Magistratura democratica

Frammenti di un novennio (dicembre 2010 - dicembre 2019)

di Giorgio Lattanzi

I ricordi del presidente emerito sui nove anni vissuti alla Corte, dipinta nelle pieghe più vivide del suo operato, si intrecciano a una riflessione più ampia sul ruolo del Giudice costituzionale nei suoi rapporti con il Legislatore e le Corti internazionali.

1. Marco Bignami, uno dei miei passati assistenti, mi ha chiesto un articolo sull’esperienza dei nove anni trascorsi alla Corte costituzionale. Come mi accade troppo spesso, non ho saputo dire di no. Mi sono poi reso conto che, per varie ragioni, non sarei stato in grado di ripercorrere in modo esauriente e organico quegli anni e, comunque, che per farlo non sarebbe stato sufficiente un articolo, così ho pensato di limitarmi a ricordare alcuni episodi che sono rimasti impressi nella mia mente e alcune idee che l’avevano attraversata.

Innanzi tutto il giuramento. Si svolge nel Salone delle feste del Palazzo del Quirinale, alla presenza dei giudici della Corte, dei suoi presidenti e giudici emeriti e delle più alte cariche dello Stato, e avviene davanti al Presidente della Repubblica, affiancato dai presidenti del Senato e della Camera dei deputati, dal presidente del Consiglio dei ministri e dal presidente della Corte costituzionale.

Credo che nessun giudice possa dimenticare quel giorno.

Sono stato nominato dalla Corte di cassazione in sostituzione del presidente della Corte costituzionale, che pure proveniva dalla Cassazione ed era giunto al termine del mandato, così il mio primo compito è stato quello di partecipare alla nomina del nuovo presidente.

Mi è sembrato naturale votare per il giudice più anziano nel ruolo, anche perché un collega e amico mi aveva detto che così avrebbe votato. Solo dopo mi sono reso conto che esistevano altre candidature e che il mio voto era stato decisivo. Delle altre candidature prima nessuno mi aveva parlato.

L’elezione del presidente, spesso, per la Corte, quando ci sono più candidature, è un avvenimento che può rivelarsi traumatico. Generalmente viene eletto il giudice più anziano nel ruolo, ma può accadere che ci siano più giudici con anzianità uguale o assai vicina, di modo che l’elezione dell’uno esclude, nel primo caso, o rende assai improbabile, nel secondo, l’elezione dell’altro.

In questi casi, già prima del voto, la Corte si divide e successivamente possono rimanere recriminazioni e risentimenti, che rischiano di turbare per un po’ di tempo i rapporti collegiali.

Normalmente però opera la regola, non scritta ma tradizionalmente osservata, dell’anzianità, a meno che il periodo di presidenza che resterebbe al più anziano prima della cessazione dell’incarico risulti troppo breve. Non di rado, però, il presidente viene eletto anche per periodi brevissimi, specie quando, oltre che un amico o un quasi amico al quale non si vuole recare dispiacere, è un giudice illustre e la presidenza rappresenta il riconoscimento dei meriti maturati in tutta una vita di giurista prima ancora che nella Corte, che di quella vita ha costituito il coronamento.

Del resto la conduzione della Corte, anche nei suoi aspetti amministrativi, è in gran parte collegiale, e il presidente è considerato dai giudici solo un primus inter pares, sicché non sempre viene percepita l’inopportunità della rapida successione al vertice. Non ci si rende conto che nei confronti della collettività e degli altri organi dello Stato la Corte deve offrire un’immagine di continuità. Il rapido succedersi dei presidenti la fa venir meno, determinando l’impressione che i giudici si preoccupino più di compiacere il collega che di assicurare la funzionalità dell’organo.

Anche quando non si tratta di periodi brevissimi, la “regola” dell’anzianità comunque dà luogo a presidenze di durata limitata e più volte mi sono chiesto se si tratta di una regola opportuna giungendo sempre a una conclusione affermativa, con una correzione. Si potrebbe prevedere che vada assicurato un periodo minimo di presidenza non inferiore a un anno, vale a dire che il nuovo presidente normalmente dovrebbe essere il più anziano in carica tra i giudici in condizione di assicurare la permanenza di almeno un anno.

Con un correttivo del genere si eviterebbero le presidenze eccessivamente brevi, lasciando in vita una regola che vale a garantire serenità nell’attività della Corte e nei rapporti collegiali. Quella di raggiungere la presidenza della Corte è un’aspirazione comprensibile, che è bene regolare in modo da evitare una competizione tendenzialmente permanente. Questa infatti non potrebbe non riflettersi sulla quotidianità della vita della Corte, originando la ricerca di consensi e la formazione di rapporti più stretti tra gruppi di giudici, con possibili riflessi anche sulle decisioni.

All’inizio il nuovo giudice svolge una sorta di apprendistato; per un certo periodo (uno o due mesi) non gli vengono assegnate cause e si limita a contribuire al lavoro della camera di consiglio. Quando ho iniziato, anche questo contributo era tendenzialmente limitato. Un paio di colleghi mi avevano consigliato: “nei primi tempi ascolta molto e parla poco”. Non ricordo di aver fatto tesoro del consiglio; ho ascoltato, ma ho anche parlato come sempre, nella misura che mi è parsa opportuna.

Non credo fosse un buon consiglio; io non l’ho mai dato. La propensione ad ascoltare più che a parlare è piuttosto stimolata dall’estrema varietà delle materie che, in ogni udienza, la Corte è chiamata ad affrontare.

Il giudice, e soprattutto il nuovo giudice, ha per lo più una preparazione prevalentemente specialistica, che all’inizio può farlo sentire in difficoltà di fronte a questioni che richiedono competenze giuridiche diverse dalle sue, ma questa sensazione è destinata a durare assai poco. L’organizzazione della Corte infatti è tale da mettere ogni giudice in grado di dominare la questione e di disporre di tutti gli elementi necessari per decidere. Oltre agli atti del processo e agli scritti delle parti il giudice ha a disposizione un’ampia relazione preparata da un assistente del relatore, alla quale si aggiungono gli eventuali contributi dei suoi tre assistenti.

Io preparavo l’udienza parlandone almeno due volte con i miei assistenti, una prima volta per una ricognizione sommaria di tutte le cause con l’individuazione delle possibili soluzioni, una seconda volta in modo approfondito esaminando e discutendo a fondo ogni questione.

Il ruolo degli assistenti è assai importante e nella maggior parte dei casi si integra fortemente con quello del giudice, affiancandolo anche nella redazione delle sentenze. La collaborazione dei miei assistenti è stata per me fondamentale.

