Magistratura democratica

Il diritto amministrativo nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale

di Pierluigi Tomaiuoli

Lo scritto si propone di esaminare alcune delle più significative pronunce della Corte costituzionale rese nell’ultimo lustro nella materia amministrativa, analizzandone, in particolare, i contenuti, le rationes e i residui profili problematici. Le sentenze oggetto di esame, che tagliano trasversalmente il moderno diritto amministrativo, mostrano una Corte costituzionale forte, che negli ultimi anni, anche in questa materia, ha riscoperto la sua assoluta centralità nell’architettura costituzionale.

1. Premessa / 2. Il vincolo costituzionale di tutela dell’interesse legittimo, tra istanze risarcitorie e caducatorie / 3. La natura “primariamente” soggettiva della giurisdizione amministrativa / 4. Le pressioni “esterne” sul giudizio amministrativo: dal contrasto del giudicato con le sopravvenute sentenze della Corte Edu alla giurisdizione “dinamica” / 5. La Scia e la tutela del terzo / 6. Conclusioni

 

1. Premessa

Il diritto amministrativo, come tutti gli operatori del settore sanno, è da sempre pane quotidiano per la Corte costituzionale, e lo è tanto nei giudizi principali quanto in quelli incidentali.

Negli ultimi anni, poi, le importanti riforme sostanziali e processuali che in questa materia si sono incessantemente susseguite hanno originato – complici un legislatore spesso sciatto o distratto e, a volte, un eccesso di “protagonismo” degli interpreti – numerosi problemi ermeneutici, anche di sistema, spesso convogliati, a torto o ragione, in questioni di legittimità costituzionale.

Obiettivo di questo articolo è quello di guardare da vicino ad alcuni degli arresti della Corte costituzionale, esaminandone gli aspetti più rilevanti, le ragioni delle decisioni e le eventuali questioni irrisolte.

La scelta delle sentenze oggetto di approfondimento, per quanto ispirata al criterio del maggiore interesse per gli studiosi del settore, resta inevitabilmente soggettiva e non può che risentire della sensibilità personale dell’Autore.

Per rendere più agevole la lettura, l’esame verrà condotto per aree tematiche, pur nella consapevolezza che esse si prestano a continue sovrapposizioni, in ragione sia della stretta connessione che spesso le avvince sia del frequente ricorrere dei medesimi parametri della Carta fondamentale (artt. 3, 24, 97, 103, 113, 117, primo comma, Cost.), che nel diritto amministrativo fanno da sfondo costante alle questioni di legittimità costituzionale.

Non deve poi stupire che la maggior parte di quest’ultime cada su norme processuali o involva comunque la fase dinamica del processo, poiché a proposito dell’interesse legittimo – che ancora oggi è il cuore pulsante del diritto amministrativo – l’obiettivo primario dei Costituenti è stato quello di assicurare, al pari dei diritti soggettivi, una tutela giurisdizionale effettiva.

 

2. Il vincolo costituzionale di tutela dell’interesse legittimo, tra istanze risarcitorie e caducatorie 

In questo paragrafo l’attenzione cade su due sentenze della Corte che, da angolazioni diverse, toccano il tema, ancora oggi molto discusso, delle possibili declinazioni della tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo e, in particolare, dell’azione risarcitoria e dei suoi rapporti con quella di annullamento: si tratta delle sentenze n. 94 del 2017 e n. 160 del 2019.

Con la prima, la Corte ha deciso, nel senso della non fondatezza, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, comma 3 del codice del processo amministrativo[1], nella parte in cui stabilisce che «[l]a domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo», sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, primo e secondo comma, 111, primo comma, 113, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: Cedu).

Secondo il Tar Piemonte rimettente, anche per tale azione risarcitoria e non soltanto per quella diretta a far valere il danno per lesione di diritti soggettivi, il legislatore avrebbe dovuto prevedere l’ordinario termine prescrizionale o altro congruo termine della stessa natura; in ogni caso, non avrebbe dovuto indicare un termine di «soli» centoventi giorni[2].

La norma sospettata d’incostituzionalità – è noto – rappresenta un delicato punto di equilibrio[3], individuato dal legislatore per porre fine a oltre un decennio di tensioni tra la Corte di cassazione e il Consiglio di Stato sul tema della cd. pregiudiziale amministrativa, tensioni originate della storica sentenza n. 500 del 1999 delle sezioni unite, che ha meritoriamente aperto al risarcimento del danno per lesione dell’interesse legittimo.

La Corte osserva che la soluzione individuata dal codice è stata quella di lasciare al danneggiato la scelta tra l’azione di condanna in via autonoma (comma 3) e quella da esperirsi contestualmente all’azione di annullamento del provvedimento illegittimo o finanche successivamente al passaggio in giudicato della relativa sentenza (comma 5), assoggettando in entrambi i casi la proponibilità della domanda risarcitoria al termine di decadenza di centoventi giorni, sia pure decorrente da momenti differenti.

Il punto di partenza – e in realtà anche di approdo – del ragionamento della Corte è che il codice del processo amministrativo ha quindi introdotto «una disciplina che riconosce al danneggiato la facoltà di scegliere le modalità della tutela risarcitoria nei confronti dell’esercizio illegittimo della funzione pubblica, adottando un modello processuale che determina un significativo potenziamento della tutela, anche attraverso il riconoscimento di un’azione risarcitoria autonoma, con il conseguente abbandono del vincolo derivante dalla pregiudizialità amministrativa».

La norma sospettata d’incostituzionalità, cioè, fa parte di un meccanismo complessivo che non riduce, ma incrementa il livello di tutela dell’interesse legittimo, ed è alla luce di tale rilievo di fondo che vanno poi lette le specifiche motivazioni addotte in sentenza per respingere tutte le diverse censure avanzate dal rimettente.

In particolare, non fondata è ritenuta la censura di (manifesta) irragionevolezza, considerate da un lato, l’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore nella configurazione degli istituti processuali (intesi in senso lato, sino a ricomprendere i termini decadenziali e prescrizionali e le altre disposizioni condizionanti l’azione) e, dall’altro, la finalità della norma di individuare un «coerente bilanciamento dell’interesse del danneggiato di vedersi riconosciuta la possibilità di agire anche a prescindere dalla domanda di annullamento (con eliminazione della regola della pregiudizialità), con l’obiettivo, di rilevante interesse pubblico, di pervenire in tempi brevi alla certezza del rapporto giuridico amministrativo, anche nella sua declinazione risarcitoria[4], secondo una logica di stabilità degli effetti giuridici ben conosciuta in rilevanti settori del diritto privato ove le aspirazioni risarcitorie si colleghino al non corretto esercizio del potere, specie nell’ambito di organizzazioni complesse e di esigenze di stabilità degli assetti economici (art. 2377, sesto comma, del codice civile)»[5]

E ciò ancor più ove si consideri che «il bilanciamento operato risponde anche all’interesse, di rango costituzionale, di consolidare i bilanci delle pubbliche amministrazioni (artt. 81, 97 e 119 Cost.) e di non esporli, a distanza rilevante di tempo, a continue modificazioni incidenti sulla coerenza e sull’efficacia dell’azione amministrativa»[6].

Parimenti non fondata è la dedotta censura di violazione del principio di eguaglianza, poiché «[l]a necessità che davanti al giudice amministrativo sia assicurata al cittadino la piena tutela, anche risarcitoria, avverso l’illegittimo esercizio della funzione pubblica (sentenze n. 191 del 2006 e n. 204 del 2004) non fa scaturire, come inevitabile corollario, che detta tutela debba essere del tutto analoga all’azione risarcitoria del danno da lesione di diritti soggettivi», essendo evidente che le due situazioni giuridiche soggettive poste a raffronto (diritti soggettivi e interessi legittimi) sono differenti: «entrambe sono meritevoli di tutela, ma non necessariamente della stessa tutela»[7].

Ancora non fondata è ritenuta la censura di violazione del diritto di difesa e del principio di generalità ed effettività della tutela giurisdizionale basata sulla presunta brevità del termine assegnato alla parte per agire in via risarcitoria, perché, una volta ritenuta legittima la scelta legislativa di assoggettare tale azione a decadenza (a tutela, si è detto, della certezza degli effetti del rapporto giuridico amministrativo e della stabilità dei bilanci delle pubbliche amministrazioni) e non a prescrizione, quella presunta brevità «non può essere desunta, a pena di contraddittorietà logica prima ancora che giuridica, da una comparazione con i termini che generalmente caratterizzano la seconda»; e perché il termine di centoventi giorni è significativamente più lungo di molti dei termini decadenziali previsti dal legislatore sia in ambito privatistico che pubblicistico. 

Cadono, infine, le censure di violazione degli artt. 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e agli artt. 6 e 13 della Cedu, anch’esse incentrate, in realtà, sulla menomazione del principio di effettività giurisdizionale, dati la già lumeggiata «legittimità degli scopi perseguiti dalla norma censurata e il ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e gli scopi medesimi», nonché il rilievo che il termine di centoventi giorni, «di per sé ed in assenza di problemi legati alla conoscibilità dell’evento dannoso, non rende praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione».

A ciò si aggiunge l’osservazione che il principio di equivalenza imposto da quest’ultimo è rispettato, poiché la disposizione censurata riguarda i titolari di posizioni giuridiche fondate sia sul diritto eurounitario sia su quello interno.

Con la sentenza n. 160 del 2019 la Corte è stata nuovamente chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della scelta del legislatore di riservare agli organi di giustizia sportiva la disciplina delle questioni aventi ad oggetto i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione e applicazione delle relative sanzioni sportive, e, conseguentemente, di assegnare al giudice amministrativo, in regime di giurisdizione esclusiva, la sola tutela risarcitoria, con esclusione di quella demolitoria.

La Corte ribadisce quanto già affermato con la sentenza n. 41 del 2011: tale scelta è il frutto di un ragionevole bilanciamento tra le esigenze di salvaguardia dell’autonomia dell’ordinamento sportivo – che trova ampia tutela negli artt. 2 e 18 Cost. – e il principio costituzionale di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale di cui agli artt. 24, 103 e 113 Cost.

Il «vincolo costituzionale di necessaria protezione giurisdizionale dell’interesse legittimo», cioè, se evidentemente impone di garantire sempre una tutela giurisdizionale, può sopportare l’esclusione di quella demolitoria e la sua contestuale limitazione a quella risarcitoria, ove il legislatore abbia inteso tutelare, in modo proporzionato e ragionevole, altri diritti e valori costituzionali.

Per dirla con le parole della Corte, «se è fuor di dubbio che i principi fondamentali del nostro sistema costituzionale espressi dagli artt. 24 e 113 Cost. devono avere applicazione rigorosa a garanzia delle posizioni giuridiche dei soggetti che ne sono titolari, ciò non significa che il citato art. 113 Cost., correttamente interpretato, sia diretto ad assicurare in ogni caso e incondizionatamente una tutela giurisdizionale illimitata e invariabile contro l’atto amministrativo, spettando invece al legislatore ordinario un certo spazio di valutazione nel regolarne modi ed efficacia (sentenze n. 100 del 1987, n. 161 del 1971 e n. 87 del 1962)».

Rammenta la Corte di avere già affermato che il secondo comma dell’art. 113 Cost. «“non può essere interpretato senza collegarlo col comma che lo segue immediatamente e che contiene la norma, secondo la quale la legge può determinare quali organi di giurisdizione possano annullare gli atti della pubblica Amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge medesima. Il che sta a significare che codesta potestà di annullamento non è riconosciuta a tutti indistintamente gli organi di giurisdizione, né è ammessa in tutti i casi, e non produce in tutti i casi i medesimi effetti” (sentenza n. 87 del 1962). Ciò, fermo restando naturalmente che, affinché il precetto costituzionale di cui agli artt. 24 e 113 Cost. possa dirsi rispettato, è comunque “indispensabile (...) che la norma, la quale si discosti dal modello accolto in via generale per l’impugnazione degli atti amministrativi, sia improntata a ragionevolezza e adeguatezza” (sentenza n. 100 del 1987)».

La Corte conclude osservando che le «limitazioni alla tutela giurisdizionale (…) non sono ignote al sistema normativo e, in particolare, non è ignota l’esclusione della tutela costitutiva di annullamento e la limitazione della protezione giurisdizionale al risarcimento per equivalente, come accade nell’ambito lavoristico, ove all’esito di un bilanciamento con altri valori costituzionali (art. 41 Cost.) “[i]l legislatore ben può, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purché un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza” (sentenza n. 194 del 2018)»[8].

La sentenza in esame è stata oggetto di particolare attenzione, perché interviene in un momento storico in cui, nella dottrina e nella giurisprudenza amministrative, è forte il dibattito sulla fungibilità tra rimedio annullatorio e rimedio risarcitorio e, in particolare, sulla possibilità di conversione officiosa, da parte del giudice amministrativo, della domanda di annullamento in domanda risarcitoria.

A un’attenta lettura, tuttavia, non sembra lecito ritrarre dalla sentenza n. 160 del 2019 un avallo alla tesi della convertibilità dell’azione a prescindere dalla domanda di parte, e ciò perché la Corte, in realtà, conferma che la tutela annullatoria resta la regola generale di protezione dell’interesse legittimo[9] e che le eccezioni a tale regola possono giustificarsi solo all’esito di un attento e ponderato bilanciamento con altri diritti e valori costituzionali, ad opera del legislatore e non del giudice[10], a pena di violazione del fondamentale principio di separazione dei poteri.

Bene aveva fatto, dunque, l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato[11] a escludere la possibilità per il giudice amministrativo, in assenza di una espressa previsione di legge[12] e di una domanda di parte, di sostituire la tutela caducatoria con quella risarcitoria.

Argomenti favorevoli alla tesi dell’equivalenza delle due forme di tutela non si possono poi trarre dalla sentenza n. 45 del 2019[13], che, nel rigettare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, l. 7 agosto 1990, n. 241, ha affermato che l’ordinamento complessivamente riconosce una tutela soddisfacente al terzo leso dalla segnalazione certificata d’inizio attività (d’ora in avanti: Scia), anche alla luce della titolarità dell’ordinaria azione risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione (e del segnalante).

Nel caso della Scia, a venire meno (per scelta, peraltro, del legislatore) non è infatti l’azione di annullamento, ma, allo scadere dei termini previsti, lo stesso potere di controllo attribuito alla pubblica amministrazione e la correlata posizione di interesse legittimo del terzo controinteressato (ferma restando, per il passato, la responsabilità risarcitoria conseguente proprio al controllo dovuto e omesso).

