata previsione della facoltà di accesso al nuovo rito speciale della sospensione del procedimento con messa alla prova, in presenza di una contestazione suppletiva cd. “tardiva” o “patologica” di una circostanza aggravante, cioè di una contestazione basata non sulle nuove risultanze dell’istruzione dibattimentale, ma su elementi che già emergevano dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale. 

La Corte ha ricostruito il complesso dei principi enucleati nel tempo con riferimento agli altri riti alternativi, principi che non possono non valere anche per il nuovo procedimento speciale della messa alla prova.

In tale excursus, si occupa prima del nucleo di pronunce riguardanti le contestazioni dibattimentali “tardive” o “patologiche” (relative a fatti che già risultavano dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale). 

In particolare la Corte ha ricordato di aver escluso, in una prima fase, ogni possibilità di superare l’ordinario limite processuale fissato per la richiesta dei riti alternativi. Tale posizione era motivata sul fatto che «l’interesse dell’imputato a beneficiare dei vantaggi che discendono dall’instaurazione di tali riti speciali trova tutela solo in quanto la sua condotta consente l’effettiva adozione di una sequenza procedimentale che evitando il dibattimento permetta di raggiungere quell’obiettivo di rapida definizione del processo che il legislatore ha inteso perseguire attraverso l’introduzione dei riti speciali». Si era così ritenuto che «se per l’inerzia dell’imputato che ha omesso di richiedere tempestivamente il rito alternativo tale scopo non poteva più essere pienamente raggiunto, essendosi ormai pervenuti al dibattimento, sarebbe stato del tutto irrazionale procedere egualmente con il rito speciale in base alle contingenti valutazioni dell’imputato (sentenze n. 316 del 1992 e n. 593 del 1990; ordinanze n. 107 del 1993 e n. 213 del 1992)». 

Successivamente la Corte, con la sentenza n. 265 del 1994, aveva dichiarato l’illegittimità degli artt. 516 e 517 cpp nella parte in cui, nel caso di contestazioni dibattimentali tardive o patologiche, non prevedevano la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 cpp o il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso o al reato concorrente o a una circostanza aggravante. L’evoluzione era stata giustificata dal fatto che «le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito alternativo vengono a dipendere anzitutto dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero; sicché, “quando, in presenza di una evenienza patologica del procedimento, quale è quella derivante dall’errore sulla individuazione del fatto e del titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali”». In questo caso, secondo la Corte, è violato anche il principio di eguaglianza, venendo l’imputato irragionevolmente discriminato, ai fini dell’accesso ai procedimenti speciali, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari operata dal pubblico ministero. 

Alle stesse conclusioni era giunta la sentenza n. 184 del 2014, nel caso analogo, della contestazione suppletiva di una circostanza aggravante, «in quanto “anche la trasformazione dell’originaria imputazione in un’ipotesi circostanziata (o pluricircostanziata) determina un significativo mutamento del quadro processuale”, sì che l’imputato si trova in una situazione non dissimile da quella del destinatario della contestazione “tardiva” di un fatto diverso, “evenienza che in realtà potrebbe costituire per l’imputato anche un pregiudizio minore”. Sicché, una volta divenuta ammissibile la richiesta di “patteggiamento” nel caso di modificazione dell’imputazione a norma dell’art. 516 cod. proc. pen., la preclusione di essa nel caso di contestazione di una nuova circostanza aggravante, ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen., doveva considerarsi causa di ingiustificate disparità di trattamento (sentenza n. 184 del 2014)». Per le stesse ragioni, con la sentenza n. 139 del 2015, la Corte aveva «dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui, nel caso di contestazione di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato oggetto della nuova contestazione». 

La Corte analizza, poi, la successiva evoluzione giurisprudenziale sostanziatasi nelle tre sentenze più recenti, con cui era stata riconosciuta all’imputato «la facoltà di accedere ai riti alternativi del patteggiamento e del giudizio abbreviato anche in seguito a nuove contestazioni fisiologiche, collegate cioè non a elementi acquisiti nel corso delle indagini, ma alle risultanze dell’istruzione dibattimentale», per il reato concorrente e per il fatto diverso. Tali pronunce hanno riguardato infatti la facoltà dell’imputato di chiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il reato concorrente (sentenza n. 237 del 2012) o per il fatto diverso (sentenza n. 273 del 2014), o l’applicazione della pena, a norma dell’art. 444 cpp, per il fatto diverso, emersi nel corso dell’istruzione dibattimentale. 

Si era riconosciuto che, in tali ipotesi, «l’imputato che subisce la nuova contestazione “viene a trovarsi in posizione diversa e deteriore – quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena – rispetto a chi, della stessa imputazione, fosse stato chiamato a rispondere sin dall’inizio”. Infatti, “condizione primaria per l’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti” (…) (sentenza n. 237 del 2012)” (sentenze n. 273 del 2014 e n. 206 del 2017)».

La Corte aveva aggiunto che la modificazione dell’imputazione, «oltre ad alterare in modo significativo la fisionomia fattuale del tema d’accusa, può avere riflessi di rilievo sull’entità della pena irrogabile e, di conseguenza, sull’incidenza quantitativa dell’effetto premiale connesso al rito speciale». Non decisivi in senso contrario sono stati considerati gli argomenti fatti valere in passato, relativi, da un lato, alla necessaria correlazione, nei procedimenti speciali, tra premialità e deflazione processuale e, dall’altro, all’assunzione, da parte dell’imputato (che non abbia tempestivamente chiesto il rito alternativo), del rischio della modificazione dell’imputazione per effetto di sopravvenienze, in quanto «l’accesso al rito alternativo dopo l’inizio del dibattimento rimane comunque idoneo a produrre un’economia processuale, anche se attenuata, e (…) in ogni caso le ragioni della deflazione processuale debbono recedere di fronte ai princìpi posti dagli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., perché “l’esigenza della ‘corrispettività’ fra riduzione di pena e deflazione processuale non può prendere il sopravvento sul principio di eguaglianza né tantomeno sul diritto di difesa” (sentenza n. 237 del 2012)». 

La Corte osserva che nel quadro complessivo dei principi sopraindicati, nel caso di contestazione suppletiva di una circostanza aggravante, non prevedere nell’art. 517 cpp la facoltà per l’imputato di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova si risolve, come è stato ritenuto per il patteggiamento e per il giudizio abbreviato, in una violazione degli artt. 3 e 24 Cost. Infatti, la richiesta dei riti alternativi costituisce «una modalità, tra le più qualificanti, di esercizio del diritto di difesa», e «si determinerebbe una situazione in contrasto con il principio posto dall’art. 3 Cost. se nella medesima situazione processuale fosse regolata diversamente la facoltà di chiederli».

Il punto nodale della pronuncia attiene proprio all’ultima parte della pronuncia, nella quale si supera una volta per tutte la distinzione tra contestazione suppletiva patologica e fisiologica. In essa si afferma che non rileva che la circostanza, dedotta dall’Avvocatura dello Stato, che, nel momento processuale in cui nel procedimento a quo avrebbe dovuto essere presentata la richiesta, la legge n. 67/2014 non era ancora stata emanata. Infatti, secondo la Corte, per valutare l’ammissibilità della richiesta «non è a quel momento che occorre fare riferimento, ma al momento in cui è avvenuta la contestazione suppletiva, dato che, come si è visto, il riconoscimento della facoltà di chiedere il rito speciale non deve più ritenersi condizionato dalla “tardività” della contestazione». 

Se, infatti, in base alla più recente giurisprudenza, «la facoltà di chiedere un rito speciale deve riconoscersi all’imputato anche quando la contestazione suppletiva è determinata, come del resto dovrebbe normalmente avvenire, da una sopravvenienza dibattimentale, allora è nella sopravvenienza, e soprattutto nella correlativa contestazione suppletiva, che trova fondamento la facoltà di chiedere un rito speciale. Il dato rilevante insomma è la sopravvenienza di una contestazione suppletiva, quali che siano gli elementi che l’hanno giustificata, esistenti fin dalle indagini o acquisiti nel corso del dibattimento, ed è ad essa che deve ricollegarsi la facoltà dell’imputato di chiedere un rito alternativo, indipendentemente dalla ragione per cui la richiesta in precedenza è mancata». 

La Corte sottolinea che è nel diritto di difesa che la “nuova” facoltà trova il suo fondamento, perché, se «la richiesta dei riti alternativi costituisce una modalità, tra le più qualificanti, di esercizio di tale diritto, occorre allora che la relativa facoltà sia collegata anche all’imputazione che, per effetto della contestazione suppletiva, deve effettivamente formare oggetto del giudizio». 

L’opera di profonda ricostruzione della disciplina delle nuove contestazioni allo scopo di assicurare una piena tutela del diritto di difesa dopo l’aggiornamento dibattimentale dell’accusa si è arricchita di un nuovo intervento additivo con la sentenza n. 82/2019.

Essa ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cpp, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena, a norma dell’art. 444 cpp, relativamente al reato concorrente emerso nel corso del dibattimento e che forma oggetto di nuova contestazione. 

La Corte è giunta a tale decisione dopo aver ripercorso le tappe che hanno caratterizzato la tematica dei rapporti tra le nuove contestazioni dibattimentali e il “recupero”, da parte dell’imputato, della facoltà di formulare in quella sede richiesta di applicazione di riti alternativi, temporalmente precluse dal raggiungimento dello stadio processuale del dibattimento. 

La Corte sottolinea che un punto sostanziale e quasi definitivo di “approdo” della giurisprudenza costituzionale è stato da ultimo raggiunto con la sentenza n. 141 del 2018, «con la quale – operandosi un tendenziale superamento della distinzione tra nuove contestazioni “fisiologiche” o “patologiche” – è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui, in seguito alla nuova contestazione di una circostanza aggravante, non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova».

La Corte richiama alcuni punti rilevanti di tale pronuncia. Essa ha, da un lato, ribadito che «la richiesta dei riti alternativi “costituisce una modalità, tra le più qualificanti (…), di esercizio del diritto di difesa”», determinandosi «una situazione in contrasto con il principio posto dall’art. 3 Cost. se nella medesima situazione processuale fosse regolata diversamente la facoltà di chiederli», e dall’altro, che il dato rilevante «è la sopravvenienza di una contestazione suppletiva, quali che siano gli elementi che l’hanno giustificata, esistenti fin dalle indagini o acquisiti nel corso del dibattimento, ed è ad essa che deve ricollegarsi la facoltà dell’imputato di chiedere un rito alternativo, indipendentemente dalla ragione per cui la richiesta in precedenza è mancata». 

La Corte osserva pertanto che se, dunque, «la possibilità di richiedere i riti alternativi si salda a fil doppio al diritto di difesa – in particolare, al diritto di scegliere il modello processuale più congeniale all’esercizio di quel diritto – e se è la regiudicanda, nelle sue dimensioni “cristallizzate”, a costituire la base su cui operare tali scelte, non può che desumersi la incoerenza con quel diritto di qualsiasi preclusione che ne limiti l’esercizio concreto, tutte le volte in cui il sistema ammetta una mutatio libelli in sede dibattimentale. Ciò, tanto più nelle ipotesi – come quella che ricorre nel caso di specie – in cui sono addirittura nuove regiudicande ad aggiungersi a quelle precedentemente contestate, sia pure attraverso il collegamento offerto dalla connessione, di cui all’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen.». 

La Corte aggiunge che, avendo già ritenuto, con la sentenza n. 184 del 2014, costituzionalmente illegittimo l’art. 517 cpp, nella parte in cui non prevedeva la facoltà per l’imputato di chiedere il patteggiamento in ipotesi di contestazione patologica di una circostanza aggravante, è chiaro che la identica ratio decidendi fa ritenere che la medesima facoltà debba essere riconosciuta anche in rapporto a una contestazione fisiologica di un reato connesso. 

Allo stesso modo, si ritiene condivisibile il rilievo del giudice a quo, che evoca la irrazionalità della censurata preclusione che ancora residua nel sistema, a fronte della sentenza additiva n. 237 del 2012, con la quale, nel caso di contestazione fisiologica del reato connesso, si è consentito all’imputato di richiedere il giudizio abbreviato: «rito, quest’ultimo, il cui “innesto” in sede dibattimentale, risulta ben più problematico del patteggiamento, tant’è che questa Corte – come si è accennato – si era inizialmente orientata (con la sentenza n. 265 del 1994) per la inammissibilità della questione». 

Infine, la Corte pone in evidenza che l’accoglimento della questione risulta, per certi aspetti ormai dovuto alla luce della sentenza n. 206 del 2017, dal momento che, «con tale pronuncia è stata estesa la facoltà di proporre richiesta di patteggiamento relativamente al fatto diverso emerso nel corso della istruzione dibattimentale, e, dunque, oggetto di nuova contestazione ugualmente “fisiologica”. Fatto diverso e reato connesso, entrambi emersi per la prima volta in dibattimento, integrano, infatti, evenienze processuali che, sul versante dell’accesso ai riti alternativi, non possono non rappresentare situazioni fra loro del tutto analoghe». 

Un ulteriore tassello nell’ambito delle contestazioni suppletive è rappresentato dalla sentenza n. 14 del 2020, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 cpp nella parte in cui, in seguito alla modifica dell’originaria imputazione, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova. 

La Corte, sinteticamente, richiama l’evoluzione giurisprudenziale in materia, evidenziando che in una prima fase «le dichiarazioni di illegittimità costituzionale erano state spesso circoscritte all’ipotesi in cui la diversa o nuova contestazione concernesse un fatto già risultante dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale (così le sentenze n. 184 del 2014, n. 333 del 2009 e n. 265 del 1994). Questo criterio limitativo è stato però progressivamente abbandonato dalle pronunce più recenti (sentenze n. 82 del 2019, n. 141 del 2018, n. 206 del 2017, n. 273 del 2014 e n. 237 del 2012), nelle quali si è in sostanza sottolineato che, in ogni ipotesi di nuove contestazioni – indipendentemente dalla circostanza per cui ciò sia o meno addebitabile alla negligenza del pubblico ministero nella formulazione dell’originaria imputazione –, all’imputato deve essere restituita la possibilità di esercitare le proprie scelte difensive, comprensive della decisione di chiedere un rito alternativo». 

Tale generale principio è stato applicato dalla più volte menzionata sentenza n. 141 del 2018 all’ipotesi di contestazione di nuove circostanze aggravanti nel corso dell’istruttoria dibattimentale di cui all’art. 517 cpp, in relazione all’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova; istituto che, ha osservato questa Corte, «ha effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è connotato da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio» (sentenza n. 240 del 2015, nonché, nello stesso senso, sentenze nn. 68 del 2019 e 91 del 2018). 

La Corte conclude nel senso dell’estensione di tale principio anche all’ipotesi – strutturalmente identica – prevista dall’art. 516 cpp, censurato nell’occasione. 

 

2.5. Diversa qualificazione del fatto e accesso alla messa alla prova 

Connessa alla tematica delle contestazioni suppletive è quella della diversa qualificazione del fatto, che viene in rilievo sempre con riguardo alla preclusione della richiesta di riti alternativi. 

Al riguardo, la sentenza n. 131/2019, costituente una pronuncia interpretativa di rigetto, ha dichiarato non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-bis, comma 2, e 521, comma 1, cpp, impugnati, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., nella parte in cui non prevedono la possibilità di disporre la sospensione del procedimento con messa alla prova ove, in esito al giudizio, il fatto di reato venga, su sollecitazione dell’imputato, diversamente qualificato dal giudice. 

Il rimettente muoveva, infatti, dal presupposto interpretativo che il combinato disposto delle disposizioni censurate precluderebbe al giudice di ammettere l’imputato alla sospensione del processo con messa alla prova, anche nell’ipotesi in cui questi ne abbia formulato richiesta entro i termini di cui all’art. 464-bis cpp, ma tale richiesta sia stata respinta in ragione dell’incompatibilità del beneficio con i limiti di pena previsti dalla norma incriminatrice ai sensi della quale il pubblico ministero aveva qualificato il fatto contestatogli, incompatibilità – peraltro – successivamente venuta meno in seguito alla diversa qualificazione del fatto compiuta dal giudice ai sensi dell’art. 521, comma 1, cpp, in esito al giudizio abbreviato. 

La Corte ritiene che tale interpretazione, tuttavia, non sia l’unica possibile, ricordando che «in caso di richiesta di sospensione del processo con messa alla prova presentata dall’imputato entro i termini previsti dall’art. 464-bis cod. proc. pen., il giudice è tenuto a verificare la correttezza della qualificazione giuridica attribuita al fatto dall’accusa ed eventualmente a modificarla, ove non la ritenga corretta, traendone le conseguenze sul piano della ricorrenza del beneficio in parola (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenze 8 maggio-31 luglio 2018, n. 36752 e 20 ottobre 2015-3 febbraio 2016, n. 4527)». 

Nella pronuncia viene riportato il dibattito giurisprudenziale sviluppatosi sull’argomento richiamando l’orientamento della Corte di cassazione, in base al quale «la celebrazione del giudizio di primo grado nelle forme del rito abbreviato non preclud[e] all’imputato la possibilità di dedurre, in sede di appello, il carattere ingiustificato del diniego, da parte del giudice di primo grado, della richiesta di sospensione con messa alla prova (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 18 settembre-8 ottobre 2018, n. 44888; sezione terza penale, sentenza 15 febbraio-2 luglio 2018, n. 29622)». Pur dando atto dell’esistenza di altre pronunce della Corte di cassazione favorevoli, invece, alla «sussistenza di una tale preclusione, essenzialmente sulla base dell’argomento dell’alternatività tra il beneficio in parola e il rito abbreviato», la Corte rileva che a tale argomento è stato, tuttavia, plausibilmente replicato che «la domanda di giudizio abbreviato conseguente al rigetto della richiesta, formulata in via principale, di ammissione alla sospensione del processo con messa alla prova previa riqualificazione del fatto contestato deve necessariamente intendersi come presentata con riserva; e più in particolare con riserva di gravame, in sede di appello, contro il provvedimento di diniego del beneficio già richiesto in via principale, che non può pertanto intendersi come implicitamente rinunciato all’atto della richiesta del rito abbreviato (in questo senso, le sopra citate Cass., n. 44888 e n. 29622 del 2018)».

Alla luce di tale soluzione, conclude la Corte che se «il giudice di appello investito dell’impugnazione contro una sentenza di condanna resa in sede di giudizio abbreviato può ammettere l’imputato alla sospensione del processo con messa alla prova, allorché ritenga ingiustificato il diniego opposto dal giudice di primo grado a tale richiesta, a fortiori una tale possibilità dovrà essere riconosciuta allo stesso giudice di primo grado, allorché – in esito al giudizio – riscontri che il proprio precedente diniego era ingiustificato, sulla base della riqualificazione giuridica del fatto contestato cui lo abilita l’art. 521, comma 1, cod. proc. pen., quando l’imputato abbia dal canto suo richiesto il beneficio entro i termini indicati dall’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen.». Tale soluzione, d’altronde, risponde a ovvie ragioni di economia processuale. 

La Corte, dopo aver sottolineato che lo speciale procedimento di sospensione del processo con messa alla prova costituisce un vero e proprio rito alternativo e che «la richiesta di riti alternativi “costituisce una modalità, tra le più qualificanti, di esercizio del diritto di difesa”», ha richiamato la sua giurisprudenza con cui «ha più volte dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni del codice di rito nella parte in cui non consentivano all’imputato di essere rimesso in termini al fine di esercitare la propria eventuale opzione per un rito alternativo allorché, in esito al giudizio celebrato con rito ordinario, gli venisse contestato un fatto nuovo o un reato concorrente che risultava già dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, e che pertanto il pubblico ministero ben avrebbe potuto contestargli già in quel momento, sì da porlo in condizione di esercitare il proprio diritto di difesa in merito alla scelta del rito (in particolare, sentenza n. 265 del 1994, in relazione al patteggiamento, e sentenza n. 333 del 2009, in relazione al rito abbreviato)». 

La Corte, pertanto, ritiene che una situazione a ben vedere «non dissimile è quella che ricorre nel caso di specie, in cui – sulla base dell’interpretazione delle disposizioni censurate fatta propria dal rimettente – l’imputato si vedrebbe negata la possibilità di esercitare il proprio diritto di difesa, sotto lo specifico profilo della scelta di un rito alternativo e dei connessi benefici in termini sanzionatori, in conseguenza dell’erroneo apprezzamento da parte del pubblico ministero – al momento della formulazione dell’imputazione – circa la qualificazione giuridica del fatto contestatogli, laddove tale erronea qualificazione, pur immediatamente contestata dalla difesa, sia stata rilevata dal giudice soltanto in esito al giudizio». 

Un tale pregiudizio al diritto di difesa – che si risolverebbe in un evidente vulnus dell’art. 24, secondo comma, Cost., oltre che dello stesso principio di eguaglianza – «non è però univocamente imposto dalle disposizioni censurate dal rimettente, che ben si prestano a essere interpretate in modo da evitare quel risultato; sì da consentire, in particolare, al giudice di ammettere l’imputato al rito alternativo che egli aveva a suo tempo richiesto entro i termini di legge, e di garantirgli in tal modo i benefici sanzionatori connessi a tale rito, assicurando che l’errore compiuto dalla pubblica accusa non si risolva in un irreparabile pregiudizio a suo danno. E ciò indipendentemente dalla possibilità di conseguire o meno, nel caso concreto, un effetto deflattivo sul carico della giustizia penale, a cui tra l’altro mirano i procedimenti speciali in parola». 

Conclusivamente, il giudice a quo ben avrebbe potuto «non solo concedere il beneficio della sospensione del processo con messa alla prova direttamente in sede di udienza preliminare, previa riqualificazione del fatto contestato dal pubblico ministero sulla base degli elementi probatori disponibili; ma avrebbe altresì potuto, una volta avvedutosi – in esito al giudizio abbreviato – dell’erronea qualificazione giuridica dei fatti contestati all’imputato, revocare il proprio precedente provvedimento di diniego della sospensione del processo con messa alla prova, e ammettere conseguentemente al beneficio l’imputato, che ne aveva fatto rituale richiesta entro i termini di cui all’art. 464-bis cod. proc. pen., senza necessità di sollecitare il presente incidente di costituzionalità». 

Ricca di spunti appare la pronuncia n. 192 del 2020 sulla questione sollevata dal Tribunale di Teramo, in composizione monocratica, che dubita della legittimità costituzionale dell’art. 141, comma 4-bis, d.lgs 28 luglio 1989, n. 271 («Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale»), in relazione all’art. 162-bis del codice penale, «nella parte in cui non prevede che l’imputato è rimesso in termini per proporre domanda di oblazione qualora nel corso del dibattimento, su iniziativa del giudice e in mancanza di una modifica formale dell’imputazione da parte del pubblico ministero, emerga la prospettiva concreta di una definizione giuridica del fatto diversa da quella contestata nell’originaria imputazione e per la quale l’oblazione non era ammissibile». La Corte ha dichiarato non fondata tale questione in riferimento all’art. 24, secondo comma, Cost.

Anche in tal caso la Corte evidenzia come il vigente codice di procedura penale regoli in modo nettamente differenziato le modifiche dibattimentali in facto dell’imputazione (contestazione del fatto diverso, del reato concorrente o di una circostanza aggravante, del fatto nuovo: artt. 516, 517 e 518 cpp) e le modifiche in iure (diversa qualificazione giuridica del fatto: art. 521, comma 1, cpp), soffermandosi sulla disciplina riguardante le seconde, anche alla stregua delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo. 

La Corte, dopo aver ricordato di essersi già occupata del problema del recupero della facoltà di accesso ai riti alternativi a fronte di una diversa qualificazione giuridica del fatto, operata ex officio dal giudice, con la sentenza n. 131 del 2019 concernente l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, sottolinea che il caso esaminato nell’occasione presentava, tuttavia, una particolarità, in quanto pur a fronte della contestazione di un reato che non lo consentiva, l’imputato aveva, infatti, richiesto tempestivamente la messa alla prova, andando incontro a un diniego: diniego che la successiva riqualificazione del fatto in altra ipotesi di reato aveva reso ingiustificato. La questione è stata quindi risolta con una sentenza interpretativa di rigetto. La Consulta rileva che il caso al suo esame è diverso, in quanto l’imputato non ha, infatti, richiesto l’oblazione entro il termine stabilito, ma solo dopo che, a istruzione dibattimentale conclusa, la prospettiva della riqualificazione giuridica del fatto gli era stata rappresentata dal giudice rimettente (secondo cui il fatto oggetto di giudizio, qualificato nell’imputazione come delitto di atti persecutori, reato non oblabile, doveva essere ricondotto piuttosto alla fattispecie contravvenzionale delle molestie, reato suscettibile di oblazione cosiddetta discrezionale, ai sensi dell’art. 162-bis cp). 

Secondo la pronuncia in questione, la previsione di cui al censurato art. 141, comma 4-bis, norme att. cpp ha lasciato, in effetti, aperto il problema – postosi già nel vigore del precedente codice di rito – di stabilire se, e a quali condizioni, l’imputato possa essere ammesso all’oblazione nel caso di diversa qualificazione giuridica del fatto che implichi il passaggio da un reato non oblabile ad altro oblabile. A questo punto, la Corte costituzionale richiama la giurisprudenza delle sezioni unite della Cassazione, affermando che il meccanismo della rimessione in termini non può trovare applicazione a fronte di una riqualificazione giuridica del fatto disposta dal giudice, a meno che l’imputato si sia premurato di far rilevare preventivamente l’errore di diritto con contestuale proposizione di domanda di oblazione (Cass., sez. unite penali, sentenza 28 febbraio 2006-2 marzo 2006, n. 7645, ribadita da Cass., sez. unite penali, sentenza 26 giugno 2014-22 luglio 2014, n. 32351). In base a quello che la Consulta considera diritto vivente, ove «la qualificazione del fatto integri un reato la cui pena edittale non consenta il procedimento per oblazione, è onere dell’imputato sindacare la correttezza della qualificazione stessa, investendo il giudice di una richiesta specifica con la quale formuli istanza di oblazione in riferimento alla qualificazione giuridica del fatto che ritenga corretta: in modo tale da permettere, all’esito del necessario contraddittorio, una decisione altrettanto specifica sul punto, con gli evidenti, naturali riverberi in sede di impugnazione. Solo in presenza di una effettiva domanda di oblazione è infatti possibile soddisfare l’esigenza del contraddittorio e del rispetto delle regole sancite dal procedimento scandito dall’art. 141 disp. att. c.p.p., con la conseguenza di permettere al pubblico ministero di interloquire e, al tempo stesso, investire formalmente il giudice della questione». Soluzione analoga è stata adottata anche in rapporto all’ammissione alla sospensione del procedimento con messa alla prova a seguito di diversa definizione giuridica del fatto (tra le altre, Cass., sez. III penale, 5 dicembre 2019-5 marzo 2020, n. 8982; sez. IV penale, sentenza 8 maggio 2018-31 luglio 2018, n. 36752), così come in precedenza era avvenuto con riguardo al patteggiamento (Cass., sez. V penale, sentenza 12 marzo 2010-12 aprile 2010, n. 13597).

In sostanza, il giudice a quo ha chiesto alla Consulta di verificare se la disposizione censurata, nella lettura offertane dalle sezioni unite, possa ritenersi realmente compatibile con la garanzia costituzionale dell’inviolabilità del diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), quale declinata dalla sua ricordata giurisprudenza relativa al tema specifico del ripristino della facoltà di accesso ai riti alternativi in presenza di modifiche dibattimentali dell’imputazione. 

La Corte rileva che le soluzioni da essa adottate in punto di accessibilità dei riti alternativi a fronte di modifiche fattuali dell’imputazione, non siano estensibili sic et simpliciter alle modifiche giuridiche, che nel codice hanno una distinta disciplina, di riflesso alla disomogeneità dei due fenomeni. Disomogeneità già posta in evidenza proprio in relazione al problema della tutela del diritto al contraddittorio – con la ricordata sentenza n. 103 del 2010. Non è ritenuto censurabile da un punto di vista costituzionale l’orientamento nomofilattico delle sezioni unite della Corte di cassazione, circa la configurabilità di un onere dell’imputato, il quale si sia visto contestare in forma chiara e precisa il fatto addebitatogli, con l’indicazione degli articoli di legge che si assumono violati, secondo quanto prescritto dall’art. 429, comma 1, lett. c, cpp, di esercitare prontamente e tempestivamente il suo diritto di difesa riguardo all’inquadramento giuridico della vicenda.