Gli assistenti sono scelti dal giudice tra i magistrati, oppure tra i ricercatori o i professori universitari, e alcuni di loro dopo anni sono ritornati nella Corte come giudici facendosi apprezzare anche per la formazione che avevano maturato in precedenza.

L’esperienza nel lavoro della Corte conta, perciò ero solito raccomandare ai nuovi colleghi di prendere almeno un assistente che fosse stato in precedenza con un altro giudice. Alcuni assistenti, bravissimi, sono rimasti per numerosi anni con giudici diversi e fino a quando non hanno lasciato la Corte hanno rappresentato per questa un prezioso patrimonio di esperienza e di competenza. Anche per questa ragione, in un progetto di rinnovamento dell’ordinamento del personale della Corte avevo previsto che uno dei tre assistenti dovesse essere interno e provenire da un apposito ruolo della Corte, ma l’idea non è piaciuta; si è detto che avrebbe potuto dar luogo a un’ingerenza della struttura amministrativa nell’attività dei giudici, ma forse, più semplicemente, è sembrato preferibile ai giudici mantenere la facoltà di scegliere tre assistenti anziché solo due.

Nell’arco dei nove anni della mia permanenza i quattordici giudici che mi hanno accolto sono giunti in tempi diversi al termine del loro mandato, sicché la Corte nella quale sono entrato e quella dalla quale sono uscito erano totalmente diverse, ma il rinnovamento è avvenuto con gradualità dando modo ai nuovi giudici, sovente con personalità assai differenti da quelle dei precedenti, di integrarsi nel collegio, il quale così riesce a mutare pur rimanendo fondamentalmente se stesso. Personalità diverse e orientamenti ideali diversi hanno un denominatore comune che è costituito dalla formazione e dalla cultura giuridica, ed è solo in questo ambito che si possono svolgere le discussioni e formulare le varie proposte di decisione. Ho constatato con una certa sorpresa che, diversamente da quello che pensavo, la politica, e non solo quella partitica, rimane fuori dalla Corte. Le situazioni materiali implicate dalla decisione non vengono ignorate, perché la Corte, come ogni giudice, non può non considerare gli effetti pratici dalle proprie decisioni, ma tutto ciò naturalmente avviene nell’ambito di un discorso giuridico condizionante, e qualche volta dopo la decisione sono rimasto convinto che ci sarebbero stati anche spazi giuridici per soluzioni diverse, maggiormente aderenti alla realtà.

 

2. Tra le sentenze che ricordo, la prima di una certa importanza è la n. 236 del 2011, nella quale mi sono trovato a fare per la prima volta applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

Nei tanti anni di attività giudiziaria non avevo mai avuto occasione di occuparmi della Cedu e ne avevo una conoscenza solo teorica e sommaria.

Del resto la Cedu, per molti anni, è vissuta nell’ombra e solo in tempi relativamente recenti è divenuta un punto di riferimento fondamentale, oltre che per il numero dei ricorsi individuali alla Corte Edu, per la sua frequente applicazione da parte della Corte costituzionale, oltre che direttamente da parte dei giudici tutte le volte che ritengono praticabile un’interpretazione conforme.

La vicenda relativa all’integrazione delle norme della Convenzione nell’ordinamento e nella cultura giuridica nazionale mi ricorda per vari aspetti quella relativa alla Carta costituzionale.

C’era stata nei primi tempi una sottovalutazione della Costituzione, favorita anche dall’iniziale distinzione tra norme programmatiche e precettive, alla quale ha fatto seguito un rilevante fervore applicativo, sia attraverso la rimessione massiccia di questioni alla Corte costituzionale, sia con avventurosi tentativi di applicare direttamente i principi della Costituzione con i quali le leggi ordinarie si trovavano in irresolubile contrasto.

Infine è stato raggiunto un giusto assetto, con un’equilibrata miscela tra l’interpretazione conforme e la rimessione alla Corte costituzionale, tutte le volte in cui lo strumento interpretativo risulta inidoneo.

Mi sembra che, per quanto riguarda la Cedu, la vicenda sia stata analoga.

Per molto tempo è mancato anche lo strumento giuridico per dare esecuzione alle decisioni  della Corte di Strasburgo, e alla lacuna ha dovuto supplire in vario modo la giurisprudenza sia della Corte di cassazione sia della Corte costituzionale, che, al termine di una tormentata evoluzione, è giunta a individuare o addirittura a costruire vari istituti processuali da utilizzare per dare esecuzione nell’ordinamento interno alle decisioni della Corte Edu.

Non sempre è facile fare applicazione nel diritto interno dei principi affermati dalla Corte Edu, perché le sue affermazioni di principio sono generalmente rapportate a un caso particolare e nella loro enunciazione possono non essere prive di ambiguità, che richiedono di essere sciolte in vista dell’applicazione a casi diversi da quello che aveva formato oggetto del giudizio.

È esemplare in materia penale la sentenza Scoppola, della quale la sentenza della Corte n. 236 del 2011 era stata chiamata a fare applicazione. La sentenza Scoppola è particolarmente importante, oltre che per il contenuto della decisione sul caso che era stato sottoposto alla Corte Edu[1], anche per un’affermazione innovativa sulla portata dell’art. 7, par. 1 della Convenzione, nel senso che questo articolo «non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa. Questo principio», ha aggiunto la Corte, «si traduce nella norma secondo cui se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono favorevoli all’imputato».

La regola della retroattività della lex mitior per noi non era nuova, perché è prevista dall’art. 2, secondo, terzo e quarto comma, cp, e secondo la Corte costituzionale, «pur avendo rango diverso dal principio d’irretroattività della norma incriminatrice, di cui all’art. 25, secondo comma, della Costituzione, non è priva di un fondamento costituzionale» (sent. n. 215/2008), che è stato individuato «nel principio di eguaglianza, che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice» (sent. n. 394/2006).

Però il principio di eguaglianza, per la giurisprudenza della Corte costituzionale, costituiva non solo il fondamento, ma anche il limite dell’applicabilità retroattiva della lex mitior. Mentre il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole esprime un valore assoluto e inderogabile, quello della retroattività in mitius era ritenuto suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli e, in particolare, dalla necessità di preservare interessi, ad esso contrapposti, di analogo rilievo (ex multis: sentt. nn. 215/2008, 394/2006, 74/1980 e 6/1978).