Le medesime considerazioni di fondo possono essere estese all’altro dibattuto tema della modulabilità d’ufficio degli effetti temporali della pronuncia di annullamento del giudice amministrativo[14], tema divenuto ancora più caldo in seguito all’uso di tale tecnica da parte della Corte costituzionale con la nota sentenza n. 10 del 2015[15].

Anche tale possibile limitazione della tutela dell’interesse legittimo, infatti, sembra spettare, alla luce dell’art. 113 Cost. e della natura generale dello strumento caducatorio, non al giudice ma al legislatore[16], fermi restando, ovviamente, la necessità di un attento bilanciamento degli interessi e dei valori costituzionali in gioco e il conseguente controllo di (stretta) ragionevolezza affidato alla Corte.

Né, in senso contrario, si possono invocare le analoghe tecniche adottate dalla Corte di giustizia e, come detto, dalla stessa Corte costituzionale.

Alla prima, la modulazione degli effetti temporali è consentita dal Trattato[17] e dalla natura normativa delle sue pronunce, e non stupisce che la stessa Corte di giustizia abbia espressamente affermato che spetta solo ad essa autorizzare il giudice comune, caso per caso e in via eccezionale, ad «amministrare gli effetti dell’annullamento di una norma nazionale dichiarata incompatibile con il diritto dell’Unione»[18].

Alla seconda, ove pure la si ammetta, non solo dal suo ruolo di custode ultimo del bilanciamento tra diritti e valori costituzionali[19], ma anche e soprattutto dalla natura non dispositiva ma pubblica del processo costituzionale, che non è principalmente volto, come quello amministrativo, alla tutela di un interesse di parte[20].

 

3. La natura “primariamente” soggettiva della giurisdizione amministrativa 

La somministrazione officiosa della tutela risarcitoria in luogo di quella caducatoria e la modulabilità degli effetti temporali dell’annullamento a prescindere dalla domanda di parte tradiscono, a ben vedere, una visione della giurisdizione amministrativa o anacronistica, perché prevalentemente incentrata sulla tutela dell’interesse pubblico al rispetto della legalità, o pseudopaternalistica, alla cui stregua il giudice sa meglio della parte[21] qual è il bene della vita cui essa ambisce. 

A entrambe, tuttavia, osta anche e soprattutto la natura “primariamente”[22] soggettiva della giurisdizione amministrativa che si staglia dalla Costituzione.

Il tema della natura della giurisdizione amministrativa non era mai stato direttamente affrontato dalla Corte sino alla sentenza n. 271 del 2019, avente ad oggetto il cd. rito super speciale appalti di cui all’art. 120, comma 2-bis, cpa, introdotto dall’art. 204 del codice dei contratti pubblici e poi abrogato nelle more del giudizio di costituzionalità.

La disposizione censurata dal Tar Puglia prevedeva che il provvedimento che reca le esclusioni e le ammissioni alla procedura di affidamento, all’esito della valutazione dei «requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali» dei concorrenti, andava impugnato nel termine di trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante, ai sensi dell’art. 29, comma 1 del codice dei contratti; e che «l’omessa impugnazione preclude(va) la facoltà di far valere l’illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento, anche con ricorso incidentale». 

Il rito superspeciale, che, come è noto, si caratterizzava per l’abbreviazione di tutti i termini processuali e una logica iperacceleratoria, non apportava alcuna innovazione sostanziale con riferimento alle esclusioni, perché la giurisprudenza amministrativa ha sempre ritenuto che esse siano immediatamente lesive e quindi autonomamente impugnabili, mentre il radicale cambio di rotta riguardava la previsione dell’onere di impugnazione dell’altrui ammissione alla gara, da sempre considerata contestabile esclusivamente al momento dell’aggiudicazione, quando si conosce il vincitore della gara e chi sono gli altri concorrenti “sconfitti”, che solo allora acquistano interesse a fare valere l’illegittimità dell’ammissione dell’aggiudicatario e dei soggetti che li precedono in graduatoria.

Con una prima censura, il rimettente lamenta la violazione dei principi di ragionevolezza ed effettività della tutela giurisdizionale (artt. 3 e 24 Cost.) perché, da un lato, il legislatore avrebbe introdotto un onere di impugnazione di un atto per sua natura non immediatamente lesivo, il cui esercizio, peraltro economicamente gravoso, potrebbe rivelarsi inutile, ove al termine della gara il ricorrente risulti aggiudicatario o, per converso, si collochi in una posizione della graduatoria che comunque non gli consenta di ottenere il bene della vita cui aspira; dall’altro, la declaratoria di inammissibilità del ricorso proposto avverso l’aggiudicazione per omessa tempestiva impugnazione dell’ammissione dell’aggiudicatario sarebbe una «sanzione» eccessiva, che sacrifica in maniera sproporzionata il diritto di accesso alla tutela giurisdizionale e la sua effettività in favore del contrapposto interesse pubblico a evitare l’abuso del processo, già adeguatamente tutelato dall’art. 13, comma 6-bis, lett. d del dPR 30 maggio 2002, n. 115, che prevede elevati importi del contributo unificato da versare per le controversie assoggettate al rito degli appalti pubblici.

La Corte, dopo avere richiamato la sua costante giurisprudenza sull’ampia discrezionalità del legislatore nella conformazione degli istituti processuali (nel senso lato sopra ricordato), ha escluso la lamentata manifesta irragionevolezza della limitazione del diritto di azione.

Tale esclusione si basa, in primo luogo, sulle rationes della norma, che vengono individuate: 1) «nell’esigenza di “definire la platea dei soggetti ammessi alla gara in un momento antecedente all’esame delle offerte” (Consiglio di Stato, Adunanza della Commissione speciale, parere n. 855 del 1° aprile 2016, avente ad oggetto lo schema di decreto legislativo recante “Codice degli appalti pubblici e dei contratti di concessione”, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 28 gennaio 2016, n. 11), con la conseguente creazione di un “nuovo modello complessivo di contenzioso a duplice sequenza, disgiunto per fasi successive del procedimento di gara, dove la raggiunta certezza preventiva circa la res controversa della prima è immaginata come presupposto di sicurezza della seconda” (Consiglio di Stato, sezione quinta, 14 marzo 2017, n. 1059)»; 2) nella finalità precipua «di evitare “che con l’impugnazione dell’aggiudicazione possano essere fatti valere vizi attinenti alla fase della verifica dei requisiti di partecipazione alla gara, il cui eventuale accoglimento farebbe regredire il procedimento alla fase (…) di ammissione (con grave spreco di tempo e di energie lavorative, oltre [al] pericolo di perdita del finanziamento, il tutto nell’ottica dei princìpi di efficienza, speditezza ed economicità, oltre che di proporzionalità del procedimento di gara)” (Consiglio di Stato, Adunanza della Commissione speciale del 22 marzo 2017, parere n. 782 citato)»; 3) nella volontà di porre rimedio alla proliferazione incontrollata dei giudizi “retrospettivi”, incentrati, attraverso il fuoco incrociato dei ricorsi principali e incidentali escludenti, sui requisiti di ammissione alla gara, così neutralizzando, per quanto possibile, «l’effetto “perverso” del ricorso incidentale (Consiglio di Stato, Adunanza della Commissione speciale del 22 marzo 2017, parere n. 782 citato)», «anche alla luce del difficile dialogo con la Corte di Giustizia in relazione a tale istituto (dialogo reso ancora più problematico dalla recente sentenza, 5 settembre 2019, sezione decima, in causa C-333/18, Lombardi srl, resa su rinvio pregiudiziale dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato)».

A sostegno della sua posizione, e in particolare della seconda delle menzionate rationes, la Corte richiama anche la di poco precedente ordinanza della Corte di giustizia, quarta sezione, 14 febbraio 2019, in causa C-54/18, Cooperativa Animazione Valdocco Soc. coop. soc. Impresa Sociale Onlus, che ha affermato la compatibilità[23] del rito con la disciplina europea in materia di diritto di difesa, di giusto processo e di effettività sostanziale della tutela, dal momento che «la realizzazione completa degli obiettivi perseguiti dalla direttiva 89/665 sarebbe compromessa se ai candidati e agli offerenti fosse consentito far valere, in qualsiasi momento del procedimento di aggiudicazione, infrazioni alle norme di aggiudicazione degli appalti, obbligando quindi l’amministrazione aggiudicatrice a ricominciare l’intero procedimento al fine di correggere tali infrazioni».

Queste considerazioni, che la Corte attinge dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte di giustizia, chiamate in precedenza a pronunciarsi sul rito in esame, scongiurano l’invocato giudizio di irragionevolezza, mentre la semplice constatazione che l’onere di immediata impugnazione e la correlata preclusione processuale rispondono allo schema classico del giudizio impugnatorio esclude che la norma censurata, di per sé, sia tale da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa.

Fin qui, dunque, la Corte si muove seguendo coordinate ermeneutiche piuttosto classiche, notoriamente rispettose della ricordata ampia discrezionalità del legislatore nella conformazione degli istituti processuali e salvo il limite dell’arbitrarietà delle scelte legislative.

Quello che qui più interessa è, invece, la risposta alla seconda censura di violazione degli artt. 24, 103 e 113 Cost.

Secondo il rimettente, «i caratteri della personalità, attualità e concretezza dell’interesse ad agire caratterizzerebbero il sistema soggettivo di giustizia amministrativa, delineato in Costituzione come rivolto ad apprestare tutela ad una posizione sostanziale correlata ad un bene della vita, mentre le disposizioni censurate, imponendo l’impugnazione di un atto non immediatamente lesivo, introdurrebbero una ipotesi di giurisdizione di diritto oggettivo, volta alla verifica della legalità dell’azione amministrativa e scollegata con la posizione soggettiva del ricorrente, che in tal modo verrebbe indebitamente gravato della tutela di un interesse pubblico».

In altri termini, il legislatore, imponendo l’attivazione processuale in un momento in cui il ricorrente non ha un interesse concreto all’impugnazione, configurerebbe un’ipotesi di giurisdizione oggettiva.

La Corte, con un’affermazione inedita, niente affatto scontata e ricca di implicazioni, chiarisce, in primo luogo, che gli invocati parametri costituzionali (artt. 24, 103 e 113 Cost.) delineano la giurisdizione amministrativa, «nelle controversie tra amministrati e pubblico potere», siccome «primariamente rivolta alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive e solo mediatamente al ripristino della legalità dell’azione amministrativa, legalità che pertanto può e deve essere processualmente perseguita entro e non oltre il perimetro dato dalle esigenze di tutela giurisdizionale dei cittadini».

Ciò posto, la sentenza n. 271 del 2019, ancora una volta attingendo alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, esclude però che nel caso di specie «il legislatore abbia configurato una giurisdizione di tipo oggettivo volta a tutelare in via esclusiva o prioritaria l’interesse generale alla correttezza e trasparenza delle procedure di affidamento, avendo piuttosto inteso dare autonoma rilevanza all’interesse strumentale o procedimentale del concorrente alla corretta formazione della platea dei soggetti partecipanti alla gara (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 26 aprile 2018, n. 4), interesse che è proprio e personale del concorrente, poiché la maggiore o minore estensione di quella platea incide oggettivamente sulla chance di aggiudicazione (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 11 maggio 2018, n. 6)».

Aggiunge la Corte che nello stesso senso «si è espressa la Corte di giustizia, secondo cui il rischio che un provvedimento illegittimo di ammissione di un concorrente a una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico possa cagionare un danno “è sufficiente a giustificare un immediato interesse ad impugnare detto provvedimento, indipendentemente dal pregiudizio che può inoltre derivare dall’assegnazione dell’appalto ad un altro candidato” (Corte di giustizia, quarta sezione, ordinanza 14 febbraio 2019, in causa C-54/18, Cooperativa Animazione Valdocco Soc. coop. soc. Impresa Sociale Onlus), il che evidentemente presuppone il riconoscimento della chance di aggiudicazione come utilità intermedia autonomamente tutelata».

Secondo la Consulta, dunque, la giurisdizione resta di tipo soggettivo, perché l’interesse strumentale che viene in rilievo (per lo meno primariamente) non è quello pubblicistico al rispetto della legalità della procedura, ma è quello privato del concorrente che vuole consolidare le sue chances di aggiudicazione. 

Del resto, ricorda la sentenza, «non mancano nell’ordinamento altre ipotesi positivizzate, in via normativa o giurisprudenziale, di tutela di interessi non “finali” (Consiglio di Stato, sezione sesta, 25 febbraio 2019, n. 1321). È il caso, per restare nell’ambito delle procedure di affidamento, dell’interesse strumentale alla edizione della gara che sia illegittimamente mancata, laddove il ricorrente non agisce, nell’immediato, per l’aggiudicazione ma per il suo interesse a partecipare alla procedura; ovvero, dell’interesse strumentale alla sua caducazione, pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa, sempre che sussistano in concreto ragionevoli possibilità di ottenere l’utilità richiesta (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenze 25 febbraio 2014, n. 9, e 7 aprile 2011, n. 4)».

La legittimità costituzionale dell’interesse strumentale, tuttavia, non è affatto incondizionata, perché, gli artt. 24, 103 e 113 Cost. «hanno posto al centro della giurisdizione amministrativa l’interesse sostanziale al bene della vita», sicché il primo può ritenersi «non distonico» rispetto ai ricordati precetti costituzionali a condizione «che sussista un solido collegamento con l’interesse finale e non si tratti di un espediente per garantire la legalità in sé dell’azione amministrativa».

In altri termini, il riconoscimento dell’interesse strumentale come condizione dell’azione, per essere conforme a Costituzione, deve risolversi in un beneficio effettivo del ricorrente e quindi in un ampliamento non ipotetico della sua tutela.

Nonostante la Corte non lo dica a chiare lettere, è evidente che il riferimento critico è alla nota giurisprudenza della Corte di giustizia sui rapporti tra ricorsi principale e incidentale escludente e, in particolare, al di poco precedente arresto del 5 settembre 2019, sezione decima, in causa C-333/18, Lombardi Srl, arresto che la Corte, al precedente punto n. 8.1, segnala come ultima tappa di un «problematico» dialogo con il Consiglio di Stato.

Non è questa la sede per ripercorrere il menzionato «difficile dialogo»[24] (se non vero e proprio scontro), ormai pluriennale[25], ma è evidente, oggi, che esso sottende, quanto meno nella materia degli appalti pubblici, una diversa idea della nozione di interesse (e legittimazione) al ricorso e, al fondo, una diversa visione della funzione della giurisdizione amministrativa: tendenzialmente soggettiva, perché incentrata sulla tutela delle situazioni giuridiche facenti capo ai consociati, per l’adunanza plenaria, e “oggettivizzante”, perché più attenta alla tutela della legalità dell’azione amministrativa (recte, al corretto impiego di denaro pubblico e ai suoi effetti proconcorrenziali), per la Corte di giustizia.