Una cosa infatti è, secondo la Corte, il mutamento del dato storico su cui si basa l’accusa, legato alle risultanze probatorie: mutamento che l’imputato non sarebbe tenuto ad “antivedere”, per adeguare ad esso le proprie strategie in punto di opzione per un rito speciale; donde l’abbandono, da parte di questa Corte, del vecchio orientamento basato sulla prevedibilità di variazioni dell’imputazione nel corso del dibattimento e sulla conseguente accettazione del relativo “rischio” da parte dell’imputato che non abbia richiesto per tempo quel rito. Altra cosa, invece, è la sussunzione del dato storico sub specie iuris, ossia il suo inquadramento sotto l’uno o l’altro titolo di reato: tema sul quale l’imputato potrebbe invece interloquire subito, nell’esercizio del suo diritto di difesa, particolarmente in rapporto ai riflessi sull’accessibilità al meccanismo oblativo, dolendosi, in specie, di una qualificazione scorretta. La Corte costituzionale, condividendo quanto affermato dalle sezioni unite della Cassazione, ritiene che la regola contestata è volta a evitare che, a fronte della scorretta qualificazione, l’imputato “lucri” uno slittamento in avanti del termine per oblare che erode, senza adeguata giustificazione, gli effetti deflattivi del meccanismo, permettendogli di “regolarsi” secondo gli esiti, a lui più o meno favorevoli, dell’istruttoria dibattimentale. 

La Corte aggiunge che, mentre la Corte di Strasburgo non risulta essersi ancora specificamente espressa sul diritto dell’imputato al recupero dei riti alternativi a fronte di modifiche delle componenti giuridiche dell’accusa, la Corte di giustizia dell’Unione europea lo ha fatto invece di recente con la sentenza Moro, C-646/17, 13 giugno 2019. La Corte di Lussemburgo, infatti, ha rilevato che tanto la direttiva 2012/13/UE (in modo specifico, il suo art. 6, par. 4), quanto l’art. 48, par. 2, Cdfue (secondo cui il diritto di difesa è garantito a ogni imputato) esigono – anche alla luce della giurisprudenza della Corte Edu – che, nel caso di modifica della qualificazione dei fatti che sono oggetto dell’accusa, l’imputato ne sia informato in un momento in cui dispone ancora dell’opportunità di reagire in modo effettivo, affinché egli sia posto in grado di predisporre in modo efficace la propria difesa. Né dalla direttiva, né dalla disposizione della Carta può, per converso, ricavarsi l’obbligo, per il legislatore nazionale, di prevedere nella suddetta evenienza una rimessione in termini dell’imputato per accedere a riti alternativi a carattere “premiale” (quale, nella specie, l’applicazione della pena su richiesta). E nemmeno può desumersi, dalle garanzie assicurate a livello sovranazionale, la necessità di equiparare, a livello nazionale, i diritti riconosciuti all’imputato, in punto di fruibilità dei riti alternativi, nel caso di modifiche dei fatti oggetto dell’imputazione e di modifiche della loro qualificazione giuridica.

Quali ricadute delle pronunce nn. 132 del 2019[9] e 192 del 2020, va rilevato che entrambe non assumono un valore vincolante per l’interprete, anche se dovrebbero in concreto indirizzare verso un’interpretazione costituzionalmente orientata i giudici a quo. In particolare, con la sentenza n. 192 del 2020 si è affermato che non può estendersi sic et simpliciter quanto affermato dalla Corte in tema di modifiche in facto dell’imputazione. In realtà, proprio attraverso le due pronunce citate, si può ritenere che si rafforzerà l’idea già presente nella giurisprudenza di legittimità, per cui nel caso in cui l’indagato/imputato abbia tempestivamente richiesto di fruire di un rito alternativo, contestando la qualificazione giuridica del fatto operata dal pubblico ministero, quando il giudice segnali che, alla stregua dell’istruttoria dibattimentale, il fatto può ricevere una qualificazione che invece consente il rito inizialmente escluso, sarà possibile addivenire al citato rito alternativo. La pronuncia n. 192 del 2020 appare, invece, porre un freno a una tale possibilità nel caso di richiesta non preventiva e tempestiva. 

 

3. Il principio del contraddittorio nella formazione della prova

Il principio del contraddittorio nella formazione della prova costituisce l’oggetto di alcune pronunce della Corte costituzionale nel periodo in esame. In particolare la Corte ha affrontato la questione dell’estensione delle garanzie difensive previste per gli accertamenti tecnici, disciplinati dall’art. 360 cpp, anche alle attività di individuazione e prelievo di reperti utili per la ricerca del DNA costituisce l’oggetto di due pronunce della Corte. 

La Corte d’assise d’appello di Roma, in un caso di omicidio e rapina commesso nell’aprile del 2010 ai danni di un’anziana donna all’interno della sua abitazione, aveva ritenuto che l’attività di repertamento delle tracce biologiche rinvenute nell’abitazione della vittima diversi giorni dopo il delitto – quando già il sospettato era stato (rectius: avrebbe dovuto essere) iscritto nel registro degli indagati – avrebbe dovuto essere accompagnata dalle garanzie di cui all’art. 360 cpp.

Il giudice a quo aveva sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 360 cpp, «ove non prevede che le garanzie difensive approntate da detta norma riguardano le attività di individuazione e prelievo dei reperti utili per la ricerca del DNA». Con l’ordinanza n. 118/2016, la Corte ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione per la lacunosità della descrizione della fattispecie e, correlativamente, dell’indicazione delle ragioni della rilevanza della questione oltre che per la mancata precisazione di quali garanzie difensive, previste dall’art. 360 cpp, avrebbero dovuto essere estese all’acquisizione del materiale biologico.

Successivamente, il medesimo giudice a quo, con nuova ordinanza, “sanando” le precedenti ragioni di inammissibilità, ha sollevato le stesse questioni. 

Con la sentenza n. 239/2017, la Corte, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., dell’art. 360 cpp, laddove non prevede che le garanzie difensive previste da detta norma per gli accertamenti tecnici riguardano anche le attività di individuazione e prelievo di reperti utili per la ricerca del DNA. 

La Corte ricorda l’orientamento costante della Corte di cassazione che «distingue il “rilievo”, che comprende la raccolta o il prelievo dei dati pertinenti al reato, dall’“accertamento tecnico”, che riguarda, invece, il loro studio e la loro valutazione critica». Sulla base di tale distinzione, la Corte ha ritenuto priva di fondamento, almeno nella sua assolutezza, la tesi del giudice rimettente secondo cui il prelievo di tracce biologiche, per sua natura, avrebbe caratteristiche tali da farlo assimilare in ogni caso a un accertamento tecnico preventivo e da richiedere quindi le medesime garanzie difensive. 

Secondo la Corte, infatti, il «solo fatto che concerna rilievi o prelevamenti di reperti “utili per la ricerca del DNA” non modifica la natura dell’atto di indagine e non ne giustifica di per sé la sottoposizione a un regime complesso come quello previsto dall’art. 360 cod. proc. pen., costituito dalla nomina di un consulente, dall’avviso all’indagato, alla persona offesa e ai difensori del giorno, dell’ora e del luogo fissati per il conferimento dell’incarico, dalla possibilità per l’indagato di promuovere un incidente probatorio, con il divieto per il pubblico ministero di procedere agli accertamenti (e, secondo la richiesta estensione della norma, anche ai rilievi e ai prelevamenti in questione) “salvo che questi, se differiti, non possano più essere utilmente compiuti”». Si aggiunge che, ad esempio, «il prelievo di capelli o di peli rinvenuti in posti sotto l’aspetto probatorio significativi non si differenzia dal prelevamento di altri reperti e non ci sarebbe ragione di effettuarlo con le forme previste dall’art. 360 cod. proc. pen.», come invece auspicato dal rimettente. Questa considerazione – per la Corte – «basterebbe da sola a far ritenere infondate le questioni».

Si rileva, quindi, nella pronuncia che al prelievo di tracce biologiche non si possono «di regola riconoscere caratteristiche tali da differenziarlo da qualunque altra operazione di repertazione», mentre l’esistenza cui ha fatto riferimento il giudice rimettente – «di protocolli per la ricerca e il prelievo di tracce di materiale biologico può, da un lato, rendere routinaria l’operazione e, dall’altro, consentirne il controllo attraverso l’esame critico della prescritta documentazione», considerato oltretutto che nel dibattimento l’imputato ha «la possibilità di verificare e contestare la correttezza dell’operazione anche attraverso l’esame del personale che l’ha eseguita, oltre che dei consulenti tecnici e dell’eventuale perito nominato dal giudice».

La Corte ha aggiunto che le forme dell’art. 360 cpp «potrebbero assai spesso risultare incompatibili con l’urgenza, nel corso delle indagini, di eseguire il prelievo. Urgenza che non è riscontrabile con la stessa intensità negli accertamenti tecnici e che in nessun modo potrebbe essere soddisfatta, perché non sono previste ipotesi in cui tali forme possono essere derogate, come avviene nei casi disciplinati dall’art. 364, comma 5, cod. proc. pen., specie quando vi è fondato motivo di ritenere che le tracce o gli altri effetti materiali del reato possano essere alterati». 

La tesi sostenuta dal difensore dell’imputato, secondo cui la necessità di procedere nelle forme dell’art. 360 cpp emergerebbe anche dall’art. 117 delle norme di attuazione del codice di procedura penale, è ritenuta infondata perché «questa disposizione riguarda gli “[a]ccertamenti tecnici che modificano lo stato dei luoghi, delle cose o delle persone”, e non l’attività di repertazione delle cose da sottoporre ad accertamento tecnico. In altre parole, la disposizione richiamata non riguarda genericamente tanto i rilievi quanto gli accertamenti tecnici, ma riguarda solo questi, e per la sua applicabilità presuppone perciò l’avvenuta individuazione della natura dell’atto». 

La Corte, tuttavia, non ha escluso che il prelievo di tracce biologiche, così come altre operazioni di repertazione, «richieda, in casi particolari, valutazioni e scelte circa il procedimento da adottare, oltre che non comuni competenze e abilità tecniche per eseguirlo, e in questo caso, ma solo in questo, può ritenersi che quell’atto di indagine costituisca a sua volta oggetto di un accertamento tecnico, prodromico rispetto all’altro da eseguire poi sul reperto prelevato». Infatti, come ha rilevato la Corte di cassazione, possono verificarsi «situazioni in cui per la repertazione del campione biologico necessario agli accertamenti peritali si debba ricorrere a tecniche particolari e “[in] tal caso anche l’attività di prelievo assurge alla dignità di operazione tecnica non eseguibile senza il ricorso a competenze specialistiche e dovrà essere compiuta nel rispetto dello statuto che il codice prevede per la acquisizione della prova scientifica” (Corte di cassazione, sezione seconda, 27 novembre 2014, n. 2476/2015)».

Il parametro del contraddittorio nella formazione della prova viene in rilievo, insieme ad altri, anche nella sentenza n. 124 del 2019, che ha dichiarato infondate tutte le censure. Trattandosi di un parametro residuale nell’economia del citato provvedimento, se ne darà conto nella parte della rassegna riguardante la ragionevole durata del processo.

 

4. La ragionevole durata del processo

In tema di ragionevole durata del processo si annoverano varie pronunce in cui tale parametro ha assunto un peso preponderante. 

Il tema ha assunto rilievo centrale, nel periodo di riferimento, anzitutto riguardo a una materia che la Corte aveva affrontato già più volte, cioè quella della (eventuale) riassunzione delle prove dibattimentali in caso di mutamento della persona fisica del giudice.

Il comma 2 dell’art. 525 cpp, esprimendo una regola di continuità che trova fondamento nel principio di immediatezza e oralità, stabilisce che la sentenza debba essere deliberata, a pena di nullità assoluta, dagli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento. Ciò comporta che, una volta mutata in tutto o in parte la composizione dell’organo giudicante, è necessario celebrare nuovamente la fase istruttoria del giudizio.

Naturalmente, la “nuova” istruttoria può comprendere, come la prima, le «letture consentite», le quali riguardano gli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento, e dunque, tra l’altro, i verbali delle prove assunte nella precedente fase dibattimentale. Tuttavia, per le prove dichiarative, il principio va coordinato con la regola posta dal comma 2 dell’art. 511 cpp, il quale, a presidio appunto dell’oralità, dispone che la «lettura dei verbali di dichiarazioni è disposta solo dopo l’esame della persona che le ha rese, a meno che l’esame non abbia luogo». Ciò vuol dire che se l’esame è richiesto, e può avere luogo, la lettura resta “bloccata”, cioè posticipata fino al momento in cui la prova dichiarativa sarà stata nuovamente assunta. In altre parole, e come talvolta si osserva con una certa approssimazione tecnica, la diretta utilizzazione delle prove antecedenti al mutamento di composizione dell’organo giudicante è subordinata a un “consenso” delle parti.

Il fatto che la volontà di una parte sia sufficiente a imporre la ripetizione dell’esame ha generato ripetute questioni di legittimità, per l’asserito contrasto della disciplina con minime esigenze di economia del processo e di conservazione della prova, ma la Corte ha sempre obiettato che il sacrificio è giustificato dall’esigenza di garantire oralità al dibattimento (si veda, ad esempio, l’ordinanza n. 318 del 2008).

L’ordinanza n. 205 del 2010 ha ripreso tali argomenti, sostenendo che la necessaria rinnovazione del dibattimento (sempre che davvero si renda necessaria) costituisce una garanzia del «giusto processo», secondo le prescrizioni dell’art. 111 Cost. e anche dell’art. 6, par. 3, lett. d, Cedu. Tale ultima norma non si limita ad assicurare il contraddittorio nell’assunzione della prova, ma prevede che il confronto avvenga innanzi al giudice chiamato alla decisione, affinché quest’ultimo si formi, a proposito della credibilità dei testimoni, un’opinione fondata sull’osservazione diretta del loro comportamento. Da questa esigenza la Corte di Strasburgo ha dedotto che ogni mutamento di composizione dell’organo giudicante deve comportare, di norma, una nuova audizione del testimone le cui dichiarazioni possano apparire determinanti per l’esito del processo (ex multis, sent. 27 settembre 2007, Reiner c. Romania).

Il tentativo, a opera del rimettente, di giustificare la rimozione del divieto di lettura in base al principio di ragionevole durata è stato considerato inidoneo. In realtà, come la Corte ha osservato più d’una volta, i diritti dell’uomo reclamano un processo di durata ragionevole, e non di durata breve: il giudizio deve essere articolato nella misura necessaria ad assicurare la garanzia dei diritti fondamentali di tutte le parti.

In altra prospettiva il rimettente, evocando l’art. 3 Cost., aveva lamentato che l’obbligo di ripetizione (condizionato dalla richiesta di parte) discriminerebbe la situazione da altre similari, e in particolare da quella cui si riferisce l’art. 238 cpp, che ammetterebbe l’acquisizione dei verbali di prova di altri procedimenti fuori da ogni dinamica consensuale. La Corte ha chiarito trattarsi di un equivoco, poiché la norma evocata in comparazione non consente affatto di utilizzare direttamente i verbali di prove assunte in procedimenti diversi, quando si tratti di prove dichiarative. Il comma 5 dell’art. 238 fa espressamente salvo, infatti, il diritto delle parti di ottenere l’esame delle persone le cui dichiarazioni sono state acquisite, mentre l’art. 511-bis cpp, nel prevedere che il giudice dia lettura dei verbali degli atti indicati dall’art. 238, richiama il comma 2 dell’art. 511, il quale a sua volta prescrive che sia data lettura dei verbali di dichiarazioni solo dopo l’esame del dichiarante, salvo che questo non abbia luogo. Insomma, il preteso regime differenziale della prova dichiarativa assunta da altro giudice non è affatto tale[10]

Un ulteriore tassello viene aggiunto in seguito alla ordinanza di rimessione del Tribunale ordinario di Siracusa, che ha dubitato della legittimità costituzionale degli artt. 511, 525, comma 2, e 526, comma 1, cpp, chiedendo alla Corte di valutare «se i medesimi siano costituzionalmente illegittimi in relazione all’art. 111 della Costituzione, se interpretati nel senso che ad ogni mutamento della persona fisica di un giudice, la prova possa ritenersi legittimamente assunta solo se i testimoni già sentiti nel dibattimento, depongano nuovamente in aula davanti al giudice-persona fisica che deve deliberare sulle medesime circostanze o se invece ciò debba avvenire solo allorquando non siano violati i principi costituzionali della effettività e della ragionevole durata del processo».

La Corte, con la sentenza n. 132 del 2019[11] ha dichiarato inammissibili le questioni per formulazione del petitum in termini di irrisolta alternatività e per impropria richiesta di avallo interpretativo. 

La Corte ricostruisce brevemente il quadro normativo, precisando che gli artt. 525, comma 2, e 526, comma 1, cpp «rispettivamente prevedono la partecipazione alla deliberazione della sentenza degli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento e il divieto di utilizzazione, ai fini della deliberazione, di prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento». Dal canto suo, l’art. 511 cpp, «nel disciplinare la lettura degli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento e utilizzabili per la decisione, consente la lettura dei verbali di dichiarazioni solo dopo l’esame della persona che le ha rese, a meno che l’esame non abbia luogo». 

Secondo l’interpretazione offerta dal diritto vivente, dal combinato disposto delle suddette norme «deriva l’obbligo, per il giudice del dibattimento, di ripetere l’assunzione della prova dichiarativa ogni qualvolta muti la composizione del collegio giudicante, laddove le parti processuali non acconsentano alla lettura delle dichiarazioni rese dai testimoni innanzi al precedente organo giudicante (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 febbraio 1999, n. 2; sezione prima, sentenza 4 novembre 1999, n. 12496; sezione prima, sentenza 7 dicembre 2001-10 maggio 2002, n. 17804; sezione prima, sentenza 23 settembre 2004, n. 37537; sezione quinta, sentenza 7 novembre 2006-31 gennaio 2007, n. 3613; sezione quinta, sentenza 15 dicembre 2011, n. 46561; sezione quinta, sentenza 11 maggio 2017, n. 23015)». Tale interpretazione è stata ripetutamente fatta propria anche dalla giurisprudenza costituzionale, «che peraltro ha, finora, sempre escluso l’illegittimità della disciplina così come interpretata dal diritto vivente (sentenza n. 17 del 1994; ordinanze nn. 205 del 2010, 318 del 2008, 67 del 2007, 418 del 2004, 73 del 2003, 59 del 2002, 431 e 399 del 2001)».

Ciò posto, la Corte rileva che il rimettente ha prospettato, nella motivazione dell’ordinanza di rimessione, la possibilità di una diversa lettura – definita «costituzionalmente orientata» – delle disposizioni censurate, secondo la quale l’obbligo di ripetizione della prova dichiarativa, in caso di mutamento dell’organo giudicante, sussisterebbe solo nella misura in cui la durata del processo non ecceda il limite di durata ragionevole, individuato in tre anni dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 («Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile»). Ove il processo si protragga oltre detto limite temporale, la prova dichiarativa non dovrebbe essere nuovamente assunta – anche se la parte interessata ne faccia richiesta – e le dichiarazioni rese innanzi all’organo giudicante poi mutato potrebbero essere utilizzate per la decisione, mediante lettura dei relativi verbali. 

Secondo la Corte, il rimettente, tuttavia, «non fa propria questa interpretazione, evitando così di riassumere le prove dichiarative, ma ritiene invece di promuovere il presente incidente di costituzionalità, chiedendo alla Corte, alternativamente, di avallare tale interpretazione attraverso una sentenza di rigetto, ovvero di dichiarare illegittime le disposizioni censurate se interpretate secondo il diritto vivente». 

In tal modo – osserva la Corte – il giudice a quo da un lato formula un petitum in termini di irrisolta alternatività; e dall’altro mira evidentemente a conseguire un avallo alla propria interpretazione asseritamente secundum constitutionem delle disposizioni censurate, il che determina l’inammissibilità delle questioni. 

Ciò posto, la Corte indirizza un monito al legislatore, sollecitando rimedi strutturali. 

Essa muove dal principio di immediatezza della prova, che è strettamente correlato al principio di oralità: «principi, entrambi, che sottendono un modello dibattimentale fortemente concentrato nel tempo, idealmente da celebrarsi in un’unica udienza o, al più, in udienze celebrate senza soluzione di continuità (come risulta evidente dal tenore dell’art. 477 cod. proc. pen.). Solo a tale condizione, infatti, l’immediatezza risulta funzionale rispetto ai suoi obiettivi essenziali: e cioè, da un lato, quello di consentire “la diretta percezione, da parte del giudice deliberante, della prova stessa nel momento della sua formazione, così da poterne cogliere tutti i connotati espressivi, anche quelli di carattere non verbale, particolarmente prodotti dal metodo dialettico dell’esame e del controesame; connotati che possono rivelarsi utili nel giudizio di attendibilità del risultato probatorio” (ordinanza n. 205 del 2010); e, dall’altro, quello di assicurare che il giudice che decide non sia passivo fruitore di prove dichiarative già da altri acquisite, ma possa – ai sensi dell’art. 506 cod. proc. pen. – attivamente intervenire nella formazione della prova stessa, ponendo direttamente domande ai dichiaranti e persino indicando alle parti “nuovi o più ampi temi di prova, utili per la completezza dell’esame”: poteri che il legislatore concepisce come strumentali alla formazione progressiva del convincimento che condurrà il giudice alla decisione, idealmente collocata in un momento immediatamente successivo alla conclusione del dibattimento e alla (contestuale) discussione». 

Ricorda, quindi, la Corte di non aver mancato di sottolineare le «incongruità dell’attuale disciplina» in rapporto a un contesto fattuale («con il quale non può non fare i conti ogni discorso sulla tutela dei diritti fondamentali») molto diverso dall’originario disegno normativo. Infatti, i dibattimenti «che si concludono nell’arco di un’unica udienza sono l’eccezione; mentre la regola è rappresentata da dibattimenti che si dipanano attraverso più udienze, spesso intervallate da rinvii di mesi o di anni». In una simile situazione, il principio di immediatezza della prova «rischia di divenire un mero simulacro» sia che il giudice che decide rimanga il medesimo sia, e ancor di più, che si verifichi, per le ragioni più varie, un mutamento dell’organo giudicante. La frequente dilatazione dei tempi processuali, aggravata dalla necessità di riacquisire le prove dichiarative, «produce costi significativi, in termini tanto di ragionevole durata del processo, quanto di efficiente amministrazione della giustizia penale»; inoltre, rimane dubbia l’«idoneità complessiva di tale meccanismo a garantire, in maniera effettiva e non solo declamatoria, i diritti fondamentali dell’imputato, e in particolare quello a una decisione giudiziale corretta sull’imputazione». 

Si ritiene così doverosa la sollecitazione di «rimedi strutturali in grado di ovviare agli inconvenienti evidenziati, assicurando al contempo piena tutela al diritto di difesa dell’imputato. Il che potrebbe avvenire non solo favorendo la concentrazione temporale dei dibattimenti, sì da assicurarne idealmente la conclusione in un’unica udienza o in udienze immediatamente consecutive, come avviene di regola in molti ordinamenti stranieri; ma anche, ove ciò non sia possibile, attraverso la previsione legislativa di ragionevoli deroghe alla regola dell’identità tra giudice avanti al quale si forma la prova e giudice che decide». 

La Corte sottolinea che, anche alla luce della giurisprudenza della Corte Edu, il legislatore può introdurre ragionevoli eccezioni al richiamato principio, «in funzione dell’esigenza, costituzionalmente rilevante, di salvaguardare l’efficienza dell’amministrazione della giustizia penale, in presenza di meccanismi “compensativi” funzionali all’altrettanto essenziale obiettivo della correttezza della decisione – come, ad esempio, la videoregistrazione delle prove dichiarative, quanto meno nei dibattimenti più articolati –, e ferma restando la possibilità (già oggi implicitamente riconosciuta dall’art. 507 cod. proc. pen.) per il giudice di disporre, su istanza di parte o d’ufficio, la riconvocazione del testimone avanti a sé per la richiesta di ulteriori chiarimenti o l’indicazione di nuovi temi di prova, ai sensi dell’art. 506 cod. proc. pen.». 

Tale pronuncia è stata variamente criticata in dottrina, soprattutto con riguardo al monito[12] con cui sarebbe intervenuta sulla struttura del giusto processo. 

Essa ha, inoltre, avuto delle immediate ricadute, essendo stato il suo contenuto espressamente citato nella pronuncia della Corte di cassazione a sezioni unite, Bajrami, la quale ha operato una serie di affermazioni che hanno modificato l’orientamento delle sezioni unite, Iannasso, risalente al 1999, limitando il diritto delle parti di richiedere l’escussione dei testi già escussi in caso di mutamento del giudice. La pronuncia della Suprema corte ha infatti affermato, da un lato, che il principio di immutabilità di cui all’art. 525 cpp richiede che il giudice che provvede alla deliberazione della sentenza sia non solo lo stesso che ha assunto la prova ma anche quello che l’ha ammessa, fermo restando che i provvedimenti sull’ammissione della prova emessi dal giudice diversamente composto conservano efficacia se non espressamente modificati o revocati (Cass., sez. unite, 30 maggio 2019-10 ottobre 2019, n. 41736, C.E.D. Cass., n. 276754 – 01); dall’altro, che, in caso di rinnovazione del dibattimento per mutamento del giudice, il consenso delle parti alla lettura degli atti già assunti dal giudice di originaria composizione non è necessario con riguardo agli esami testimoniali la cui ripetizione non abbia avuto luogo perché non richiesta, non ammessa o non più possibile (Cass., sez. unite, 30 maggio 2019-10 ottobre 2019, n. 41736, C.E.D. Cass., n. 276754 – 03). Le sezioni unite hanno, inoltre, affermato che l’intervenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere sia prove nuove sia, indicandone specificamente le ragioni, la rinnovazione di quelle già assunte dal giudice di originaria composizione, fermi restando i poteri di valutazione del giudice di cui agli artt. 190 e 495 cpp anche con riguardo alla non manifesta superfluità della rinnovazione stessa (Cass., sez. unite, 30 maggio 2019-10 ottobre 2019, n. 41736, C.E.D. Cass., n. 276754 – 02), La facoltà per le parti di richiedere, in caso di mutamento del giudice, la rinnovazione degli esami testimoniali presuppone la necessaria previa indicazione, da parte delle stesse, dei soggetti da riesaminare nella lista ritualmente depositata di cui all’art. 468 cpp (Cass., sez. unite, 30 maggio 2019-10 ottobre 2019, n. 41736, C.E.D. Cass., n. 276754 – 04).

La ragionevole durata del processo costituisce uno dei parametri della questione concernente l’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in sede di appello nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa nel giudizio abbreviato. 

Tale questione origina non tanto dalla trama lessicale della disposizione citata, quanto dall’interpretazione che di essa hanno fornito, con una giurisprudenza consolidata, le sezioni unite della Corte di cassazione. Difatti, anche a fronte del caso in cui il giudizio di primo grado si sia svolto con le forme del rito abbreviato, senza assunzione orale di prove, la Corte di cassazione ha univocamente affermato – già prima della riforma culminata nella “legge Orlando” (n. 103/2017) – che la rinnovazione istruttoria si impone come condizione legittimante la riforma in peggio della sentenza di proscioglimento dell’imputato. Un simile indirizzo deve ritenersi quanto mai attuale, figurando quale parte integrante – in chiave interpretativa – del comma 3-bis dell’art. 603 cpp.