In seguito alla sentenza Scoppola si è ritenuto che la decisione della Corte Edu, oltre ad aver fatto acquistare autonomia al principio di retroattività della lex mitior, gli avesse dato un diverso vigore, facendo venire meno la possibilità di quelle deroghe che nel nostro ordinamento gli era stata riconosciuta; si è ritenuto insomma che quel principio fosse divenuto inderogabile come il principio di non retroattività della legge penale sfavorevole, sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost.

In questa prospettiva, la Corte di cassazione e alcuni giudici di merito avevano proposto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, l. 5 dicembre 2005, n. 251 (cd. “ex Cirielli”) nella parte in cui esclude l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se più brevi, ai «processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione». Secondo la Corte di cassazione e gli altri giudici che avevano sollevato la questione, la disposizione transitoria censurata, impedendo l’applicazione dei nuovi, più brevi termini di prescrizione nei processi in corso pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione, si sarebbe posta in contrasto con l’art. 7 della Convenzione europea.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 236 del 2011, ha giudicato infondata la questione, ritenendo non «arbitraria la conclusione che il riconoscimento da parte della Corte europea del principio di retroattività in mitius – che già operava nel nostro ordinamento in forza dell’art. 2, commi 2, 3, e 4 c.p. e aveva trovato un fondamento costituzionale attraverso la giurisprudenza (…) – non abbia escluso la possibilità di introdurre deroghe o limitazioni alla sua operatività, quando siano sorrette da una valida giustificazione», come quella che ha fatto escludere l’applicabilità dei nuovi termini di prescrizione «ai processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione».

In sostanza, pur mancando nella decisione della Corte Edu la previsione di possibili deroghe al principio, in materia di successione di leggi penali, dell’applicabilità di quella più favorevole, la sentenza n. 236 del 2011 ha distinto il caso dell’applicazione retroattiva della legge meno favorevole, sempre esclusa, da quello dell’applicazione retroattiva della legge più favorevole suscettibile di deroghe. Una cosa è punire una persona per un fatto che quando era stato commesso non costituiva reato o comunque era punito meno severamente, altra cosa è punire una persona nel modo previsto quando aveva commesso il fatto, anche se dopo era stato introdotto un trattamento più favorevole. Possono esserci valide ragioni per non applicare il nuovo trattamento retroattivamente, come ad esempio avviene nel caso delle leggi eccezionali o temporanee previsto dall’art. 2, quinto comma, cp. In questo caso se, mutata la situazione di fatto, dovessero applicarsi le leggi successive, normalmente più favorevoli, potrebbe venir meno la stessa ragione della legge eccezionale o della legge temporanea, dato che al momento della sua applicazione verosimilmente sarebbe in vigore una diversa legge meno rigorosa e su quella l’autore della violazione avrebbe potuto fare affidamento.

La differenza mi sembra evidente. Come è anche apparso successivamente nel corso dell’esame di altre questioni di legittimità costituzionale, sarebbe stata, oltre che ingiustificata, assai inopportuna una costituzionalizzazione del principio della retroattività della legge più favorevole in termini di assolutezza.

 

3. La sentenza Scoppola riguardava un caso di applicazione retroattiva di una norma di sfavore rispetto a una norma intermedia di favore, e il principio affermato dalla Corte di Strasburgo, anche se innovativo per la sua giurisprudenza, aggiungeva un tassello di garanzia europea fondamentale, dovendo stabilire se nel caso che le era stato sottoposto vi era stata o meno violazione della Cedu, e su questo caso andava parametrato il principio affermato.

Quella Corte non aveva escluso la possibilità di deroghe, eppure, nonostante ciò, la sentenza n. 236 ha suscitato perplessità, e ad alcuni è sembrato che rappresentasse una deviazione rispetto ai principi espressi dalle sentenze gemelle.

Da parte dei cultori del diritto europeo c’è un certo ossequioso fondamentalismo, che li porta a privilegiare in modo acritico la giurisprudenza europea proveniente da Strasburgo o da Lussemburgo muovendo, nei confronti delle decisioni della Corte costituzionale che considerano non pienamente allineate, rilievi che a me paiono ingiustificati.

È quello che è avvenuto anche con la sentenza n. 49 del 2015. Con questa sentenza, la Corte costituzionale ha ritenuto non vincolante una decisione della Corte Edu, la sentenza 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia, che, nell’interpretazione dei giudici rimettenti, in seguito al proscioglimento per prescrizione avrebbe precluso la confisca di una lottizzazione abusiva, consentita invece dall’art. 44, comma 2, dPR n. 380/2001 anche quando, nonostante tale proscioglimento, è ugualmente accertata la responsabilità degli imputati.

Secondo la Corte costituzionale la sentenza Varvara era tutt’altro che chiara e, inoltre, risultava in contrasto con un’altra precedente decisione della Corte Edu del 20 gennaio 2009, Sud Fondi c. Italia, alla quale la stessa Corte costituzionale si era uniformata con la sentenza n. 239 del 2009, invitando i giudici comuni ad adottare un’interpretazione adeguatrice dell’art. 44, comma 2, dPR n. 380/2001, in modo da renderlo compatibile con i principi espressi dalla Corte di Strasburgo. E l’invito era stato immediatamente raccolto dalla Corte di cassazione, che, modificando il proprio precedente orientamento, aveva ritenuto che la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite potesse, in presenza di una causa estintiva del reato, essere disposta solo se fosse stata accertata l’esistenza dell’illecito, sia sotto il profilo oggettivo sia sotto quello soggettivo, indipendentemente dall’esistenza di una pronuncia di condanna.

Ai fini dell’osservanza della Cedu dovrebbe rilevare non la forma della pronuncia con cui è applicata una misura sanzionatoria, ma la pienezza dell’accertamento di responsabilità, tale da vincere la presunzione di non colpevolezza, e, poiché tale accertamento è compatibile con una pronuncia di proscioglimento per prescrizione, i giudici rimettenti secondo la Corte costituzionale ben avrebbero potuto attribuire alla sentenza Varvara un significato diverso da quello posto a fondamento delle questioni di legittimità costituzionale.

Non si capiva per quale ragione avrebbe dovuto essere abbandonata l’interpretazione fatta propria dalla Corte Edu con la sentenza Sud Fondi e perché non sarebbe stata consentita una confisca sulla base di un accertamento di responsabilità pieno dell’autore dalla violazione urbanistica, indipendentemente da una sua condanna per il relativo reato.