Qui può solo dirsi che il giudice europeo, con la citata ultima sentenza, nel rispondere ai quesiti pregiudiziali posti dall’adunanza plenaria con l’ordinanza n. 6 dell’11 maggio 2018[26], ha nuovamente disatteso la ennesima posizione mediatrice del Consiglio di Stato e ha drasticamente affermato che il principio espresso dalle sentenze Fastweb e Puligienica riguarda anche le ipotesi in cui «altri offerenti abbiano presentato offerte nell’ambito della procedura di affidamento e i ricorsi intesi alla reciproca esclusione non riguardino offerte siffatte classificate alle spalle delle offerte costituenti l’oggetto dei suddetti ricorsi per esclusione», poiché anche in questo caso non si può escludere che, anche se l’offerta del concorrente ricorrente principale venga giudicata irregolare, l’amministrazione aggiudicatrice possa essere indotta «a constatare l’impossibilità di scegliere un’altra offerta regolare e proceda di conseguenza all’organizzazione di una nuova procedura di gara».

Secondo la Corte di giustizia, cioè, la mera eventualità che l’amministrazione possa in autotutela verificare la sussistenza di vizi (anche diversi) nelle offerte delle altre imprese non partecipanti al giudizio (offerte, quindi, non oggetto di contestazione alcuna), e si determini per tale motivo all’annullamento della gara e alla sua rinnovazione, sarebbe sufficiente a radicare l’interesse strumentale al ricorso del concorrente illegittimamente ammesso, con contestuale obbligo per il giudice di esaminare, sempre e in ogni caso, sia i ricorsi principali che quelli incidentali escludenti[27].

Un interesse al ricorso, dunque, ipotetico di quarto grado, dal momento che il raggiungimento del bene della vita (aggiudicazione) è legato, in primo luogo, all’eventualità che le offerte non esaminate in giudizio presentino gli stessi o altri vizi; in secondo luogo, all’eventualità che l’amministrazione, una volta riscontrati quei vizi, invece di procedere allo scorrimento della graduatoria, si determini all’annullamento della gara; in terzo luogo, che, annullata la gara, l’amministrazione decida di bandirne un’altra; in quarto luogo, che la ricorrente ad essa partecipi e se l’aggiudichi.

Non vi è chi non veda quanto distante sia la posizione della Corte di giustizia dal «solido collegamento con l’interesse finale», che la Corte costituzionale ritiene necessario, perché l’interesse strumentale rimanga nell’orbita della giurisdizione soggettiva e non violi il disegno costituzionale.

Sembra allora non esatta, questa volta, la posizione dell’adunanza plenaria, secondo cui, in sostanza, l’interesse strumentale riconosciuto dal giudice europeo ha la stessa natura di quello conforme a Costituzione[28], essendo piuttosto chiaro, al contrario, che il primo si risolve proprio in «un espediente per garantire la legalità in sé dell’azione amministrativa».

Resta da capire, a questo punto, se tale palese contrasto con la Costituzione debba considerarsi accettabile in nome della cessione di sovranità all’ordinamento comunitario, o se vi sia spazio per l’attivazione, a opera della Corte costituzionale, dei controlimiti, e, per sciogliere tale nodo, bisogna chiedersi se i parametri costituzionali che fondano la giurisdizione soggettiva possano considerarsi fonte di principi e diritti fondamentali in grado di ostare alla penetrazione nel nostro ordinamento dell’interesse strumentale, per come interpretato dalla Corte di giustizia[29].

Nella prima direzione, l’osservazione più intuitiva e immediata è che, nella materia degli appalti pubblici, gli interessi sostanziali in gioco sono prettamente economici ed è difficile immaginare che essi possano assurgere al nobile substrato dei controlimiti, per come restrittivamente intesi dalla Corte costituzionale.

È, invece, opinione di chi scrive che la risposta non sia così scontata, ove si consideri che, in una visione più sistemica e (perché no?) pragmatica, a essere in gioco non sono solo quegli interessi ma anche e soprattutto l’effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24, 103 e 113 Cost.), da riguardarsi con le lenti costituzionalmente imposte della solidarietà e dell’eguaglianza sostanziale (artt. 2 e 3 Cost.).

Nella dimensione costituzionale solidaristica il diritto di agire in giudizio, che è diritto fondamentale e supremo perché strumentale alla reale inverazione della tutela dei diritti e degli interessi dei consociati[30], è necessariamente limitato dalla sussistenza di un bisogno di tutela giurisdizionale, che segna il confine oltre il quale l’azione diviene inefficiente e abusiva, a discapito degli altri consociati.

Il diritto di azione, cioè, non può essere esercitato oltre i limiti del bisogno effettivo di tutela, perché altrimenti perde la sua funzione di strumento fondamentale di garanzia dei diritti e degli interessi sostanziali e finisce con il compromettere il funzionamento del complessivo sistema giudiziario, il quale ha (e sempre avrà) delle risorse limitate, che per ciò solo devono essere utilizzate per tutelare situazioni giuridiche reali e non ipotetiche.

Detto in altri termini: se quelle risorse vengono utilizzate per celebrare (notoriamente complessi e defatiganti) processi virtuali (aventi peraltro corsie processuali privilegiate), che non sono volti, di fatto, a rendere tutela ai diritti e agli interessi dei cittadini, a farne le spese sono necessariamente i processi “veri”, che quella tutela hanno il compito di assicurare, anche in materie che vedono certamente coinvolti diritti inalienabili della persona[31].

Con la precedente sentenza n. 179 del 2016 è stata rigettata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 133, comma 1, lett. a, n. 2) e lett. f), cpa, nella parte in cui, secondo il diritto vivente, tali disposizioni devolvono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche le controversie instaurate su iniziativa della pubblica amministrazione. 

In quell’occasione, la Corte costituzionale ha osservato «che – sebbene gli artt. 103 e 113 Cost. siano formulati con riferimento alla tutela riconosciuta al privato nelle diverse giurisdizioni – da ciò non deriva affatto che tali giurisdizioni siano esclusivamente attivabili dallo stesso privato, né che la giustizia amministrativa non possa essere attivata dalla pubblica amministrazione; tanto più ove si consideri che essa storicamente e istituzionalmente è finalizzata non solo alla tutela degli interessi legittimi (ed in caso di giurisdizione esclusiva degli stessi diritti), ma anche alla tutela dell’interesse pubblico, così come definito dalla legge»; e che, «[p]er quanto riguarda, in particolare, l’art. 103 Cost., laddove esso prevede la giurisdizione esclusiva “in particolari materie indicate dalla legge”, la costante giurisprudenza di questa Corte identifica i criteri che legittimano tale giurisdizione in riferimento esclusivo alle materie prescelte dal legislatore ed all’esercizio, ancorché in via indiretta o mediata, di un potere pubblico (sentenze n. 191 del 2006 e n. 204 del 2004)».

La Corte ha poi osservato che «l’ordinamento non conosce materie “a giurisdizione frazionata”, in funzione della differente soggettività dei contendenti. Elementari ragioni di coerenza e di parità di trattamento esigono, infatti, che l’amministrazione possa avvalersi della concentrazione delle tutele che è propria della giurisdizione esclusiva e che quindi le sia riconosciuta la legittimazione attiva per convenire la parte privata avanti il giudice amministrativo».

Nonostante la questione fosse calibrata sulle materie di giurisdizione esclusiva, la Corte afferma, dunque, che l’attribuzione al giudice amministrativo della cognizione delle controversie promosse dalla pubblica amministrazione non è, anche in sede di giurisdizione generale di legittimità[32], in contrasto con gli artt. 103 e 113 Cost.

Come si conciliano i due arresti? La giurisdizione azionata dalla pubblica amministrazione per la tutela prioritaria di un interesse pubblico sdoganata dalla sentenza n. 179 del 2016 non è in contrasto con la natura “primariamente” soggettiva della giurisdizione amministrativa disegnata dalla Costituzione, per come affermato con la sentenza n. 271 del 2019?

La risposta, secondo la Corte costituzionale, è evidentemente negativa e trova la sua giustificazione nella considerazione che la giurisdizione soggettiva è propria solo delle «controversie tra amministrati e pubblico potere» (sentenza n. 271 del 2019), ossia delle controversie azionate dai primi nei confronti del secondo per il raggiungimento o il mantenimento di un bene della vita mediati dall’azione amministrativa.

Ed è proprio alla luce di tale doppio binario che sembrano cadere anche i dubbi di costituzionalità avanzati in relazione alle diverse norme che, negli ultimi anni, hanno attribuito alle autorità indipendenti la legittimazione ad agire in giudizio[33], in nome di un interesse che, per quanto specifico e particolare, resta indubbiamente pubblico, come chiarito dalla stessa Corte costituzionale, in relazione all’Agcm, con la sentenza n. 13 del 2019[34].

 

4. Le pressioni “esterne” sul giudizio amministrativo: dal contrasto del giudicato con le sopravvenute sentenze della Corte Edu alla giurisdizione “dinamica”

Tra il 2017 e il 2018 la Corte costituzionale ha affrontato due questioni aventi grande rilievo ordinamentale (anche) in relazione alla giurisdizione amministrativa, vertenti, rispettivamente, sui rapporti tra il giudicato non penale e il sistema Cedu (sentenza n. 123 del 2017) e sui limiti del controllo sulla giurisdizione affidato dalla Costituzione alla Corte di cassazione (sentenza n. 6 del 2018).

Con la prima[35] delle due sentenze citate, la Corte costituzionale ha affrontato, per la prima volta, il delicato tema della sorte dei giudicati amministrativi che si siano formati in violazione, successivamente accertata dalla Corte Edu, di norme della Cedu, e ciò sia nei casi in cui una delle parti dei relativi giudizi interni abbia adito la Corte di Strasburgo sia in quelli ove le parti siano rimaste inerti, ma si trovino nella medesima situazione sostanziale di chi l’ha adita vittoriosamente.

Tale tema si inscrive nella più ampia – e ben nota – questione della cosiddetta erosione del mito del giudicato[36], che, a partire dal Secondo dopoguerra, ha interessato in modo trasversale tutti gli ordinamenti europei, che hanno visto fiorire le carte costituzionali e si sono aperti alle esperienze sovranazionali e internazionali di tutela multilivello dei diritti fondamentali[37]

Le nuove e più intense spinte di protezione dei valori della persona umana e di giustizia sostanziale hanno infatti imposto un processo di “deassolutizzazione” dei valori di certezza e sicurezza giuridica sottesi alla teoria della res iudicata, spingendo per una sua riperimetrazione all’interno degli ordinamenti nazionali.

Questa tendenza si è manifestata in maniera evidente negli ultimi anni proprio con riferimento al sistema Cedu, e ciò in ragione sia del sempre maggiore peso che l’esperienza convenzionale ha assunto nei Paesi europei, sia del suo stesso attuale meccanismo strutturale.

Poiché, infatti, a differenza del diritto comunitario che conosce lo strumento preventivo del rinvio pregiudiziale, l’accertamento della violazione dei diritti convenzionali presuppone, quale regola generale[38], l’esaurimento dei rimedi interni[39], la tensione tra la tutela offerta dalla Cedu e gli ordinamenti nazionali si scarica necessariamente sul giudicato, e ciò sia per le violazioni processuali direttamente riconducibili all’esercizio della funzione giurisdizionale (art. 6 Cedu) che per quelle sostanziali da essa “incorporate”, perché oggetto di accertamento giudiziale.

Il tema in esame è stato posto dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato[40], che ha chiamato la Corte a giudicare della legittimità costituzionale dell’art. 106 cpa e degli artt. 395 e 396 cpc, «nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario (…) per conformarsi ad una sentenza definitiva» della Corte Edu, in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione al parametro interposto dell’art. 46, par. 1, Cedu[41].

Il rimettente era stato adito per la revocazione della sentenza n. 4 del 2007, con cui aveva dichiarato inammissibili alcuni ricorsi proposti da medici cd. “a gettone” e volti alla condanna dell’Università di Napoli Federico II al versamento di contributi previdenziali, ritenendo intervenuta la decadenza dall’azione prevista prima dall’art. 45, comma 17, d.lgs 31 marzo 1998, n. 80 e, poi, dall’art. 69, comma 7, d.lgs 30 marzo 2001, n. 165, il quale ultimo dispone, per le liti relative al pubblico impiego “privatizzato”, che «[l]e controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto anteriore a tale data [30 giugno 1998] restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000».

La domanda di revocazione proposta davanti al giudice a quo rappresentava «il seguito delle pronunce» della Corte Edu, Mottola c. Italia e Staibano c. Italia, del 4 febbraio 2014, le quali hanno accertato che lo Stato italiano, con la citata sentenza n. 4 del 2007 del Consiglio di Stato, ha violato il diritto dei ricorrenti di accesso a un tribunale, garantito dall’art. 6 Cedu, nonché il diritto al rispetto dei propri beni, garantito dall’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione.

Secondo la Corte di Strasburgo, l’art. 6 Cedu è stato violato perché il termine dell’art. 69, comma 7, d.lgs n. 165/2001, prima interpretato dalla giurisprudenza come termine di proponibilità dell’azione davanti al giudice amministrativo con salvezza di azione davanti al giudice ordinario, era stato poi ritenuto termine di decadenza sostanziale, così impedendo ai ricorrenti di ottenere tutela, nonostante avessero «adito i tribunali amministrativi in completa buona fede e sulla base di un’interpretazione plausibile delle norme sulla ripartizione delle competenze». 

Il riscontro della suddetta violazione procedurale è stato doppiato dal riscontro di una violazione sostanziale (e cioè dell’art. 1 del primo Protocollo addizionale), dal momento che il mutamento di indirizzo giurisprudenziale aveva privato i ricorrenti del riconoscimento di un diritto di credito – quello al versamento dei contributi previdenziali – che «aveva una base sufficiente nel diritto interno, in quanto confermato da una giurisprudenza ben consolidata». La Corte Edu si è quindi riservata di decidere sulla domanda di equo indennizzo, laddove le parti del processo convenzionale non avessero raggiungo un accordo.