La Corte d’appello di Trento, infatti, ha sollevato – con riferimento all’art. 111, secondo e quinto comma, e all’art. 117, comma primo, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 20 della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 603, comma 3-bis, cpp, come introdotto dall’art. 1, comma 58, l. 23 giugno 2017, n. 103 («Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario»), nella parte in cui tale disposizione, così come interpretata dal diritto vivente, nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, obbliga il giudice a disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale anche in caso di giudizio di primo grado celebrato nelle forme del rito abbreviato, e pertanto definito in quella sede «allo stato degli atti» ai sensi degli artt. 438 ss. cpp.

La sentenza n. 124 del 2019 ha dichiarato non fondate le citate questioni di costituzionalità.

La Corte ha operato un’ampia ricostruzione dal punto di vista storico e sistematico della normativa censurata. Essa ha rilevato che, nella versione originaria dell’art. 603 cpp, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale con riguardo alle prove già acquisite nel giudizio di primo grado poteva infatti essere disposta su richiesta di parte soltanto se il giudice di appello ritenesse «di non essere in grado di decidere allo stato degli atti» (comma 1), ovvero d’ufficio, laddove il giudice la ritenesse «assolutamente necessaria» (comma 3). 

Secondo la Corte, la giurisprudenza assolutamente prevalente dalla Corte di Strasburgo, stimolando nella giurisprudenza italiana un incisivo ripensamento sui presupposti della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, con riferimento alle ipotesi in cui oggetto di impugnazione sia una sentenza assolutoria pronunciata in primo grado, «ritiene incompatibile con la menzionata disposizione convenzionale un giudizio di appello che si concluda con la condanna dell’imputato già assolto in primo grado, senza che le prove dichiarative sulla cui base egli era stato assolto siano state nuovamente assunte davanti al giudice di appello (ex plurimis, Corte EDU, sentenza 28 febbraio 2017, Manoli contro Moldavia, paragrafo 32; sentenza 15 settembre 2015, Moinescu contro Romania, paragrafo 36; sentenza 4 giugno 2013, Hanu contro Romania, paragrafo 40; sentenza 9 aprile 2013, Manolachi contro Romania, paragrafo 50; sentenza 20 marzo 2012, Serrano Contreras contro Spagna, paragrafo 40; sentenza 5 luglio 2011, Dan contro Moldavia, paragrafi 30-33; sentenza 19 febbraio 1996, Botten contro Norvegia, paragrafo 39); e ciò anche nell’ipotesi in cui né l’imputato né il suo difensore abbiano sollecitato una nuova escussione dei testimoni (Corte EDU, sentenza 9 aprile 2013, Flueraş contro Romania, paragrafo 60)». 

Tali principi sono stati recentemente enunciati anche nei confronti dell’Italia, in una sentenza nella quale è stato ritenuto violato il diritto del ricorrente a un processo equo, in conseguenza della condanna del ricorrente stesso pronunciata per la prima volta in appello in esito a una diversa valutazione di prove dichiarative acquisite nel giudizio di primo grado e non riesaminate direttamente in appello (Corte EDU, sentenza 29 giugno 2017, Lorefice c. Italia, par. 45). 

La Corte dà quindi atto dello stato della giurisprudenza di legittimità. 

Già in epoca anteriore alla sentenza Lorefice c. Italia, le sezioni unite della Corte di cassazione avevano nella sostanza recepito questa giurisprudenza della Corte Edu, attraverso una interpretazione conforme alla Cedu delle disposizioni del codice di procedura penale. Rilevato che «i principi enunciati nella CEDU, come definiti nella giurisprudenza consolidata della Corte EDU, pur non traducendosi in norme direttamente applicabili nell’ordinamento nazionale, costituiscono criteri di interpretazione ai quali il giudice nazionale è tenuto a ispirarsi nell’applicazione delle norme interne, le Sezioni unite hanno infatti affermato che il giudice di secondo grado, ove intenda riformare una sentenza di proscioglimento sulla base di una diversa valutazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva dal primo giudice, debba procedere – anche d’ufficio – alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, disponendo l’esame dei soggetti che hanno reso le relative dichiarazioni. In caso di mancata rinnovazione, la sentenza di riforma del giudice di secondo grado risulterà affetta da vizio di motivazione, censurabile in Cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., non potendo ritenersi in tal caso che la prova sia stata raggiunta “al di là di ogni ragionevole dubbio”, come prescrive l’art. 533 cod. proc. pen. (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 6 luglio 2016, n. 27620)». 

In un obiter dictum di tale pronuncia (al punto 8.4. del considerato in diritto), le sezioni unite hanno altresì affermato che la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale deve ritenersi doverosa anche nei giudizi celebrati nelle forme del rito abbreviato, dovendosi anche in tal caso valorizzare il criterio, «da ritenere di carattere generalissimo», del convincimento al di là di ogni ragionevole dubbio. 

Questo corollario non è stato condiviso da una sentenza della Corte di cassazione (sez. III penale, sentenza 13 ottobre 2016, n. 43242), richiamandosi ad altre pronunce precedenti, per cui il contrasto giurisprudenziale così creatosi è stato, quindi, nuovamente sciolto dalle sezioni unite, che hanno ribadito che l’obbligatorietà della rinnovazione istruttoria opera anche nel caso di overturning da proscioglimento a condanna nell’ambito di giudizio abbreviato non condizionato (Cass., sez. unite penali, sentenza 14 aprile 2017, n. 18620). 

In definitiva, a parere delle sezioni unite, «[l]’assoluzione pronunciata dal giudice di primo grado travalica ogni pretesa di simmetria. Essa, implicando l’esistenza di una base probatoria che induce quantomeno il dubbio sulla effettiva valenza delle prove dichiarative, pretende che si faccia ricorso al metodo di assunzione della prova epistemologicamente più affidabile; sicché la eventuale rinuncia al contraddittorio nel giudizio di primo grado non fa premio sulla esigenza di rispettare il valore obiettivo di tale metodo ai fini del ribaltamento della decisione assolutoria (…). Perché, insomma, l’overturning si concretizzi davvero in una motivazione rafforzata, che raggiunga lo scopo del convincimento “oltre ogni ragionevole dubbio”, non si può fare a meno dell’oralità nella riassunzione delle prove rivelatesi decisive. La motivazione risulterebbe altrimenti affetta dal vizio di aporia logica derivante dal fatto che il ribaltamento della pronuncia assolutoria, operato sulla scorta di una valutazione cartolare del materiale probatorio a disposizione del primo giudice, contiene in sé l’implicito dubbio ragionevole determinato dall’avvenuta adozione di decisioni contrastanti». 

La Corte rileva che, introducendo nell’art. 603 cpp il nuovo comma 3-bis, la legge n. 103 del 2017 ha recepito gli approdi cui era nel frattempo pervenuta la giurisprudenza delle sezioni unite. La nuova disposizione prevede che «[n]el caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale». 

Il nuovo comma 3-bis dell’art. 603 cpp non chiarisce invero espressamente se l’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale valga anche nel caso in cui il giudizio di primo grado, conclusosi con l’assoluzione dell’imputato, sia stato celebrato con le forme del rito abbreviato. All’indomani della novella, peraltro, le sezioni unite – risolvendo negativamente la questione se la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale si imponga anche nel caso, opposto, in cui il giudice d’appello intenda riformare la sentenza di condanna di primo grado – hanno affermato, in un ampio obiter dictum, che «[l]’interpolazione operata dal legislatore sul testo normativo dell’art. 603 cod. proc. pen. non contempla eccezioni di sorta, ma consente l’applicabilità della regola posta dal nuovo comma 3-bis ad ogni tipo di giudizio, ivi compresi i procedimenti svoltisi in primo grado con il rito abbreviato». Ciò in quanto «[l]a decisione assolutoria del primo giudice è sempre tale da ingenerare la presenza di un dubbio sul reale fondamento dell’accusa. Dubbio che può ragionevolmente essere superato solo attraverso una concreta variazione della base cognitiva utilizzata dal giudice d’appello, unitamente ad una corrispondente “forza persuasiva superiore” della relativa motivazione, quando il meccanismo della rinnovazione debba essere attivato in relazione ad una prova dichiarativa ritenuta decisiva nella prospettiva dell’alternativa decisoria sopra indicata». D’altronde, hanno proseguito le sezioni unite, «[l]a rinuncia al contraddittorio (…) non può riflettersi negativamente sulla giustezza della decisione, né può incidere sulla prioritaria funzione cognitiva del processo, il cui eventuale esito di condanna esige, sia nel giudizio ordinario che in quello abbreviato, la prova della responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio, poiché oggetto del consenso dell’imputato ai sensi dell’art. 111, quinto comma, Cost. è la rinuncia ad un metodo di accertamento, il contraddittorio nella formazione della prova, non all’accertamento della responsabilità nel rispetto del canone epistemologico attraverso cui si invera il principio stabilito dall’art. 27, secondo comma, Cost. (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 3 aprile 2018, n. 14800, punto 7.3. del Considerato in diritto)». 

Per la Corte – a differenza di quanto riscontrato nella sentenza n. 26 del 2007, concernente una disciplina che precludeva al pubblico ministero di impugnare le sentenze di proscioglimento pronunciate in primo grado – la disposizione censurata non introduce alcuno squilibrio tra i poteri processuali delle parti, dal momento che configura un adempimento doveroso a carico del giudice, sottratto al potere dispositivo delle parti, e da realizzare anche in assenza di richiesta delle parti medesime. Essa, inoltre, non «pone l’imputato in alcuna arbitraria posizione di vantaggio rispetto al pubblico ministero, tale da turbare la simmetria delle relative posizioni. Così come nel giudizio di primo grado celebrato con rito abbreviato le parti possono confrontarsi in condizioni di parità sul significato e sull’attendibilità delle prove raccolte durante le indagini preliminari, nel successivo giudizio di appello le parti saranno nuovamente in condizioni di completa parità in sede di audizione dei testimoni decisivi ai fini della conferma o della riforma della sentenza assolutoria pronunciata in primo grado». La disposizione censurata crea, semmai, un’asimmetria non già tra i poteri processuali delle parti (alle quali sole, peraltro, si riferisce il parametro costituzionale invocato), ma tra gli statuti probatori vigenti in caso di appello del pubblico ministero contro la sentenza di assoluzione, e quelli che si applicano al caso, opposto, di appello dell’imputato contro la sentenza di condanna. Tale asimmetria, però, deriva dalla stessa struttura del processo penale italiano, che non presenta affatto un’architettura simmetrica, alla luce del principio posto dall’art. 27, secondo comma, Cost., in base al quale il processo penale è delineato dall’ordinamento «come strumento di accertamento della colpevolezza e non dell’innocenza». 

Nell’escludere il contrasto tra la disposizione censurata e il principio della ragionevole durata del processo, essa osserva che «tale principio va contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali, sicché il suo sacrificio non è sindacabile, ove sia frutto di scelte non prive di una valida ratio giustificativa (…) e che, quindi, ad esso “possono arrecare un vulnus solamente norme procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza”», ravvisando idonea ragione giustificativa della dilatazione dei tempi processuali nella necessità, prospettata dalla giurisprudenza delle sezioni unite, di un contatto diretto del giudice con i testimoni – ritenuto il «metodo di assunzione della prova epistemologicamente più affidabile» –, necessità che è imposta, «anche nell’ambito di un giudizio che nasce come meramente “cartolare”, dall’esigenza di far cadere l’“implicito dubbio ragionevole determinato dall’avvenuta adozione di decisioni contrastanti” (Cass., sez. un., n. 18620 del 2017); dubbio che secondo le Sezioni unite è possibile superare soltanto attraverso la “forza persuasiva superiore” della motivazione del giudice d’appello, fondata per l’appunto sull’ascolto diretto delle testimonianze decisive (Cass., sez. un., n. 14800 del 2018)», in quanto necessaria a una piena tutela dell’interesse primario dell’imputato a non essere ingiustamente condannato. Tale interesse è «direttamente connesso tanto all’essenza del principio del “giusto processo” sotteso all’intero art. 111 Cost., quanto alla presunzione di innocenza proclamata dall’art. 27, secondo comma, Cost.; e, nella prospettiva dell’imputato, è certamente poziore rispetto al suo stesso diritto a una sollecita definizione della propria vicenda processuale, fondato per l’appunto sull’art. 111, secondo comma, ultima proposizione, Cost. e sull’art. 6, paragrafo 1, CEDU». 

Nessun contrasto sussiste inoltre, per la Corte, con l’art. 111, quinto comma, Cost., a tenore del quale «la legge regola i casi in cui la formazione della prova non avviene in contraddittorio, per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita». Per la Corte il testo della norma costituzionale invocata «si limita a permettere che la prova possa in casi eccezionali formarsi al di fuori del contraddittorio, in particolare allorché l’imputato vi consenta, ma non prescrive affatto che, una volta che l’imputato abbia prestato il proprio consenso a essere giudicato “allo stato degli atti”, una tale modalità di giudizio debba necessariamente valere per ogni fase del processo, compresa quella di appello». Inoltre, non sarebbe corretto «dedurre, da quella che il legislatore costituzionale ha inequivocamente concepito come una garanzia per l’imputato (così, ancora, sentenza n. 184 del 2009; nello stesso senso, Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 3 aprile 2018, n. 14800), una conseguenza pregiudizievole per l’imputato medesimo», derivante dall’eliminazione di una disciplina probatoria concepita anch’essa come garanzia in suo favore contro condanne potenzialmente ingiuste; il che appare intrinsecamente contraddittorio. 

Infine, non è stata ritenuta fondata la censura formulata con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 20 della direttiva 2012/29/UE, che prescrive che il numero delle audizioni della vittima sia limitato al minimo. Come emerge dal dato letterale della disposizione, «da un lato il divieto della rinnovazione superflua dell’audizione della vittima sancito dall’art. 20 riguarda la sola fase delle “indagini penali”, corrispondenti – nel contesto del diritto processuale penale italiano – alle indagini preliminari, e non si estende dunque alla fase del processo (fase che la stessa direttiva definisce, all’art. 23, come “procedimento giudiziario”, in contrapposizione a quella precedente delle “indagini penali”), nella quale è pacifico che la persona offesa debba poter essere sentita – eventualmente con modalità protette, ove si tratti di vittima vulnerabile – nel contraddittorio tra le parti. Dall’altro lato, tale divieto fa comunque salvi – in conformità a quanto previsto in generale nel considerando n. 58 – i “diritti della difesa”, tra i quali si iscrive, in posizione eminente, il diritto al contraddittorio nella formazione della prova».

 

5. Terzietà e imparzialità del giudice

Un filone giurisprudenziale sempre attivo è quello della terzietà e imparzialità del giudice. Alla garanzia di tali due valori si riferiscono diversi istituti della procedura penale, tra cui quello dell’incompatibilità e dell’astensione. L’istituto dell’incompatibilità, previsto dall’art. 34 cpp, nel tempo è stato oggetto di numerosissimi interventi della Corte. 

Nel periodo di riferimento occorre dare atto di due pronunce che riguardano la fattispecie del giudice dell’udienza preliminare che inviti il pubblico ministero a modificare il fatto nell’ipotesi in cui tale invito sia accolto.

La sentenza n. 18 del 2017 ha affrontato una questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., dell’art. 34, comma 2, cpp, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla funzione di giudice dell’udienza preliminare del giudice che, avendo ravvisato, nel corso della stessa udienza preliminare, un fatto diverso da quello contestato, abbia invitato il pubblico ministero a procedere, nei confronti dello stesso imputato e per il medesimo fatto storico, alla modifica dell’imputazione, invito al quale il pubblico ministero ha aderito. 

La questione è sorta in relazione all’udienza preliminare, la cui disciplina non contempla una previsione analoga a quella dell’art. 521, comma 2, cpp, che riconosce al giudice la possibilità di disporre con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero, ove, a conclusione del dibattimento, accerti che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio o nella nuova contestazione effettuata a norma degli artt. 516, 517 e 518, comma 2. In tale ipotesi – rileva la Corte – sono state prospettate due soluzioni, sia la possibilità per il giudice dell’udienza preliminare di trasmettere «gli atti al pubblico ministero, in applicazione analogica del citato art. 521, comma 2, cod. proc. pen.», con conseguente «regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari», sia la possibilità di invitare il pubblico ministero «ad esercitare il potere-dovere di modificare l’imputazione, previsto in capo all’attore pubblico dall’art. 423 cod. proc. pen., allorché nel corso dell’udienza preliminare emerga la diversità del fatto», rimanendo nella stessa fase processuale.

Le sezioni unite della Corte di cassazione sono intervenute chiarendo che «i due rimedi non sono alternativi, ma sequenziali», nel senso che il giudice dell’udienza preliminare deve prima «invitare l’organo dell’accusa a modificare l’imputazione» e, solo in caso di mancata adesione all’invito, deve trasmettere gli atti ai sensi del citato art. 521, comma 2. 

La Corte ha ritenuto infondato il dubbio di costituzionalità prospettato dal giudice rimettente, in quanto non sussiste alcuna incompatibilità del giudice dell’udienza preliminare a tenere la medesima udienza, dopo aver invitato il pubblico ministero a modificare l’imputazione per la ritenuta diversità del fatto, in quanto si rimane nella medesima fase processuale. È richiamata al riguardo la costante giurisprudenza della Corte, secondo cui, affinché possa configurarsi una situazione di incompatibilità, «è necessario che la valutazione contenutistica sulla medesima regiudicanda si collochi in una precedente e distinta fase del procedimento, rispetto a quella della quale il giudice è attualmente investito». È ritenuto, infatti, «del tutto ragionevole che all’interno di ciascuna delle fasi, intese come sequenze ordinate di atti che possono implicare apprezzamenti incidentali anche di merito, su quanto in esse risulta, prodromici alla conclusione resti, in ogni caso, preservata l’esigenza di continuità e di globalità», allo scopo di evitare «un’assurda frammentazione del procedimento», con la connessa necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere. 

In tale prospettiva, l’invito (accolto) «a modificare l’imputazione non risulta affatto assimilabile all’ordinanza di trasmissione degli atti al pubblico ministero», che determina una regressione di fase, costituendo invece «un rimedio “endofasico”: dalla sua formulazione non deriva, dunque, alcuna incompatibilità del giudice all’ulteriore trattazione della medesima fase». 

A supporto della conclusione, la Corte riconosce che, «sollecitando il pubblico ministero a modificare l’imputazione per diversità del fatto, il giudice esterna un convincimento sul merito della regiudicanda, ma lo fa come momento immediatamente prodromico alla decisione che è – legittimamente – chiamato ad assumere in quello stesso contesto; segnatamente, per evitare di doversi pronunciare su una imputazione che reputa non aderente alla realtà storica emersa dagli atti processuali. Resta dunque esclusa la configurabilità di una menomazione dell’imparzialità del giudice, atta a rendere costituzionalmente necessaria l’applicazione dell’istituto dell’incompatibilità».

Il medesimo giudice che aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale scrutinata dalla Corte con la pronuncia n. 18 del 2017, la ripropone in riferimento non più a parametri “interni”, ma all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6, par. 1 della Cedu, nella parte in cui garantisce il diritto al giudizio di un giudice imparziale, sotto due diversi profili. 

Secondo il rimettente, alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, una valutazione contenutistica sul merito della regiudicanda, quale quella insita nell’invito a modificare l’imputazione, comprometterebbe l’imparzialità del giudice sul piano oggettivo, a prescindere dalla circostanza che essa si collochi nella stessa o in altra fase processuale. 

Inoltre, sollecitando il pubblico ministero a modificare l’imputazione, il giudice verrebbe a partecipare di una funzione tipica dell’accusa, con conseguente commistione di ruoli, anch’essa idonea – secondo la Corte Edu – a minarne l’imparzialità. 

Anche se l’unico parametro evocato è l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6, par. 1, Cedu si ritiene di darne conto in questa sede, stante l’intrinseca connessione e continuità con la precedente pronuncia e riguardando il principio di imparzialità alla stregua della convenzione Edu. 

Come affermato proprio nella pronuncia che si va ad esaminare, l’imparzialità prevista dall’art. 6 Cedu «deve essere apprezzata secondo due criteri: soggettivo e oggettivo. Il criterio soggettivo consiste nello stabilire se dalle convinzioni personali e dal comportamento di un determinato giudice si possa desumere che egli abbia una idea preconcetta rispetto a una particolare controversia sottoposta al suo esame. Da questo punto di vista, l’imparzialità del giudice è presunta fino a prova contraria. Il criterio oggettivo, che rileva in questo caso, impone di valutare se, a prescindere dalla condotta del giudice, esistano fatti verificabili che possano generare dubbi, oggettivamente giustificati, sulla sua imparzialità. Sotto questo aspetto, anche le apparenze possono avere una certa importanza: in altre parole, “non si deve solo fare giustizia, ma si deve anche vedere che è stata fatta”. È in gioco, infatti, la fiducia che i tribunali in una società democratica debbono ispirare nel pubblico e, nel processo penale, anzitutto nell’accusato (ex plurimis, tra le più recenti, Corte EDU, sentenze 16 ottobre 2018, Daineliene contro Lituania; 31 ottobre 2017, Kamenos contro Cipro; 20 settembre 2016, Karelin contro Russia; Grande Camera, 23 aprile 2015, Morice contro Francia; 15 gennaio 2015, Dragojević contro Croazia)». 

La Corte, con la sentenza n. 66 del 2019, ripercorre le vicende e il contenuto della pronuncia n. 18 del 2017 soprarichiamata, anche al fine di escludere, pur in presenza di una pronuncia di rigetto, l’effetto preclusivo alla riproposizione di questioni nel corso dello stesso giudizio, in quanto «pur nell’identità della norma censurata e del petitum, la questione risulta, infatti, diversa da quelle precedentemente sollevate dal rimettente in rapporto sia al parametro costituzionale, sia alle argomentazioni dedotte a supporto della denuncia di incostituzionalità». Quindi, nel rigettare la questione, la Corte premette un argomento dirimente, quello secondo cui la Corte Edu «ha escluso in più occasioni che le garanzie in tema di equo processo, di cui all’evocato art. 6, paragrafo 1, CEDU», tra cui quella dell’imparzialità del giudice, «siano riferibili all’udienza preliminare prevista dalla legge processuale italiana, fatto salvo il caso in cui vengano adottati riti alternativi che conferiscano al giudice di tale udienza il potere di pronunciarsi sul merito delle accuse». Ciò in quanto l’art. 6 Cedu ha «per finalità principale, nel campo penale (…) quella di assicurare un equo processo di fronte a un “tribunale” competente a decidere “sulla fondatezza di ogni accusa penale”: e, cioè – in particolare per quanto attiene alla garanzia dell’imparzialità – a stabilire se l’imputato sia colpevole o innocente (decisione 12 febbraio 2004, De Lorenzo contro Italia)», mentre «nei casi sottoposti all’esame della Corte europea, per contro, il giudice dell’udienza preliminare si era limitato a decidere – in conformità alla funzione istituzionale di tale udienza – se l’imputato dovesse essere, o non, rinviato a giudizio (ossia se dovesse essere giudicato da un “tribunale”), senza affatto pronunciarsi sulla sua innocenza o colpevolezza». Peraltro, la Corte osserva che nel giudizio principale non vi era stata una richiesta di riti alternativi. 

La Corte costituzionale, dopo aver richiamato le nozioni di imparzialità in senso soggettivo e oggettivo, e in particolare le pronunce concernenti tale ultimo criterio, riconosce che non si rinviene nella giurisprudenza “convenzionale” una teorizzazione corrispondente a quella da essa operata «riguardo alla non configurabilità di un pregiudizio all’imparzialità del giudice in conseguenza di valutazioni effettuate nell’ambito della medesima fase processuale», ma di fatto, nella generalità dei casi, «il pregiudizio all’imparzialità di tipo “funzionale” è stato collegato dalla Corte europea a decisioni assunte in altra e precedente fase del procedimento (tipici i casi dell’adozione di provvedimenti cautelari nella fase preprocessuale o la partecipazione a precedenti gradi di giudizio), ovvero in procedimenti distinti (quali quelli contro soggetti concorrenti nel medesimo reato)». 

Non constando «pronunce della Corte EDU che abbiano ravvisato la lesione del principio di imparzialità in fattispecie analoghe a quella» oggetto di scrutinio, la Corte conclude che non può affermarsi che, alla luce della giurisprudenza della Corte europea, la quale deve peraltro risultare consolidata, «la norma convenzionale evocata accordi al diritto della persona da giudicare, in rapporto alla specifica evenienza di cui si discute, una tutela più ampia di quella prefigurata dalla norma costituzionale interna – gemellare nell’ispirazione – di cui all’art. 111, secondo comma, della Carta fondamentale». 

Quanto al secondo profilo di asserito contrasto con la norma convenzionale, legato alla commistione tra le funzioni di giudice e quelle di pubblico ministero, situazione peraltro regolata dal comma 3 e non dal comma 2 dell’art. 34, la Corte costituzionale rileva che, secondo la giurisprudenza della Corte Edu, «la confusione tra le funzioni inquirenti e giudicanti è effettivamente idonea a minare l’imparzialità del giudice, e ciò anche quando essa si realizzi all’interno della stessa fase del giudizio». L’unico precedente in cui il fenomeno è venuto all’attenzione della Corte europea riguarda «quello della totale assenza di un rappresentante dell’accusa in dibattimento (o in una parte rilevante delle relative udienze): assenza a fronte della quale i relativi compiti, anzitutto in tema di formazione della prova a carico dell’accusato, erano stati integralmente assunti, in sua vece, dal giudice (Grande Camera, sentenza 15 dicembre 2005, Kyprianou contro Cipro)». 

L’ipotesi oggetto di esame è ritenuta «sensibilmente distante da tale paradigma», in quanto il giudice che, a conclusione dell’udienza preliminare, «si limita a riscontrare che il fatto, risultante dagli elementi probatori, è (…) diverso da come descritto nel capo di imputazione», invitando il pubblico ministero «a esercitare il suo potere-dovere di modifica dell’imputazione nella stessa udienza preliminare», al fine di evitare la regressione del procedimento, risponde, nella stessa visione delle sezioni unite della Corte di cassazione, «a canoni di economia e concentrazione processuale. Il pubblico ministero, dal canto suo – serbando intatto il suo ruolo di dominus del tema d’accusa – resta pienamente libero di aderire, o non, all’invito». 

Anche per questo verso – conclude la Corte – non emerge un contrasto con la giurisprudenza consolidata della Corte di Strasburgo della disciplina nazionale oggetto di censura. 

La Corte dichiara, pertanto, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cpp, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6, par. 1 Cedu.

Va peraltro rilevato che l’ordinanza n. 19 del 2017 si occupa sempre della tematica dell’incompatibilità, ma con riguardo alla sospensione del processo con messa alla prova, istituto introdotto nel 2014 dal legislatore. 

La questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, investe l’art. 34, comma 2, cpp, in relazione alla legge 28 aprile 2014, n. 67 («Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili»), nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla funzione di giudice del dibattimento, o del giudizio abbreviato, del giudice che abbia respinto la richiesta dell’imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova sulla base dei parametri di cui all’art. 133 del codice penale. 

La questione è dichiarata manifestamente inammissibile, in quanto il rimettente si è limitato a richiamare genericamente l’eccezione formulata dal difensore dell’imputato in una memoria (integrata poi in udienza) e ad evocarne i parametri, affermando di ritenere la questione «non manifestamente infondata attesi i dubbi interpretativi sollevati in sede di applicazione della norma». La Corte, in applicazione di una sua costante giurisprudenza, secondo cui nei giudizi incidentali di legittimità costituzionale non è ammessa la cd. motivazione per relationem, ritiene l’ordinanza del tutto priva di motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza. 

Il riferimento alle regole sovranazionali che apprestano garanzie per i diritti della persona nell’ambito dei procedimenti penali, e segnatamente all’art. 6 della Cedu, ha segnato in modo sempre crescente le questioni di legittimità costituzionale proposte dai giudici italiani.