In sostanza, in una situazione in cui la giurisprudenza europea era apparsa incerta, i giudici della Consulta avevano ritenuto che mancassero le condizioni per pronunciare quella illegittimità costituzionale sollecitata (peraltro in senso opposto) dai due giudici rimettenti. E questo non significa disconoscere il valore vincolante delle decisioni della Corte europea nell’interpretazione della Convenzione, valore che infatti è stato dalla sentenza n. 49 decisamente ribadito; significa, più semplicemente, ritenere che il vincolo per poter operare richiede certezza dell’interpretazione.

Di qui il discorso della sentenza n. 49 sulla esigenza di una giurisprudenza consolidata, perché non è pensabile che la Corte costituzionale debba pronunciare l’illegittimità di una legge sulla base di un’interpretazione della Corte Edu di cui non è certa la stabilità.

La sentenza n. 49 è stata criticata anche perché – si è osservato – il concetto di giurisprudenza consolidata è estraneo alla Corte Edu, ma questo è un argomento tutt’altro che decisivo.

Infatti è il nostro ordinamento che, per giustificare una dichiarazione di illegittimità costituzionale, richiede una giurisprudenza consolidata della Corte Edu sulla quale fondare un ragionevole affidamento sulla stabilità di principi con i quali risultano in contrasto norme di legge italiane.

Dopo la sentenza n. 49, in riferimento alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, i concetti di giurisprudenza consolidata e di diritto vivente della Cedu sono entrati stabilmente nelle decisioni della Corte costituzionale. E quella relativa alla confisca urbanistica non poteva certo considerarsi una giurisprudenza consolidata, sia per lo sfasamento tra la decisione della Sud Fondi e quella della Varvara, sia perché dopo quest’ultima sentenza la questione era stata rimessa alla Grande Camera per un possibile ripensamento o chiarimento.

E il ripensamento non è mancato.

Con la sentenza della Grande Camera G.I.E.M. e altri c. Italia, del 28 giugno 2018, la Corte di Strasburgo ha riconosciuto (parr. 259 e 260) che occorre guardare alla sostanza di una decisione e non alle parole usate, con la conseguenza che non può configurarsi una violazione dell’art. 7 Cedu nel caso in cui, pur mancando una pronuncia di condanna per il sopravvenire della prescrizione, ugualmente è disposta la confisca della lottizzazione abusiva, una volta che all’esito del giudizio sia stata accertata la responsabilità dell’imputato. Il che, va detto, non ha impedito la condanna dell’Italia con la sentenza G.I.E.M., ma per altre ragioni, in violazione dell’art. 6 Cedu.

Se, come i critici pretendevano, fosse stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 44, comma 2, dPR n. 380/2001 per effetto di un presunto principio della Convezione europea dei diritti dell’uomo, in realtà inesistente, sarebbe irrimediabilmente venuta meno una norma sulla confisca delle lottizzazioni abusive assai opportuna.

 

4. Si è fatto un gran parlare del dialogo tra le Corti e credo che la vicenda Varvara possa considerarsi un esempio di dialogo, posto che questo non può esistere se si pretende un ossequio acritico del giudice nazionale alle decisioni dei giudici europei e neppure se si pretende che la Corte costituzionale azioni i controlimiti tutte le volte che decisioni europee sembrano contrastare radicalmente con principi supremi del nostro ordinamento, come è avvenuto nella vicenda Taricco.

Con la sentenza Taricco, dell’8 settembre 2015, la Corte di giustizia aveva stabilito che, nei processi penali relativi ai reati in materia di imposta sul valore aggiunto (Iva), un certo regime legale della prescrizione avrebbe dovuto essere disapplicato dal giudice italiano in due casi: a) se da esso fosse derivata l’impunità di gravi frodi fiscali in un numero considerevole di casi; b) se nell’ordinamento nazionale reati analoghi in danno dello Stato fossero soggetti a termini prescrizionali meno favorevoli.

Il giudice europeo era pervenuto a questa conclusione interpretando l’art. 325 Tfue, primo e secondo paragrafo, che obbliga gli Stati aderenti a combattere efficacemente le frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, in quanto aveva ritenuto che la sistematica impunità delle frodi concernenti tale tributo, dovuta alla sopraggiunta prescrizione, si riflettesse negativamente sulle finanze europee.

Benché con riserva di valutazione da parte del giudice nazionale, la Corte di giustizia ha escluso che la “regola Taricco”, così enunciata, fosse in conflitto con il principio di legalità in materia penale, perché la prescrizione non concerne la descrizione del reato e della pena. In questa materia sarebbe pertanto consentito un trattamento deteriore rispetto a quello che è previsto dal codice penale e che si applicava quando il reato era stato commesso.

Per consolidata tradizione giuridica, basata sull’ampia formula dell’art. 25, secondo comma, Cost. («nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso»), nel nostro ordinamento la prescrizione è un istituto che, incidendo sulla punibilità, appartiene al diritto penale sostanziale. Esso perciò è conforme alla Costituzione solo se rispetta le regole di determinatezza e di irretroattività conformi al principio di legalità, come in più occasioni aveva già affermato la nostra Corte costituzionale.

Per questa ragione era sembrato ai giuristi italiani che la “regola Taricco” non fosse rispettosa di un principio supremo dell’ordine costituzionale italiano in materia penale, sia in quanto applicabile a fatti commessi prima della sua enunciazione, sia a causa della assoluta indeterminatezza, che la rendeva imprevedibile per i consociati e inapplicabile per il giudice.

Quest’ultimo non avrebbe avuto modo, in particolare, di stabilire quando ricorresse il «numero considerevole di casi», al quale è subordinata l’efficacia della “regola Taricco”, perché un simile concetto quantitativo non sarebbe stato adeguatamente determinato. Né la persona, destinataria di un precetto penale che deve essere chiaro e intelligibile, avrebbe mai potuto prevedere che dall’art. 325 Tfue potesse originarsi una complessa operazione giuridica, culminante nella disapplicazione a suo danno di un peculiare aspetto della disciplina concernente la prescrizione dei reati.

I dubbi alimentati dal dibattito giuridico sono stati recepiti dalla giurisprudenza, che li ha quindi resi oggetto di questioni di costituzionalità che non hanno trovato accoglimento.

La Corte costituzionale, pur ritenendo la “regola Taricco” in contrasto con il principio di legalità in materia penale, non ha provveduto a espungerla dall’ordinamento – come le era stato richiesto – attraverso una declaratoria di incostituzionalità della legge di ratifica del Trattato nella parte in cui, imponendo di applicare l’art. 325 Tfue come interpretato dalla Corte di giustizia, comportava la disapplicazione di due disposizioni del codice penale sulla prescrizione.