Seguendo le orme della nota giurisprudenza costituzionale che ha introdotto la revisione dei processi penali per sopravvenuto contrasto con le pronunce della Corte Edu[42], l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con l’ordinanza di rimessione, afferma che, qualora l’ordinamento non apprestasse lo strumento della revocazione delle sentenze amministrative passate in giudicato per porre rimedio a qualsivoglia violazione accertata dalla Corte Edu, ne risulterebbe violato l’art. 117, primo comma, Cost., con riferimento all’art. 46, par. 1, Cedu, «che impegna gli Stati contraenti “a conformarsi alle sentenze definitive della Corte [europea dei diritti dell’uomo] sulle controversie nelle quali sono parti”». Inoltre, la mancata previsione di un caso specifico di revocazione comporterebbe anche una violazione degli artt. 24 e 111 Cost., perché «le garanzie di azionabilità delle posizioni soggettive e di equo processo previste dalla nostra Costituzione non sono inferiori a quelle espresse dalla Cedu»[43].

La Corte – dopo avere dichiarato inammissibile la questione con riferimento alla censura di violazione degli artt. 3 e 24 Cost., per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza – si è subito “liberata” della questione con riferimento ai cd. “fratelli minori” (ossia ai ricorrenti per revocazione che non hanno attivato lo strumento processuale convenzionale, ma versano nella medesima situazione sostanziale di chi lo ha fatto), richiamando la sentenza n. 210 del 2013 (resa in materia penale), ove già si era chiarito che l’obbligo di riapertura del processo, «nel significato attribuitole dalla Corte di Strasburgo, non concerne i casi, diversi da quello oggetto della pronuncia, nei quali per l’ordinamento interno si è formato il giudicato», e ciò perché vi è «una radicale differenza tra coloro che, una volta esauriti i ricorsi interni, si sono rivolti al sistema di giustizia della Cedu e coloro che, al contrario, non si sono avvalsi di tale facoltà, con la conseguenza che la loro vicenda processuale, definita ormai con la formazione del giudicato, non è più suscettibile del rimedio convenzionale».

Come è noto, anche la residua questione di legittimità costituzionale relativa alla posizione dei ricorrenti vittoriosi a Strasburgo e avente quale parametro l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al parametro interposto di cui all’art. 46, par. 1, Cedu, è stata risolta nel senso della non fondatezza.

Più in particolare, la Corte costituzionale, dopo avere ricordato che con la sentenza n. 113 del 2011 ha introdotto una ipotesi di revisione della sentenza penale passata in cosa giudicata per il caso che essa si palesi in contrasto con una successiva sentenza della Corte Edu, si è chiesta se tale operazione additiva sia imposta dalla Cedu anche per il caso dei giudizi amministrativi e civili.

La risposta negativa si basa su un’approfondita analisi della giurisprudenza della Corte di Strasburgo[44] e, in particolare, sull’importante arresto della Grande Camera, 5 febbraio 2015, Bochan c. Ucraina.

La lettura che la Corte costituzionale dà di questa giurisprudenza è che essa, pur incoraggiando gli Stati contraenti all’adozione delle misure necessarie per garantire la riapertura del processo, non la considera come inevitabilmente discendente dall’obbligo di conformazione di cui all’art. 46 Cedu.

Tale posizione della Corte Edu – sempre secondo la Corte costituzionale – si spiega perché la stessa Corte di Strasburgo avverte la necessità di tutelare i cd. terzi in buona fede, cioè i soggetti diversi dallo Stato e dalla vittima convenzionale che hanno preso parte al processo interno conclusosi con la sentenza passata in giudicato e che non sono parti necessarie del processo convenzionale, e ciò sul rilievo che quest’ultimo consente la partecipazione dei terzi in maniera sporadica e limitata: il loro intervento nel giudizio convenzionale, posto che siano fortunati e abbiano conoscenza del ricorso a Strasburgo, è infatti rimesso, ai sensi dell’art. 36, comma 2, Cedu, all’apprezzamento discrezionale del presidente, il quale «può invitare (…) ogni persona interessata diversa dal ricorrente a presentare osservazioni per iscritto o a partecipare alle udienze».

La Corte osserva, cioè, che ben può accadere (e, anzi, pare essere la norma) che la sentenza di Strasburgo, sulla base della quale si dovrebbe riaprire il processo interno conclusosi con il passaggio in giudicato, sia resa all’esito di un processo al quale non ha partecipato o non è stata messa in condizione di partecipare l’altra parte del giudizio interno (che non è solo il contendente del processo civile, ma è anche il controinteressato nel giudizio amministrativo o un’amministrazione resistente diversa dallo Stato, come può essere un ente locale[45]).

Il rigetto della questione, dunque, si fonda chiaramente sull’affermazione che, allo stato attuale della giurisprudenza convenzionale, non emerge un obbligo di riapertura dei processi civili (e amministrativi) quale doverosa misura individuale di restitutio in integrum[46], perché la stessa Corte Edu, restia ad allargare le maglie del processo convenzionale, vorrebbe in tal modo non (assumersi la responsabilità di) pregiudicare i terzi.

La sentenza n. 123 del 2017, tuttavia, va oltre. 

Nei successivi paragrafi la Corte mostra di avere consapevolezza della delicatezza del problema[47] e, per tentare di risolverlo – dopo avere passato in rassegna le risposte normative di alcuni Stati membri del Consiglio d’Europa[48] –, formula due “auspici” rivolti, rispettivamente, al legislatore e alla Corte Edu: al primo chiede di intervenire a regolare la materia in modo da bilanciare gli interessi delle vittime convenzionali e dei terzi, e, soprattutto, alla seconda chiede di aprire a questi ultimi, in maniera più strutturale e definita, il processo convenzionale.

La Consulta, dunque, non si è chiusa a riccio per difendere il mosto sacro del giudicato dalle ingerenze delle Corti sovranazionali, ma ha rimesso la palla nel campo della Corte Edu, invitandola a prendere una posizione più netta sull’argomento[49] (chiarendo, cioè, se, secondo la sua eminente[50] interpretazione della Convenzione, l’obbligo di riapertura sussista o meno) e, soprattutto, ad adeguare il processo convenzionale, aprendolo al terzo parte del giudizio interno.

A un’attenta lettura della sentenza n. 123 del 2017, sembra infatti chiaro che, quand’anche da Strasburgo arrivasse una lettura definitiva nel senso dell’esistenza dell’obbligo convenzionale, esso, in assenza dell’auspicata riforma del processo davanti alla Corte Edu, potrebbe penetrare nel nostro ordinamento solo nei limiti in cui non violi il diritto di difesa dei terzi tutelato dall’art. 24 Cost.

Quest’ultimo, cioè, osterebbe all’integrazione dell’art. 117, primo comma, Cost., da parte dell’art. 46, par. 1, Cedu, laddove l’obbligo di riapertura dei processi non penali discendesse da sentenze della Corte Edu rese all’esito di un processo al quale non hanno partecipato (o non sono stati messi in condizione di partecipare[51]) anche gli altri soggetti, diversi dalla vittima convenzionale e dallo Stato, parti dei processi interni[52].

O, detto in positivo, la questione di costituzionalità potrebbe essere accolta solo in parte, e cioè nella parte in cui le norme interne non prevedono un’ipotesi di revocazione, quando sia necessario per conformarsi a una sopravvenuta sentenza della Corte Edu, che abbia accertato una violazione della Cedu e sia stata resa tra (tutte) le stesse parti del giudizio domestico[53].

È a questo punto altresì chiaro che l’auspicio rivolto al legislatore ha, in realtà, un ruolo secondario: essendo il problema di fondo quello della partecipazione dei terzi al processo convenzionale, è quest’ultimo a dover essere in primo luogo modificato[54], e solo dopo spetterà al legislatore intervenire, prevedendo dei meccanismi che facilitino quella partecipazione[55].

Che questa sia la lettura corretta della posizione della Corte lo conferma la successiva sentenza n. 93 del 2018, con cui è stata rigettata la sostanzialmente identica questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’appello di Venezia[56] in relazione all’art. 395 cpc.

In quell’occasione, la Corte ha ricordato, in primo luogo, che con la sentenza n. 123 del 2017 essa – dopo «avere esaminato la giurisprudenza della Corte Edu e valorizzato, in particolare, l’importante pronuncia della Grande camera, 5 febbraio 2015, Bochan contro Ucraina (n. 2)» – ha ritenuto che l’art. 46, par. 1, Cedu, come letto dalla Corte di Strasburgo cui spetta la funzione di interprete eminente del diritto convenzionale, allo stato non imponga un obbligo di riapertura dei processi civili e amministrativi, ma si limiti «ad incoraggiare l’introduzione della misura ripristinatoria della riapertura dei processi non penali, lasciando, tuttavia, la relativa decisione agli Stati contraenti, e ciò in considerazione della necessità di tutelare i soggetti, diversi dal ricorrente a Strasburgo e dallo Stato, che, pur avendo preso parte al giudizio interno, non sono parti necessarie del giudizio convenzionale». 

Ha ricordato, in secondo luogo, che nella stessa sentenza n. 123 del 2017, data l’importanza del tema dell’esecuzione delle sentenze della Corte Edu «anche al di fuori della materia penale, ha auspicato sia un sistematico coinvolgimento dei terzi nel processo convenzionale (invocato anche in una opinione concorrente riportata in calce alla citata sentenza Bochan[57]) sia un intervento del legislatore che permetta di conciliare il diritto di azione delle parti vittoriose a Strasburgo con quello di difesa dei terzi». 

Ciò premesso, alla Corte non è rimasto che prendere atto che, «ad oggi», la Corte Edu non ha inteso recepire il suo auspicio, «come dimostra la sentenza della Grande camera, 11 luglio 2017, Moreira Ferreira contro Portogallo (n. 2), ove si è nuovamente sottolineata la differenza tra processi penali e civili e la necessità, con riferimento a questi ultimi, di tutelare i terzi, la cui posizione processuale non è assimilabile a quella delle vittime dei reati nei procedimenti penali (paragrafi 66 e 67)[58]. La sentenza, anzi, si segnala per l’affermazione, ripresa da diverse angolazioni nelle opinioni dissenzienti, secondo cui la riapertura dei processi interni, finanche penali, a seguito di sopravvenute sentenze della Corte Edu di accertamento della violazione di diritti convenzionali, non è un diritto assicurato dalla Convenzione (paragrafo 60, lettera a)»[59]

Resta da capire, poi, se l’apertura della revocazione al caso di contrasto con la sopravvenuta sentenza della Corte Edu possa trovare una via diversa, che non passi dall’espressa affermazione dell’esistenza di un obbligo convenzionale di riapertura dei processi interni (anche viste le resistenze della Corte di Strasburgo, probabilmente dettate dal timore di aggravare, se non stravolgere, il processo convenzionale).

La via, forse, potrebbe essere quella già tentata dal Consiglio di Stato, arenatosi sulle secche dell’inammissibilità: ci si potrebbe chiedere, cioè, se, una volta che lo Stato si è vincolato al sistema Cedu per implementare la tutela dei diritti fondamentali, non costituisca una irragionevole e contraddittoria compressione del diritto di difesa di quei diritti la impossibilità, in concreto, di rimuovere l’ostacolo interno del giudicato che si frappone all’effettivo raggiungimento di quell’obiettivo.

L’obbligo di procedere alla revocazione della sentenza, allora, non nascerebbe dalla fonte convenzionale ma dallo stesso sistema costituzionale (artt. 2, 3 e 24 Cost.), per come concretamente declinato dal legislatore nazionale.

Resta fermo, ovviamente, che anche tale soluzione non potrebbe andare a discapito del terzo assente al processo convenzionale, a pena di una smaccata violazione del suo diritto di difesa, sì che anche in questo caso la revocazione potrebbe essere ammessa solo a condizione che il terzo sia stato parte del processo convenzionale o sia stato posto in condizione di prendervi parte.

Con la sentenza n. 6 del 2018[60] la Corte costituzionale – chiamata da tre distinte ordinanze di rimessione a giudicare, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. (e ai parametri interposti dell’art. 6 Cedu e dell’art. 1 del primo Protocollo addizionale), della legittimità costituzionale della decadenza prevista dall’art. 69, comma 7, d.lgs n. 165/2001 (nella parte in cui prevede che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000) – oltre a dichiarare inammissibile per difetto di motivazione la questione sollevata dal Tar Campania e rigettare nel merito quella sollevata dal Tar Lazio, ha dichiarato inammissibile per difetto di «rilevanza, in ragione della mancanza di legittimazione del giudice a quo», quella proposta dalla Corte di cassazione a sezioni unite.

L’importanza storica della sentenza attiene non alle statuizioni di merito (che peraltro riguardano la stessa vicenda substrato dell’ordinanza di rimessione del 4 marzo 2015, n. 2 – cfr. supra, p. 20 e note 40 e 41), ma alla motivazione di inammissibilità della questione sollevata dalle sezioni unite.

Queste ultime – adite per ricorso per cassazione avverso una sentenza del Consiglio di Stato, che aveva confermato la statuizione di primo grado di intervenuta decadenza dall’azione dei ricorrenti ai sensi del citato art. 69, comma 7, d.lgs n. 165/2001 – nel motivare la rilevanza della questione, affermano la sussistenza di un motivo di ricorso inerente alla giurisdizione, sulla base della cosiddetta concezione “dinamica”, “funzionale” o “evolutiva” della stessa.

Più in particolare, il rimettente rammenta che è principio consolidato nella sua giurisprudenza che il sindacato esercitato sulle decisioni del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 362, comma 1, cpc e dell’art. 110 cpa, è consentito solo ove si richieda l’accertamento dell’eventuale sconfinamento del secondo dai limiti esterni della giurisdizione, per il riscontro di vizi che riguardano l’essenza della funzione giurisdizionale e non il modo del suo esercizio, restando, per converso, escluso ogni sindacato sui limiti interni, cui attengono gli errores in iudicando o in procedendo

Ricorda ancora il rimettente che, a tale stregua, il ricorso per motivi inerenti alla giurisdizione è esperibile nell’ipotesi in cui la sentenza del Consiglio di Stato abbia violato l’ambito della giurisdizione in generale – ad esempio esercitandola nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, oppure, al contrario, negandola sull’erroneo presupposto che la domanda non possa formare oggetto «in modo assoluto» di funzione giurisdizionale (cd. rifiuto di giurisdizione) – ovvero nell’ipotesi in cui abbia violato i cd. limiti esterni, cioè laddove si pronunci su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, oppure neghi la propria giurisdizione nell’erroneo convincimento che appartenga ad altro giudice (cd. diniego di giurisdizione).