 

6. Le regole sul processo della Cedu, di altre convenzioni internazionali e del diritto dell’Unione come parametri interposti

Una volta consolidatosi il sistema “costruito” dalle cd. “sentenze gemelle” (nn. 348 e 349 del 2007), e salve le ricorrenti tensioni verso forme di applicazione “diretta” delle norme convenzionali, i giudici a quo hanno spesso evocato le norme sovranazionali quali parametri interposti, attraverso il riformato primo comma dell’art. 117 Cost. Nelle pagine che precedono, già più volte la norma costituzionale è risultata inclusa nel novero delle regole sulle quali è stata chiesta la verifica di legittimità di disposizioni del diritto interno. Del resto, l’ampia coincidenza tra la conformazione assunta dai principi del fair trial, anche grazie alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, e i contenuti precettivi espressi dagli artt. 24 e 111 Cost. (quest’ultimo riformato facendo ampio riferimento proprio all’art. 6 Cedu), rende pienamente comprensibile il fenomeno evocato.

Va rilevato che vengono in rilievo, talvolta, anche quali norme interposte in relazione all’art. 117, comma 1, Cost., altre convenzioni internazionali, come ad esempio la Convenzione sui diritti del fanciullo.

Si prendono in considerazione, anche in questo caso, alcuni filoni nei quali l’asserito contrasto con il parametro sovranazionale è risultato elemento esclusivo o dominante della valutazione condotta dalla Corte. In tale contesto assumono decisivo rilievo, per ragioni evidenti, le pronunce concernenti le modalità utili all’esecuzione delle sentenze deliberate dalla Corte di Strasburgo, nei casi che richiedono la “rimozione” di una norma del diritto interno. Va rilevato che, come affermato per la prima volta dalla sentenza n. 49 del 2015, il giudice nazionale è vincolato all’osservanza delle sole sentenze costituenti «diritto consolidato» o delle «sentenze pilota» in senso stretto. Infatti, se è vero che alla Corte di Strasburgo spetta pronunciare la “parola ultima” in ordine a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, resta fermo che l’applicazione e l’interpretazione del sistema generale di norme è attribuito in prima battuta ai giudici degli Stati membri. Il ruolo di ultima istanza riconosciuto alla Corte di Strasburgo, poggiando sull’art. 117, primo comma, Cost. deve quindi coordinarsi con l’art. 101, secondo comma, Cost. nel punto di sintesi tra autonomia interpretativa del giudice comune e dovere di quest’ultimo di prestare collaborazione, affinché il significato del diritto fondamentale cessi di essere controverso. Dunque, il giudice comune è tenuto a uniformarsi alla giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente, in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza e fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro. 

 

6.1. Principio di pubblicità delle udienze e riesame

Va ricordato preliminarmente che l’art. 6, par. 1, Cedu stabilisce che «ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata (…) pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente e imparziale», soggiungendo altresì che «il giudizio deve essere pubblico, ma l’ingresso nella sala di udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità può pregiudicare gli interessi della giustizia».

Secondo la giurisprudenza della Corte Edu, richiamata specificamente dalla sentenza n. 93 del 2010, la pubblicità delle procedure giudiziarie tutela le persone soggette alla giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico e costituisce anche uno strumento per preservare la fiducia nei giudici (tra le altre, sentenza 14 novembre 2000, nella causa Riepan c. Austria). Con la trasparenza che essa conferisce all’amministrazione della giustizia, contribuisce, quindi, a realizzare lo scopo dell’art. 6, par. 1, Cedu: ossia l’equo processo (ex plurimis, sentenza 25 luglio 2000, nella causa Tierce e altri c. San Marino). 

Verso la fine dello scorso decennio, per ben tre volte, la Corte di Strasburgo aveva ritenuto valevole tale principio anche riguardo al nostro procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione (sentenza 13 novembre 2007, nella causa Bocellari e Rizza c. Italia; sentenza 8 luglio 2008, nella causa Pierre e altri c. Italia; sentenza 5 gennaio 2010, nella causa Bongiorno c. Italia). Condannando il nostro Paese, la Corte aveva ritenuto «essenziale», ai fini della realizzazione della garanzia prefigurata dalla norma convenzionale, «che le persone (…) coinvolte in un procedimento di applicazione delle misure di prevenzione si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello». La Convenzione, in effetti, ammette eccezioni al principio di pubblicità, ma, in linea generale, solo per specifiche caratteristiche del caso concreto, e non per una intera categoria di procedimenti. È concepibile anche una deroga per tipo di procedura, ma solo quanto a fasi di giudizio con carattere «altamente tecnico» (infra). Quindi un divieto positivo e incondizionato di celebrare udienza pubblica risulta illegittimo, a maggior ragione per giudizi che siano privi della caratteristica indicata.

La pertinenza delle decisioni di Strasburgo alla materia delle procedure riguardanti le misure di prevenzione, che qui non interessa direttamente, ha implicato che le prime sollecitazioni accolte dalla Corte, in base all’ormai nota utilizzazione della norma convenzionale quale parametro interposto, abbiano riguardato appunto la disciplina delle udienze nel procedimento di prevenzione.

Il regime all’epoca vigente non consentiva di celebrare udienza pubblica neppure in caso di richiesta dell’interessato. Le leggi speciali prescrivevano la procedura in camera di consiglio, e la relativa disciplina prevedeva che l’udienza si svolgesse in assenza del pubblico (in questo senso si erano pronunciate anche le sezioni unite della Cassazione, con la sentenza n. 26156 del 2003).

La Corte aveva rilevato che non si trattava di un mero procedimento amministrativo, ma di un «procedimento all’esito del quale il giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di merito, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su beni dell’individuo costituzionalmente tutelati, quali la libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) e il patrimonio (…) nonché la stessa libertà di iniziativa economica (…) il che conferisce specifico risalto alle esigenze alla cui soddisfazione il principio di pubblicità delle udienze è preordinato».

In applicazione del principio di pubblicità delle udienze come declinato dalla Convenzione, ritenendo assorbita la censura riguardante l’art. 111 Cost., la sentenza n. 93 del 2010 ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (…) e dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (…), nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica».

Allo stesso periodo risale un’ulteriore importante decisione, sempre relativa alle misure di prevenzione, che ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 l. n. 1423/1956 e dell’art. 2-ter l. n. 575/1965, nella parte in cui non consentono che, a richiesta di parte, il ricorso per cassazione in materia di misure di prevenzione venga trattato in udienza pubblica, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., dalla Corte di cassazione (sent. n. 80 del 2011). Tale pronuncia ha sinteticamente affermato che i modelli procedimentali, per verificarne la compatibilità con il principio di pubblicità, vanno in effetti apprezzati nel loro complesso e che, quando è preceduta da udienze che sono (o possono essere) aperte al pubblico, una fase finale dedicata esclusivamente alla verifica di legittimità può utilmente essere celebrata in forma non partecipata. 

Il contenzioso relativo al procedimento di prevenzione si è spostato, successivamente, su procedure di natura diversa, direttamente riconducibili al codice di procedura penale, a cominciare dal giudizio finalizzato alla riparazione per ingiusta detenzione. La Corte, con la sentenza n. 214 del 2013, ha dichiarato inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 315, comma 3, in relazione all’articolo 646, comma 1, cpp, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in quanto in contrasto con il principio di pubblicità delle udienze sancito dall’art. 6, par. 1, Cedu, così come interpretato dalla Corte europea, la quale, con la sentenza 10 aprile 2012, Lorenzetti c. Italia, aveva ritenuto «essenziale», ai fini del rispetto di detto principio, «che i singoli coinvolti in una procedura di riparazione per custodia cautelare “ingiusta” si vedano quanto meno offrire la possibilità di richiedere una udienza pubblica innanzi alla corte di appello» (la questione era stata posta anche in rapporto all’art. 111, primo comma, Cost., per contrasto con la regola del «giusto processo»). 

Con la sentenza n. 135 del 2014, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma 1, cpp, nella parte in cui non consentivano che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza si svolgesse, davanti al magistrato di sorveglianza e al tribunale di sorveglianza, nelle forme dell’udienza pubblica.

Secondo la Corte, esigenze di garanzia analoghe a quelle della sentenza n. 93 del 2010 segnava anche il procedimento concernente le misure di sicurezza, il cui scopo precipuo era la verifica di una condizione attuale di pericolosità dell’interessato, alla quale eventualmente consegue (rendendo la “posta in gioco” particolarmente alta) l’applicazione di provvedimenti di forte limitazione della libertà personale. Si trattava di «un procedimento all’esito del quale il giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di merito, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su un bene primario dell’individuo, costituzionalmente tutelato, quale la libertà personale».

La Corte, poi, generalizzando i risultati determinati dalla sentenza n. 135 del 2014, ha dichiarato, con la sentenza n. 97 del 2015, l’illegittimità costituzionale degli artt. 666, comma 3, e 678, comma 1, cpp, questa volta nella parte in cui non consentivano che, su istanza degli interessati, il procedimento davanti al tribunale di sorveglianza nelle materie di sua competenza si svolgesse nelle forme dell’udienza pubblica e dunque in relazione a ogni altra questione, ulteriore rispetto alle misure di sicurezza, che la legge riserva alla trattazione del tribunale di sorveglianza. Si trattava comunque di procedimenti con elevata «posta in gioco», privi di carattere spiccatamente «tecnico» e anzi essenzialmente finalizzati a un accertamento in fatto.

Ciò fino alla sentenza n. 109 del 2015, con la quale la Corte ha esteso il sistema della pubblicità a domanda alle udienze del procedimento di esecuzione che tratti di misure di sicurezza patrimoniali, dichiarando l’illegittimità costituzionale degli artt. 666, comma 3, 667, comma 4, e 676 cpp, nella parte in cui non consentivano che, su istanza degli interessati, il procedimento di opposizione contro l’ordinanza in materia di applicazione della confisca si svolgesse, davanti al giudice dell’esecuzione, nelle forme dell’udienza pubblica.

Nell’ambito di tale sequenza di pronunce, si inserisce la sentenza n. 263 del 2017, la quale ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, par. 1, Cedu, degli artt. 309, comma 8, e 127, comma 6, cpp, «nella parte in cui non consentono che il procedimento per il riesame delle misure cautelari si svolga, su richiesta dell’indagato o del ricorrente, nelle forme della pubblica udienza». 

Nella prospettazione del rimettente, un rilievo preminente assume la censura di violazione della garanzia della pubblicità dei procedimenti giudiziari, stabilita dall’art. 6, par. 1, Cedu, così come interpretato dalla Corte Edu: violazione cui consegue, di riflesso, quella dell’art. 117, primo comma, Cost. Ciò alla luce del noto indirizzo della giurisprudenza di questa Corte – inaugurato dalle sentenze nn. 348 e 349 del 2007 –, secondo il quale le norme della Cedu, nel significato loro attribuito (con giurisprudenza consolidata: sentenza n. 49 del 2015) dalla Corte di Strasburgo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione, integrano, quali «norme interposte», il citato parametro costituzionale, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. 

Il giudice a quo ritiene che una pronuncia di illegittimità costituzionale si imponga anche in rapporto al procedimento di riesame delle misure cautelari personali, che si caratterizza come procedimento non connotato da un elevato tasso di tecnicismo, trattandosi di giudizio volto a verificare «la fondatezza dell’addebito cautelare», sotto il profilo della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari e in cui la «posta in gioco» sarebbe, inoltre, altissima, discutendosi dell’applicazione di provvedimenti restrittivi della libertà personale che possono avere effetti coincidenti con quelli della pena irrogata con la sentenza definitiva e che incidono, altresì, sull’«onorabilità» del soggetto attinto. 

Lo snodo cardine della pronuncia, con riferimento al parametro di cui all’art. 117 comma 1, Cost. in relazione all’art. 6 Cedu, attiene al fatto che la norma interposta ricavabile dalla Cedu, come interpretata dai giudici di Strasburgo, destinata a integrare il parametro costituzionale evocato, risulta essere di segno diverso da quello ipotizzato dal giudice a quo. Se è vero che la Corte Edu, nella sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza c. Italia, richiamata dal giudice a quo, ha ritenuto incompatibile con la garanzia della pubblicità dei procedimenti giudiziari il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione, del quale la legge italiana all’epoca vigente prevedeva la trattazione in forma camerale, è anche vero – osserva la Corte costituzionale – che, nel formulare la doglianza, il giudice a quo non ha tenuto conto «della giurisprudenza della Corte di Strasburgo attinente, in modo specifico, al procedimento di verifica della legittimità della detenzione ante iudicium della persona indiziata di un reato, secondo cui la Convenzione non richiede, in via di principio, che le relative udienze siano aperte al pubblico» (sentenza 15 novembre 2005, Reinprecht c. Austria, confermata da sentenze successive tanto da dar luogo a una giurisprudenza consolidata).

Il suddetto procedimento, specificamente disciplinato dall’art. 5, comma 4, Cedu, secondo la Corte europea «deve avere carattere giudiziale, assicurando il rispetto dei principi del contraddittorio e della “parità delle armi”, in quanto “fondamentali garanzie di procedura” e richiede, nel caso in cui la detenzione ricada nella previsione dell’art. 5, paragrafo 1, lettera c) – ossia quando si tratti di detenzione preventiva della persona indiziata di un reato – lo svolgimento di un’udienza» senza imporre necessariamente il suo carattere pubblico. In particolare, tale requisito non può essere ritenuto implicito nella previsione dell’art. 5, par. 4, in quanto finalizzata alla protezione contro l’arbitrio, ovvero desunto dallo stretto collegamento esistente, nella sfera dei procedimenti penali, tra tale previsione e l’art. 6, par. 1 della Convenzione. L’applicabilità del citato art. 6, par. 1, nella fase anteriore al giudizio «resta, infatti, limitata alle garanzie che, se non applicate in questa fase, pregiudicherebbero l’“equità” dei processi “nella loro interezza”, pregiudizio che il difetto di pubblicità dell’udienza di riesame della legalità della detenzione, durante la quale l’interessato sia stato assistito da un difensore, non appare invece idoneo a produrre». 

La Corte, sempre richiamando il contenuto della citata pronuncia della Corte Edu, considera altresì, che «le disposizioni degli artt. 5, paragrafo 4, e 6, paragrafo 1, della CEDU, malgrado la loro connessione, perseguono diverse finalità. La prima mira a proteggere l’individuo contro l’arbitraria detenzione, garantendo un rapido riesame della legalità di ogni forma di privazione della libertà personale. L’art. 6, paragrafo 1, si occupa invece della verifica della fondatezza di un’accusa penale ed è volto a garantire che il merito della causa – ossia la questione se l’accusato sia o no colpevole dei fatti contestatigli – fruisca di una “equa e pubblica udienza”. Tale diversità di obiettivi spiega perché l’art. 5, paragrafo 4, preveda requisiti procedurali più flessibili di quelli dell’art. 6, mentre sia molto più stringente con riguardo alla rapidità della decisione: esigenza con la quale la pubblicità delle udienze potrebbe collidere. Di qui la conclusione che l’art. 5, paragrafo 4, della CEDU, “pur richiedendo un’udienza per il riesame della legittimità della detenzione anteriore al giudizio, non richiede come regola generale che detta udienza sia pubblica”».

In tale ottica – dà atto la pronuncia – la pubblicità delle udienze, come affermato sempre dalla Corte Edu, «non rientra nel “nocciolo duro” delle garanzie inerenti alla nozione di “equità”, nello specifico contesto dei procedimenti in materia di detenzione (Corte europea dei diritti dell’uomo, 31 maggio 2011, Khodorkovskiy contro Russia)», così come «la procedura prevista dall’art. 5, par. 4, non deve sempre accompagnarsi a garanzie identiche a quelle pretese dall’art. 6, posto che le due disposizioni perseguono obiettivi differenti (tra le ultime, Corte europea dei diritti dell’uomo, 23 maggio 2017, Mustafa Avci contro Turchia; 13 dicembre 2016, Kolomenskiy contro Russia)». A fronte di ciò, «in fattispecie nelle quali il difetto di pubblicità delle udienze dei procedimenti in questione era stata censurata in rapporto tanto all’art. 5 quanto all’art. 6 della CEDU», la Corte Edu ha «rigettato la censura ai sensi dell’art. 35, paragrafi 3 e 4, della Convenzione, reputandola manifestamente infondata (Corte europea dei diritti dell’uomo, 6 dicembre 2011, Rafig Aliyev contro Azerbaigian; 9 novembre 2010, Farhad Aliyev contro Azerbaigian)».

La Corte costituzionale si sofferma anche sul parametro interno rappresentato dalla dedotta violazione dell’art. 111, primo comma, Cost., per contrasto con i principi del «giusto processo». Essa ricorda, in via preliminare, come già prima della legge costituzionale n. 2/1999, al principio di pubblicità delle udienze giudiziarie, «pur in assenza di un esplicito richiamo in Costituzione, era stata riconosciuta una indubbia valenza costituzionale, in particolare quale corollario della previsione dell’art. 101, primo comma, Cost. (secondo la quale “[l]a giustizia è amministrata in nome del popolo”)». Tuttavia, era stato precisato come tale regola non avesse valore assoluto ma fosse affidato alla discrezionalità legislativa il bilanciamento dei vari interessi in gioco (sentenze nn. 235 del 1993 e 373 del 1992), «potendo il legislatore introdurre deroghe al principio di pubblicità in presenza di particolari ragioni giustificative, purché obiettive e razionali (n. 50 del 1989 e n. 212 del 1986), e, nel caso del dibattimento penale, collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale (sentenza n. 12 del 1971)». Al principio di pubblicità, pur non espressamente costituzionalizzato neppure in occasione dell’inserimento in Costituzione dei principi del «giusto processo» a opera della l. cost. n. 2/1999, era stata tuttavia riconosciuta tale valenza individuandone il riferimento normativo nella previsione del novellato primo comma dell’art. 111 Cost. (secondo la quale «[l]a giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge»), sul presupposto che rappresentasse una componente coessenziale del processo equo. 

Va rilevato che la Corte riconosce che, nelle precedenti sentenze nn. 109 e 97 del 2015 e n. 135 del 2014, l’illegittimità costituzionale, oltre che per la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla disciplina convenzionale, era stata pronunciata anche per la violazione dell’art. 111, primo comma, Cost. 

Tuttavia, nel caso concreto si esclude che l’intervento auspicato dal giudice a quo possa ritenersi imposto dalla norma costituzionale interna sul «giusto processo», la quale non impone «in modo indefettibile la pubblicità di ogni tipo di procedimento giudiziario e di ogni fase di esso». La Corte opera, infatti, una ricostruzione delle caratteristiche del riesame, il quale «costituisce un procedimento incidentale, innestato sul tronco di un più ampio procedimento penale e non inerente al merito della pretesa punitiva (non diretto, cioè, a stabilire se l’imputato sia colpevole o innocente), ma finalizzato esclusivamente a verificare, in tempi ristrettissimi e perentori, la sussistenza dei presupposti della misura cautelare applicata». Non si tratta, inoltre, «di una sedes deputata all’acquisizione della prova (e, in particolare, della prova orale-rappresentativa)», in quanto il «perimetro cognitivo del tribunale del riesame è (…) segnato dagli atti trasmessigli dall’autorità giudiziaria procedente ai sensi dell’art. 309, comma 5, cod. proc. pen., nonché dagli “elementi addotti dalle parti nel corso dell’udienza” (art. 309, comma 9, primo periodo, cod. proc. pen.)», sì che siamo di fronte a «un giudizio preminentemente cartolare, condotto sulla base di dati raccolti fuori dal contraddittorio». Ancora, «la decisione assunta in sede di riesame «è intrinsecamente provvisoria, essendo destinata a rimanere superata dagli esiti del successivo giudizio», sì che il cosiddetto giudicato cautelare, suscettibile di formarsi all’esito della decisione del tribunale del riesame non è, notoriamente, un giudicato vero e proprio, esaurendosi nel mero impedimento alla riproposizione, rebus sic stantibus, di richieste al “giudice della cautela” basate su motivi già dedotti. Manca dunque l’«idoneità ad incidere in modo definitivo su beni dell’individuo costituzionalmente tutelati», uno degli elementi che le sentenze nn. 135 del 2014 e 93 del 2010 hanno considerato come idonei «a differenziare i procedimenti per l’applicazione delle misure di prevenzione e di sicurezza “da un complesso di altre procedure camerali”, conferendo “specifico risalto alle esigenze alla cui soddisfazione il principio di pubblicità delle udienze è preordinato”».

La Corte affronta anche la problematica evocata dal rimettente concernente la tutela del segreto investigativo, osservando che «il procedimento di riesame – ove esperito nel corso della fase delle indagini preliminari, come avviene il più delle volte (…) – pone anche problemi di tutela della segretezza cosiddetta esterna degli atti di indagine». Pur condividendo il rilievo del rimettente secondo cui l’ostensione all’imputato degli atti di indagine nell’ambito del procedimento di riesame determina la caduta del segreto sugli stessi, a mente dell’art. 329, comma 1, cpp, la Corte afferma che «resta fermo, tuttavia, il divieto di pubblicazione, anche parziale, degli atti fino alla conclusione delle indagini preliminari (ovvero fino al termine dell’udienza preliminare) sancito dall’art. 114, comma 2, cod. proc. pen. (essendo possibile unicamente la divulgazione del loro contenuto, ossia delle informazioni che se ne possono trarre: comma 7 dell’art. 114). Divieto che rischierebbe di essere travolto ove il pubblico fosse ammesso ad assistere direttamente all’udienza di riesame».

La Corte conclude che «malgrado l’entità della “posta in gioco”, la scelta di escludere la pubblicità delle udienze di riesame costituisce frutto di un ragionevole esercizio della discrezionalità che al legislatore compete in materia. Si è, infatti, di fronte ad un incidente che si inserisce in un impianto processuale più ampio, entro il quale il principio di pubblicità trova il suo “naturale” sbocco, satisfattivo della relativa esigenza costituzionale, nella fase dibattimentale». 

Da tali considerazioni la Corte ha fatto discendere anche la non fondatezza della restante censura relativa all’art. 3 Cost., «connessa all’asserita irragionevole disparità di trattamento dei soggetti coinvolti nel procedimento di riesame rispetto a quelli coinvolti nei procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione e di misure di sicurezza (i quali, grazie all’ intervento di questa Corte – recepito poi dal legislatore, quanto al procedimento di prevenzione – sono abilitati a chiedere l’udienza pubblica), nonché ai soggetti coinvolti nel giudizio abbreviato e nel giudizio ordinario», in quanto i tertia comparationis appaiono disomogenei. Infatti, «diversamente dal procedimento di riesame, i procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione e di misure di sicurezza sono procedimenti autonomi, nei quali il giudice di merito è chiamato ad esprimere – all’esito di un’attività di acquisizione probatoria – giudizi definitivi in ordine al thema decidendum». Ancora più evidente è la non omologabilità – quanto all’esigenza di rispetto del principio di pubblicità – del procedimento di riesame al giudizio abbreviato e al giudizio ordinario, in quanto in questi casi si discute della sede elettiva di esplicazione del principio di pubblicità, rappresentata dalla decisione sul merito dell’accusa penale.

 

6.2. Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio

Il principio contenuto nel brocardo latino “ne bis in idem”, che vieta di perseguire o giudicare per un secondo illecito una persona già condannata o sanzionata per gli stessi fatti ha, com’è noto, origini antiche. 

Esso ha acquisito un rilievo cruciale nel nostro ordinamento in seguito all’intervento della sentenza della Corte Edu Grande Stevens c. Italia, riguardante la compatibilità con esso della disciplina del cd. “doppio binario” sanzionatorio, in relazione a ipotesi che contemplano il cumulo tra sanzione penale e sanzione (formalmente) extrapenale per lo stesso fatto. Tale pronuncia, infatti, ha censurato specificamente l’ordinamento italiano per aver previsto un sistema di “doppio binario” sanzionatorio nel settore degli abusi di mercato. La Corte di Strasburgo ha, da un lato, affermato la natura penale della sanzione amministrativa pecuniaria prevista dall’art. 187-bis d.lgs n. 58/1998, in virtù dei cd. “criteri Engel”, e, dall’altro, la violazione da parte della Repubblica italiana dell’art. 4 Protocollo n. 7 alla Cedu, per avere proceduto in sede penale ai sensi dell’art. 185 d.lgs n. 58/1998, nonostante fosse già divenuta definitiva una prima condanna per il medesimo fatto, sia pure diversamente qualificato giuridicamente. 

Il principio del ne bis in idem ha conosciuto un’evoluzione sia nella giurisprudenza della Corte Edu, soprattutto con la sentenza A e B c. Norvegia, che in quella della Corte di giustizia dell’Unione europea, con il trittico di pronunce in materia risalente al 2018, evoluzione che ha avuto (vds. infra) un immediato riflesso nella giurisprudenza della Corte costituzionale.

 

6.2.1. I riflessi della sentenza Grande Stevens c. Italia sulla giurisprudenza costituzionale

Dal punto di vista cronologico occorre muovere dalla sentenza n. 102 del 2016, la quale, intervenuta dopo la sentenza della Corte Edu Grande Stevens c. Italia, ha dichiarato inammissibili tutte le questioni sottoposte al suo esame, attinenti alla compatibilità della concorrenza delle sanzioni amministrative e penali per i reati di abuso di informazioni privilegiate e manipolazioni del mercato con il diritto fondamentale al ne bis in idem, così come declinato dalla giurisprudenza di Strasburgo in sede di interpretazione dell’art. 4 Prot. n. 7 alla Cedu. 

La Corte dichiara, anzitutto, inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione penale, in via principale, dell’art. 187-bis, comma 1, d.lgs 24 febbraio 1998, n. 58[13], nella parte in cui prevede «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato» anziché «Salvo che il fatto costituisca reato», per violazione dell’art. 117, primo comma, Costituzione, in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 alla Cedu.

La Cassazione rimettente era investita nella specie di un ricorso contro una sentenza di condanna pronunciata dal giudice penale per il delitto di abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 184 Tuf, in relazione al medesimo fatto storico per il quale il ricorrente era già stato sanzionato in via definitiva dalla Consob per il parallelo illecito amministrativo di cui all’art. 187-bis Tuf.

Il giudice a quo aveva rilevato come la stessa pendenza di un processo penale, una volta divenuta definitiva la sanzione amministrativa irrogata dalla Consob, rappresentasse una violazione del diritto al ne bis in idem ai sensi della disposizione convenzionale citata, dal momento che – secondo quanto affermato dalla Corte Edu nel caso Grande Stevens, avente ad oggetto proprio la disciplina sanzionatoria italiana degli abusi di mercato – le sanzioni irrogate dalla Consob, pur se formalmente qualificate come “amministrative” nell’ordinamento italiano, dovevano invece essere considerate come sostanzialmente penali, sicché la loro irrogazione in via definitiva precludeva la possibilità di celebrare o proseguire un ulteriore processo penale avente ad oggetto il medesimo fatto, sia pure diversamente qualificato.

La Corte, prima di affrontare gli aspetti processuali, inquadra le questioni secondo il diritto interno e quello sovranazionale. I relativi passaggi sono comunque di interesse, a prescindere dall’esito della decisione. Secondo la Corte infatti: «In questo ambito, sino al 2005 le figure dell’abuso di informazioni privilegiate e della manipolazione del mercato erano sanzionate esclusivamente in sede penale come delitti dagli artt. 184 e 185 del Testo unico della finanza – TUF (d.lgs. n. 58 del 1998). Successivamente, con la legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), attuativa della direttiva n. 2003/6/CE (cosiddetta Market Abuse Directive, MAD), ai delitti di cui sopra sono stati affiancati due paralleli illeciti amministrativi previsti, rispettivamente, dagli artt. 187-bis (insider trading) e 187-ter (manipolazione di mercato) del novellato TUF. Gli illeciti amministrativi sono descritti in modo sovrapponibile ai corrispondenti delitti, ovvero con una formulazione tale da ricomprendere, di fatto, anche l’omologa fattispecie penale. La sovrapposizione dell’ambito applicativo di ciascun delitto con il corrispondente illecito amministrativo è contemplata dallo stesso legislatore, come risulta dalla clausola di apertura degli artt. 187-bis e 187-ter “[s]alve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato”, che, in tal modo, stabilisce, da un punto di vista sostanziale, il cumulo dei due tipi di sanzioni. Proprio tali clausole sono oggetto di censura nelle due ordinanze di rimessione». 