Con l’ordinanza n. 24 del 2017, la Corte costituzionale ha preferito effettuare un rinvio pregiudiziale per l’interpretazione innanzi alla Corte di giustizia. Senza porre in discussione l’interpretazione dell’art. 325 Tfue operata dal giudice europeo, la Corte costituzionale si è limitata a sottolineare la natura sostanziale della prescrizione nell’ordinamento italiano, e dunque la sua sottoposizione al regime della legalità penale che la “regola Taricco”, se applicata dal giudice, avrebbe violato per la sua retroattività e per la mancanza di determinatezza.

Con la sentenza M.A.S. e M.B., del 5 dicembre 2017, la Corte di giustizia, accedendo alla prospettiva della Corte costituzionale italiana, ha preso atto del carattere sostanziale della prescrizione nel nostro ordinamento e (oltre a escluderne direttamente l’applicazione a fatti commessi anteriormente all’8 settembre 2015) ha conseguentemente permesso al giudice nazionale di sottrarsi alla “regola Taricco”, qualora l’avesse ritenuta in contrasto con il principio di legalità enunciato anche dall’art. 49 della Carta di Nizza. La sentenza M.A.S. non tradisce l’impostazione originaria della decisione Taricco, ma la rilegge alla luce dei nuovi dati concernenti l’ordinamento nazionale, che le sono stati presentati dalla Corte costituzionale per mezzo del rinvio pregiudiziale.

La vicenda si è conclusa con la sentenza n. 115 del 2018 della Corte costituzionale, che, rilevato il contrasto dell’art. 325 Tfue e della “regola Taricco” con il principio supremo di legalità in materia penale, ha definitivamente negato che il giudice penale possa disapplicare il regime legale della prescrizione.

È importante sottolineare che questa conclusione non è stata assunta sulla base del solo diritto costituzionale nazionale, ma in applicazione dello stesso diritto dell’Unione, come era stato precisato dalla Corte di giustizia. Il dialogo, in altri termini, ha permesso di elaborare una regola comune ai rispettivi ordinamenti, nel segno del rispetto delle garanzie della persona.

L’esito della vicenda Taricco è stato dunque molto soddisfacente. Per come aveva avuto origine, la questione comportava il concreto rischio che uno Stato membro dell’Unione, appellandosi ai principi supremi del suo ordine costituzionale, infrangesse il principio del primato del diritto europeo, aprendo un contenzioso dagli sviluppi imprevedibili in un campo particolarmente sensibile quale è quello del diritto penale e, in particolare, del rispetto delle garanzie della persona da parte della potestà punitiva pubblica.

Il merito di avere scongiurato un simile scenario va davvero ascritto alla virtuosità del dialogo tra la Corte costituzionale e la Corte di giustizia dell’Unione europea.

A tal fine si è rivelato vincente un metodo decisionale cooperativo, ovvero costruito non già sulla solipsistica affermazione della propria prevalenza (e neppure sulla rassegnata accettazione di quella altrui), quanto piuttosto sulla capacità di mostrare il proprio punto di vista, argomentando in modo diffuso su di esso, e al contempo sulla disponibilità ad accogliere quello altrui, ai fini di una sintesi equilibrata.

Del resto, con la Corte di giustizia dell’Unione europea come anche con la Corte Edu, il dialogo è continuo e si svolge, oltre che attraverso le decisioni, anche attraverso incontri per riflessioni comuni e per mettere a confronto le rispettive giurisprudenze. Due incontri sono risultati particolarmente significativi: quello del maggio 2017 tra le Corti italiane e la Corte di giustizia dell’Unione europea e quello del gennaio 2019 tra le Corti italiane e la Corte europea dei diritti dell’uomo.

 

5. Vi sono due differenti tipi di dialogo, ciascuno prezioso.

Nel primo non vi è la necessità, o l’opportunità, di sottoporre all’attenzione di un’altra Corte una peculiare fattispecie oggetto di giudizio al fine di ottenerne immediate indicazioni su come essa debba essere regolata in conformità al diritto di cui quella Corte è l’interprete qualificato. Piuttosto, e prima di ciò, si tratta di trovare occasioni di incontro e di aprire un continuo confronto con la giurisprudenza formatasi non solo presso le Corti internazionali ma anche presso gli stessi giudici costituzionali di ciascun Paese, tenendone presenti gli orientamenti al fine di orientare, e semmai uniformare, la propria linea interpretativa. Fino a non molto tempo fa era assai raro che una pronuncia della Corte costituzionale italiana citasse decisioni di altre Corti e si confrontasse con esse; oggi, invece, chiunque si prenda la pena di passare in rassegna la giurisprudenza costituzionale italiana si rende conto che è proprio il contrario, e che frequenti sono i richiami alla giurisprudenza di altri Paesi. Del resto, quand’anche essi non siano esplicitati, le ricerche preparatorie con le quali gli assistenti di studio raccolgono il materiale utile ai fini della causa non mancano di sottoporre all’attenzione dei giudici costituzionali gli orientamenti dei propri colleghi stranieri, quando il tema da decidere pone questioni comuni a più ordinamenti. In particolare, le pronunce sia della Corte Edu sia della Corte di giustizia dell’Unione europea sono costantemente prese in considerazione.

In questo senso il dialogo non è parte di un modulo decisorio codificato, ma piuttosto l’espressione di un atteggiamento culturale, consapevole che la risoluzione nelle forme del diritto degli immani problemi delle società pluraliste è oramai possibile solo attraverso il lavoro della comunità allargata degli operatori giuridici, ciascuno portatore di una sua propria specificità che confluisce poi nella decisione.

Accanto a questo tipo di dialogo, che potremmo chiamare appunto culturale, vi è il dialogo che si potrebbe definire decisorio. In questi casi, la giurisprudenza europea viene sollecitata al fine specifico di risolvere una controversia o, nel caso della Corte costituzionale, una questione di legittimità costituzionale, ove tra le disposizioni giuridiche da applicare vi sia la normativa dell’Unione, oppure la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come è appunto avvenuto nei casi Taricco e Varvara.

Il tema dei rapporti tra le Corti e del diritto europeo è stato il primo importante di cui ho avuto occasione di occuparmi e ha segnato tutto il periodo in cui ho fatto parte della Corte costituzionale, come giudice prima e come presidente poi, ed è tuttora all’ordine del giorno, specie con la questione della doppia pregiudizialità.