Questa impostazione – come è noto – rispecchia quella recepita dalla Costituzione, che esclude dal controllo nomofilattico della Corte di cassazione le sentenze del giudice amministrativo e del giudice contabile, che possono essere sindacate non per violazione di legge processuale o sostanziale (come nel caso delle sentenze rese da tutti gli altri giudici, ordinari e non, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost.), ma «per i soli motivi inerenti alla giurisdizione» (art. 111, comma 8, Cost.).

Fin qui, dunque, la Cassazione si muove nell’alveo dell’orientamento tradizionale, certamente conforme alle coordinate costituzionali. 

Il rimettente, tuttavia, subito dopo aggiunge che negli ultimi anni[61] si è andato affermando nella sua giurisprudenza un concetto più ampio di giurisdizione, “dinamico” (o “funzionale” o “evolutivo”), che gli consentirebbe di sindacare non solo le norme sulla giurisdizione che individuano «i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale», ma anche quelle che stabiliscono «le forme di tutela» attraverso cui la giurisdizione si estrinseca. 

Alla stregua di questa impostazione, rientrerebbero nel controllo sulla giurisdizione affidato alle sezioni unite della Corte di cassazione anche le ipotesi in cui il giudice amministrativo o quello contabile deneghi una particolare forma di tutela astrattamente prevista dalla legge, ovvero, come nel caso di specie, adotti una interpretazione di una norma processuale o addirittura sostanziale che impedisca la piena conoscibilità della domanda, e cioè l’esame del merito della questione. 

I casi più eclatanti che hanno condotto alla cassazione con rinvio delle sentenze dei giudici speciali sono stati, con riferimento alla giurisdizione amministrativa, quelli: 1) della pregiudiziale di annullamento, la cui assenza determinava, secondo il giudice amministrativo, la liceità dell’agire dell’amministrazione e quindi il rigetto nel merito della domanda risarcitoria; 2) del mancato esame del ricorso principale in seguito all’accoglimento del ricorso incidentale paralizzante, in contrasto con una sopravvenuta sentenza della Corte di giustizia; 3) del mancato esame dei motivi aggiunti in ragione del rigetto del ricorso principale, in contrasto con la giurisprudenza della Corte di giustizia; nonché, con riferimento alla giurisdizione contabile, quello del mancato esame di una istanza di definizione agevolata in presenza di appello interposto dal procuratore generale.

Ad essi si aggiunge quello, sottoposto alla Corte costituzionale dalle sezioni unite, di interpretazione di una norma interna sulla decadenza dall’azione in asserito contrasto con norme convenzionali, per come accertato da una sentenza della Corte Edu. 

In tutti questi casi, la Corte di cassazione ha sostenuto che il rifiuto di giurisdizione non si ha solo quando il giudice speciale affermi di non avere giurisdizione in astratto (come è sempre stato pacifico), ma anche quando, pur affermando (anche implicitamente) che la giurisdizione è sua, per «un ostacolo di carattere generale» (leggi: per l’erronea interpretazione di una norma processuale o sostanziale) non somministri la forma di tutela prevista dalla legge ovvero non esamini nel merito la domanda, e quindi deneghi in concreto la giurisdizione. 

A questo concetto lato di giurisdizione le sezioni unite sono arrivate invocando la necessità di fare applicazione di principi generali, quali: a) la primazia del diritto comunitario, b) il giusto processo, c) l’effettività della tutela e d) l’unità funzionale della giurisdizione; nonché la necessità di fronteggiare l’eccessiva espansione delle ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Nella giurisprudenza delle sezioni unite si registrano anche arresti del medesimo filone evolutivo, ove, come nel caso dell’ordinanza di rimessione, si precisa che l’interpretazione della norma processuale o sostanziale, per fuoriuscire dall’ambito della violazione di legge ed essere sindacabile quale motivo inerente alla giurisdizione, deve essere anche «abnorme o anomala», ovvero frutto di uno «stravolgimento» (a volte definito «radicale») delle «norme di riferimento» (altre volte norme «di rito», altre volte ancora «di rito e di merito»), stravolgimento che in alcune ipotesi, come nel caso di specie, sarebbe dato semplicemente dalla natura sovranazionale delle norme violate («europee»). 

La risposta della Corte costituzionale è forte e univoca: il concetto di giurisdizione dinamica (aspramente criticato in dottrina[62]) è contrario a quello accolto dalla Costituzione (da cui, nel caso di specie, l’assenza del presupposto processuale della legittimazione del giudice a quo o, detto in altri più comuni termini, l’implausibilità della motivazione sulla rilevanza, in punto di giurisdizione, offerta dal rimettente).

Questa risposta, passa, in primo luogo, per una rivendicazione della facoltà della Corte di verificare, in maniera stringente, la tesi del rimettente sulla sussistenza di un motivo inerente alla giurisdizione, rivendicazione basata sul rilievo che tale tesi si fonda sull’esegesi di norme costituzionali, di cui la Corte è interprete ultimo, e, in particolare, sui commi settimo e ottavo dell’art. 111, che «regolano i confini e l’assetto complessivo dei plessi giurisdizionali»[63].

Ciò permesso, la sentenza n. 6 del 2018 afferma, senza mezzi termini, che, mentre il settimo comma dell’art. 111 stabilisce che avverso le sentenze dei giudici ordinari e (degli altri giudici) speciali «è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge» (sostanziale e processuale), il seguente ottavo comma, in chiara contrapposizione con la precedente disposizione, prevede che il ricorso per cassazione contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti è limitato ai «soli motivi inerenti alla giurisdizione».

La tesi del rimettente, dunque, nella misura in cui riconduce ipotesi di errores in iudicando o in procedendo ai motivi inerenti alla giurisdizione, si pone in contrasto con la chiara lettera delle citate disposizioni costituzionali.

La tesi della giurisdizione dinamica, inoltre, è contraria al loro stesso spirito, perché mette in discussione la scelta di fondo dei Costituenti, che, come dimostra in particolare l’art. 111, comma 8, Cost., hanno optato per un assetto pluralistico delle giurisdizioni.

A supporto della sua motivazione, la Corte ha facile gioco nel richiamare, in primo luogo, la sentenza n. 204 del 2004: «La corretta interpretazione dell’art. 111, ottavo comma, Cost. e il suo ruolo determinante, ai fini della posizione costituzionale del giudice amministrativo e di quello contabile nel concerto delle giurisdizioni, sono stati messi chiaramente in luce da questa Corte. Con la sentenza n. 204 del 2004 si è infatti rilevato che l’unità funzionale non implica unità organica delle giurisdizioni, e che i Costituenti hanno ritenuto di dover tener fermo l’assetto precostituzionale, assetto che vedeva attribuita al giudice amministrativo la cognizione degli interessi legittimi e, nei casi di giurisdizione esclusiva, dei diritti soggettivi ad essi inestricabilmente connessi. Nella stessa sentenza si è osservato come dai lavori dell’Assemblea Costituente emerga chiaramente che ciò comporta l’esclusione della “soggezione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti al controllo di legittimità della Corte di cassazione” e la sua limitazione “al solo eccesso di potere giudiziario”, coerentemente alla “unità non organica, ma funzionale di giurisdizione, che non esclude, anzi implica, una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa parte a sé” (così Mortati, seduta pomeridiana del 27 novembre 1947)». 

E, in secondo luogo, la sentenza n. 77 del 2007, ove si è aggiunto che «perfino il supremo organo regolatore della giurisdizione, la Corte di cassazione, con la sua pronuncia può soltanto, a norma dell’art. 111, comma ottavo, Cost., vincolare il Consiglio di Stato e la Corte dei conti a ritenersi legittimati a decidere la controversia, ma certamente non può vincolarli sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale decisione».

È questo, dunque, il cuore della motivazione[64] della sentenza n. 6 del 2018, che nei paragrafi successivi si premura anche di confutare i singoli argomenti posti a sostegno dell’indirizzo evolutivo[65] e di riaffermare gli ambiti costituzionalmente legittimi del controllo per motivi di giurisdizione affidato alla Corte di cassazione[66].

Immediatamente dopo la sentenza n. 6 del 2018 ci si era chiesti[67] quale sarebbe stato il prosieguo della tormentata vicenda della giurisdizione dinamica e, in particolare, quale sarebbe stata la risposta della Corte di cassazione.

Ebbene, quest’ultima[68], vista la netta presa di posizione della Corte costituzionale, ha apertamente sconfessato e totalmente riassorbito[69] l’orientamento minoritario: «[n]on è infatti consentita la censura della sentenza con la quale il giudice amministrativo adotti una interpretazione di una norma processuale tale da impedire la piena conoscibilità del merito della domanda ed in tal senso è intervenuta la Corte costituzionale (sentenza n. 6 del 2018), che ha ridimensionato drasticamente quell’ambito non solo escludendo in radice ogni legittimità dell’interpretazione estensiva (sulla base del concetto funzionale od evolutivo o dinamico della giurisdizione), ma pure circoscrivendo sensibilmente l’operatività della giurisprudenza maggioritaria. Il Giudice delle leggi ha invero statuito che la tesi che il ricorso in Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione comprenda anche il sindacato su errores in procedendo o in iudicando non può qualificarsi “evolutiva” o “dinamica”, perché irrimediabilmente illegittima in quanto incompatibile con la lettera e lo spirito della norma costituzionale. Pertanto, deve ritenersi inammissibile ogni interpretazione che consenta una più o meno completa assimilazione del ricorso in Cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti per “motivi inerenti alla giurisdizione” con il ricorso in Cassazione per violazione di legge (punto 11 delle ragioni in diritto della qui esaminata sentenza della Consulta), visto che l’intervento delle Sezioni Unite, in sede di controllo di giurisdizione, nemmeno può essere giustificato dalla violazione di norme dell’Unione o della Cedu. Ne consegue che l’ “eccesso di potere giudiziario” va riferito alle sole ipotesi di difetto relativo di giurisdizione, nonché a quelle di difetto assoluto di giurisdizione, cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermino la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghino sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento). La medesima pronuncia della Consulta esclude poi che il concetto di controllo di giurisdizione, così delineato, ammetta soluzioni intermedie, come quella secondo cui la lettura estensiva dovrebbe essere limitata ai casi in cui si sia in presenza di sentenze “abnormi” o “anomale” ovvero di uno “stravolgimento”, a volte definito radicale, delle norme di riferimento, poiché “attribuire rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio è, sul piano teorico, incompatibile con la definizione degli ambiti di competenza e, sul piano fattuale, foriero di incertezze, in quanto affidato a valutazioni contingenti e soggettive”»[70].

Tanto, almeno, fino alla recentissima ordinanza n. 19598 del 19 settembre 2020, con cui le sezioni unite, dato atto del loro stesso diritto vivente consolidatosi in seguito alla sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018, inaspettatamente hanno rimesso alla Corte di giustizia la valutazione sulla compatibilità con il diritto comunitario di tale «prassi interpretativa», in forza della quale il ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione non può essere utilizzato per impugnare le sentenze del Consiglio di Stato che violino il diritto comunitario; le sezioni unite hanno poi ritenuto di dovere avanzare anche una seconda questione pregiudiziale, avente ad oggetto la compatibilità con il diritto dell’Unione della loro ulteriore consolidata «prassi giurisprudenziale», secondo cui il ricorso per motivi inerenti alla giurisdizione non può essere utilizzato per lamentare la violazione, da parte del Consiglio di Stato, dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, rinvio che in tale sede non possono operare neanche le stesse Sezioni unite[71]; nonché una terza questione pregiudiziale, volta a chiarire se «i principi dichiarati dalla Corte di giustizia con le sentenze 5 settembre 2019, Lombardi, C-333/18; 5 aprile 2016, Puligienica, C-689/13; 4 luglio 2013, Fastweb, C- 100/12, in relazione agli articoli 1, par. 1 e 3, e 2, par. 1, della direttiva 89/665/CEE, modificata dalla direttiva 2007/66/CE, siano applicabili nella fattispecie che è oggetto del procedimento principale, in cui, contestate dall’impresa concorrente l’esclusione da una procedura di gara di appalto e l’aggiudicazione ad altra impresa, il Consiglio di Stato esamini nel merito il solo motivo di ricorso con cui l’impresa esclusa contesti il punteggio inferiore alla “soglia di sbarramento” attribuito alla propria offerta tecnica e, esaminando prioritariamente i ricorsi incidentali dell’amministrazione aggiudicatrice e dell’impresa aggiudicataria, li accolga dichiarando inammissibili (e ometta di esaminare nel merito) gli altri motivi del ricorso principale che contestino l’esito della gara per altre ragioni (per indeterminatezza dei criteri di valutazione delle offerte nel disciplinare di gara, mancata motivazione dei voti assegnati, illegittima nomina e composizione della commissione di gara)».

Limitatamente al diritto dell’Unione, dunque, le sezioni unite ripropongono la nozione di giurisdizione dinamica e, dopo la bocciatura della Corte costituzionale, chiedono l’avallo interpretativo della Corte di giustizia, ma tale mossa desta forti perplessità sia per il metodo che per la sostanza.

Dalla prima angolazione, è evidente che l’ordinanza in commento mette in dubbio l’attitudine alla minima coerenza nomofilattica delle stesse sezioni unite, la cui capacità di riassorbire l’orientamento minoritario, in relazione alle ipotesi di violazione del diritto comunitario[72], è durata dalla sera alla mattina.

Al solo fine di rovesciare il loro orientamento maggioritario e di fare passare una linea interpretativa già giudicata non conforme a Costituzione, le sezioni unite questa volta tirano per la giacchetta la Corte di giustizia, non avvedendosi, probabilmente, che in tal modo è la loro stessa autorevolezza a essere messa in discussione.