È richiamato, a questo punto, il contenuto della sentenza della Corte europea Grande Stevens, la quale aveva stigmatizzato la citata disciplina, in quanto contrastante con il principio del ne bis in idem, di cui all’art. 4 Prot. n. 7 alla Cedu, che vieta di perseguire o giudicare una persona per un secondo illecito nella misura in cui alla base di quest’ultimo vi siano i medesimi fatti. 

La Corte costituzionale prende atto che il principio del ne bis in idem è diversamente interpretato dalla giurisprudenza della Corte Edu «rispetto a come esso è applicato nell’ordinamento interno», e ciò in virtù di due aspetti. Il primo riguarda la valutazione della “identità del fatto”, l’“idem”. La Corte europea ritiene che «tale valutazione sia da effettuarsi in concreto e non in relazione agli elementi costitutivi dei due illeciti. In particolare, la giurisprudenza europea ravvisa l’identità del fatto quando, da un insieme di circostanze fattuali, due giudizi riguardino lo stesso accusato e in relazione a situazioni inestricabilmente collegate nel tempo e nello spazio» (la questione sarà meglio sviluppata nella successiva sentenza n. 200 del 2016, vds. infra). Il secondo aspetto «riguarda la nozione di sanzione penale, da definirsi non in base alla mera qualificazione giuridica da parte della normativa nazionale, ma in base ai cosiddetti “criteri Engel” (così denominati a partire dalla sentenza della Corte EDU, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi e costantemente ripresi dalle successive sentenze in argomento). Si tratta di tre criteri individuati dalla consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, da esaminare congiuntamente per stabilire se vi sia o meno una imputazione penale: il primo è dato dalla qualificazione giuridica operata dalla legislazione nazionale; il secondo è rappresentato dalla natura della misura (che, ad esempio non deve consistere in mere forme di compensazione pecuniaria per un danno subito, ma deve essere finalizzata alla punizione del fatto per conseguire effetti deterrenti); il terzo è costituito dalla gravità delle conseguenze in cui l’accusato rischia di incorrere. Alla luce di tali criteri, sanzioni qualificate come non aventi natura penale dal diritto nazionale, possono invece essere considerate tali ai fini della applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle relative garanzie». 

La Corte sottolinea che in questo panorama giurisprudenziale si è inserita la sentenza della Corte Edu 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia, la quale «censura specificamente l’ordinamento italiano per aver previsto un sistema di “doppio binario” sanzionatorio nel settore degli abusi di mercato. La decisione della Corte europea attribuisce natura sostanzialmente penale alle sanzioni amministrative stabilite per l’illecito di manipolazione del mercato ex art. 187-ter del TUF, in considerazione della gravità desumibile dall’importo elevato delle sanzioni pecuniarie inflitte e dalle conseguenze delle sanzioni interdittive. La medesima pronuncia sottolinea poi la mancanza di un meccanismo che comporti l’interruzione del secondo procedimento nel momento in cui il primo sia concluso con pronuncia definitiva. Infine, essa evidenzia l’identità dei fatti, dato che i due procedimenti, dinanzi alla CONSOB e davanti al giudice penale, riguardano un’unica e stessa condotta, da parte delle stesse persone, nella stessa data. Da tali considerazioni, la Corte europea desume la violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU».

In entrambi i casi, secondo la Corte rimettente, «il vulnus al principio del ne bis in idem, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Grande Stevens, avrebbe una valenza sistemica e potenzialmente riguarderebbe non solo gli abusi di mercato, ma tutti gli ambiti in cui l’ordinamento italiano ha istituito un sistema di doppio binario sanzionatorio, in cui il rapporto tra illecito amministrativo e penale non venga risolto nel senso di un concorso apparente di norme».

La Cassazione ha sottoposto dunque alla Corte costituzionale due questioni di legittimità costituzionale, una in via principale e l’altra in via subordinata. Per quanto attiene alla prima, essa ha ad oggetto la peculiare clausola di apertura dell’art. 187-bis Tuf, che disciplina le sanzioni amministrative previste per l’abuso di informazioni privilegiate, facendo salve però le sanzioni penali eventualmente irrogabili per i medesimi fatti. Ciò che il giudice a quo chiedeva era di sostituire questo inciso con la clausola di sussidiarietà – usuale nelle sanzioni amministrative – «salvo che il fatto costituisca reato», in modo tale da raggiungere l’effetto, esattamente opposto a quello voluto dal legislatore, di escludere l’applicabilità delle sanzioni amministrative (e, quindi, del relativo procedimento) allorché il fatto costituisse anche un illecito penale, in particolare ai sensi della parallela disposizione di cui all’art. 184 Tuf.

La questione è stata dichiarata, però, inammissibile per difetto di rilevanza, avendo ad oggetto una disposizione (l’art. 187-bis Tuf) che era già stata applicata una volta per tutte nell’ambito del procedimento amministrativo e giurisdizionale di irrogazione della sanzione Consob, e che non spiegava più alcun ruolo nel processo penale pendente avanti il giudice a quo, nel quale si discuteva piuttosto della disposizione di cui all’art. 184 Tuf, che prevede il corrispondente illecito penale di abuso di informazioni privilegiate.

A tale argomento la Corte costituzionale aggiunge la considerazione che un ipotetico accoglimento della questione non sarebbe valso a impedire la lamentata violazione del diritto convenzionale, posto che – anche nell’ipotesi ove la precedente sanzione Consob fosse stata revocata ex art. 30, comma 4, l. n. 87/1953 in conseguenza della pronuncia della Corte costituzionale, come ipotizzato dal giudice a quo – il processo penale instaurato nei confronti dell’imputato (già sottoposto a precedente procedimento amministrativo) ai sensi del citato art. 184 si sarebbe comunque dovuto celebrare e concludere. Il che avrebbe semmai contribuito alla violazione dell’art. 4 Prot. n. 7 alla Cedu, che vieta non già l’irrogazione di una doppia sanzione, ma la celebrazione di un secondo processo per il medesimo fatto.

La Corte esclude che siano utili in senso contrario gli argomenti sviluppati dal rimettente per sostenere che, comunque, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 187-bis d.lgs n. 58/1998 produrrebbe effetti favorevoli all’imputato, posto che, in forza dell’art. 30, quarto comma, l. n. 87/1953, andrebbe revocata la sanzione amministrativa pecuniaria determinata in base alla norma dichiarata incostituzionale e divenuta perciò priva di base legale.

La Corte non prende posizione, in tal caso, affermando di non averne motivo, sulla plausibilità dell’argomentazione del rimettente sull’applicabilità dell’art. 30, quarto comma, l. n. 87/1953 al caso in cui sia stato dichiarato incostituzionale non un reato ma un illecito amministrativo, che assume veste “penale” ai soli fini del rispetto delle garanzie della Cedu (tale questione, lasciata impregiudicata in questa sede, sarà poi affrontata dalla Corte con la pronuncia n. 43/2017, che ha ritenuto applicabile il citato art. 30, comma 4, alle sole ipotesi di sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità di norme penali, e non anche di norme amministrative), ritenendo evidente che, in ogni caso, si tratta di «profili attinenti alle vicende della sanzione amministrativa, privi di rilevanza per il giudice rimettente, e quindi estranee al presente giudizio» e che soprattutto «non scongiurerebbero in alcun modo la violazione del ne bis in idem, pienamente integrata dal proseguimento, auspicato dal giudice a quo, del giudizio penale, quali che siano poi gli effetti di quest’ultimo sulla fase di esecuzione delle sanzioni penali e amministrative».

La Consulta, nell’aggiungere che la questione posta in via principale dalla Corte di cassazione, se da un lato non vale a prevenire il vulnus all’art. 4 Prot. n. 7 alla Cedu nel processo principale, dall’altro lato, sul piano sistematico, eccede lo scopo al quale dovrebbe essere invece ricondotta sulla base della norma interposta richiamata, definisce la natura del divieto di bis in idem in base alla consolidata giurisprudenza europea. Esso, infatti, «ha carattere processuale, e non sostanziale» e dunque «permette agli Stati aderenti di punire il medesimo fatto a più titoli, e con diverse sanzioni, ma richiede che ciò avvenga in un unico procedimento o attraverso procedimenti fra loro coordinati, nel rispetto della condizione che non si proceda per uno di essi quando è divenuta definitiva la pronuncia relativa all’altro». In tale ottica, la Corte rileva che «non può negarsi che un siffatto divieto possa di fatto risolversi in una frustrazione del sistema del doppio binario, nel quale alla diversa natura, penale o amministrativa, della sanzione si collegano normalmente procedimenti anch’essi di natura diversa, ma è chiaro che spetta anzitutto al legislatore stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni che tale sistema genera tra l’ordinamento nazionale e la CEDU». La Corte ricorda, al riguardo, che in tale prospettiva si muove il recente art. 11, comma 1, lett. m della legge delega 9 luglio 2015, n. 114, per l’attuazione alla direttiva 2014/57/UE, che «impone agli Stati membri di adottare sanzioni penali per i casi più gravi di abuso di mercato, commessi con dolo e permette loro di aggiungere una sanzione amministrativa nella linea dell’art. 30 del regolamento 16 aprile 2014, n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e le direttive 2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE».

Quanto alla questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla Corte di cassazione penale in via subordinata, essa investe l’art. 649 cpp, nella parte in cui non prevede «l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali e dei relativi Protocolli», in relazione al medesimo parametro e alla medesima norma interposta della questione principale. 

Anche questa seconda questione è giudicata inammissibile dalla Corte costituzionale, in considerazione del «carattere perplesso della motivazione sulla sua non manifesta infondatezza».

Particolarmente significativa appare, anche in questo caso, la motivazione che conduce all’inammissibilità. 

Sottolinea la Corte come lo stesso giudice rimettente consideri che l’eventuale accoglimento della questione determinerebbe «un’incertezza quanto al tipo di risposta sanzionatoria – amministrativa o penale – che l’ordinamento ricollega al verificarsi di determinati comportamenti, in base alla circostanza aleatoria del procedimento definito più celermente. Infatti, l’intervento additivo richiesto non determinerebbe un ordine di priorità, né altra forma di coordinamento, tra i due procedimenti – penale e amministrativo – cosicché la preclusione del secondo procedimento scatterebbe in base al provvedimento divenuto per primo irrevocabile, ponendo così rimedio ai singoli casi concreti, ma non in generale alla violazione strutturale da parte dell’ordinamento italiano del divieto di bis in idem, come censurata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso Grande Stevens».

Inoltre, sempre secondo il giudice a quo, l’incertezza e la casualità delle sanzioni applicabili potrebbero a loro volta dar luogo alla «violazione di altri principi costituzionali: anzitutto, perché si determinerebbe una violazione dei principi di determinatezza e di legalità della sanzione penale, prescritti dall’art. 25 Cost.; in secondo luogo perché potrebbe risultare vulnerato il principio di ragionevolezza e di parità di trattamento, di cui all’art. 3 Cost.; infine, perché potrebbero essere pregiudicati i principi di effettività, proporzionalità e dissuasività delle sanzioni, imposti dal diritto dell’Unione europea, come esplicitato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza 23 febbraio 2013, in causa C-617/10 Aklagaren contro Akerberg Fransson), in violazione, quindi, degli artt. 11 e 117 Cost.».

Nel ragionamento del giudice rimettente, però, «tali “incongruenze” dovrebbero soccombere di fronte al prioritario rilievo da conferire alla tutela del diritto personale a non essere giudicato due volte per lo stesso fatto. Il sacrificio dei principi costituzionali or ora ricordati è perciò legato strettamente, nell’iter logico del giudice a quo, all’infondatezza della questione principale, che la Corte di cassazione ha individuato quale via privilegiata per risolvere il dubbio di costituzionalità».

La Corte, pertanto, al fine di affermare il carattere perplesso della motivazione sulla non manifesta infondatezza della questione subordinata, sottolinea come sia «lo stesso rimettente a postulare, a torto o a ragione, che l’adeguamento dell’ordinamento nazionale all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU dovrebbe avvenire prioritariamente attraverso una strada che egli non può percorrere per difetto di rilevanza, cosicché la questione subordinata diviene per definizione una incongrua soluzione di ripiego».

Inammissibile, in quanto formulata in maniera dubitativa e perplessa, è, infine, giudicata anche la questione di legittimità costituzionale prospettata dalla sezione tributaria della Cassazione, investita del ricorso contro l’ordinanza di una corte d’appello confermativa di sanzioni irrogate dalla Consob ai sensi dell’art. 187-ter Tuf per un fatto di manipolazione del mercato, per il quale i ricorrenti avevano già patteggiato una pena, divenuta nel frattempo definitiva, ai sensi della parallela disposizione incriminatrice di cui all’art. 185 Tuf. La questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 2 e 4 Prot. n. 7 alla Cedu, ha investito l’art. 187-ter, comma 1, d.lgs n. 58/1998, nella parte in cui prevede la comminatoria congiunta della sanzione penale prevista dall’art. 185 del medesimo d.lgs n. 58/1998 e della sanzione amministrativa prevista per l’illecito di cui all’art. 187-ter dello stesso decreto.

Secondo la Corte, il giudice a quo non ha sciolto i dubbi dal medesimo formulati quanto alla «compatibilità tra la giurisprudenza della Corte EDU e i principi del diritto dell’Unione europea – sia in ordine alla eventuale non applicazione della normativa interna, sia sul possibile contrasto tra l’interpretazione del principio del ne bis in idem prescelta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e quella adottata nell’ordinamento dell’Unione europea, anche in considerazione dei principi delle direttive europee che impongono di verificare l’effettività, l’adeguatezza e la dissuasività delle sanzioni residue – dubbi che dovevano invece essere superati e risolti per ritenere rilevante e non manifestamente infondata la questione sollevata. Tali perplessità e la formulazione dubitativa della motivazione si riflettono, poi, sull’oscurità e incertezza del petitum, giacché il rimettente finisce per non chiarire adeguatamente la portata dell’intervento richiesto a questa Corte, ciò che costituisce ulteriore ragione di inammissibilità della questione sollevata».

La questione concernente la compatibilità tra ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio in materia tributaria, in particolare in relazione al delitto di cui all’art. 10-ter d.lgs n. 74/2000, è stata oggetto dell’ordinanza n. 112 del 2016, di restituzione degli atti al giudice rimettente. 

In particolare, il giudice a quo ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 cpp «in relazione all’art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui all’imputato sia già stata applicata, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione EDU e dei relativi Protocolli», per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 alla Cedu. 

In tal caso, l’intervento, successivamente all’ordinanza di rimessione, del d.lgs 24 settembre 2015, n. 158 («Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23»), che ha profondamente innovato da un punto di vista sistematico il rapporto tra gli illeciti penali e amministrativi in questione, modificando alcune delle disposizioni prese in considerazione dal rimettente per ravvisare la violazione e, segnatamente, quelle di cui agli artt. 10-ter e 13 d.lgs n. 74/2000, introducendo fra l’altro una causa di non punibilità per il caso del pagamento dell’imposta dovuta e delle sanzioni amministrative, ha imposto la restituzione degli atti al giudice rimettente perché rivaluti la rilevanza della questione alla luce del novum normativo.

Per le medesime ragioni è stata disposta, con l’ordinanza n. 229 del 2016, la restituzione degli atti al giudice a quo nel caso di analoga questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 10-bis d.lgs n. 74/2000, per contrasto, tra l’altro, con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 alla Cedu. Va sottolineato che la Corte ha provveduto in tal senso, «a prescindere da ogni rilievo riguardo alla carenza, nel caso di specie – eccepita dall’Avvocatura generale dello Stato – del presupposto di applicabilità dell’evocato principio del ne bis in idem, rappresentato dall’identità del soggetto sottoposto a duplice procedimento sanzionatorio per il medesimo fatto (essendo l’imputato nel giudizio a quo chiamato a rispondere del reato di omesso versamento delle ritenute nella veste di legale rappresentante di una società per azioni, alla quale soltanto sono state dunque applicate le sanzioni amministrative, in base a quanto disposto dall’art. 7 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, recante “Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici”, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326)».

 

6.2.2. I riflessi della sentenza A e B c. Norvegia sulla giurisprudenza costituzionale

La sentenza n. 43 del 2018 rappresenta un ulteriore snodo cruciale nell’ambito della valutazione del doppio binario sanzionatorio. Si tratta di un caso, non frequente, in cui la Corte ha adottato la forma della sentenza (e non dell’ordinanza) per disporre la restituzione degli atti al giudice rimettente. Ciò testimonia anche il rilevante impegno argomentativo presente nella pronuncia. Tale restituzione degli atti è stata determinata, poi, dalla sopravvenienza non di un novum legislativo o giurisprudenziale interno, bensì di una sentenza della Corte Edu (come già avvenuto con l’ordinanza n. 150 del 2012), Grande Camera, nel caso A e B c. Norvegia.

Il Tribunale di Monza ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Cedu, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell’imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dei relativi Protocolli». 

Il rimettente giudicava una persona per il delitto punito dall’art. 5, comma 1, d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 («Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205»), consistito nell’omissione delle dichiarazioni relative all’imposta sui redditi e all’imposta sul valore aggiunto, al fine di evaderle per una somma superiore alla soglia di punibilità. 

Il medesimo fatto storico integrava anche gli estremi degli illeciti amministrativi previsti dall’art. 1, comma 1, d.lgs 18 dicembre 1997, n. 471 («Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a norma dell’articolo 3, comma 133, lettera q, della legge 23 dicembre 1996, n. 662»), quanto all’Irpef, e dall’art. 5, comma 1, del medesimo decreto, quanto all’Iva. In relazione a tali ultimi illeciti, l’imputato era già stato destinatario di una sanzione tributaria di importo pari al 120 per cento delle imposte evase, all’esito di un procedimento amministrativo oramai definitivamente concluso con atti non più soggetti a impugnazione. 

La Corte delinea l’atteggiarsi del doppio regime sanzionatorio in ambito tributario e la sua interferenza con il ne bis in idem convenzionale, avuto riguardo al momento di emissione dell’ordinanza di rimessione. 

L’art. 19 d.lgs n. 74/2000, enunciando il principio di specialità nel rapporto tra reato e illecito amministrativo tributario, assicura che la persona non possa subire l’applicazione sia della sanzione tributaria sia della sanzione penale. All’esito dei procedimenti gli verrà applicata la sola sanzione prevista dalla disposizione speciale, che secondo il rimettente è quella penale, il che esclude il verificarsi del bis in idem sostanziale, ovvero il cumulo tra sanzione amministrativa e sanzione penale in rapporto al medesimo fatto, perché impedito dall’operare del principio di specialità. 

Al contempo, la normativa vigente postula che per lo stesso fatto debbano svolgersi due procedimenti distinti, l’uno penale e l’altro tributario, e non esclude che uno di essi possa essere avviato o proseguito anche dopo che l’altro si è definitivamente concluso. Difatti, anche quando opera la specialità, l’amministrazione è comunque tenuta a irrogare le sanzioni amministrative, che si prestano così a divenire definitive. Esse restano però ineseguibili, fino a quando il procedimento penale non è stato definito con provvedimento di archiviazione o sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto (art. 21, comma 2, d.lgs n. 74/2000). 

In altri termini la sanzione tributaria viene disposta e acquisisce natura definitiva, ma, in virtù del principio di specialità, può essere messa in esecuzione solo se per il medesimo fatto non è stata inflitta una pena. A questo fine è necessario avviare il procedimento penale, quand’anche, come è accaduto nel giudizio a quo, esso sia posteriore alla definizione del procedimento e del contenzioso tributario. 

La normativa vigente presuppone perciò una fisiologica duplicazione dell’attività sanzionatoria, che dà vita a un fenomeno di bis in idem processuale: è consentito procedere nuovamente per il medesimo fatto già oggetto di un procedimento di altra natura anche se quest’ultimo è già stato definito. 

Pertanto, una volta riconosciuta la natura penale, in base all’art. 7 Cedu, della sanzione amministrativa tributaria, la fattispecie a livello convenzionale è presidiata dalla garanzia del divieto di bis in idem; il fatto che la legislazione vigente esiga lo svolgimento di un procedimento penale per il medesimo fatto, nonostante la definitività dell’accertamento tributario, lederebbe, a parere del rimettente, l’art. 4 Prot. n. 7 alla Cedu e, con esso, l’art. 117, primo comma, Cost. 

Considerato che, allo stato, il divieto di bis in idem recato dall’art. 649 cpp si applica alla sola materia penale in senso proprio, e non si estende perciò alla relazione tra procedimento tributario e procedimento penale, per la quale vige invece la regola opposta, il Tribunale di Monza ha chiesto di conformare l’ordinamento italiano alla Cedu e, dunque, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale nei termini sopraindicati. 

A questo punto, la Corte prende atto dell’evoluzione della giurisprudenza europea in tema di bis in idem, rispetto al momento in cui era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale, questione che era stata dunque correttamente formulata all’epoca. 

La premessa è che le disposizioni della Cedu e dei suoi protocolli addizionali «vivono nel significato loro attribuito dalla giurisprudenza della Corte EDU (…), che introduce un vincolo conformativo a carico dei poteri interpretativi del giudice nazionale quando può considerarsi consolidata». 

La consolidata giurisprudenza di Strasburgo, anteriore all’innovativa sentenza della Grande Camera del 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, assegnava al ne bis in idem convenzionale «carattere tendenzialmente inderogabile». Il principio aveva un’efficacia «che non era mediata da apprezzamenti discrezionali del giudice in ordine alle concrete modalità di svolgimento dei procedimenti sanzionatori, ma si riconnetteva esclusivamente alla constatazione che un fatto, colto nella sua componente naturalistica (cosiddetto idem factum), era già stato giudicato in via definitiva, con ciò impedendo l’avvio di un nuovo procedimento». 

Tale indirizzo non era mitigato dalla ritenuta possibilità, in casi sporadici, di concludere un secondo procedimento, nonostante la già intervenuta definizione del primo, «a condizione che sussistesse tra i due un legame materiale e temporale sufficientemente stretto» (Corte Edu, sentenza 13 dicembre 2005, Nilsson contro Svezia; analogamente, sentenza 17 febbraio 2015, Boman contro Finlandia, concernente ipotesi in cui la seconda sanzione costituiva una conseguenza, in sostanza automatica e necessitata, della condanna con cui era stata inflitta la prima pena, era il caso del ritiro in via amministrativa della patente di guida, a seguito della condanna penale per un reato legato alla circolazione stradale). Altra parte della giurisprudenza europea non aveva neppure menzionato «il criterio del legame temporale e materiale tra i due procedimenti (ad esempio, Grande Camera, sentenza 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia; sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia)» o ne escludeva l’operatività nei rapporti tra procedimento tributario e procedimento penale, «quando, come accade nell’ordinamento italiano, entrambe le autorità chiamate in gioco sono tenute ad un autonomo apprezzamento dei fatti (Corte EDU, sentenza 27 novembre 2014, Lucky Dev contro Svezia; sentenza 20 maggio 2014, Nykänen contro Finlandia; sentenza 20 maggio 2014, Glantz contro Finlandia)». 

L’altro aspetto sottolineato dalla Corte è che il divieto convenzionale di bis in idem aveva, alla luce della giurisprudenza vigente al tempo dell’ordinanza di rimessione, «natura esclusivamente processuale». L’art. 4 Prot. n. 7 alla Cedu, pur permettendo «agli Stati aderenti di punire il medesimo fatto a più titoli, e con diverse sanzioni», richiedeva che ciò avvenisse «in un unico procedimento o attraverso procedimenti fra loro coordinati, nel rispetto della condizione che non si proceda per uno di essi quando è divenuta definitiva la pronuncia relativa all’altro». La tutela convenzionale basata su quella disposizione «non richiedeva perciò alcun controllo di proporzionalità sulla misura della sanzione complessivamente irrogata, né, allo scopo di prevenire un trattamento sanzionatorio eccessivamente afflittivo, subordinava la quantificazione della pena inflitta per seconda a meccanismi compensativi rispetto alla sanzione divenuta definitiva per prima». 

La Corte si sofferma anche sui “pregressi” rapporti tra il ne bis in idem convenzionale e quello di derivazione eurounitaria, rilevando che «gli approdi della giurisprudenza di Strasburgo non coincidevano pienamente con quanto statuito dalla grande sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza 26 febbraio 2013, in causa C-617/10, Fransson. Nell’ambito del diritto dell’Unione, secondo quanto affermato da tale decisione, a fronte di un obbligo a carico dello Stato membro di repressione di certe condotte, l’efficacia del divieto di bis in idem basato sull’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali, è subordinata ad una verifica sul carattere effettivo, proporzionato e dissuasivo delle sanzioni applicate», sicché, ove la risposta sanzionatoria fosse sotto tale verso inadeguata, «il giudice potrebbe procedere, in malam partem, nel secondo giudizio anche dopo l’esaurimento del primo», così aprendosi la strada a una valutazione sul peso combinato delle sanzioni applicabili in due separate sedi; valutazione che incrina la portata meramente processuale della regola. 

Il divieto convenzionale di bis in idem, viceversa, «escludeva, al pari di quello ricavabile nella materia penale dalla Costituzione (sentenza n. 200 del 2016), ogni valutazione di tale natura, operando su una sfera esclusivamente processuale». 

Sulla base di tale premessa, il dubbio di legittimità costituzionale era stato correttamente formulato, assumendo a presupposto, in forza della giurisprudenza europea allora in essere, che il ne bis in idem convenzionale opera, nel rapporto tra accertamento tributario e accertamento penale, ogni qual volta sia stato definito uno dei relativi procedimenti. 

La Corte (prendendo posizione in modo netto nel senso del carattere innovativo della pronuncia) rileva, però, che con la sentenza 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, la Grande Camera della Corte di Strasburgo «ha impresso un nuovo sviluppo alla materia di cui si discute». La «rigidità del divieto convenzionale di bis in idem, nella parte in cui trova applicazione anche per sanzioni che gli ordinamenti nazionali qualificano come amministrative, aveva ingenerato gravi difficoltà presso gli Stati che hanno ratificato il Protocollo n. 7 alla CEDU, perché la discrezionalità del legislatore nazionale di punire lo stesso fatto a duplice titolo, pur non negata dalla Corte di Strasburgo, finiva per essere frustrata di fatto dal divieto di bis in idem». 

Per alleviare tale inconveniente, la Corte Edu ha enunciato «il principio di diritto secondo cui il ne bis in idem non opera quando i procedimenti sono avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto (“sufficiently closely connected in substance and in time”), attribuendo a questo requisito tratti del tutto nuovi rispetto a quelli che emergevano dalla precedente giurisprudenza». 

In particolare si rileva che, secondo la Corte di Strasburgo (par. 132 della sentenza A e B c. Norvegia), «legame temporale e materiale sono requisiti congiunti»; il «legame temporale non esige la pendenza contemporanea dei procedimenti, ma ne consente la consecutività, a condizione che essa sia tanto più stringente, quanto più si protrae la durata dell’accertamento»; il «legame materiale dipende dal perseguimento di finalità complementari connesse ad aspetti differenti della condotta, dalla prevedibilità della duplicazione dei procedimenti, dal grado di coordinamento probatorio tra di essi, e soprattutto dalla circostanza che nel commisurare la seconda sanzione si possa tenere conto della prima, al fine di evitare l’imposizione di un eccessivo fardello per lo stesso fatto illecito». Al contempo, «si dovrà valutare anche se le sanzioni, pur convenzionalmente penali, appartengano o no al nocciolo duro del diritto penale, perché in caso affermativo si sarà più severi nello scrutinare la sussistenza del legame e più riluttanti a riconoscerlo in concreto». 

La conclusione che trae la Corte è dunque nel senso che, con la sentenza A e B c. Norvegia, «entrambi i presupposti intorno ai quali è stata costruita l’odierna questione di legittimità costituzionale sono venuti meno». 

Il ne bis in idem convenzionale «cessa di agire quale regola inderogabile conseguente alla sola presa d’atto circa la definitività del primo procedimento, ma viene subordinato a un apprezzamento proprio della discrezionalità giudiziaria in ordine al nesso che lega i procedimenti, perché in presenza di una “close connection” è permesso proseguire nel nuovo giudizio ad onta della definizione dell’altro». 