 

6. Di molte questioni importanti la Corte ha avuto modo di occuparsi negli anni in cui ne ho fatto parte come giudice e, nell’ultimo periodo, come presidente, e di alcune – anche se non sono stato relatore – mi farebbe piacere parlare, ma non può essere questa la sede; a una però, che la Corte ha affrontato quando ne ero presidente, non posso non fare cenno.

Si tratta della questione relativa all’aiuto al suicidio.

Il caso è noto anche ai non giuristi.

In seguito a un grave incidente stradale, Fabiano Antoniani era rimasto tetraplegico e affetto da cecità bilaterale corticale. Non era autonomo nella respirazione, nell’alimentazione e nell’evacuazione ed era attraversato da ricorrenti spasmi e contrazioni produttivi di acute sofferenze. Aveva perciò maturato la volontà di porre fine alla sua esistenza, e, respingendo i tentativi della madre e della fidanzata di dissuaderlo, aveva iniziato uno sciopero della fame e della parola e si era rifiutato per alcuni giorni di essere alimentato e di parlare.

Di fronte a questa situazione, Marco Cappato aveva accolto la richiesta di Antoniani di accompagnarlo in una clinica svizzera per assumere un farmaco che gli avrebbe procurato la morte, cosa che Cappato aveva fatto guidando un’autovettura nella quale, oltre ad Antoniani, avevano preso posto la madre e la fidanzata.

Per questa condotta, Cappato era stato chiamato a rispondere di aiuto al suicidio e la Corte di assise di Milano aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale della norma incriminatrice.

Con l’ordinanza n. 207 del 2018, la Corte ha ravvisato la criticità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui incrimina chi agevola il suicidio del malato irreversibile e sofferente che, liberamente e consapevolmente, rifiuta cure mediche necessarie alla sopravvivenza, contrarie al suo senso di dignità. Al contempo, però, ha considerato che la regolamentazione delle condizioni e dei modi di esercizio del diritto di sottrarsi in modo definitivo alla terapia con l’aiuto materiale di terze persone fosse, da un lato, costituzionalmente necessaria e, dall’altro, esorbitante dal campo decisorio della Corte e invece di pertinenza del legislatore.

Perciò, al fine di adempiere al dovere di eliminare disposizioni incostituzionali preservando la discrezionalità legislativa, la Corte ha rinviato la trattazione della questione di circa un anno, nel contempo offrendo ampia motivazione sulle ragioni per le quali si profilava l’incostituzionalità della norma impugnata.

Con questo provvedimento la Corte da un lato ha fatto in modo che, nella situazione considerata, la disposizione censurata non potesse trovare applicazione né nel giudizio a quo, che è rimasto sospeso, né in altri giudizi, nei quali il giudice sarebbe stato tenuto a sollevare a sua volta una questione di legittimità costituzionale; dall’altro ha riservato al legislatore un congruo spazio di tempo per adottare la disciplina più opportuna.

Non si può pensare che con questa decisione la Corte si sia abusivamente ingerita nei tempi e nei modi dell’esercizio della funzione legislativa perché, dove vi è un obbligo costituzionale di normare una materia, la discrezionalità legislativa si contrae, anche se della sola misura necessaria all’adempimento del dovere di attuare la Costituzione.

Perciò è rimasto fermo il primato delle Camere nel regolare dettagliatamente la fattispecie in questione, ma di questo primato le Camere non si sono avvalse, facendo mancare la necessaria regolamentazione. Così la Corte costituzionale, dopo il rinvio, chiamata nuovamente a esaminare la questione, ha dichiarato, con la sentenza n. 242 del 2019, l’illegittimità costituzionale «dell’art. 580 del codice penale nella parte in cui non esclude la punibilità di chi (…) agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili».

Si tratta di una decisione presa all’unanimità, che ho fortemente condiviso e ha fatto molto discutere, sia per il nuovo meccanismo processuale del rinvio, con la prospettazione dell’incostituzionalità, sia per il contenuto della decisione. Gli scritti di commento sono stati innumerevoli, molti i convegni e varie le osservazioni critiche.

Certamente c’era di che discutere, anche se l’ordinanza prima e la sentenza poi erano ampiamente e, a mio parere, correttamente motivate; ma il punto è un altro. Mi sono confermato nell’idea che giudicare e decidere è cosa ben diversa dal teorizzare.

Il giudizio pone normalmente il giudice davanti a un fatto sul quale la sua decisione è destinata a incidere. Qualche volta quel fatto è particolarmente significativo anche perché costituisce la dimostrazione di come nella realtà la norma che il giudice è chiamato ad applicare opera, dimostrazione di cui soprattutto  il giudice di legittimità, nell’attività di interpretazione, e il giudice delle leggi, nel controllo di costituzionalità, non possono non tenere conto.

Il giudice a volte è chiamato anche a “inventare” il diritto. Inventare nel senso indicato da Paolo Grossi nei suoi scritti. È il caso che deve giudicare che gli suggerisce o a volte gli impone l’“invenzione”, tratta, quasi con un lavoro di scavo, dall’ordinamento e dalla società. Certo è, però, che l’invenzione deve inserirsi nel tessuto dell’ordinamento, non determinarne uno strappo; deve anzi rappresentare il rammendo di una sua smagliatura o addirittura di una lacerazione eventualmente determinata dal tempo e da nuove realtà.

La Corte costituzionale in particolare non può astenersi dall’operare su una disposizione fonte di situazioni in contrasto con principi o con norme costituzionali, e tale a me pare che fosse la situazione in cui si trovava Marco Cappato, sottoposto a un procedimento penale che si sarebbe potuto concludere con una condanna da cinque a dodici anni di reclusione. E analoga era la situazione della madre e della fidanzata di Fabiano Antoniani, che unitamente a Cappato avevano accompagnato in Svizzera Antoniani per consentirgli di porre fine alla sua vita e che, a loro volta, avrebbero perciò dovuto subire un uguale procedimento penale.

«Si tratta», ha scritto la Corte, «di “situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali”. In tali casi, l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unico modo per sottrarsi, secondo le proprie scelte individuali, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost.».

Questo, in una decisione piena di ulteriori argomenti di sostegno, credo che sia il punto fondamentale, quello da considerare in primo luogo: ci si dovrebbe soprattutto chiedere se è corretta, se è condivisibile, in tali termini e con tali limiti, la pronuncia di illegittimità costituzionale, che riserva poi al legislatore, sollecitandolo, la «compiuta disciplina» della materia.