Quanto alla sostanza, l’iter argomentativo dell’ordinanza, a proposito della prima questione, è il seguente: 1) il giudice nazionale che faccia applicazione di normative nazionali (sostanziali o processuali) o di interpretazioni elaborate in ambito nazionale che risultino incompatibili con disposizioni del diritto dell’Unione, come interpretate dalla Corte di giustizia, «esercita un potere giurisdizionale di cui è radicalmente privo, ravvisandosi un caso tipico di difetto assoluto di giurisdizione — per avere compiuto un’attività di diretta produzione normativa non consentita nemmeno al legislatore nazionale — censurabile per cassazione con motivo inerente alla giurisdizione»; 2) «[d]iversamente dalla sentenza affetta da semplice violazione di legge in fattispecie regolate dal diritto nazionale, ove la erronea interpretazione o applicazione della legge è, di regola (tranne in casi eccezionali), pur sempre riferibile a un organo giurisdizionale che è emanazione della sovranità dello Stato, nelle controversie disciplinate dal diritto dell’Unione lo Stato ha rinunciato all’esercizio della sovranità, la quale è esercitata dall’Unione tramite i giudici nazionali, il cui potere giurisdizionale esiste esclusivamente in funzione dell’applicazione del diritto dell’Unione»; 3) «l’esigenza di scongiurare il consolidamento di una violazione del diritto comunitario da parte del Consiglio di Stato tramite lo strumento del ricorso per cassazione è ineludibile fintanto che ciò sia possibile, come accade quando il giudicato non si sia ancora formato, essendo pendente il giudizio di impugnazione della sentenza amministrativa cui sia imputata quella violazione»; 4) a tale esigenza non può sopperire lo strumento della revocazione, sia per la sua configurazione attuale che per suoi non modificabili limiti strutturali, non potendosi escludere che «anche la sentenza emessa ipoteticamente in sede di revocazione possa incorrere in violazione dei limiti della giurisdizione»; 5) l’autonomia procedurale riconosciuta agli Stati membri, in base alla quale è rimessa ad essi l’individuazione degli strumenti processuali per assicurare tutela ai diritti riconosciuti dall’Unione, può essere invocata alla duplice condizione che le modalità prescelte non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività); 6) nel caso di specie, il principio di equivalenza non sarebbe rispettato, poiché nelle controversie aventi ad oggetto l’applicazione del diritto nazionale è ammesso il ricorso per cassazione per difetto di potere giurisdizionale avverso le sentenze del Consiglio di Stato, «cui si imputi di avere svolto un’attività di produzione normativa invasiva delle attribuzioni del legislatore», mentre, nelle controversie aventi ad oggetto l’applicazione del diritto dell’Unione, sarebbero inammissibili i ricorsi per cassazione «volti a denunciare il difetto di potere giurisdizionale del giudice che, elaborando ed applicando regole processuali di diritto nazionale, eserciti poteri di produzione normativa preclusi allo stesso legislatore nazionale, essendo esclusivamente riservati al legislatore comunitario sotto il controllo della Corte di giustizia»; 7) nemmeno sarebbe rispettato il principio di effettività, poiché esso, inteso «non in astratto ma in concreto, in relazione al procedimento di formazione della decisione giurisdizionale», imporrebbe un esame del merito della controversia.

Tutte queste considerazioni, pertanto, porterebbero a ritenere che l’estremo rimedio a tutela del diritto dell’Unione violato dai giudici amministrativi (e contabili) sia dato dal ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, senza che rilevi la sua ristretta conformazione voluta dalla Costituzione (a tutela della pluralità delle giurisdizioni), perché anche le norme costituzionali devono essere disapplicate se lesive dei principi di primazia ed efficacia diretta del diritto dell’Unione.

Al di là della assiomaticità ed estrema singolarità teorica di alcuni di questi[73] (e di altri) passaggi argomentativi, la tesi di fondo è, dunque, che è incompatibile con il diritto comunitario la norma ordinamentale e procedurale dettata in Costituzione (art. 111, comma 8), secondo cui nel giudizio amministrativo vi sono solo due gradi di giudizio di fatto e di legittimità, mentre il giudizio di cassazione è limitato ai motivi inerenti alla giurisdizione, che non investono gli errores in iudicando o in procedendo.

Tale tesi è all’evidenza fallace, perché la scelta di quanti e quali gradi di giudizio assicurare alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive è rimessa agli Stati membri, in quanto chiara espressione della loro autonomia procedurale[74], e tale scelta, ovviamente, attiene anche alla conformazione dei motivi di ricorso per cassazione: «27. Il diritto dell’Unione, in linea di principio, non osta a che gli Stati membri, conformemente al principio dell’autonomia processuale, limitino o subordinino a condizione i motivi che possono essere dedotti nei procedimenti per cassazione, purché siano rispettati i principi di effettività e di equivalenza» (Corte di giustizia, sezione prima, Abdelhafid Bensada Benallal, C-161/15, 17 marzo 2016).

Destinato al fallimento è il tentativo dell’ordinanza di dimostrare il mancato rispetto di tali principi, che condizionano il libero esplicarsi dell’autonomia procedurale.

La norma costituzionale, infatti, assicura senz’altro il principio di equivalenza, poiché il ricordato assetto processuale (due gradi di giudizio pieno e ricorso per cassazione per i soli motivi inerenti alla giurisdizione) vale per tutte le posizioni giuridiche affidate alla tutela del giudice amministrativo, sia che originino da norme interne sia che nascano da norme dell’Unione[75].

Il “tertium comparationis” invocato dall’ordinanza di rinvio pregiudiziale, costituito dall’invasione, a opera del giudice, della sfera riservata al legislatore, è per contro del tutto eccezionale (se non teorico) ed eccentrico (se non pretestuoso), per ciò solo inidoneo, secondo la stessa giurisprudenza della Corte di giustizia[76], a fungere da grimaldello per l’applicazione del principio di equivalenza.

Basti ricordare, al riguardo, che per le stesse sezioni unite è «chiara la implausibilità del tentativo di configurare un eccesso di potere a danni del legislatore rinvenendolo in una attività di individuazione interpretativa. È stata anche di recente affermata da queste Sezioni Unite (Cass., S.U., n. 20698 del 2013; Cass., S.U., n. 24411 del 2011; Cass., S.U., n. 2068 del 2011) la non configurabilità del preteso eccesso di potere le volte in cui il Giudice speciale od ordinario individui una regula juris facendo uso dei suoi poteri di rinvenimento della norma applicabile attraverso la consueta attività di interpretazione anche analogica del quadro delle norme. Si è in particolare ricordato che, con riguardo ai limiti al sindacato delle Sezioni Unite sulle decisioni del Consiglio di Stato, l’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore è figura di rilievo affatto teorico, in quanto – dovendosi ipotizzare che il giudice applichi, non già la norma esistente, ma una norma all’uopo creata – detto eccesso potrebbe ravvisarsi solo a condizione di poter distinguere un’attività di produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice, da un’attività interpretativa; attività quest’ultima certamente non contenibile in una funzione meramente euristica, ma risolventesi in un’opera creativa della volontà della legge nel caso concreto (Cass., S.U., n. 20698 dei 2013, cit.)» (Cass. civ., sez. unite, 23 dicembre 2014, n. 27341)[77].

Quanto al principio di effettività, poi, un sistema processuale che assicura un doppio grado di giudizio (di fatto e di legittimità), un ricorso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione, la revocazione (ordinaria e straordinaria) e, a chiusura del sistema, ulteriori tre gradi di giudizio (più la revocazione) per fare valere l’eventuale azione risarcitoria per violazione del diritto dell’Unione[78], in nessun modo può ritenersi che impedisca l’esame del merito delle pretese basate su quel diritto, e quindi renda impossibile o eccessivamente difficile il loro esercizio (non è un caso che le sezioni unite citino la non pertinente sentenza Lombardi, secondo cui il principio di effettività è minato dalla preclusione totale dell’esame del merito del ricorso principale, ossia dalla radicale assenza di un rimedio giurisdizionale[79]).

La seconda questione pregiudiziale, poi, con una ulteriore fuga in avanti, mette in dubbio la granitica giurisprudenza delle stesse sezioni unite, mai fino ad ora contraddetta (neanche dalle pronunce adesive alla teoria della giurisdizione dinamica), secondo cui il sindacato sulla giurisdizione del giudice speciale «non include il controllo sull’omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia»[80], trattandosi di mero error in procedendo interno alla giurisdizione amministrativa, e non consente alla Corte di cassazione di operare essa stessa il rinvio pregiudiziale, essendo il Consiglio di Stato, «in quanto organo di vertice nell’ordinamento giurisdizionale di appartenenza»[81], il giudice di ultima istanza ai sensi dell’art. 267, comma 3, Tfue, cui spetta garantire, nello specifico ordinamento di settore, la compatibilità del diritto interno con quello dell’Unione[82].

È peraltro ovvio che tale seconda questione pregiudiziale è intimamente legata alla prima, perché, una volta ritenuta la non incompatibilità con il diritto comunitario della limitazione del ricorso per cassazione ai soli motivi inerenti alla giurisdizione con esclusione del controllo sulla violazione di legge (anche comunitaria), l’organo giurisdizionale avverso le cui decisioni non può proporsi un ricorso di diritto interno volto a far valere i diritti nascenti dall’ordinamento europeo (id est il giudice di ultima istanza) è, ai sensi della ricordata norma del Trattato, il Consiglio di Stato e non la Corte di cassazione a sezioni unite.

Con la terza questione pregiudiziale, quest’ultime, dopo avere nuovamente mostrato una convinta adesione alla giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di interesse strumentale e di rapporti tra ricorsi principale e incidentale escludente, si limitano, in sostanza, a richiedere al giudice europeo un’ulteriore conferma della sua posizione.

Nonostante le maglie molto larghe della valutazione sulla rilevanza normalmente operata dalla Corte di giustizia, sembra che a tale questione essa possa sentirsi chiamata a rispondere solo ove, improbabilmente, ritenga che la Corte di cassazione, in sede di motivi inerenti alla giurisdizione, debba sindacare il diritto dell’Unione e operare il rinvio pregiudiziale quale giudice di ultima istanza, mentre in caso contrario quella questione non avrebbe alcuna influenza concreta sulla soluzione (d’inammissibilità) del ricorso.

Quanto al merito di tale risposta, ove la Corte di giustizia dovesse scegliere di pronunciarsi nonostante il rilievo che precede, data la mancanza nell’ordinanza di rimessione di qualsiasi argomentazione critica rispetto alla giurisprudenza europea (e anzi mancando un vero e proprio dubbio interpretativo), l’esito più prevedibile sembrerebbe la riaffermazione dei discutibili principi da ultimo esplicitati nella sentenza Lombardi esaminata al paragrafo che precede[83].

 

5. La Scia e la tutela del terzo

Con le sentenze nn. 45 del 2019 e 153 del 2020, la Corte ha affrontato l’annosa questione della tutela del terzo leso dalla Scia.

Nel primo caso essa è stata adita dal Tar Toscana, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, legge n. 241/1990, «nella parte in cui non prevede un termine finale per la sollecitazione, da parte del terzo, dei poteri di verifica sulla Scia spettanti all’amministrazione», in riferimento agli artt. 3, 11, 97, 117, primo comma – quest’ultimo in riferimento all’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Cedu, e all’art. 6, par. 3, del Trattato sull’Unione europea (Tue) – e secondo comma, lett. m, Cost.

Nel secondo, è stata invece adita dal Tar Emilia-Romagna, Parma, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione, in riferimento agli artt. 3, 24, 103 e 113 Cost., ma nella parte in cui consente ai terzi lesi da una Scia edilizia di esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3, cpa, e ciò soltanto dopo aver sollecitato l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione.

Sebbene le questioni fossero poste da due angoli prospettici opposti (quello di un lamentato difetto di tutela del segnalante, per il Tar Toscana, e quello di un lamentato difetto di tutela del terzo, per il Tar Emilia-Romagna), la Corte, già nel primo dei due arresti, ha esaminato la questione unitariamente, «trattandosi di aspetti necessariamente connessi, poiché l’intera disciplina della Scia è volta alla ricerca di un equilibrio fra l’interesse (…) del segnalante al consolidamento della propria situazione giuridica e quello dei controinteressati lesi dall’attività segnalata» (sentenza n. 153 del 2020), oltre che – ovviamente – di quello pubblico al rispetto della legalità.

Per meglio inquadrare l’oggetto delle questioni, appare utile un excursus normativo e giurisprudenziale.

Negli ultimi decenni, anche e soprattutto sotto la spinta dei principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione europea (tradotti nella direttiva n. 2006/123/CE, cd. “direttiva Bolkestein”), accanto all’introduzione di strumenti di semplificazione dell’attività amministrativa (come il silenzio assenso e la conferenza di servizi), il legislatore ha via via introdotto forme di liberalizzazione di sempre più vasti settori di attività assoggettate a regime amministrativo, passando da un modello autorizzatorio ex ante a uno di controllo ex post, basato sulle dichiarazioni e sulle correlative assunzioni di responsabilità degli interessati.

Il percorso ha avuto inizio con l’introduzione dell’istituto della denuncia di inizio attività (d’ora in avanti: Dia) a opera dell’art. 19 l. n. 241/1990 e, con riferimento alla materia edilizia, degli artt. 22 e 23 dPR 6 giugno 2001, n. 380[84]. La Dia, per come risultante a seguito di alcuni interventi legislativi intervenuti tra il 2005 e il 2009, poteva essere a legittimazione differita, nel qual caso l’attività poteva essere intrapresa solo dopo il decorso del termine di trenta giorni dalla presentazione della dichiarazione (art. 19, comma 2, primo periodo, l. n. 241/1990), ovvero a legittimazione immediata, quando l’esercizio dell’attività era consentito sin dalla data di presentazione della dichiarazione[85] (art. 19, comma 2, secondo periodo).

In seguito alle modifiche apportate all’art. 19 dall’art. 49 della legge 30 luglio 2010, n. 122[86], la Dia a efficacia variabile è stata sostituita con la Scia, a efficacia immediatamente legittimante, per tutti i casi in cui l’atto autorizzativo, comunque denominato, è vincolato alla sola esistenza dei requisiti e presupposti richiesti dalla legge e non vi è, dunque, alcuno spazio per valutazioni discrezionali da parte dell’amministrazione.

All’immediata intrapresa dell’attività oggetto di denuncia o segnalazione si accompagnano successivi poteri di controllo della p.a., poteri nuovamente rimodulati a seguito delle modifiche apportate dall’art. 6 l. n. 124/2015 agli artt. 19 e 21-novies l. n. 241/1990. 

Sulla base dell’attuale quadro normativo, «[i]l dichiarante è (…) titolare di una situazione soggettiva originaria, che rinviene il suo fondamento diretto ed immediato nella legge, sempre che ricorrano i presupposti normativi per l’esercizio dell’attività e purché la mancanza di tali presupposti non venga stigmatizzata dall’amministrazione con il potere inibitorio, repressivo o conformativo, da esercitare comunque nei termini di legge. Si può, quindi, affermare che il privato è titolare di una posizione di vantaggio immediatamente riconosciuta dall’ordinamento, che gli consente di realizzare direttamente il proprio interesse, previa instaurazione di una relazione con la pubblica amministrazione, ossia un ‘contatto amministrativo’, mediante l’inoltro della segnalazione certificata. Il privato è, poi, titolare di un interesse oppositivo a contrastare le determinazioni per effetto delle quali l’amministrazione, esercitando il potere inibitorio, repressivo o conformativo, incida negativamente sull’agere licere oggetto della segnalazione»[87].