Inoltre, «neppure si può continuare a sostenere che tale principio ha carattere esclusivamente processuale, giacché criterio eminente per affermare o negare il legame materiale è proprio quello relativo all’entità della sanzione complessivamente irrogata. Se pertanto la prima sanzione fosse modesta, sarebbe in linea di massima consentito, in presenza del legame temporale, procedere nuovamente al fine di giungere all’applicazione di una sanzione che nella sua totalità non risultasse sproporzionata, mentre nel caso opposto il legame materiale dovrebbe ritenersi spezzato e il divieto di bis in idem pienamente operante». 

Il carattere innovativo che la regola della sentenza A e B c. Norvegia ha impresso in ambito convenzionale al divieto di bis in idem può essere sintetizzato nel passaggio «dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti che si concludono indipendentemente l’uno dall’altro, alla facoltà di coordinare nel tempo e nell’oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati a un’unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva, avuto specialmente riguardo all’entità della pena (in senso convenzionale) complessivamente irrogata». 

La svolta giurisprudenziale è stata reputata dalla Corte potenzialmente produttiva di effetti con riguardo al rapporto tra procedimento tributario e procedimento penale. 

In precedenza, la loro reciproca autonomia «escludeva in radice che essi potessero sottrarsi al divieto di bis in idem; oggi, pur dovendosi prendere in considerazione il loro grado di coordinamento probatorio, al fine di ravvisare il legame materiale, vi è la possibilità che in concreto gli stessi siano ritenuti sufficientemente connessi, in modo da far escludere l’applicazione del divieto di bis in idem, come testimonia la stessa sentenza A e B contro Norvegia, che proprio a tali procedimenti si riferisce». 

Naturalmente la decisione non può che «passare da un giudizio casistico, affidato all’autorità che procede. Infatti, sebbene possa affermarsi in termini astratti che la configurazione normativa dei procedimenti è in grado per alcuni aspetti di integrare una “close connection”, vi sono altri aspetti che restano necessariamente consegnati alla peculiare dinamica con cui le vicende procedimentali si sono atteggiate nel caso concreto». 

Ne consegue, secondo la Corte, che «il mutamento del significato della normativa interposta, sopravvenuto all’ordinanza di rimessione per effetto di una pronuncia della grande camera della Corte di Strasburgo che esprime il diritto vivente europeo, comporta la restituzione degli atti al giudice a quo, ai fini di una nuova valutazione sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale. Se, infatti, il giudice a quo ritenesse che il giudizio penale è legato temporalmente e materialmente al procedimento tributario al punto da non costituire un bis in idem convenzionale, non vi sarebbe necessità ai fini del giudizio principale di introdurre nell’ordinamento, incidendo sull’art. 649 cod. proc. pen., alcuna regola che imponga di non procedere nuovamente per il medesimo fatto». 

La Corte, in conclusione, sottolinea che la nuova regola della sentenza A e B contro Norvegia rende «meno probabile l’applicazione del divieto convenzionale di bis in idem alle ipotesi di duplicazione dei procedimenti sanzionatori per il medesimo fatto», ma «non è affatto da escludere che tale applicazione si imponga di nuovo, sia nell’ambito degli illeciti tributari, sia in altri settori dell’ordinamento, ogni qual volta sia venuto a mancare l’adeguato legame temporale e materiale, a causa di un ostacolo normativo o del modo in cui si sono svolte le vicende procedimentali».

La Corte conclude, pertanto, la pronuncia con un invito al legislatore a «stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni» che il sistema del cosiddetto doppio binario «genera tra l’ordinamento nazionale e la CEDU» (sentenza n. 102 del 2016).

 

6.2.3. Ne bis in idem nell’ambito della Cedu e nell’ambito dell’Unione europea

Quasi coeva alla pronuncia sopraindicata è l’ordinanza n. 54 del 2018, con cui la Corte affronta una questione di per sé avente un certo interesse in quanto riguardante una normativa che impone una sanzione amministrativa indipendentemente dalla sanzione penale, in una materia che costituisce attuazione dell’ordinamento eurounitario, evocando quale parametro l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Cedu e non l’art. 50 della Carta di Nizza. Anche se non entra nel merito delle questioni, la pronuncia ribadisce l’esistenza di una differenza tra la tutela del divieto di bis in idem nell’ambito della Cedu e nell’ambito dell’Unione europea, ma ciò quando non era ancora intervenuto sul tema il trittico delle pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea del 2018. 

La Corte ha dichiarato manifestamente inammissibili, per la carente e incerta motivazione dell’ordinanza di rimessione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649 cpp e dell’art. 3, comma 1, legge 23 dicembre 1986, n. 898 («Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 ottobre 1986, n. 701, recante misure urgenti in materia di controlli degli aiuti comunitari alla produzione dell’olio di oliva. Sanzioni amministrative e penali in materia di aiuti comunitari nel settore agricolo»), per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione in riferimento all’art. 4 del Protocollo addizionale n. 7 alla Cedu. 

Secondo il rimettente, l’art. 3, comma 1, l. n. 898/1986 – il quale impone il pagamento di sanzioni amministrative pecuniarie «[i]ndipendentemente dalla sanzione penale», violerebbe l’art. 4 Prot. n. 7 alla Cedu, nell’applicazione datane dalla Corte Edu con la sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia, secondo cui sarebbe vietato sottoporre la stessa persona a un secondo giudizio in relazione al medesimo fatto, inteso come dato fenomenico, indipendentemente dalla qualificazione dello stesso come reato o come illecito amministrativo, se di natura sostanzialmente penale. Analoga violazione sarebbe ravvisabile, sempre secondo il rimettente, con riferimento all’art. 649 cpp, che vieta di sottoporre lo stesso imputato, condannato o prosciolto con sentenza irrevocabile, a un secondo procedimento penale per il medesimo fatto, solo in caso di giudizi formalmente qualificati come penali. 

La Corte sottolinea che il giudice a quo «oblitera del tutto la differenza tra la tutela del divieto di bis in idem nell’ambito della CEDU e nell’ambito dell’Unione europea, tanto da considerare l’art. 4 del Protocollo addizionale n. 7 alla CEDU come “norma comunitaria” e ritenere che la citata disposizione convenzionale vieterebbe “la legiferazione di norme interne in contrasto con l’ordinamento comunitario”», confusione tanto più rilevante in quanto la disciplina di cui alla legge n. 898/1986 è attuativa di una specifica normativa comunitaria. 

Ulteriore appunto mosso all’ordinanza di rimessione consiste nel fatto che essa «trascura di esaminare i principi di diritto dell’Unione europea applicabili al caso di specie, i quali, peraltro, non sono del tutto coincidenti con quelli sviluppati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in riferimento al richiamato art. 4 del Protocollo addizionale n. 7 alla CEDU». Quindi, il rimettente omette passaggi motivazionali indispensabili per un’adeguata prospettazione delle questioni di legittimità costituzionale. 

La Corte sottolinea, inoltre, che, anche in riferimento alla tutela convenzionale citata dal rimettente, questi «omette qualsiasi motivazione sui presupposti» individuati dalla giurisprudenza della Corte Edu «per riconoscere natura sostanzialmente penale alla sanzione amministrativa prevista dal censurato art. 3 della legge n. 898 del 1986, ai fini dell’applicabilità del divieto convenzionale di bis in idem, come tutelato dall’art. 4 del Protocollo addizionale n. 7 alla CEDU». 

Ulteriore rilievo attiene al fatto che il rimettente «non prende in alcuna considerazione la circostanza che il procedimento penale riguarda la persona fisica, mentre il procedimento civile di opposizione alla sanzione amministrativa riguarda la società di cui la persona fisica è legale rappresentante» (cfr. sul punto ord. n. 229 del 2016, supra). 

Ulteriore tassello in materia di ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio, in particolare con riguardo alle sanzioni in materia tributaria, è rappresentato dalla sentenza n. 222 del 2019, la quale interviene dopo l’emissione della trilogia di sentenze della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenze Menci, Garlsson e Di Puma), riguardanti la compatibilità del doppio sistema sanzionatorio con l’art. 50 della Carta di Nizza. Pur trattandosi di una sentenza di inammissibilità, che non scende nel merito della questione, la pronuncia offre notevoli spunti di interesse in quanto, da un lato, ribadisce quanto già affermato circa il ne bis in idem convenzionale nella sentenza n. 43 del 2018 e, dall’altro, richiama il contenuto della tre pronunce della Corte di giustizia sopraindicate, ritenendo che esse si pongano in rapporto di sostanziale conformità con la giurisprudenza convenzionale in tema di ne bis in idem. In sostanza, si evidenzia un allineamento tra le nozioni di bis in idem a livello convenzionale ed eurounitario.

Il Tribunale ordinario di Bergamo ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione Edu – questioni di legittimità costituzionale dell’ art. 649 cpp, «nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti di imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dei relativi Protocolli».

Il giudice a quo doveva giudicare della responsabilità penale di una persona fisica cui veniva contestato il delitto di cui all’art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 («Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’art. 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205»), in relazione all’omissione del versamento dell’imposta sul valore aggiunto (Iva) per un importo superiore all’attuale soglia di punibilità di 250.000 euro. Il medesimo imputato era, peraltro, già stato destinatario, per la medesima omissione, di una sanzione amministrativa di importo pari al 30 per cento della somma evasa ai sensi dell’art. 13, comma 1, d.lgs 18 dicembre 1997, n. 471, recante «Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a norma dell’articolo 3, comma 133, lettera q), della legge 23 dicembre 1996, n. 662»: sanzione divenuta ormai definitiva.

La peculiarità della vicenda sta nel fatto che il cuore delle censure del rimettente è l’asserita contrarietà dell’art. 649 cpp, nella sua attuale e lacunosa formulazione, con il divieto di bis in idem, nell’estensione riconosciutagli dalla Corte di giustizia dell’Unione europea dalla sentenza 20 marzo 2018, in causa C-524/15, Menci, pronunciata in risposta a una domanda pregiudiziale formulata dallo stesso giudice a quo, ma il rimettente indica specificamente quale parametro interposto il solo art. 4 Prot. n. 7 alla Cedu, mentre la sentenza Menci – sulla quale è imperniata la motivazione dell’ordinanza di rimessione – interpreta in realtà la corrispondente disposizione del diritto dell’Unione, rappresentata dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Cdfue), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

La Corte rileva che dalla «logica complessiva dell’ordinanza di rimessione si evince, peraltro, che il giudice a quo intende sottoporre alla Corte la questione della compatibilità della disciplina censurata tanto con l’art. 4 Prot. n. 7 CEDU, quanto con l’art. 50 CDFUE, evocato del resto dalla motivazione; e ciò muovendo dal presupposto di una sostanziale coincidenza tra gli approdi cui è pervenuta da un lato la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, e dall’altro la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea nella citata sentenza Menci».

Secondo il rimettente, la duplicazione del procedimento sanzionatorio e delle relative sanzioni per lo stesso fatto – il mancato versamento del medesimo debito Iva – determinerebbe la violazione del ne bis in idem, così come declinato dalla citata sentenza Menci, non potendo essere ritenute soddisfatte nella specie le condizioni da quella sentenza fissate perché possa legittimarsi un doppio binario sanzionatorio per un medesimo fatto; condizioni indicate dal rimettente nella complementarietà di scopi tra procedimenti e relative sanzioni, nella diversità di taluni aspetti della condotta, nonché nella sussistenza di una normativa di coordinamento atta a limitare l’onere supplementare derivante dal cumulo di procedimenti e di norme idonee a garantire la proporzionalità della complessiva risposta sanzionatoria rispetto alla gravità del reato.

Di qui le questioni di legittimità costituzionale sopraindicate. 

Secondo la Corte, la censura fondamentale prospettata dal rimettente, che assume il contrasto dell’art. 649 cpp con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 alla Cedu (e implicitamente all’art. 50 Cdfue), è «inammissibile, dal momento che l’ordinanza di rimessione non chiarisce adeguatamente le ragioni per le quali non sarebbero soddisfatte nel caso di specie le condizioni di ammissibilità di un “doppio binario” procedimentale e sanzionatorio per l’omesso versamento di IVA, così come enunciate dalla giurisprudenza europea evocata», limitandosi a sottolineare la natura “punitiva” della sanzione amministrativa irrogata all’imputato ai sensi dell’art. 13, comma 1, d.lgs n. 471/1997, nonché l’identità storico-naturalistica del fatto (l’omesso versamento del debito Iva) astrattamente oggetto delle due sanzioni.

La Corte rileva che «la recente giurisprudenza tanto della Corte EDU, quanto della Corte di giustizia dell’Unione europea, da cui il rimettente prende le mosse, non affermano affatto che la mera sottoposizione di un imputato a un processo penale per il medesimo fatto per il quale egli sia già stato definitivamente sanzionato in via amministrativa integri, sempre e necessariamente, una violazione del ne bis in idem».

Al riguardo viene evocata la sentenza n. 43 del 2018, la quale, nel richiamare la sentenza A e B c. Norvegia della Corte Edu, aveva ritenuto che «debba essere esclusa la violazione del diritto sancito dall’art. 4 Prot. n. 7 CEDU allorché tra i due procedimenti – amministrativo e penale – che sanzionano il medesimo fatto sussista un legame materiale e temporale sufficientemente stretto; legame che deve essere ravvisato, in particolare: quando le due sanzioni perseguano scopi diversi e complementari, connessi ad aspetti diversi della medesima condotta; quando la duplicazione dei procedimenti sia prevedibile per l’interessato; quando esista una coordinazione, specie sul piano probatorio, tra i due procedimenti; e quando il risultato sanzionatorio complessivo, risultante dal cumulo della sanzione amministrativa e della pena, non risulti eccessivamente afflittivo per l’interessato, in rapporto alla gravità dell’illecito. Al contempo – come sottolineato ancora dalla sentenza n. 43 del 2018 – “si dovrà valutare”, ai fini della verifica della possibile lesione dell’art 4 Prot. n. 7 CEDU, “se le sanzioni, pur convenzionalmente penali, appartengano o no al nocciolo duro del diritto penale, perché in caso affermativo si sarà più severi nello scrutinare la sussistenza del legame e più riluttanti a riconoscerlo in concreto”».

La Corte ravvisa, quindi, un parallelismo con le recenti pronunce della Cgue (Grande Sezione), che «è giunta ad approdi in larga misura analoghi, nelle tre sentenze coeve del 20 marzo 2018 (rispettivamente in causa C-537/16, Garlsson Real Estate SA e altri, in cause C-596/16 e C-597/16, Di Puma e CONSOB, e in causa C-524/15, Menci)». A parere del Supremo giudice dell’Unione, infatti, «la violazione del ne bis in idem sancito dall’art. 50 CDFUE non si verifica a) allorché le due sanzioni perseguano scopi differenti e complementari, sempre che b) il sistema normativo garantisca una coordinazione tra i due procedimenti sì da evitare eccessivi oneri per l’interessato, e c) assicuri comunque che il complessivo risultato sanzionatorio non risulti sproporzionato rispetto alla gravità della violazione. La sostanziale coincidenza di tali criteri rispetto a quelli enunciati dalla Corte di Strasburgo è, del resto, espressamente sottolineata dalla Corte di giustizia, che richiama il principio generale, posto dall’art. 52, paragrafo 1, CDFUE, dell’equivalenza delle tutele assicurate dalla Carta rispetto a quelle approntate dalla CEDU e dei suoi protocolli (sentenza Menci, paragrafi 61-62)».

La Corte rileva che la sentenza Menci ha concluso nel senso che «la disciplina italiana in materia di omesso versamento di IVA, riservando la perseguibilità in sede penale alle sole violazioni superiori a determinate soglie di imposta evasa e attribuendo tra l’altro rilevanza, in sede penale, al volontario pagamento del debito tributario e delle sanzioni amministrative, appare conformata in modo tale da “garantire” – sia pure “con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio” – che “il cumulo di procedimenti e di sanzioni che essa autorizza non eccede quanto è strettamente necessario ai fini della realizzazione dell’obiettivo” di assicurare l’integrale riscossione dell’IVA (paragrafo 57). In tal modo, la Corte di giustizia da un lato suggerisce al giudice del procedimento principale che il complessivo regime sanzionatorio e procedimentale previsto dal legislatore italiano in materia di omesso versamento di IVA non si pone in contrasto, in linea generale, con il ne bis in idem riconosciuto dalla Carta, pur facendo salva la diversa conclusione cui il giudice del rinvio dovesse pervenire in applicazione dei criteri enunciati in via generale dalla Corte; e, dall’altro, affida allo stesso giudice nazionale il compito di verificare che, nel caso concreto, “l’onere risultante concretamente per l’interessato dall’applicazione della normativa nazionale in discussione nel procedimento principale e dal cumulo dei procedimenti e delle sanzioni che la medesima autorizza non sia eccessivo rispetto alla gravità del reato commesso” (sentenza Menci, paragrafo 64)».

La Corte rileva che la questione sottopostale «sottende, invece, un giudizio di radicale contrarietà al ne bis in idem – così come riconosciuto tanto dall’art. 4 Prot. n. 7, quanto dall’art. 50 CDFUE – dell’attuale sistema di “doppio binario” sanzionatorio e procedimentale, così come previsto in astratto dalla legislazione italiana in materia di omesso versamento di IVA»; contrarietà che si produrrebbe sempre e necessariamente, ma tale conclusione «avrebbe però meritato più puntuale dimostrazione da parte del giudice a quo, alla luce dei criteri enunciati dalle due Corti europee nelle sentenze appena rammentate».

Nel chiarire le ragioni dell’inammissibilità, la Corte fornisce una serie di indicazioni sui criteri da valutare nelle fattispecie ai fini del rispetto del ne bis in idem convenzionale ed eurounitario. 

In merito «anzitutto alle finalità delle due sanzioni – il primo dei criteri enunciati da entrambe le Corti europee –, l’ordinanza di rimessione si limita ad affermarne apoditticamente l’identità di scopo, senza però chiarire – in particolare – le ragioni per cui dovrebbe escludersi che la minaccia di una sanzione detentiva per l’evasione di importi IVA annui superiori – oggi – a 250.000 euro, in aggiunta a una sanzione amministrativa pecuniaria calcolata in misura percentuale rispetto all’importo evaso, possa perseguire i legittimi scopi di rafforzare l’effetto deterrente spiegato dalla mera previsione di quest’ultima, di esprimere la ferma riprovazione dell’ordinamento a fronte di condotte gravemente pregiudizievoli per gli interessi finanziari nazionali ed europei, nonché di assicurare ex post l’effettiva riscossione degli importi evasi da parte dell’amministrazione grazie ai meccanismi premiali connessi all’integrale saldo del debito tributario».

Rileva poi la Corte che nell’ordinanza di rimessione nessuna parola è spesa sul «requisito – enunciato dalla Corte EDU nella sentenza A e B contro Norvegia – della necessaria prevedibilità per l’interessato della duplicazione dei procedimenti e delle sanzioni. Prevedibilità che è, peraltro, in re ipsa, dal momento che la legislazione italiana stabilisce chiaramente la sanzionabilità in via amministrativa della violazione ai sensi dell’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997 da un lato, e in via penale ai sensi dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, limitatamente – nella formulazione attuale – agli omessi versamenti di importo superiore ai 250.000 euro, dall’altro».

La Corte, inoltre, stigmatizza che il giudice a quo, pur avendo affermato «l’eccessiva onerosità, per l’imputato, del cumulo tra procedimento amministrativo e procedimento penale – ciò che determinerebbe in effetti la violazione del ne bis in idem secondo la giurisprudenza di entrambe le Corti europee –», non ha fornito «alcuna plausibile motivazione dell’assunto».

Invero, «l’ordinanza di rimessione si limita a richiamare gli artt. 19, 20 e 21 del d.lgs. n. 74 del 2000 – relativi alla specialità tra sanzioni amministrative e penali, all’assenza di pregiudizialità tra procedimento amministrativo e procedimento penale, e alla sospensione dell’esecuzione delle sanzioni amministrative in pendenza di procedimento penale – per poi asserire che la disciplina in questione, non essendo idonea a inibire l’avvio o la prosecuzione del procedimento penale dopo la definitività della sanzione amministrativa, risulterebbe in contrasto con il ne bis in idem», ma così facendo il giudice a quo ha trascurato «però di considerare che, secondo la giurisprudenza delle due Corti europee, l’eccessiva onerosità per l’interessato dei procedimenti amministrativo e penale deve essere esclusa allorché essi risultino avvinti da una stretta connessione sostanziale e temporale».

In particolare, «il rimettente omette di dare conto delle numerose disposizioni normative, ulteriori rispetto agli artt. 19, 20 e 21 del d.lgs. n. 74 del 2000, che regolano i rapporti tra procedimento amministrativo e procedimento penale in materia tributaria. Al di là di un fugace accenno all’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 74 del 2000, relativo alla causa di non punibilità costituita dalla volontaria estinzione del debito tributario e della sanzione amministrativa – nella specie non applicabile per mancato integrale pagamento di dette somme da parte dell’imputato –, il rimettente trascura di descrivere gli ulteriori istituti premiali introdotti dal decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23), quali la concessione di termine per adempiere al pagamento del residuo debito tributario rateizzato (art. 13, comma 3, del d.lgs. n. 74 del 2000) o gli effetti dell’adempimento del debito erariale sulla confisca (art. 12-bis del medesimo testo normativo), e di saggiarne la portata, in termini di introduzione di elementi di raccordo tra adempimento del debito tributario da un lato, e svolgimento ed esito del processo penale, dall’altro lato».

La Corte considera, poi, che il giudice a quo non si è confrontato «con le disposizioni, estranee al corpus normativo del d.lgs. n. 74 del 2000, che prevedono obblighi di comunicazione degli illeciti tributari da parte della Guardia di Finanza all’autorità giudiziaria (art. 331 cod. proc. pen.) e, specularmente, da parte dell’autorità giudiziaria alla Guardia di Finanza (art. 36 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 […]) e all’Agenzia delle entrate (art. 14, comma 4, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 […]), miranti ad assicurare una sostanziale contestualità dell’avvio dell’accertamento tributario e di quello penale», né con quelle «che consentono forme di circolazione del materiale probatorio raccolto dall’indagine penale all’accertamento tributario e viceversa (art. 63, comma 1, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 […] e art. 33, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 e, specularmente, art. 220 delle Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale)».

Nemmeno risulta richiamata la giurisprudenza della Corte di cassazione civile e penale relativa all’utilizzabilità del materiale istruttorio raccolto in ciascun procedimento, quale elemento di prova e fonte di convincimento da parte del giudice che istruisce l’altro procedimento.

Ulteriore carenza dell’ordinanza di rimessione attiene all’omessa spiegazione del motivo per il quale «l’irrogazione di una pena detentiva – destinata con ogni verosimiglianza, peraltro, a essere condizionalmente sospesa – risulterebbe sproporzionata rispetto alla gravità del reato (consistente, nella specie, nell’omissione del versamento di 282.495,76 euro dovuti a titolo di IVA), se combinata con la sanzione amministrativa già applicata (pari in concreto al 30 per cento dell’imposta evasa), con conseguente violazione del ne bis in idem nei confronti dell’imputato».

Si nota, infine, che nessun argomento è stato speso, infine, dal giudice a quo «sulla questione della riconducibilità o meno delle sanzioni penali previste in materia di evasione di IVA al “nocciolo duro” del diritto penale, rispetto al quale – secondo la sentenza A e B contro Norvegia della Corte europea dei diritti dell’uomo – più rigoroso dovrebbe essere il vaglio di compatibilità del “doppio binario” sanzionatorio con la garanzia convenzionale del ne bis in idem».

Secondo la Corte, pertanto, le segnalate lacune determinano un’insufficiente motivazione tanto della non manifesta infondatezza della questione prospettata, quanto della sua rilevanza, che si riverbera anche sulle censure ex art. 3 Cost., declinate come ancillari rispetto alla prima, determinandone parimenti l’inammissibilità.

 

6.2.4. Ne bis in idem alla luce della giurisprudenza convenzionale: idem factum e concorso formale di reati

La sentenza n. 200 del 2016 ha affrontato la tematica dei criteri per identificare la medesimezza del fatto, ai fini del divieto di bis in idem in materia penale. Nell’occasione la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 alla Cedu, l’art. 649 cpp nella parte in cui, secondo il diritto vivente, esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale. 

Il giudice a quo aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 cpp, nella parte in cui tale disposizione limita l’applicazione del principio del ne bis in idem al medesimo fatto giuridico, nei suoi elementi costitutivi, sebbene diversamente qualificato, invece che al medesimo fatto storico, con riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Cedu. 

Il rimettente si trovava a decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio proposta nei confronti di una persona imputata dell’omicidio doloso di 258 persone, già prosciolta, in un precedente giudizio, in relazione alla medesima condotta, per prescrizione dei reati previsti dagli artt. 434, secondo comma, e 437, secondo comma, cp. 

Il giudice a quo ha premesso di non poter applicare l’art. 649 cpp, che enuncia il divieto di bis in idem in materia penale, a causa del significato che tale disposizione avrebbe assunto nel diritto vivente: vi sarebbero infatti due ostacoli insuperabili per l’interprete che intenda adeguarsi a tale consolidata giurisprudenza. 

In primo luogo, pur a fronte di una formulazione letterale della norma chiaramente intesa a porre a raffronto il fatto storico, il diritto vivente esigerebbe invece l’identità del fatto giuridico, valutando non la sola condotta dell’agente, ma la triade “condotta-evento-nesso di causa”, indagando sulla natura dei reati e sui beni che essi tutelano. 

In secondo luogo, il rimettente ha richiamato la pacifica giurisprudenza di legittimità secondo cui l’omicidio concorre formalmente con i reati indicati dagli artt. 434 e 437 cp, quando, come è accaduto nel caso di specie, il primo e i secondi sono commessi con un’unica azione od omissione, escludendo l’applicabilità dell’art. 649 cpp.

Il giudice a quo ha, dunque, censurato il diritto nazionale così come sopra identificato, denunciandone il contrasto con la Cedu (art. 4 Prot. n. 7), come interpretato dalla sentenza della Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia, che ha invece un significato più favorevole per l’imputato, ravvisando identità del fatto quando medesima è l’azione o l’omissione per la quale la persona è già stata irrevocabilmente giudicata, non ostando al divieto di bis in idem né la diversità dell’evento conseguente alla condotta né la configurabilità di un concorso formale di reati.

La Corte costituzionale muove dalla considerazione secondo cui appare ormai pacifico, alla stregua della la sentenza Zolotoukhine, che la Convenzione recepisca, nell’interpretare il principio del ne bis in idem, «il più favorevole criterio dell’idem factum, a dispetto della lettera dell’art. 4 del Protocollo n. 7, anziché la più restrittiva nozione di idem legale». 

Secondo la Corte, il “fatto”, di per sé, va definito secondo l’accezione che gli conferisce l’ordinamento, e non quella di un eventuale approccio epistemologico. Diventa essenziale, pertanto, «rivolgersi alla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, per comprendere se esso si restringa alla condotta dell’agente, ovvero abbracci l’oggetto fisico, o anche l’evento naturalistico». 

Dopo un’approfondita ricognizione della giurisprudenza convenzionale, la Corte conclude che «non è possibile isolare con sufficiente certezza alcun principio, alla luce del quale valutare la legittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen., ove si escluda l’opzione compiuta con nettezza a favore dell’idem factum (questa sì, davvero espressiva di un orientamento sistematico e definitivo). In particolare, non solo non vi è modo di ritenere che il fatto, quanto all’art. 4 del Protocollo n. 7, sia da circoscrivere alla sola condotta dell’agente, ma vi sono indizi per includere nel giudizio l’oggetto fisico di quest’ultima, mentre non si può escludere che vi rientri anche l’evento, purché recepito con rigore nella sola dimensione materiale». 

Una volta chiarita la portata del vincolo derivante dalla Cedu, la Corte esamina il contenuto del diritto vivente formatosi sull’art. 649 cpp e si discosta dalla lettura datane dal giudice rimettente, tutta incentrata sul criterio dell’idem legale. 