È da considerare che, di fronte alla richiesta della Corte di assise di Milano di una pronuncia meramente ablativa dell’art. 580 cp, per la parte relativa all’aiuto la suicidio, nel presupposto che a ciascuna persona sarebbe riconosciuta la libertà di scegliere quando e come porre fine alla propria vita, e di farsi aiutare per raggiungere tale risultato, la Corte ha ritenuto che la tesi del giudice rimettente nella sua assolutezza non potesse essere condivisa, così come d’altro canto, nella sua assolutezza, la disposizione impugnata non potesse andare esente da censure, e ha modellato il dispositivo sul caso specifico circondandolo con una serie di cautele e concludendo con «l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore».

È pure in questa prospettiva che si dovrebbe valutare il nuovo meccanismo processuale inaugurato dalla Corte, costituito dal rinvio della trattazione con ordinanza prospettando al legislatore l’incostituzionalità della norma censurata e sollecitandolo a intervenire nelle more.

In questo caso c’erano tante ragioni per operare così, spiegate diffusamente nell’ordinanza, ma, a prescindere da ciò, non vedo lo scandalo per aver costruito uno strumento processuale tutt’altro che eversivo, ma analogo nella struttura e nelle finalità a strumenti esistenti in altri ordinamenti assimilabili al nostro.

È proprio dell’attività del giudice, specie di quello costituzionale (che anche a tal fine adotta le norme integrative) costruire strumenti processuali funzionali alla gestione del processo e alla decisione, sempreché non siano in contrasto con la legge che è tenuto ad applicare, ed è significativo il fatto che uno strumento analogo sia stato utilizzato anche dalla Corte costituzionale della Corea del Sud, come durante una visita abbiamo appreso. Ci è stato detto – se ho ben capito – che in un giudizio relativo all’aborto la Corte coreana aveva rinviato la decisione per dar modo al legislatore di intervenire, senza che ciò fosse previsto da alcuna norma.

Come ha scritto Gaetano Silvestri[2], «il rinvio dell’udienza per dar modo al Parlamento di intervenire sulla norma censurata, secondo i principi costituzionali enucleati dalla Corte» ha rappresentato «una judicial deference a tempo, per ovviare alla mancanza di un apposito strumento processuale atto a raggiungere lo stesso scopo, come avviene in altri ordinamenti». «La Corte», ha aggiunto Silvestri, «si è avvalsa della facoltà – ad essa indubbiamente spettante – di rinviare l’udienza a data fissa, con un’ordinanza in cui ha spiegato i motivi del rinvio (…). Del resto, se la Corte – poste le premesse di principio enunciate, favorevoli all’illegittimità costituzionale – avesse deciso subito nel senso dell’accoglimento, con un’additiva massiccia, sarebbe stata accusata di usurpazione della funzione legislativa; se avesse emanato una pronuncia di inammissibilità, sarebbe stata tacciata di astensionismo “pilatesco”. Dando per scontate dunque le critiche di maestri e maestrini», scrive ancora Silvestri, «ha imboccato decisamente la strada del minor danno possibile, che equivale, nel contesto dato, alla miglior tutela concretamente praticabile».

 

7. Delle due decisioni sull’aiuto al suicidio (l’ordinanza prima e la sentenza poi), come ho detto, non sono stato estensore e ne ho parlato perché sono avvenute durante la mia presidenza e me ne sento pienamente responsabile.

È una presidenza iniziata l’8 marzo 2018 e terminata il 10 dicembre 2019, relativamente lunga per i tempi della Corte e di cui vari sono i ricordi: i tanti incontri, in particolare con giudici di Corti costituzionali di altri Stati, il «Viaggio nelle scuole» e il «Viaggio nelle carceri», i discorsi sulla “attualità della Costituzione”.

Il “viaggio” è una metafora che indica l’incontro dei giudici della Corte con i ragazzi delle scuole di tutte le Regioni e con i detenuti di vari istituti di pena.

È stata un’iniziativa senza precedenti.

L’idea che ci ha mosso era quella di diffondere la cultura della Costituzione, farne capire i valori, ma anche la protezione che essa rappresenta per tutti. La scelta del carcere, dopo le scuole, ha appunto voluto significare che la Costituzione è di tutti ed è per tutti; pure per chi è detenuto, con i doveri e le relative responsabilità, ma anche con i diritti e le relative tutele.

Il nostro è stato innanzi tutto un racconto della Costituzione: come è nata dalle macerie di una guerra disastrosa, dopo il fascismo e le leggi razziali, chi erano i Padri costituenti e quali erano i loro obiettivi e i loro progetti, come la Costituzione ha accompagnato l’evoluzione del Paese, anche attraverso l’opera della Corte costituzionale, come sia ancora attuale, e come le sue parti siano tra loro collegate, dando luogo a un meccanismo complesso che sarebbe pericoloso modificare.

Ma il vero significato della nostra iniziativa è emerso durante il “viaggio”: strada facendo, si è capito che il nostro non era un discorso retorico, che la Costituzione non è una legge come le altre, sia pure posta a un livello superiore, ma qualcosa di diverso, un lascito dei Costituenti, che sta a tutti noi e soprattutto ai giovani custodire e conservare.

Vari episodi dei “viaggi” mi sono rimasti impressi nella memoria.

A Rebibbia ho provato un momento di vera commozione quando ho visto tutti i detenuti in piedi cantare l’Inno di Mameli, alcuni con la mano sul cuore. In quell’occasione avevo detto che la Costituzione per la persona, per qualunque persona, anche per chi è detenuto, è una protezione, uno scudo. Successivamente, quando sono ritornato a Rebibbia per una visita del carcere femminile, nella biblioteca una detenuta romena ha cercato di richiamare la mia attenzione, poi mi si è avvicinata e mi ha detto: «grazie a lei ho capito che abbiamo uno scudo e non lo sapevamo; ho capito che la Costituzione è importante anche per noi».

Dopo ho saputo dalla direttrice che quella donna per incontrarmi aveva rinunciato a un permesso.

Questi nostri “viaggi” sono stati molto coinvolgenti, sia per noi sia per gli studenti e i detenuti che hanno partecipato, e, benché nati in collegamento con il settantesimo anniversario della Costituzione, sono proseguiti anche dopo, e confido che riprenderanno quando la pandemia per il Covid-19 sarà cessata.