Più in particolare, l’art. 19, comma 3[88], nella versione attuale, attribuisce alla p.a. un triplice ordine di poteri (inibitori, repressivi e conformativi), esercitabili entro il termine ordinario di sessanta giorni dalla presentazione della Scia, dando la preferenza a quelli conformativi («qualora sia possibile»).

Il comma 4 dispone che, decorso tale termine, tali poteri sono ancora esercitabili «in presenza delle condizioni» previste dall’art. 21-novies[89], ossia delle condizioni previste per l’annullamento in autotutela degli atti illegittimi, e cioè l’esistenza di un interesse pubblico ulteriore, il suo bilanciamento con gli interessi dei destinatari e dei controinteressati e, soprattutto, il termine massimo di diciotto mesi previsto per i provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei privati[90].

Il comma 6-bis applica questa disciplina anche alla Scia edilizia, riducendo però il primo termine da sessanta a trenta giorni. Esso prevede, inoltre, che, «[f]atta salva l’applicazione delle disposizioni di cui al comma 4 e al comma 6, restano (…) ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, e dalle leggi regionali».

Il censurato comma 6-ter chiarisce che la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. 

La stessa disposizione prevede, poi, che i terzi controinteressati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3, cpa.

L’art. 21, rubricato «Disposizioni sanzionatorie», al comma 1 dispone che, ove la Scia (e il silenzio assenso) si basino su dichiarazioni mendaci o false attestazioni, «non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge o la sanatoria previsti dagli articoli medesimi ed il dichiarante è punito con la sanzione prevista dall’art. 483 del codice penale, salvo che il fatto costituisca più grave reato».

Ai sensi del comma 2-bis, poi, «[r]estano ferme le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività soggette ad atti di assenso da parte di pubbliche amministrazioni previste da leggi vigenti, anche se è stato dato inizio all’attività ai sensi degli artt. 19 e 20».

Infine, il comma 3 prevede che la decorrenza del termine per l’esercizio del potere di controllo di cui all’art. 19, comma 3, e la formazione del silenzio assenso di cui all’art. 20 «non escludono la responsabilità del dipendente che non abbia agito tempestivamente nel caso in cui la segnalazione certificata o l’istanza del privato non fosse conforme alle norme vigenti».

Nella nota sentenza 29 luglio 2011, n. 15, l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato dava conto della presenza nella giurisprudenza amministrativa di due macro-orientamenti[91].

Secondo il primo, la Dia (ma analoghe considerazioni valgono per la Scia) non «è uno strumento di liberalizzazione imperniato sull’abilitazione legale all’esercizio di attività affrancate dal regime autorizzatorio pubblicistico ma rappresenta un modulo di semplificazione procedimentale che consente al privato di conseguire, per effetto di un’informativa equiparabile ad una domanda, un titolo abilitativo costituito da un’autorizzazione implicita di natura provvedimentale che si perfeziona a seguito dell’infruttuoso decorso del termine previsto dalla legge per l’adozione del provvedimento di divieto. Trattasi, quindi, di una fattispecie a formazione progressiva che, per effetto del susseguirsi dell’informativa del privato e del decorso del tempo per l’esercizio del potere inibitorio, culmina in un atto tacito di assenso, soggettivamente e oggettivamente amministrativo. Corollario processuale di detta tesi è l’affermazione secondo cui i terzi lesi dal silenzio serbato dall’amministrazione a fronte della presentazione della d.i.a. sono legittimati a reagire con le forme e nei tempi del ricorso ordinario di annullamento del provvedimento amministrativo (artt. 29 e 41 del codice del processo amministrativo)». 

Per i suoi sostenitori – proseguiva l’adunanza plenaria – tale impostazione aveva il pregio di coniugare «l’esigenza di piena tutela del terzo, legittimato a reagire in sede giurisdizionale a seguito della formazione del titolo senza bisogno dell’attivazione della procedura finalizzata alla formazione del silenzio-rifiuto (o inadempimento), con i principi di certezza dei rapporti giuridici e di tutela dell’affidamento legittimo in capo al denunciante, soddisfatti dall’applicazione dei termini del giudizio impugnatorio che precludono la contestazione giudiziaria dell’assetto impresso dal titolo amministrativo, ancorché perfezionatosi per silentium, a seguito del decorso del termine decadenziale di sessanta giorni, decorrente dalla piena conoscenza del silenzio significativo»[92].

Questa tesi, tuttavia, finiva con l’annullare la differenza sostanziale tra la Dia/Scia e il silenzio assenso, che invece hanno ambiti di applicazione differenti, essendo volti, rispettivamente, a liberalizzare determinate attività non più soggette a preventiva autorizzazione e a semplificare l’azione amministrativa finalizzata al rilascio di un titolo autorizzatorio, pur sempre necessario.

Secondo un altro orientamento, invece, la Dia/Scia doveva essere considerata un atto privato, sia soggettivamente, perché consiste in una dichiarazione con cui l’interessato notizia l’amministrazione di aver intrapreso una determinata attività, sia oggettivamente, perché in essa non può ravvisarsi alcuna funzione autorizzatoria. A fronte di quest’atto privato l’amministrazione conserva poteri di verifica, in un’ottica successiva di controllo[93].

Non potendo darsi un’azione di annullamento avverso un atto privato, privo di valore provvedimentale, la tutela del terzo sarebbe passata, secondo alcuni, da un’azione avverso il silenzio inadempimento maturato per il mancato esercizio dei poteri inibitori e repressivi da parte dell’amministrazione, e, secondo altri, da un’azione di accertamento autonoma atipica.

Nel dirimere il contrasto, l’adunanza plenaria, dopo aver qualificato la Dia/Scia quale «atto soggettivamente e oggettivamente privato», in virtù della «sostituzione dei tradizionali modelli provvedimentali autorizzatori con un nuovo schema ispirato alla liberalizzazione delle attività economiche private consentite dalla legge in presenza dei presupposti fattuali e giuridici normativamente stabiliti», aveva ritenuto che l’inerzia della p.a. protratta oltre il sessantesimo giorno rivestisse il significato tacito di rigetto o di diniego, essendo assimilabile a una presa d’atto dell’insussistenza dei presupposti per disporre il divieto di prosecuzione dell’attività e la rimozione degli eventuali effetti dannosi[94].

Il terzo, portatore di un interesse pretensivo al conseguimento di una misura inibitoria, avrebbe potuto dunque esperire, nell’ordinario termine di decadenza, l’azione impugnatoria del silenzio diniego e, a completamento della sua tutela, l’azione di annullamento avrebbe potuto essere accompagnata da quella di condanna dell’amministrazione all’esercizio dei poteri di verifica[95].

Inoltre, nelle more della formazione del titolo tacito, il terzo che avesse avuto conoscenza dell’iniziativa segnalata poteva proporre un’azione di accertamento autonoma in ordine alla legittimità o meno della Scia (azione suscettibile di conversione automatica nel mezzo impugnatorio in caso di sopravvenuta emanazione dell’atto conclusivo del procedimento di verifica), nonché, congiuntamente a tale azione, chiedere la tutela interinale di cui agli artt. 55 e 61 cpa.

La raffinata e al contempo efficace ricostruzione dell’adunanza plenaria suscitò l’immediato intervento del legislatore, che con l’art. 6, comma 1, lett. c, dl n. 138/2011, ha introdotto nell’art. 19 l. n. 241/1990 il comma 6-ter.

Il legislatore, per un verso, ha aderito alla ricostruzione sostanziale dell’istituto operata dal massimo giudice amministrativo, affermando che «la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili».

Per altro verso e in punto di configurazione dei rimedi azionabili dal terzo, ha deciso di distaccarsene, prevedendo che gli interessati «possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104» (ossia l’azione avverso il silenzio inadempimento).

Nel citato parere n. 839 del 2016, la Commissione speciale del Consiglio di Stato, riguardo alla disposizione in parola, ha osservato: «[l]a permanenza del potere amministrativo di incidere in via inibitoria, repressiva o conformativa sull’esercizio dell’attività liberalizzata pone il problema di fissare, in omaggio ai princìpi di certezza dei rapporti giuridici e di tutela dell’affidamento, i termini entro cui detta potestà può essere esercitata»; «mentre per il potere vincolato di divieto era già in passato fissato un termine perentorio di esercizio a pena di decadenza, non era fissato un parametro chiaro e univoco per il potere di autotutela di natura discrezionale. Detta lacuna, che incide negativamente sull’obiettivo di liberalizzazione, oltre che sui canoni comunitari in materia di libera circolazione dei servizi (cfr., in particolare, la già citata direttiva servizi n. 123 del 2006), è stata colmata dall’articolo 6 della legge n. 124 del 2015, con la citata modifica dell’art. 21-novies, in materia di annullamento di ufficio dell’atto amministrativo, con la significativa e innovativa introduzione di un termine finale generale per l’adozione di atti di autotutela (e, nel caso della Scia, di atti repressivi, inibitori o conformativi). Questo Consiglio di Stato ritiene che tale confine temporale introduca un “nuovo paradigma” nei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione: nel quadro di una regolamentazione attenta ai valori della trasparenza e della certezza, il legislatore del 2015 ha fissato termini decadenziali di valenza nuova, non più volti a determinare l’inoppugnabilità degli atti nell’interesse dell’amministrazione, ma a stabilire limiti al potere pubblico nell’interesse dei cittadini, al fine di consolidare le situazioni soggettive dei privati. In altri termini, ad avviso della Commissione Speciale, è possibile affermare che la legge n. 124, con la novella all’art. 21-nonies della legge n. 241, abbia introdotto una nuova “regola generale” che sottende al rapporto tra il potere pubblico e i privati: una regola di certezza dei rapporti, che rende immodificabile l’assetto (provvedimentale-documentale-fattuale) che si è consolidato nel tempo, che fa prevalere l’affidamento. Una regola speculare – nella ratio e negli effetti – a quella dell’inoppugnabilità, ma creata, a differenza di quest’ultima, in considerazione delle esigenze di certezza del cittadino (mentre l’inoppugnabilità considera, da decenni, quelle dell’amministrazione, con un termine nove volte più breve)».

La Commissione speciale, poi, non ha mancato di soffermarsi sul problema della tutela del terzo: «potrebbero residuare margini di chiarimento, nonostante gli interventi del legislatore e le recenti pronunce giurisprudenziali, sulla questione della tutela del terzo che affermi di subire una lesione nella propria sfera giuridica per effetto dell’avvio dell’attività, con particolare riguardo all’utilizzabilità dell’azione di accertamento, anche atipica, volta a far dichiarare che l’attività avviata non è conforme alle norme amministrative, ovvero dell’azione contro il silenzio amministrativo, conformemente a quanto previsto dal comma 6-ter dell’articolo 19 della legge n. 241. Fermi restando gli indirizzi giurisprudenziali consolidati sulla conoscenza dell’attività che si assume contra legem, e quindi sul dies a quo per la tutela del controinteressato, i nuovi limiti imposti dalla riforma all’intervento ex post dell’Amministrazione potrebbero, oggi, difficilmente conciliarsi con i tempi di instaurazione del giudizio ex art. 31 c.p.a. (che, in base al comma 6-ter dello stesso art. 19, costituisce strumento di tutela esclusivo contro l’omesso esercizio del potere di verifica del legittimo utilizzo della segnalazione). La Commissione speciale si limita, in questa sede, a segnalare al Governo l’esigenza di ricercare soluzioni per riconoscere una effettiva tutela del terzo che, però, non vanifichino neppure l’esigenza di certezza definitiva sottesa ai nuovi termini massimi dell’art. 21-nonies e che siano compatibili con il principio della liberalizzazione riaffermato al punto precedente. Ciò potrebbe avvenire, a titolo di mero esempio, innestando meccanismi tipici della tutela sul provvedimento (che si scandiscono con una tempistica ben definita, che conferisce certezze sia alle iniziative dei terzi che al titolare del provvedimento impugnato) in un contesto che resti coerente con la liberalizzazione delle attività in parola (e quindi con l’impossibilità di un rimedio annullatorio, anche avverso un silenzio significativo). In questo modo, si potrebbe costruire, in ipotesi, una tutela speciale che potrebbe far leva sul rimedio dell’azione di accertamento (nel caso di specie, accertamento da parte del giudice dell’assenza dei requisiti previsti dalla legge per l’esercizio di un’attività soggetta a Scia) e che dovrebbe essere comunque in grado di far consolidare, dopo un certo termine, l’attività “libera”, alla stregua di quanto già accade per le attività “non libere” ma soggette a provvedimenti autorizzativi»[96].

Dopo l’intervento del legislatore del 2011, la tutela del terzo controinteressato passa, dunque, attraverso la sollecitazione dei poteri dell’amministrazione di verifica della legittimità dell’attività oggetto di Scia e, in caso di inerzia, «esclusivamente» attraverso l’azione avverso il silenzio inadempimento, mentre si ritiene ordinariamente ammissibile l’impugnazione del provvedimento di diniego dell’esercizio dei poteri di controllo[97].

Come illustrato dal Tar Toscana nella sua ordinanza di rimessione, tuttavia, diverse sono le opinioni sulle modalità di somministrazione concreta di tale tutela e, in particolare, sull’esistenza o meno di un termine finale entro cui il privato può sollecitare l’amministrazione e, in caso di risposta positiva, sulla sua individuazione e decorrenza, nonché sul tipo di potere – discrezionale o vincolato – che viene sollecitato.

Secondo una prima tesi, il termine esiste ed è lo stesso assegnato all’amministrazione per l’esercizio ordinario dei suoi poteri vincolati di verifica: in altri termini, il privato può sollecitare l’amministrazione entro sessanta giorni dalla presentazione della Scia (trenta per quella edilizia), secondo quanto disposto dai commi 3 e 6-bis dell’art. 19 l. n. 241/1990[98].

Tale tesi viene considerata dal Tar Toscana «manifestamente illogica», poiché i suddetti termini sono strutturati con riferimento all’esercizio del potere di verifica d’ufficio, il che giustifica che il loro dies a quo sia fatto coincidere con il ricevimento della segnalazione da parte dell’amministrazione, ma essi finirebbero per risultare non operativi ove applicati all’esercizio del potere sollecitatorio del terzo, atteso che nessuna norma assicura la tempestiva comunicazione ad esso della presentazione della Scia né tanto meno dell’inizio dell’attività segnalata; il terzo, quindi, rimarrebbe privo di qualsiasi forma di tutela, ove apprendesse dell’intervento dopo il decorso del termine concesso all’amministrazione per provvedere; d’altra parte, anche ove l’istanza del terzo intervenisse in prossimità della scadenza di tale termine, ben difficilmente otterrebbe l’intervento cui aspira, restringendosi l’arco temporale entro cui l’amministrazione dovrebbe accertare l’illegittimità dell’attività oggetto di Scia, nonché inibirne la prosecuzione.