La Corte ricorda di aver già preso atto che «“l’identità del ‘fatto’ sussiste – secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. un. 28 giugno 2005, n. 34655) – quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona” (sentenza n. 129 del 2008) e statuisce che è in questi termini, e soltanto in questi, in quanto segnati da una pronuncia delle sezioni unite, che l’art. 649 cod. proc. pen. vive nell’ordinamento nazionale con il significato che va posto alla base dell’odierno incidente di legittimità costituzionale. E si tratta di un’affermazione netta e univoca a favore dell’idem factum, sebbene il fatto sia poi scomposto nella triade di condotta, nesso di causalità, ed evento naturalistico». 

La Corte conclude, pertanto, che non vi è contrasto tra l’art. 649 cpp e la normativa interposta convenzionale, perché entrambe recepiscono il criterio dell’idem factum e, all’interno di esso, la Convenzione non obbliga a scartare l’evento in senso naturalistico dagli elementi identitari del fatto, e dunque a superare il diritto vivente nazionale.

La Corte passa, poi, a esaminare l’ulteriore profilo di contrasto segnalato dall’ordinanza di rimessione, tra l’art. 649 cpp e l’art. 4 Prot. n. 7 alla Cedu, riguardante la regola, enucleata dal diritto vivente nazionale, che vieta di applicare il principio del ne bis in idem, ove il reato già giudicato sia stato commesso in concorso formale con quello oggetto della nuova iniziativa del pubblico ministero, nonostante la medesimezza del fatto.

In tal caso la Corte ritiene fondata la questione. 

Dopo aver illustrato la natura del “concorso formale di reati”, quale istituto del diritto penale sostanziale espressione di mutevoli scelte di politica incriminatrice proprie del legislatore, la Corte precisa che tali opzioni in sé «non violano la garanzia individuale del divieto di bis in idem, che si sviluppa invece con assolutezza in una dimensione esclusivamente processuale, e preclude non il simultaneus processus per distinti reati commessi con il medesimo fatto, ma una seconda iniziativa penale, laddove tale fatto sia già stato oggetto di una pronuncia di carattere definitivo».

La Corte prende atto che il «diritto vivente, come è stato correttamente rilevato dal rimettente, ha saldato il profilo sostanziale implicato dal concorso formale dei reati con quello processuale recato dal divieto di bis in idem, esonerando il giudice dall’indagare sulla identità empirica del fatto, ai fini dell’applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen. La garanzia espressa da questa norma, infatti, viene scavalcata per la sola circostanza che il reato già giudicato definitivamente concorre formalmente, ai sensi dell’art. 81 cod. pen., con il reato per il quale si procede». 

La Corte chiarisce che per decidere sulla unicità o pluralità dei reati determinati dalla condotta dell’agente ai sensi dell’art. 81 cp, «l’interprete, che deve sciogliere il nodo dell’eventuale concorso apparente delle norme incriminatrici, considera gli elementi del fatto materiale giuridicamente rilevanti, si interroga, tra l’altro, sul bene giuridico tutelato dalle convergenti disposizioni penali e può assumere l’evento in un’accezione che cessa di essere empirica. Questa operazione, connaturata in modo del tutto legittimo al giudizio penalistico sul concorso formale di reati, e dalla quale dipende la celebrazione di un eventuale simultaneus processus, deve reputarsi sbarrata dall’art. 4 del Protocollo n. 7, perché segna l’abbandono dell’idem factum, quale unico fattore per stabilire se sia applicabile o no il divieto di bis in idem». 

Nel sistema della Cedu e in base alla Costituzione repubblicana, «l’esercizio di una nuova azione penale dopo la formazione del giudicato deve invece dipendere esclusivamente dal raffronto tra la prima contestazione, per come si è sviluppata nel processo, e il fatto posto a base della nuova iniziativa del pubblico ministero, ed è perciò permessa in caso di diversità, ma sempre vietata nell’ipotesi di medesimezza del fatto storico (salve le deroghe, nel sistema convenzionale, previste dal secondo paragrafo dell’art. 4 del Protocollo n. 7). Ogni ulteriore criterio di giudizio connesso agli aspetti giuridici del fatto esula dalle opzioni concesse allo Stato aderente». 

La conclusione è che sussiste perciò «il contrasto denunciato dal rimettente tra l’art. 649 cod. proc. pen., nella parte in cui esclude la medesimezza del fatto per la sola circostanza che ricorre un concorso formale di reati tra res iudicata e res iudicanda, e l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, che vieta invece di procedere nuovamente quando il fatto storico è il medesimo». 

Di particolare interesse sono le considerazioni rivolte ai giudici comuni e al rimettente, ai fini dell’attuazione della regola affermata. 

L’esistenza o no di un concorso formale tra i reati oggetto della res iudicata e della res iudicanda è ritenuta «un fattore ininfluente ai fini dell’applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen., una volta che questa disposizione sia stata ricondotta a conformità costituzionale, e l’ininfluenza gioca in entrambe le direzioni, perché è permesso, ma non è prescritto al giudice di escludere la medesimezza del fatto, ove i reati siano stati eseguiti in concorso formale. Ai fini della decisione sull’applicabilità del divieto di bis in idem rileva infatti solo il giudizio sul fatto storico». 

Pertanto, l’autorità giudiziaria (e quindi lo stesso giudice a quo) sarà tenuta «a porre a raffronto il fatto storico, secondo la conformazione identitaria che esso abbia acquisito all’esito del processo concluso con una pronuncia definitiva, con il fatto storico posto dal pubblico ministero a base della nuova imputazione. A tale scopo è escluso che eserciti un condizionamento l’esistenza di un concorso formale, e con essa, ad esempio, l’insieme degli elementi indicati dal rimettente nel giudizio principale (la natura del reato; il bene giuridico tutelato; l’evento in senso giuridico)». 

In tale prospettiva, il giudice può affermare, «sulla base della triade condotta-nesso causale-evento naturalistico», che «il fatto oggetto del nuovo giudizio è il medesimo solo se riscontra la coincidenza di tutti questi elementi, assunti in una dimensione empirica, sicché non dovrebbe esservi dubbio, ad esempio, sulla diversità dei fatti, qualora da un’unica condotta scaturisca la morte o la lesione dell’integrità fisica di una persona non considerata nel precedente giudizio, e dunque un nuovo evento in senso storico. Ove invece tale giudizio abbia riguardato anche quella persona occorrerà accertare se la morte o la lesione siano già state specificamente considerate, unitamente al nesso di causalità con la condotta dell’imputato, cioè se il fatto già giudicato sia nei suoi elementi materiali realmente il medesimo, anche se diversamente qualificato per il titolo, per il grado e per le circostanze». 

Va sottolineato che la Corte individua come primo elemento di comparazione non la mera contestazione operata dal pubblico ministero, ma la stessa «per come si è sviluppata nel processo» e, dunque, nel contraddittorio tra le parti, fino a cristallizzarsi quale oggetto del giudicato. Successivamente, come si è visto, tale concetto è ribadito individuando il primo termine di raffronto nel «fatto storico, secondo la conformazione identitaria che esso abbia acquisito all’esito del processo concluso con una pronuncia definitiva».

 

6.2.5. Un ulteriore incidente di costituzionalità motivato dalla necessità di conformarsi alla sentenza della Corte Edu Scoppola c. Italia (fattispecie relativa alla richiesta di giudizio abbreviato formulato nella vigenza del dl n. 341/2000)

La sentenza della Corte Edu, in data 17 settembre 2009, nel procedimento Scoppola contro Italia ha dato la stura a una serie di questioni di legittimità costituzionale in connessione col parametro di cui all’art. 117, primo comma, Cost. 

Va rilevato che la “vicenda Scoppola”, per quanto relativa a istituti di carattere tipicamente processuale (cioè il rito abbreviato e il giudicato), ha riguardato (non solo, ma) principalmente una questione di diritto sostanziale, e cioè l’asserita cogenza del principio di retroattività della legge più favorevole.

Al fine di meglio comprendere le vicende occorre brevemente dare atto dell’evoluzione del quadro normativo vigente all’epoca. La disposizione originaria dell’art. 442, comma 2, cpp prevedeva la sostituzione della pena dell’ergastolo con quella di trenta anni di reclusione; questa norma, però, con la sentenza n. 176 del 1991, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima per eccesso di delega e di conseguenza, tra il 1991 e il 1999, l’accesso al rito abbreviato è rimasto precluso agli imputati di delitti puniti con l’ergastolo. 

L’art. 30, comma 1, lett. b, legge n. 479/1999, entrata in vigore il 2 gennaio 2000, ha modificato l’art. 442, comma 2, cpp, reintroducendo, per i reati puniti con l’ergastolo, il giudizio abbreviato e la sostituzione dell’ergastolo con la pena di trenta anni di reclusione. 

Il dl 24 novembre 2000, n. 341, entrato in vigore nella medesima data e convertito dalla l. n. 4/2001, con l’art. 7 ha modificato nuovamente l’art. 442 cpp, stabilendo, in via di interpretazione autentica, che «Nell’articolo 442, comma 2, ultimo periodo, del codice di procedura penale, l’espressione “pena dell’ergastolo” deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno» (art. 7, comma 1) e aggiungendo, alla fine dello stesso comma 2, la frase: «Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo» (art. 7, comma 2). 

In seguito a quest’ultima modificazione, il giudizio abbreviato comporta per l’imputato la sostituzione dell’ergastolo senza isolamento diurno con la pena di trenta anni di reclusione e la sostituzione dell’ergastolo con isolamento diurno con l’ergastolo semplice.

Dopo l’entrata in vigore della legge n. 479/1999, l’art. 4-ter dl n. 82/2000 ha stabilito che nei processi in corso nei gradi di merito per reati puniti con l’ergastolo, quando il termine per presentare la richiesta fosse già scaduto, l’imputato poteva chiedere il giudizio abbreviato nella «prima udienza utile successiva» all’entrata in vigore della legge n. 144/2000, di conversione del dl n. 82/2000.

Com’è noto, la Corte europea (dando luogo a un cd. overruling) ha letto l’art. 7 della Cedu nel senso che, fermo il limite del giudicato, nei confronti del reo deve essere applicata una norma sopravvenuta al fatto, se per lui più favorevole. Per questa ragione, oltreché per il principio secondo il quale la disapplicazione dei benefici promessi con un accordo processuale viola la prescrizione dell’equo giudizio, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che l’Italia, reintroducendo (con una norma asseritamente interpretativa ma, di fatto, retroattiva) la pena dell’ergastolo per gli omicidi giudicati con rito abbreviato – pena comminata all’epoca del fatto, ma sostituita dalla reclusione per trenta anni al momento del rito – avesse appunto violato gli artt. 6 e 7 della Convenzione.

Dopo la sentenza della Corte Edu sulla vicenda Scoppola, si è posto il problema di quale decisione adottare nei confronti di tutti gli altri condannati all’ergastolo che si trovavano in una situazione analoga, in quanto avevano chiesto il giudizio abbreviato tra il 2 gennaio e il 24 novembre 2000 ed erano stati condannati alla pena perpetua per effetto della sopravvenuta modificazione normativa. Le sezioni unite penali della Corte di cassazione, trovandosi di fronte a un incidente di esecuzione per un caso analogo a quello di Scoppola, avevano sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 dl n. 341/2000.

Con la decisione di tale questione (sentenza n. 210 del 2013), la Corte, dopo aver riconosciuto il dovere dello Stato di conformare l’ordinamento ai principi affermati dalla Corte Edu, ha concluso che con ragione le sezioni unite avevano ritenuto che la sentenza Scoppola non consentisse all’Italia di limitarsi a sostituire in quel caso la pena dell’ergastolo, ma la obbligasse a porre riparo alla violazione riscontrata a livello normativo e a rimuoverne gli effetti nei confronti di tutti i condannati che si trovano nelle medesime condizioni. 

Quest’obbligo, secondo la sentenza n. 210 del 2013, non trovava ostacolo nell’avvenuta formazione del giudicato, il cui valore può diventare recessivo in presenza di alcune sopravvenienze relative alla punibilità e al trattamento punitivo. In tale prospettiva, e con riferimento all’art. 30, quarto comma, l. n. 87/1953, era apparsa non implausibile la prospettazione delle sezioni unite, le quali avevano ritenuto che il giudicato penale non impedisce al giudice di intervenire sul titolo esecutivo per modificare la pena, quando la misura di questa è prevista da una norma di cui è stata riconosciuta l’illegittimità convenzionale e quando tale riconoscimento sorregge un giudizio altamente probabile di illegittimità costituzionale della stessa norma, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.

Un ulteriore aspetto problematico affrontato dalla sentenza n. 210 del 2013 riguarda l’utilizzabilità del procedimento esecutivo per conformarsi alla sentenza della Corte Edu, e la cosa è stata giudicata possibile solo nell’ipotesi in cui «si debba applicare una decisione della Corte europea in materia sostanziale, relativa ad un caso che sia identico a quello deciso e non richieda la riapertura del processo, ma possa trovare un rimedio direttamente in sede esecutiva». 

La Corte ha dunque dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, dl 24 novembre 2000, n. 341 («Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia»), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4 (sentenza n. 210 del 2013). 

La Corte non ha, peraltro, inteso affermare che il fenomeno di retroattività focalizzato nella sentenza Scoppola implichi che, ogni qualvolta vi sia un’estensione dei presupposti per l’accesso a un rito premiale, si determini l’invalidazione, a posteriori, delle pene inflitte a coloro che, nell’epoca del giudizio che li riguarda, non abbiano potuto fruire del beneficio poi introdotto.

È il caso definito con l’ordinanza n. 235 del 2013 (e, come vedremo, anche quello della sentenza n. 57 del 2016, per cui vds. infra). Il giudizio a quo constava di un incidente di esecuzione promosso da persona condannata irrevocabilmente all’ergastolo, la quale, prima della riforma dell’art. 442 cpp (attuata con la l. n. 479/1999), aveva inutilmente richiesto l’accesso al rito abbreviato, in quel momento non consentito per il delitto in contestazione. Mentre il giudizio si trovava pendente in Cassazione, la legge aveva reintrodotto la possibilità di definire con rito abbreviato i reati puniti in astratto con la pena perpetua, ammettendo il beneficio anche nei procedimenti già avviati con il rito ordinario, purché ancora pendenti in fase di merito. Dunque, nel caso di specie, il rito era rimasto inaccessibile.

Il rimettente aveva denunciato la disciplina transitoria recata dall’art. 4-ter, comma 3, dl 7 aprile 2000, n. 82 («Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato»), convertito, con modificazioni, dalla l. 5 giugno 2000, n. 144, che aveva riaperto i termini per la proposizione della richiesta di giudizio abbreviato solo per i processi pendenti nei gradi di merito e nei quali rimanessero da compiere atti di istruzione dibattimentale, e non anche per quelli pendenti in Cassazione per asserita violazione degli artt. 3 e 117 Cost., quest’ultimo in riferimento agli artt. 6 e 7 della Cedu. In tal modo, il giudice a quo mirava in sostanza a “recuperare”, attraverso la retroattività in mitius, la possibilità di discutere, pur dopo il giudicato, la citata disciplina transitoria. Il logico presupposto del ragionamento consisteva proprio nella pretesa che – stabilita l’illegittimità della norma preclusiva del rito – dovesse consentirsi la relativa celebrazione nei giudizi già definiti, al fine di applicare la pena corrispondente secondo la disciplina sopravvenuta.

La Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità per difetto di rilevanza delle questioni sollevate, in quanto il giudice a quo non era chiamato a fare applicazione della norma censurata, poiché l’interessato non versava affatto in una situazione identica o similare a quella presa in esame dalla sentenza ora citata. In base alla sentenza n. 210 del 2013, nel procedimento instaurato davanti al giudice dell’esecuzione, è rilevante la questione di legittimità costituzionale della norma interna che impedisca l’adeguamento alla sentenza della Corte europea (nella specie, l’art. 7, comma 1, dl n. 241/2000, in quanto volto a dotare la nuova disciplina da esso introdotta di effetto retroattivo: norma che è stata in effetti dichiarata, per tale ragione, costituzionalmente illegittima), ma tale conclusione riguarda «esclusivamente l’ipotesi in cui si debba applicare una decisione della Corte europea in materia sostanziale, relativa ad un caso che sia identico a quello deciso e non richieda la riapertura del processo»: ipotesi nella quale soltanto può giustificarsi «un incidente di legittimità costituzionale sollevato nel procedimento di esecuzione nei confronti di una norma applicata nel giudizio di cognizione» (sentenza n. 210 del 2013).

In sostanza la fattispecie oggetto del procedimento principale, lungi dal replicare la situazione avuta di mira dalla sentenza Scoppola, se ne differenziava sotto il profilo essenziale che l’imputato non è mai stato ammesso al giudizio abbreviato.

Inoltre la norma censurata dal giudice a quo non aveva natura sostanziale, ma processuale, non attenendo all’entità della riduzione di pena conseguente al giudizio abbreviato, ma ai termini di proposizione della relativa richiesta, sì che il caso in questione era dunque assimilabile, più che a quello della sentenza Scoppola, a quello che aveva dato luogo alla successiva decisione della Corte europea 27 aprile 2010, Morabito c. Italia, concernente il regime transitorio previsto dal comma 1 dello stesso art. 4-ter dl n. 82/2000 in rapporto all’avvenuta soppressione, da parte della l. n. 479/1999, del requisito del consenso del pubblico ministero.

La Corte ha ricordato come tale pronuncia aveva escluso una violazione degli artt. 6 e 7 della Convenzione: «gli Stati contraenti non sono obbligati dalla Convenzione a prevedere dei procedimenti semplificati (…): ad essi incombe soltanto l’obbligo, allorquando tali procedure esistono e sono adottate, di non privare un imputato dei vantaggi che vi si collegano». 

Nel caso Morabito, come nella fattispecie posta a oggetto del giudizio a quo, il ricorrente non era mai stato ammesso al giudizio abbreviato. L’illegittimità della sua esclusione alla luce della norma processuale vigente avrebbe dovuto essere denunciata come violazione di legge. L’illegittimità della norma di esclusione correttamente applicata, invece, avrebbe dovuto essere prospettata nel giudizio di cognizione (vds., amplius, STU 294[14]). 

Con la sentenza n. 57 del 2016, la Corte è giunta ugualmente a una pronuncia di inammissibilità per difetto di rilevanza, in una vicenda nella quale il giudice a quo con la questione sollevata tendeva a consentire al condannato, in virtù della retroattività in mitius, di giovarsi dei benefici di un rito alternativo, pur avendolo chiesto quando la disciplina prevedeva un trattamento più sfavorevole. Ciò sul presupposto di avere acquisito il diritto alla pena più mite, in quanto era già pendente in secondo grado il processo all’epoca della legge (più favorevole) n. 479 del 1999, anche se l’(allora) imputato non aveva potuto chiedere il giudizio abbreviato, non essendo stata ancora fissata la prima udienza. 

Il giudice a quo era investito della richiesta di sostituzione della pena dell’ergastolo, inflitta dalla corte d’assise d’appello con sentenza emessa, all’esito di un giudizio col rito abbreviato, in data 11 marzo 2002 e passata in giudicato il 29 novembre 2002, con quella della reclusione di trenta anni. Il caso oggetto dell’incidente di esecuzione, secondo lo stesso giudice rimettente, non era uguale a quello sul quale è intervenuta la sentenza n. 210 del 2013 per consentire l’esecuzione in Italia della sentenza della Corte Edu (Grande Camera) Scoppola c. Italia, del 17 settembre 2009. L’imputato, infatti, in quel caso aveva chiesto il giudizio abbreviato prima dell’entrata in vigore del dl n. 341/2000, che aveva determinato un trattamento sanzionatorio meno favorevole di quello applicabile al momento della richiesta, mentre nel giudizio a quo l’imputato aveva formulato la richiesta dopo il 24 novembre 2000, quando era già entrato in vigore l’art. 7 del decreto-legge in questione con la previsione di un trattamento sanzionatorio “sfavorevole” rispetto a quello stabilito dall’art. 30, comma 1, lett. b, legge n. 479/1999.

Il giudice rimettente dubitava, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7, par. 1, Cedu, della legittimità costituzionale dell’art. 4-ter, commi 2 e 3, dl 7 aprile 2000, n. 82 («Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato»), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, l. 5 giugno 2000, n. 144, e dell’art. 7, commi 1 («come risultante dalla declaratoria di incostituzionalità del 3-7-2013 della Corte costituzionale») e 2, dl 24 novembre 2000, n. 341 («Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia»), convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, l. 19 gennaio 2001, n. 4, nella parte in cui, alla luce dell’orientamento «consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità (da ultimo Cass. Sez. I, sentenza n. 23931 del 17/05/2013)», non escludono «dall’applicazione della disciplina relativa gli imputati cui, nei giudizi di appello, già pendenti alla data di entrata in vigore dell’indicato art. 4-ter d.l. 82/2000 (7 aprile 2000)», era stato attribuito «il diritto di definire con il rito abbreviato la relativa posizione e di beneficiare del trattamento “sostanziale” di cui all’art. 30 co. 1 lett. b) della l. 479/1999 e che hanno potuto esercitare tale diritto solo dopo il 24-11-2000». 

Il giudice a quo reputava che, in seguito all’entrata in vigore dell’art. 30, comma 1, lett. b, l. n. 479/1999, che aveva reso possibile il giudizio abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, e dell’art. 4-ter, commi 2 e 3, dl n. 82/2000, che aveva consentito la relativa richiesta anche in appello, l’imputato in un processo pendente in secondo grado avesse acquisito il diritto al trattamento più mite, pur non avendo richiesto il giudizio abbreviato prima dell’entrata in vigore del dl n. 341/2000, perché non era stata ancora fissata la prima udienza. Secondo il giudice a quo, le norme censurate sarebbero in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto, senza una ragionevole giustificazione, riservano agli imputati che si trovano nella situazione dell’istante un trattamento sanzionatorio più sfavorevole di quello riconosciuto a coloro che (condannati in primo grado e il cui giudizio era pendente in appello) avevano avuto l’opportunità di chiedere il rito abbreviato prima del 24 novembre 2000. Sarebbe violato anche l’art. 117, primo comma, Cost., dato che, per il principio della retroattività della legge penale più favorevole, sancito dall’art. 7, par. 1, Cedu (come interpretato dalla Corte Edu nella sentenza Scoppola), l’art. 30, comma 1, lett. b della legge n. 479/1999 costituisce una disposizione penale posteriore, con una pena meno severa, della quale avrebbero dovuto beneficiare tutti coloro che nella pendenza del processo in grado d’appello, alla prima udienza utile, avessero chiesto la definizione con il rito alternativo.

La Corte afferma che la pronuncia n. 210 del 2013 ha «introdotto un’eccezione ben delimitata al principio, costantemente affermato e a tutt’oggi vigente, secondo cui non è consentito al giudice dell’esecuzione impugnare disposizioni primarie che siano già state applicate, in via definitiva, in fase di cognizione (sentenza n. 64 del 1965; in seguito, sentenze n. 100 del 2015 e n. 210 del 2013)». La Corte chiarisce la portata, al riguardo, dell’art. 30, quarto comma, l. n. 87/1953 e dell’art. 673 cpp, con i quali il legislatore ordinario stabilisce «la retroattività delle declaratorie di illegittimità costituzionale che abbiano colpito le norme penali in applicazione delle quali è stata pronunciata una sentenza irrevocabile di condanna». Queste previsioni, se da un lato non ampliano l’oggetto del giudizio di esecuzione, quanto ai poteri del giudice di sottoporre nuovamente a verifica di legittimità costituzionale il precetto penale su cui si basa il titolo esecutivo, dall’altro, però, ne fondano la competenza attribuitagli dal legislatore a valutare gli effetti della pronuncia costituzionale su tale titolo.

La pronuncia è volta a stabilire le differenze tra il caso al suo esame e quello oggetto della pronuncia n. 210 del 2013. 

Tale sentenza ha preso atto «che, con motivazione non implausibile, le sezioni unite penali della Corte di cassazione rimettente avevano ritenuto applicabile l’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 anche al caso in cui si tratta di determinare, nella fase esecutiva, l’effetto di una pronuncia espressiva della giurisprudenza della Corte EDU, che “sorregge un giudizio altamente probabile di illegittimità costituzionale” di una norma di diritto penale sostanziale, derivante dalla già accertata illegittimità convenzionale della stessa. In tale ipotesi, a mutare non è il requisito della rilevanza della questione di legittimità costituzionale ma l’oggetto del giudizio esecutivo, che, sulla base di quanto stabilito dalle sezioni unite, attrae a sé il compito di conferire esecuzione alla pronuncia giudiziale europea, per i casi identici a quello con essa deciso, e di rimuovere la disposizione primaria di diritto interno che lo impedisce, benché il suo contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. richieda una dichiarazione di illegittimità costituzionale». 

La Corte ritiene, pertanto, che «l’ammissibilità nel procedimento esecutivo di una questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 117, comma 1, Cost. in relazione alla Convenzione EDU, avente ad oggetto la norma in base alla quale è stata determinata la pena richiede l’assoluta identità tra il caso deciso dalla Corte EDU, alla cui sentenza il giudice ritiene di doversi adeguare, e il caso oggetto del procedimento a quo, giacché ogni diversa ipotesi verrebbe ad esorbitare dai limiti propri del giudizio esecutivo».

Consegue a ciò che «l’assunto dal quale muove il rimettente comporta alla radice l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza», in quanto «la fattispecie oggetto del procedimento principale, infatti, non concerne l’esecuzione della sentenza Scoppola, perché l’imputato ha richiesto il giudizio abbreviato non quando era vigente l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., nel testo introdotto dall’art. 30, comma 1, lettera b), della legge n. 479 del 1999, ma quando era già entrata in vigore la norma meno favorevole introdotta dall’art. 7, comma 2, del d.l. n. 341 del 2000. La Corte EDU, invece, laddove ha ritenuto applicabile la lex mitior costituita dall’art. 30 della legge n. 479 del 1999, ha ricollegato il trattamento sanzionatorio ivi previsto alla richiesta di giudizio abbreviato effettuata nella vigenza di questa e al successivo provvedimento del giudice che in tale richiesta aveva il presupposto (paragrafi 11, 12, 115, 137, 138, 139 e 140 della sentenza Scoppola)».

La Corte precisa che «se nella sentenza Scoppola il diritto di vedersi applicare la lex mitior è inscindibilmente connesso alla richiesta di giudizio abbreviato effettuata dall’imputato quando era vigente tale legge, la diversità, sul punto, della fattispecie oggetto del giudizio a quo rende palese che la disciplina normativa contestata dal rimettente non pone alcun dubbio di compatibilità con la CEDU, perché non concerne un caso come quello che aveva formato oggetto della sentenza Scoppola. Per la stessa ragione, in senso analogo, le sezioni unite penali della Corte di cassazione, sia prima della pronuncia di questa Corte n. 210 del 2013, con la sentenza 19 aprile 2012, n. 34233, sia dopo di essa, con la sentenza 24 ottobre 2013, n. 18821, hanno nettamente distinto, al fine di estendere gli effetti della sentenza Scoppola, il caso in cui la richiesta di rito abbreviato fosse avvenuta prima, da quello in cui fosse invece avvenuta dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 341 del 2000». 

La Corte conclude nel senso che, «non essendo proponibili in sede di esecuzione questioni ormai precluse, perché avrebbero dovuto essere proposte nel giudizio di cognizione, la questione sollevata dal giudice a quo è inammissibile per difetto di rilevanza». Si aggiunge che la diversità del caso in oggetto, rispetto a quello deciso dalla sentenza Scoppola, inciderebbe sul merito della questione, facendo «anche escludere il denunciato contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost.».

La questione di legittimità costituzionale proposta con riferimento all’art. 3 Cost. è ritenuta ugualmente inammissibile, perché «non attiene alla necessità di conformarsi a una sentenza della Corte EDU, cioè al solo caso che può giustificare un incidente di legittimità costituzionale sollevato nel procedimento di esecuzione nei confronti di una norma applicata nel giudizio di cognizione» (sentenza n. 210 del 2013; in senso analogo, sentenza n. 100 del 2015).