L’esperienza, infatti, è stata più che positiva e ha rappresentato per la Corte non solo una novità e una fonte di conoscenza, ma anche un cambiamento del suo modo di essere. La Corte ha maturato la consapevolezza che deve uscire dal Palazzo, deve farsi conoscere e deve conoscere, deve farsi capire e deve capire, anche perché farsi conoscere e farsi capire significa far conoscere e far capire la Costituzione.

La Corte si è resa conto che per comunicare con il Paese non è sufficiente rendere note le proprie sentenze, pubblicarle nelle forme consuete e affidarle alla lettura degli esperti. Ha capito che occorre trovare altre forme di comunicazione, raggiungere tutte le persone e far loro conoscere decisioni che possono anche cambiare in profondità la loro vita. A questo scopo, ha gradualmente rafforzato la sua comunicazione esterna, anche accompagnando più spesso le sue decisioni con comunicati che possano renderle per tutti più facilmente comprensibili.

Comunicati che, insieme con altri documenti informativi come scritti, fotografie e filmati, sono pubblicati sul sito della Corte, che è stato ristrutturato per migliorarne la consultazione.

Negli anni che ho trascorso alla Corte costituzionale mi sono rafforzato nell’idea che va ridestato il sentire degli italiani per la Costituzione e che, come hanno dimostrato i nostri “viaggi”, non è difficile farlo, ricordando come è nata, quali valori esprime e quali tutele appresta per tutti. Così come mi sono rafforzato nell’idea che la Costituzione va bene così come l’hanno concepita i Padri costituenti e che non sono giustificati i tanti progetti che, nel succedersi di maggioranze e governi, vengono proposti per modificarne l’impianto secondo le convinzioni o, peggio, le convenienze del momento.

È un’idea che ho espresso varie volte con discorsi pubblici, parlando della “attualità della Costituzione”.

La nostra Costituzione è il frutto di un compromesso alto perché vi sono confluiti i valori delle diverse forze politiche presenti nel Paese, e quindi della società intera, consegnati a un processo di attuazione che nel tempo li ha rinnovati e trasformati.

Essa non ha ingessato le dinamiche sociali nella gabbia di una precostituita idea di bene comune, ma ha posto le premesse per uno sviluppo, mediato dalla legge e sorvegliato dalla Corte costituzionale, nelle diverse direzioni possibili, e le esigenze di rinnovamento del Paese e dell’ordinamento – e le delusioni, se queste sono tradite – appartengono all’agire politico, ma non riguardano la trama costituzionale.

Le Costituzioni che sono durate a lungo hanno avuto la possibilità di mutare insieme con la società, e sono perciò paradossalmente al contempo più nuove e più sperimentate di Costituzioni create dalla penna di brillanti giuristi, ma le cui sorti sono incerte.

Al di là del merito dei vasti progetti di riforma costituzionale sottoposti a referendum confermativo, merito tutto da discutere, resta il fatto che le ampie maggioranze di elettori contrari hanno mostrato una fiducia del corpo sociale che è la prima assicurazione di buona vita per ogni Costituzione, ed è quindi un valore in sé.

Continue revisioni della Costituzione, per inseguire idee settoriali di miglioramento, rischiano di avere un impatto sistemico assai grave, scuotendo il consenso sull’intero impianto costituzionale, che finisce per essere percepito come una componente ondivaga dell’ordinamento, al pari di una qualunque legge ordinaria, che viene modificata a seconda delle esigenze e degli umori del momento.

Queste sono le idee che ho espresso nella convinzione che la Costituzione dovesse tornare idealmente al centro della vita del Paese e che la Corte costituzionale, facendo sentire la sua presenza, avrebbe potuto contribuire al raggiungimento di questo obiettivo.

Tutte le volte che se ne presentava l’occasione, mi piaceva ricordare che Paolo Grossi, con un’immagine, era solito dire che la Costituzione è il “breviario del cittadino”, da tenere sempre a portata di mano sul comodino.

I nove anni trascorsi alla Corte costituzionale sono stati appassionati e appassionanti e le critiche, che pure non sono mancate, credo che non abbiano compreso il senso dell’attività complessiva della Corte, ben lontana dal rappresentare un protagonismo dell’organo o dei suoi componenti, ma semmai più semplicemente, se si vuole usare questa espressione, tesa a riaffermare un protagonismo della Costituzione e a farla vivere nel Paese come un punto di riferimento e un valore fondamentale. E come giudici costituzionali abbiamo sentito che il nostro dovere imprescindibile era quello, appunto, di far vivere la Costituzione tutelando innanzi tutto i diritti fondamentali, a volte anche operando scelte non facili. 

 

 

1. Scoppola era stato giudicato con un giudizio abbreviato che  aveva richiesto quando, in base alla l. n. 479/1999, era previsto che, nel caso di abbreviato, la pena dell’ergastolo sarebbe stata sostituita con quella di trenta anni di reclusione. Nel corso del giudizio, però, era entrato in vigore il dl n. 341/2000, il quale con una norma interpretativa aveva stabilito che quella sostituita con la reclusione di trenta anni era solo la pena “secca” dell’ergastolo, mentre la pena dell’ergastolo con isolamento diurno (che si applica nel caso in cui con il reato punito con l’ergastolo concorrono altri gravi reati) andava sostituita con l’ergastolo semplice (cioè senza isolamento diurno). Il giudice aveva ritenuto che fosse quest’ultima la pena che spettava a Scoppola e gli aveva, di conseguenza, applicato l’ergastolo anziché la pena di trenta anni di reclusione sulla quale l’imputato aveva fatto affidamento quando aveva chiesto il giudizio abbreviato. 
Chiamata a pronunciarsi su questa vicenda, la Corte Edu, con una sentenza della Grande Camera in data 17 settembre 2009, ha ritenuto che la condanna di Scoppola all’ergastolo avesse violato l’art. 7 (oltre che l’art. 6) della Convenzione europea perché, pur riguardando un procedimento speciale, l’art. 442, comma 2, cpp, che stabilisce la pena da applicare nel caso di giudizio abbreviato, costituisce «una disposizione di diritto penale materiale riguardante la severità della pena da infliggere in caso di condanna secondo il rito abbreviato». «Di conseguenza», ha aggiunto la Corte, «al ricorrente è stata inflitta una pena più severa di quella prevista dalla legge che, tra le leggi entrate in vigore nel periodo compreso tra la commissione del reato e la pronuncia della sentenza definitiva, gli era più favorevole».

2. G. Silvestri, Del rendere giustizia costituzionale, in questo fascicolo (pubblicato in anteprima in Questione giustizia online, 13 novembre 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/del-rendere-giustizia-costituzionale).