 

7. La messa alla prova: l’acquisizione degli atti delle indagini preliminari ai fini della decisione sulla richiesta di messa alla prova; il principio di presunzione di innocenza sino alla condanna definitiva; il principio di legalità penale; le prerogative del potere giudiziario

La Corte è intervenuta più volte sul giovane istituto della messa alla prova, il quale è stato oggetto di numerose questioni di legittimità costituzionale nel periodo in questione, con riguardo anche al diritto di difesa. Ricorrente nelle pronunce che lo riguardano è l’affermazione secondo cui la sospensione del procedimento con messa alla prova costituisce un istituto che ha «effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è connotato da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio» (sentenza n. 240 del 2015).

L’ordinanza n. 54 del 2017 si è occupata di questioni di legittimità costituzionale degli artt. 168-bis cp e 464-bis ss. cpp, relativi alla sospensione del procedimento con messa alla prova, in riferimento agli artt. 3, 24 e 27 Cost. 

Le questioni aventi ad oggetto gli artt. 464-bis ss. cpp sono ritenute manifestamente inammissibili, sia perché le norme censurate, indicate con l’espressione «e seguenti», sono indeterminate, sia perché non sono espresse le ragioni della loro denunciata illegittimità costituzionale. 

Il giudice rimettente riteneva che l’art. 168-bis cp contrastasse con l’art. 3 Cost., perché la possibilità di accedere all’istituto della messa alla prova è prevista per numerosi reati, molto diversi tra loro «per tipo e per trattamento sanzionatorio», sicché solo una diversificazione della disciplina, che nella specie manca, sarebbe stata «idonea ad impedire che casi tra loro diversi ricevano un identico trattamento».

La Corte ha negato l’esistenza della sussistenza del dedotto contrasto dell’art. 168-bis cp con l’art. 3 Cost., rilevando che il trattamento dell’imputato nei diversi casi oggetto del procedimento speciale in questione risulta necessariamente diverso. La Corte richiama al riguardo la Cassazione a sezioni unite (sez. unite, 31 marzo 2016, n. 33216), secondo cui «la normativa sulla sospensione del procedimento con messa alla prova comporta una diversificazione dei contenuti, prescrittivi e di sostegno, del programma di trattamento, con l’affidamento al giudice di “un giudizio sull’idoneità del programma, quindi sui contenuti dello stesso, comprensivi sia della parte ‘afflittiva’ sia di quella ‘rieducativa’, in una valutazione complessiva circa la rispondenza del trattamento alle esigenze del caso concreto, che presuppone anche una prognosi di non recidiva”», precisando che il giudizio deve svolgersi «in base ai parametri di cui all’articolo 133 del codice penale», richiamati dall’art. 464-quater, comma 3, cpp. 

La Corte ha escluso, poi, la lesione dell’art. 24 Cost., asseritamente violato per la mancata previsione della durata massima, dei parametri per determinarla e del soggetto competente a questa determinazione, sì da impedire all’imputato di conoscere le sanzioni in cui può incorrere. La Corte obietta che, «benché non espressamente indicata, la durata massima risulta indirettamente dall’art. 464-quater, comma 5, cod. proc. pen. perché, in mancanza di una sua diversa determinazione, corrisponde necessariamente alla durata della sospensione del procedimento, la quale non può essere: “a) superiore a due anni quando si procede per reati per i quali è prevista una pena detentiva, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria; b) superiore a un anno quando si procede per reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria”», la cui determinazione in concreto è stabilita dal giudice sulla base «dei criteri previsti dall’art. 133 cod. pen. e delle caratteristiche che dovrà avere la prestazione lavorativa, considerato che questa potrà svolgersi in giorni anche non continuativi, con una durata giornaliera da stabilire, nel limite massimo di otto ore, e che dovrà avvenire “con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato” (art. 168-bis, terzo comma, cod. pen.)». 

Peraltro, la Corte, ribadendo un’affermazione ricorrente, precisa che la censura di violazione dell’art. 24 Cost., oltre che manifestamente infondata, è anche non pertinente, «perché l’eventuale indeterminatezza normativa del trattamento, in cui consiste il programma di messa alla prova, attiene al profilo sostanziale e non a quello processuale dell’istituto in questione, e in particolare al diritto di difesa, che non è in alcun modo pregiudicato dalla norma censurata». 

Manifestamente infondata è ritenuta anche la censura di violazione dell’art. 27 Cost., motivata sulla base del rilievo secondo cui la mancata previsione di un limite massimo di durata e l’omessa predeterminazione dei criteri da seguire per la sua predisposizione violerebbero il finalismo rieducativo che la sanzione penale deve indefettibilmente possedere, essendo, come sopraindicato, «ben determinati sia la durata massima della sospensione del procedimento, e correlativamente del trattamento di messa alla prova, sia i criteri da seguire per stabilirla». 

In altra occasione, il giudice a quo aveva posto una serie di questioni di legittimità costituzionale riguardanti sia l’aspetto processuale che quello sostanziale dell’istituto in questione, ma esse erano state dichiarate manifestamente inammissibili, con l’ordinanza n. 237 del 2016, per insufficiente descrizione della fattispecie e, conseguentemente, per difetto di motivazione sulla loro rilevanza nei giudizi a quibus

Lo stesso giudice a quo ha nuovamente sollevato le medesime questioni di legittimità costituzionale, colmando le lacune delle precedenti ordinanze. La Corte, questa volta, con la sentenza n. 91 del 2018, ha espresso al riguardo una compiuta disamina dell’istituto citato in quanto, nell’esame delle singole questioni, essa ha presupposto una ricostruzione della disciplina effettivamente dettata dal legislatore, in buona misura diversa da quella sottesa ai rilievi del rimettente, offrendo un prezioso contributo ermeneutico agli operatori. Le questioni riguardano anche una norma sostanziale, ma comunque strettamente connessa con quelle processuali, e sono evocati anche parametri diversi dall’art. 3 Cost. Per esigenze di unitarietà si darà conto della sentenza nella sua completezza in questa sede.

Esaminando sinteticamente il contenuto della sentenza, va rilevato che la Corte dichiara inammissibile la prima questione, di natura squisitamente processuale, ma la pronuncia sul punto è particolarmente interessante, perché motivata sulla omessa sperimentazione di una soluzione interpretativa del problema denunciato, o comunque sull’insufficiente ricostruzione della disciplina applicabile al caso di specie. 

Il tribunale monocratico rimettente ha, infatti, sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111, sesto comma, 25, secondo comma, e 27, secondo comma, Cost. questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater, comma 1, cpp, «nella parte in cui non prevede che il giudice del dibattimento, ai fini della cognizione occorrente ad ogni decisione di merito da assumere nel [procedimento speciale di messa alla prova], proceda alla acquisizione e valutazione degli atti delle indagini preliminari restituendoli per l’ulteriore corso in caso di pronuncia negativa sulla concessione o sull’esito della messa alla prova». 

Secondo il rimettente, il giudice dibattimentale chiamato a valutare la richiesta di sospensione con messa alla prova, nella fase degli atti preliminari al dibattimento, dovrebbe assumere la propria decisione in base al (necessariamente scarno) fascicolo del dibattimento, non prevedendo la legge, e in particolare il comma 1 dell’art. 464-quater, una possibilità di accesso al fascicolo delle indagini preliminari e degli eventuali atti successivi in esso contenuti. Su questo presupposto, si è prospettata la violazione dei citati parametri, in quanto un’ordinanza di sospensione del procedimento con messa alla prova pronunciata sulla base di quegli atti si tradurrebbe in «un provvedimento giurisdizionale di irrogazione di un trattamento giuridico di diritto penale criminale suscettibile di essere pronunciato sul presupposto di un convincimento di responsabilità di carattere assurdo o simulatorio poiché formulato senza cognizione degli elementi occorrenti a stabilire se alcun fatto sia avvenuto, come e da chi sia stato commesso e quale ne sia la qualificazione giuridica». La norma censurata si porrebbe, tra l’altro, in contrasto con l’art. 3 Cost., «alla stregua del quale deve ritenersi che le enunciazioni risapute logicamente incongrue o simulatorie non possono costituire presupposto o strumento di trattamenti giuridici». 

Lo stesso giudice rimettente, invece, non ha considerato la soluzione che la Corte accredita in modo deciso, e cioè che – sulla scorta di quanto accade per le richieste di patteggiamento – il giudice dibattimentale, già secondo la legislazione vigente, deve acquisire il fascicolo del pubblico ministero, e decidere sulla base degli atti relativi, ovviamente restituendoli nel caso in cui, per una qualunque ragione, il procedimento debba riprendere il suo corso ordinario.

La soluzione è stata, infatti, rinvenuta dalla Corte nell’applicazione “analogica” dell’art. 135 disp. att. cpp (d.lgs n. 271/1989), il quale stabilisce che «[il] giudice, per decidere sulla richiesta di applicazione della pena rinnovata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, ordina l’esibizione degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero. Se la richiesta è accolta, gli atti esibiti vengono inseriti nel fascicolo per il dibattimento; altrimenti gli atti sono immediatamente restituiti al pubblico ministero». Non si tratta del primo esperimento di estensione della norma, poiché la «giurisprudenza di legittimità ha considerato questo articolo applicabile in via analogica anche nel caso in cui l’imputato rinnovi, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, una richiesta condizionata di giudizio abbreviato, già respinta dal giudice per le indagini preliminari (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 ottobre 2004, n. 44711), e la dottrina ne ha ritenuto l’applicabilità anche nei casi di richiesta di un rito speciale presentata nell’udienza di comparizione, a seguito di citazione diretta ex art. 555 cod. proc. pen.»; come d’altronde nota la Corte, in termini non innovativi ma certo significativi, «tra i riti speciali è ora compreso anche quello di messa alla prova». 

Del resto, gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero sono di regola sottratti alla cognizione dibattimentale, ma se non si deve procedere al dibattimento non c’è ragione di impedirne la conoscenza al giudice quando ciò è necessario ai soli fini della decisione su tale richiesta. 

Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater, comma 1, cpp sono allora ritenute inammissibili, perché sono state poste «senza tenere conto della praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, diversa da quella prospettata e coerente con la cornice normativa in cui la norma si colloca».

Il giudice a quo ha quindi sollevato, in riferimento all’art. 27, secondo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies cpp, «in quanto prevedono la irrogazione ed espiazione di sanzioni penali senza che risulti pronunciata né di regola pronunciabile alcuna condanna definitiva o non definitiva». 

La Corte ha ritenuto infondata tale questione, osservando che se è vero che nel procedimento di messa alla prova manca una condanna, è anche vero «che correlativamente manca un’attribuzione di colpevolezza: nei confronti dell’imputato e su sua richiesta (non perché è considerato colpevole), in difetto di un formale accertamento di responsabilità, viene disposto un trattamento alternativo alla pena che sarebbe stata applicata nel caso di un’eventuale condanna». L’ordinamento già conosce, in rapporto all’art. 444 cpp, un istituto ove la richiesta dell’accusato comporta, senza accertamento di responsabilità e di una specifica condanna, l’applicazione di una pena. Negli anni successivi alla sua introduzione, non a caso, aveva superato un severo e ripetuto vaglio di legittimità costituzionale, in riferimento alla presunzione di non colpevolezza contenuta nell’art. 27, secondo comma, Cost. (sent. n. 313 del 1990 e ord. n. 399 del 1997), il cd. “patteggiamento”, cui può essere assimilata la sospensione del procedimento con messa alla prova, perché «entrambi i riti speciali si basano sulla volontà dell’imputato che non contestando l’accusa, in un caso si sottopone al trattamento e nell’altro accetta la pena». Nella pronuncia n. 313 del 1990 è stato «escluso che nel procedimento previsto dall’art. 444 cod. proc. pen. vi sia un “sostanziale capovolgimento dell’onere probatorio, contrastante con la presunzione d’innocenza contenuta nell’art. 27, secondo comma della Costituzione”», rilevando che nel nuovo ordinamento giuridico processuale «“è preponderante l’iniziativa delle parti nel settore probatorio: ma ciò non immuta affatto i principi, nemmeno nello speciale procedimento in esame, dove anzi il giudice è in primo luogo tenuto ad esaminare ex officio se sia già acquisita agli atti la prova che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso». D’altra parte, la Corte osserva che «chi chiede l’applicazione della pena vuol dire che rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l’accusa, senza che ciò significhi violazione del principio di presunzione d’innocenza, che continua a svolgere il suo ruolo fino a quando non sia irrevocabile la sentenza (sentenza n. 313 del 1990)».

La Corte ha aggiunto a tali motivazioni ulteriori argomentazioni a sostegno della dichiarazione di non fondatezza della questione. In particolare, è stato evidenziato che la messa alla prova, pur presentando delle similitudini con il patteggiamento, se ne differenzia, tra l’altro, in quanto, come affermato dalle sezioni unite della Cassazione, «“realizza una rinuncia statuale alla potestà punitiva condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata e assistita e si connota per una accentuata dimensione processuale, che la colloca nell’ambito dei procedimenti speciali alternativi al giudizio (Corte cost. n. 240 del 2015). Ma di essa va riconosciuta soprattutto la natura sostanziale. Da un lato, nuovo rito speciale, in cui l’imputato che rinuncia al processo ordinario trova il vantaggio di un trattamento sanzionatorio non detentivo; dall’altro, istituto che persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene “infranta” la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto” (Cass., sez. un., n. 36272 del 2016)». 

In altri termini, mentre la sentenza che dispone l’applicazione della pena su richiesta delle parti, «pur non potendo essere pienamente identificata con una vera e propria sentenza di condanna (…) è tuttavia a questa equiparata» ex art. 445 cpp e «conduce all’irrogazione della pena prevista per il reato contestato, anche se diminuita fino ad un terzo», l’esito positivo della prova «conduce ad una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato». 

Di particolare rilievo è l’ulteriore notazione che opera la Corte. Infatti, la sentenza di patteggiamento «costituisce un titolo esecutivo per l’applicazione di una sanzione tipicamente penale, mentre l’ordinanza che dispone la sospensione del processo e ammette l’imputato alla prova non costituisce un titolo per dare esecuzione alle relative prescrizioni. Il trattamento programmato non è infatti una sanzione penale, eseguibile coattivamente, ma dà luogo a un’attività rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell’imputato, il quale liberamente può farla cessare con l’unica conseguenza che il processo sospeso riprende il suo corso». Viene dunque «riservata alla volontà dell’imputato non soltanto la decisione sulla messa alla prova, ma anche la sua esecuzione». In questa struttura procedimentale, tuttavia, «non manca, in via incidentale e allo stato degli atti (perché l’accertamento definitivo è rimesso all’eventuale prosieguo del giudizio, nel caso di esito negativo della prova), una considerazione della responsabilità dell’imputato, posto che il giudice, in base all’art. 464-quater, comma 1, cod. proc. pen., deve verificare che non ricorrono le condizioni per “pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129” cod. proc. pen., e anche a tale scopo può esaminare gli atti del fascicolo del pubblico ministero, deve valutare la richiesta dell’imputato, eventualmente disponendone la comparizione (art. 464-quater, comma 2, cod. proc. pen.), e, se lo ritiene, necessario, può anche acquisire ulteriori informazioni, in applicazione dell’art. 464-bis, comma 5, cod. proc. pen.». 

Infondata, è anche la questione di legittimità costituzionale che investe il secondo e il terzo comma dell’art. 168-bis cp, che violerebbero l’art. 25, secondo comma, Cost., «nella parte in cui sancisce il principio di tassatività e determinatezza legale delle pene», in quanto prescriverebbero sanzioni indeterminate sia sul piano qualitativo, potendo il trattamento a cui l’imputato viene sottoposto risolversi in vincoli conformativi e ablatori della libertà personale di diversa intensità, sia sul piano quantitativo, ossia con riferimento alla sua misura temporale. Infatti, «nel disegno legislativo che definisce il procedimento speciale [di messa alla prova], le determinazioni qualitative e quantitative concernenti il trattamento sanzionatorio penale applicabile [sarebbero] rimesse alla libera scelta delle autorità procedenti (prima l’ufficio locale di esecuzione penale che predispone il programma di trattamento, e poi il giudice che tale programma convalida o modifica)».

La Corte aveva già risolto la questione concernente la durata del lavoro di pubblica utilità (ord. n. 54 del 2017, vds. supra), notando che la stessa «risulta indirettamente dall’art. 464-quater, comma 5, cod. proc. pen. perché, in mancanza di una sua diversa determinazione, corrisponde necessariamente alla durata della sospensione del procedimento», e che per la determinazione in concreto di tale durata, il giudice «deve tenere conto dei criteri previsti dall’art. 133 cod. pen. e delle caratteristiche che dovrà avere la prestazione lavorativa». 

La stessa soluzione – rileva la Corte – si attaglia alla «durata massima dell’affidamento in prova al servizio sociale».

Riguardo poi alla qualità delle prescrizioni, è proprio la funzione risocializzante dall’istituto a imporre una previsione solo generale della relativa tipologia, consentendo in fase di applicazione il massimo grado di adattamento alle caratteristiche e alle necessità del caso concreto: «la normativa sulla sospensione del procedimento con messa alla prova comporta una diversificazione dei contenuti, prescrittivi e di sostegno, del programma di trattamento, con l’affidamento al giudice di “un giudizio sull’idoneità del programma, quindi sui contenuti dello stesso, comprensivi sia della parte ‘afflittiva’ sia di quella ‘rieducativa’, in una valutazione complessiva circa la rispondenza del trattamento alle esigenze del caso concreto, che presuppone anche una prognosi di non recidiva».

Infine, secondo il giudice a quo, l’art. 464-quater, comma 4, cpp si porrebbe in contrasto con l’art. 101 Cost., in quanto «rimette alla volontà dell’imputato la capacità sovrana di integrare la condizione meramente potestativa cui resta indiscutibilmente subordinato ogni profilo di efficacia formale ed utilità sostanziale del provvedimento giurisdizionale di messa alla prova nonché (...) dell’intera procedura già celebrata strumentalmente alla pronuncia del medesimo». La norma censurata contrasterebbe altresì sia con «i principi costituzionali di buon andamento ed efficienza delle attività dei pubblici poteri (art. 97 Cost.) sia con i principi di economicità e ragionevole durata del processo penale (art. 111 comma 2 Cost.)». 

Le questioni sono state ugualmente dichiarate non fondate.

Secondo la Corte, basandosi «l’istituto della messa alla prova sulla richiesta dell’imputato, che allega il programma di trattamento fatto elaborare dall’ufficio di esecuzione penale esterna, è evidente che ogni integrazione o modificazione di questo programma ritenuta necessaria dal giudice richiede il consenso dell’imputato. Qualora infatti il giudice consideri il programma proposto inidoneo a perseguire le finalità del trattamento, l’imputato deve poter scegliere se accettare le integrazioni o le modificazioni indicate oppure proseguire il giudizio nelle forme ordinarie: ciò non menoma le prerogative dell’autorità giudiziaria e non integra quindi la violazione dell’art. 101 Cost., dato che la facoltà è conforme al modello legale del procedimento». 

La Corte, richiamando alcuni precedenti, sottolinea che l’integrità delle attribuzioni costituzionali dell’autorità giudiziaria «“non è violata quando il legislatore ordinario non tocca la potestà di giudicare, ma opera sul piano generale ed astratto delle fonti, costruendo il modello normativo cui la decisione del giudice deve riferirsi (sentenze n. 170 del 2008 e n. 432 del 1997; ordinanza n. 263 del 2002)” (sentenza n. 303 del 2011)». 

La conclusione sul punto è che perciò, «con la disposizione censurata il legislatore non ha violato la sfera riservata al potere giudiziario, perché, subordinando le integrazioni e le modificazioni del programma di trattamento al consenso dell’imputato, ha legittimamente ricollegato l’accesso al procedimento speciale a un accadimento processuale (il consenso, appunto) naturalmente rimesso a una parte del processo». 

Anche riguardo agli altri parametri invocati dal rimettente, la Corte ha potuto facilmente richiamare profili “granitici” della sua pregressa giurisprudenza. È notorio anzitutto come l’art. 97 Cost. sia costantemente ritenuto privo di pertinenza all’attività giudiziaria (ex multis, sentenze nn. 65 del 2014 e 272 del 2008). È ritenuta infondata anche la censura di violazione dell’art. 111, secondo comma, Cost., in quanto la disposizione censurata, oltre a essere funzionale alle peculiari caratteristiche dell’istituto in esame, non comporta, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo, alcun dispendio di tempi e risorse processuali. Il consenso, infatti, è richiesto per le integrazioni e le modificazioni che il giudice ritenga di apportare prima della sospensione del procedimento e dell’ammissione alla prova dell’imputato, e quindi prima che sia svolta qualsivoglia attività processuale. 

Quanto alla ragionevole durata del processo, la Corte precisa che «possono arrecare un vulnus a quel principio solamente le norme “che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza” (ex plurimis, sentenze n. 23 del 2015, n. 63 e n. 56 del 2009, n. 148 del 2005)» (sentenza n. 12 del 2016). E non è questo il caso in esame, dato che la norma censurata è necessitata dalla struttura del rito speciale, che si basa sulla volontà dell’imputato ed è diretto, tra l’altro, a semplificare il procedimento, riducendone anche i tempi. 

 

 

1. Si rinvia, per una più approfondita trattazione delle pronunce, a G. Leo, Sei anni di giurisprudenza costituzionale sul processo penale, Corte costituzionale, Servizio studi, STU 294, marzo 2016, (www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/STU_294_Sei_anni_giurisprudenza.pdf).

2. Recante «Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge».

3. La Corte ha affermato, tra l’altro, che «l’art. 23 della legge n. 87 del 1953, interpretato alla luce del principio della ragionevole durata del processo che pervade ogni giudizio – civile, penale, o amministrativo che sia –, non esclude che il giudice rimettente possa limitare il provvedimento di sospensione al singolo momento o segmento processuale in cui il giudizio si svolge, ove solo ad esso si applichi la disposizione censurata e la sospensione dell’attività processuale non richieda di arrestare l’intero processo, che può proseguire con il compimento di attività rispetto alle quali la questione sia del tutto irrilevante», restando fermo il controllo da parte della Corte costituzionale «dell’effettiva possibilità di circoscrivere la rilevanza della questione, che rimane pur sempre incidentale e che, come tale, è pregiudiziale rispetto ad una decisione del giudice rimettente». Vds., al riguardo, R. Gargiulo, Quattro anni di giurisprudenza costituzionale sul processo penale (2016-2019), Corte costituzionale, Servizio studi, STU 314, maggio 2020 (www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/STU%20314_ProcessoPenale_2016-2019.pdf).

4. Recante «Modifiche ed integrazioni della legge 12 giugno 1990, n. 146, in materia di esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e di salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati».

5. E. Gianfrancesco, Il codice di autoregolamentazione degli avvocati come fonte del diritto di natura secondaria, in Giur. cost., n. 4/2018, pp. 1918 ss.; T. Alesci, Astensione collettiva e procedimento con detenuti. La decisione della Consulta e le ricadute processuali, in Processo penale e giustizia, n. 1/2019, pp. 91 ss.; E. Aprile, La Consulta interviene sul tema dell’adesione del difensore all’astensione dalle udienze e sugli effetti sul regime cautelare dell’imputato, in Cass. pen., n. 4/2019, pp. 1540 ss.; F. Ciampi, L’iter processuale deve prevalere sul diritto di sciopero, in Guida al diritto, n. 35-36/2018, pp. 73 ss.; L. Diotallevi, La Corte costituzionale si pronuncia sull’astensione forense nei processi con imputati in stato di custodia cautelare: interrogativi di natura processuale e ragioni di ordine sostanziale, in Giur. cost., n. 4/2018, pp. 1929 ss.; T.F. Giupponi, L’interpretazione “costituzionalmente orientata” dell’incidentalità: la Corte e il Codice di autoregolamentazione dell’astensione collettiva degli avvocati, tra riserva di legge e disapplicazione, in Forum di Quad. cost., n. 6/2019 (www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2019/06/nota_giupponi_180_2018_14_2019.pdf); S. Lonati, L’astensione del difensore dalle udienze nei processi con imputati in custodia cautelare: in attesa di un intervento del legislatore riemerge per il giudice il potere di bilanciamento dei diritti costituzionali in conflitto, in Giur. cost., n. 4/2018, pp. 1942 ss.; G. Pecorella, Una sentenza della Corte costituzionale (apparentemente) oscura. Può ancora esercitarsi il diritto di astensione nei processi con imputati detenuti?, in Dir. pen. cont., 17 ottobre 2018; R. Rudoni, Promovimento in via incidentale del processo costituzionale e sospensione “parziale” del processo principale, in Forum di Quad. cost., n. 3/2019 (www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2019/03/nota_180_2018_rudoni.pdf).

6. In tal senso vds. anche E. Aprile, La Consulta interviene sul tema dell’adesione del difensore all’astensione dalle udienze e sugli effetti sul regime cautelare dell’imputato, in Cass. pen., n. 4/2019, p. 1543.

7. G. Pecorella, Una sentenza, op. cit.

8. Vds. G. Leo, Sei anni, op. cit.

9. Su tale pronuncia vds., in dottrina, E. Aprile, Il giudice dell’abbreviato che ritenga di riqualificare il fatto contestato, ben può restituire l’imputato nella facoltà di chiedere la sospensione del processo con messa alla prova, già oggetto di una precedente istanza, in Cass. pen., n. 10/2019, pp. 3617 ss.

10. Vds. amplius G. Leo, Sei anni, op. cit.

11. In dottrina, vds., tra gli altri, E. Aprile, Invito della Consulta al legislatore a modificare la disciplina della rinnovazione del giudizio dibattimentale in caso di mutamento della persona fisica del giudice, in Cass. pen., n. 10/2019, pp. 3623 ss.; L. Agostini, La mutabilità del giudice: da Corte Costituzionale 132 del 2019 alle Sezioni Unite “Bajrami”, in Giur. pen., n. 12/2019 (www.giurisprudenzapenale.com/2019/12/12/la-mutabilita-del-giudice-da-corte-costituzionale-132-del-2019-al-le-sezioni-unite-bajrami/); G. Borgia, Dibattimento a distanza e garanzie costituzionali: spunti di riflessione a partire dall’emergenza sanitaria, in Osservatorio costituzionale (AIC), n. 6/2020, pp. 181 ss. (www.osservatorioaic.it/images/rivista/pdf/2020_6_23_Borgia.pdf); M. Daniele, Le “ragionevoli deroghe” all’oralità in caso di mutamento del collegio giudicante: l’arduo compito assegnato dalla Corte costituzionale al legislatore, in Giur. cost., n. 3/2019, pp. 1551 ss.; A. De Caro, La Corte Costituzionale chiama, le Sezioni Unite rispondono: il triste declino del principio di immediatezza, in Dir. pen. proc., n. 3/2020, pp. 293 ss.; P. Ferrua, Il sacrificio dell’oralità nel nome della ragionevole durata: i gratuiti suggerimenti della Corte costituzionale al legislatore, in Archivio penale, n. 2/2019 (www.archiviopenale.it/il-sacrificio-delloralita-nel-nome-della-ragionevole-durata-i-gratuiti-suggerimenti-della-corte-costituzionale-al-legislatore/articoli/19650); O. Mazza, Il sarto costituzionale e la veste stracciata del codice di procedura penale, ivi (www.archiviopenale.it/il-sarto-costituzionale-e-la-veste-stracciata-del-codice-di-procedura-penale/articoli/19649); D. Negri, La Corte costituzionale mira a squilibrare il “giusto processo” sulla giostra dei bilanciamenti, ivi (www.archiviopenale.it/la-corte-costituzionale-mira-a-squilibrare-il-giusto-processo-sulla-giostra-dei-bilanciamenti-/articoli/19648).

12. Si possono ricordare, esemplificativamente, le posizioni critiche di P. Ferrua, O. Mazza e D. Negri nei contributi rispettivamente citati alla precedente nota. 

13. Recante «Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52».

14. G. Leo, Sei anni, op. cit.