Secondo una variante di questa tesi, i poteri spettanti all’amministrazione e attivabili dal terzo non sono solo quelli ordinari e vincolati di verifica da esercitare nei sessanta (o trenta) giorni dalla presentazione della Scia, ma anche quelli successivi[99] (non di autotutela ma) subordinati all’esistenza delle condizioni previste per l’autotutela e, quindi, esercitabili nel termine massimo di diciotto mesi (decorrenti dallo scadere dei primi termini)[100].

Anche in relazione a tale tesi, tuttavia, si osserva, criticamente, che possono darsi casi in cui l’attività segnalata non viene iniziata o comunque di essa il terzo non ha contezza prima dello spirare dei diciotto mesi, con la conseguenza che neanche questa opzione interpretativa sarebbe idonea a risolvere il possibile vulnus di tutela dei controinteressati.

Inoltre, pur essendo l’amministrazione obbligata ad attivarsi sull’istanza del terzo (a differenza che nell’autotutela vera e propria, ove la p.a. può anche restare inerte)[101], il potere esercitato nei diciotto mesi non è vincolato alla verifica della non conformità della Scia a legge, ma è subordinato all’esistenza dell’interesse pubblico ulteriore da bilanciare con l’affidamento del segnalante: sarebbe contraddittorio e lesivo della posizione del terzo, da un lato, riconoscergli un interesse legittimo all’esercizio dei poteri inibitori e ripristinatori dell’amministrazione e, dall’altro, condizionare la realizzazione di tale interesse alla intermediazione aleatoria dell’esercizio di un potere discrezionale[102].

Secondo altra tesi[103], ancora, si dovrebbe applicare analogicamente l’ordinario termine decadenziale di sessanta giorni dalla conoscenza della situazione lesiva previsto dall’art. 29 cpa per l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi.

A questa opzione interpretativa il Tar Toscana obietta che l’analogia non sarebbe consentita, perché essa, ai sensi dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile, richiede che si sia di fronte a materie simili o casi analoghi, mentre le situazioni quivi a confronto sarebbero differenti, involvendo l’una un termine sostanziale di sollecitazione dei poteri spettanti all’amministrazione e l’altra un termine processuale per la proposizione di un’azione giudiziaria.

Secondo alcuni[104], poi, decorso il termine dei sessanta giorni per l’impugnazione, il privato avrebbe ancora la possibilità di sollecitare l’intervento del potere di verifica alle condizioni previste dall’art. 21-novies l. n. 241/1990.

Il Tar Toscana riferisce di una ulteriore tesi, secondo cui il terzo, in applicazione dell’art. 31, comma 2, cpa, potrebbe sollecitare l’amministrazione entro l’anno dal deposito della Scia. Anche questa opzione, secondo il rimettente, nella misura in cui trasporta il termine annuale dell’art. 31, comma 2, alla sollecitazione amministrativa, si risolve in «una interpretazione non consentita», che, ancora una volta, confonde un termine processuale (quello dell’art. 31 cpa) con un termine amministrativo (quello per la sollecitazione delle verifiche da parte della p.a.).

Secondo altri, il terzo leso dalla Scia sarebbe tenuto a proporre il ricorso di cui all’art. 31 cpa entro il termine finale di un anno dalla acquisita «piena conoscenza dei fatti idonei a determinare un pregiudizio nella sua sfera giuridica»[105] e tale azione avrebbe ad oggetto diretto l’accertamento dell’illegittimità della Scia.

Questa soluzione, secondo il rimettente, collide con il testo della norma, che richiede in prima battuta la sollecitazione dei poteri dell’amministrazione e, solo ove l’amministrazione rimanga inerte, ammette l’azione di cui all’art. 31 cpa, azione che, quindi, è strutturata avverso il silenzio inadempimento della p.a. e non per l’accertamento autonomo dell’illegittimità della Scia.

Altra tesi, diffusa specialmente tra i giudici di primo grado e fatta propria dal Tar Toscana, ritiene che non si possano utilizzare i termini indicati in precedenza in ragione delle criticità evidenziate, e ciò dimostrerebbe, in realtà, che il legislatore ha configurato l’interesse del terzo come preminente su quello del segnalante, e conseguentemente deciso di non apporre un termine al suo potere di reazione[106]

A tale tesi si obietta (ed è questo rilievo che porta il Tar Toscana alla rimessione della questione di legittimità costituzionale) che essa realizzerebbe una non equilibrata composizione dei contrapposti interessi sottesi all’istituto, perché offre una tutela eccessiva al terzo ed espone il segnalante e la stessa amministrazione, anche a distanza di molti anni, a una rivisitazione dell’assetto determinatosi con lo spirare dei termini di controllo sulla Scia.

Nella sentenza n. 45 del 2019[107], la Corte, dopo avere risolto le questioni preliminari, passa a esaminare il presupposto interpretativo da cui muove il rimettente, presupposto che ritiene corretto nella parte in cui si afferma che, anche a fronte della sollecitazione del terzo, la previsione di un termine è un requisito essenziale dei poteri di verifica della Scia a tutela dell’affidamento del segnalante, ed errato ove si ritiene che quei poteri di verifica cui si riferisce l’art. 19, comma 6-ter, siano «“altri” rispetto a quelli previsti dai commi precedenti e sempre vincolati, cosicché non sarebbe possibile mutuarne la disciplina».

Illustrato il contenuto dell’art. 19, la Corte afferma, infatti, che tali poteri sono quelli attribuiti alla pubblica amministrazione dai commi precedenti, e tanto sia sulla base del dato testuale («la locuzione “verifiche spettanti all’amministrazione” lascia chiaramente intendere che la norma rinvia a poteri già previsti»), quanto sulla base di una lettura sistemica, che tenga diacronicamente conto della evoluzione normativa della materia.

Da quest’ultimo punto di vista, andrebbe considerato che: 1) «il comma 6-ter è stato introdotto (…) in aperta dialettica con la nota sentenza n. 15 del 2011 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la finalità di escludere l’esistenza di atti amministrativi impugnabili (il cosiddetto silenzio-diniego) e quindi di limitare le possibilità di tutela del terzo all’azione contro il silenzio, inteso in modo tradizionale come inadempimento», sì che «[i]l riferimento alle “verifiche spettanti all’amministrazione” (…) non è finalizzato ad introdurre nuovi poteri, ma è funzionale alla sollecitazione da parte del terzo»; 2) «la diversa opzione ermeneutica seguita dal giudice a quo darebbe luogo ad una evidente incongruenza del sistema, per come si è evoluto a seguito della introduzione ad opera della legge n. 124 del 2015 del termine di esercizio dell’autotutela nell’art. 21-novies della legge n. 241 del 1990, termine reso applicabile anche ai poteri di controllo sulla Scia dall’art. 19, comma 4, della stessa legge: si avrebbe qui, infatti, un potere sempre vincolato, e quindi più incisivo, e purtuttavia temporalmente illimitato»; 3) «[p]iù in generale, il riconoscimento di un potere “in bianco” nel comma 6-ter sarebbe in manifesto contrasto con il principio di legalità-tipicità che caratterizza, qualifica e limita tutti i poteri amministrativi, principio che, com’è noto, ha fondamento costituzionale (artt. 23, 97, 103 e 113 Cost.) e va letto non solo in senso formale, come necessità di una previsione espressa del potere, ma anche in senso sostanziale, come determinazione del suo ambito, e cioè dei fini, del contenuto e delle modalità del suo esercizio (sentenze n. 115 del 2011, n. 32 del 2009, n. 307 del 2003 e n. 150 del 1982)»; 4) poiché la scelta di fondo del legislatore è stata quella di liberalizzare l’attività oggetto di segnalazione, configurando la fase amministrativa di controllo come «una – sia pur importante – parentesi puntualmente delimitata nei modi e nei tempi», «una dilatazione temporale dei poteri di verifica, per di più con modalità indeterminate, comporterebbe (…) quel recupero dell’istituto all’area amministrativa tradizionale, che il legislatore ha inteso inequivocabilmente escludere».

A questo punto la Corte, tirando le fila del discorso, afferma che «[l]e verifiche cui è chiamata l’amministrazione ai sensi del comma 6-ter sono (…) quelle già puntualmente disciplinate dall’art. 19 [della legge n. 241 del 1990], da esercitarsi entro i sessanta o trenta giorni dalla presentazione della Scia (commi 3 e 6-bis), e poi entro i successivi diciotto mesi (comma 4, che rinvia all’art. 21-novies). Decorsi questi termini, la situazione soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti dell’amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche del terzo. Questi, infatti, è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo, e quindi, venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere, anche l’interesse si estingue»[108].

Con riferimento al terzo, poi, aggiunge che la sua situazione giuridica va riguardata «in una prospettiva più ampia e sistemica che tenga conto dell’insieme degli strumenti apprestati» a sua tutela: «[i]n particolare, nella prospettiva dell’interesse legittimo, il terzo potrà attivare, oltre agli strumenti di tutela già richiamati, i poteri di verifica dell’amministrazione in caso di dichiarazioni mendaci o false attestazioni, ai sensi dell’art. 21, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (…). Esso avrà inoltre la possibilità di agire in sede risarcitoria nei confronti della PA in caso di mancato esercizio del doveroso potere di verifica (l’art. 21, comma 2-ter, della legge n. 241 del 1990 fa espressamente salva la connessa responsabilità del dipendente che non abbia agito tempestivamente, ove la segnalazione certificata non fosse conforme alle norme vigenti). Al di là delle modalità di tutela dell’interesse legittimo, poi, rimane il fatto giuridico di un’attività che si assuma illecita, nei confronti della quale valgono le ordinarie regole di tutela civilistica del risarcimento del danno[109], eventualmente in forma specifica».

La Corte conclude invitando comunque il legislatore a “ritoccare” la disciplina: «[t]utto ciò (…) non esclude l’opportunità di un intervento normativo sull’art. 19, quantomeno ai fini, da una parte, di rendere possibile al terzo interessato una più immediata conoscenza dell’attività segnalata e, dall’altra, di impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del ritardo nell’esercizio del potere da parte dell’amministrazione e al conseguente effetto estintivo di tale potere».

Con la successiva sentenza n. 153 del 2020, la Corte, dopo avere ricordato le conclusioni già raggiunte con la sentenza n. 45 del 2019 in relazione alla tutela del terzo leso dalla Scia, ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, sollevate dal Tar Emilia Romagna, per difetto di rilevanza e per oscurità e contraddittorietà del petitum.

Il rimettente lamentava la violazione degli artt. 3, 24, 103 e 113 Cost: 1) perché l’avere subordinato l’azione del terzo controinteressato alla presentazione di una previa istanza sollecitatoria alla p.a. si risolverebbe in una procrastinazione del momento di accesso alla tutela giurisdizionale; 2) e perché – «qualora, come normalmente accade», l’istanza del terzo sia inoltrata quando siano già decorsi trenta giorni dalla Scia edilizia − il potere dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 19, comma 4, l. n. 241/1990, non è di natura vincolata ma «in autotutela» e discrezionale, con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 31, comma 3, cpa, «il giudice amministrativo deve limitarsi ad una mera declaratoria dell’obbligo di provvedere, senza potere predeterminare il contenuto del provvedimento da adottare, così non assicurando una tutela piena ed effettiva della posizione giuridica del terzo».

Il riscontrato difetto di rilevanza passa per l’osservazione che nel giudizio a quo l’amministrazione non è rimasta silente, ma ha espresso un diniego di intervento basato sull’asserita legittimità delle opere realizzate dal segnalante, sicché il rimettente non deve fare applicazione della norma censurata, che regola la sola ipotesi di «inerzia» dell’amministrazione sull’istanza di sollecitazione dell’interessato, consentendogli, per tale ipotesi, di «esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3» cpa, ossia l’azione avverso il silenzio.

Tale rilievo, oltre a essere comunemente condiviso in dottrina[110] e in giurisprudenza[111], trova conferma testuale anche nell’art. 133, lett. a, n. 3, cpa, secondo cui sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di «silenzio di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3, e i provvedimenti espressi adottati in sede di verifica di segnalazione certificata, denuncia e dichiarazione di inizio attività di cui all’articolo 19, comma 6-ter della legge 7 agosto 1990, n. 24».

La Corte ha poi osservato che la questione è irrilevante, anche ove si ritenga che oggetto di reale censura sia non già l’art. 19, comma 6-ter, ma l’art. 19, comma 4, «cui il primo implicitamente rimanda (unitamente ai commi 3 e 6-bis) ed in forza del quale, decorso il termine di cui all’art. 19, comma 3, l’intervento (non “in autotutela” ma[112]) conformativo, inibitorio o repressivo dell’amministrazione, quand’anche sollecitato dal terzo, è subordinato alla positiva valutazione discrezionale della presenza delle condizioni previste dall’art. 21-novies (interesse pubblico ulteriore rispetto al ripristino della legalità, bilanciamento fra gli interessi coinvolti e, per i provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei privati, esercizio del potere entro il termine massimo di diciotto mesi)».

E ciò perché l’amministrazione «con il provvedimento impugnato non solo non ha esaminato la dedotta difformità dalla legge e dal regolamento delle opere realizzate, limitandosi (…) ad affermare la loro conformità alla Scia, ma nemmeno ha operato alcuna valutazione discrezionale (come pure avrebbe dovuto, essendo decorsi, al momento della sollecitazione, i trenta giorni di cui all’art. 19, comma 6-bis)»; correlativamente, «i ricorrenti nel giudizio a quo hanno lamentato l’illegittimità del diniego per violazione non dell’art. 19, comma 4, della legge n. 241 del 1990 ma delle norme edilizie e (quanto al motivo residuo) del regolamento comunale, e non hanno chiesto, contestualmente all’azione di annullamento, di accertare la fondatezza della pretesa e di ordinare all’amministrazione di adottare un provvedimento di rimozione delle opere, ai sensi dell’art. 34, comma 1, lettera c), cod. proc. amm.».

Da ciò discende, dunque, che anche dell’art. 19, comma 4, «il rimettente non deve fare applicazione per decidere sulla domanda proposta dai terzi controinteressati»; di esso, semmai, dovrà fare applicazione, nel caso in cui, una volta accolto il ricorso per la riscontrata contrarietà del diniego al regolamento, prima l’amministrazione adduca, in sede di necessaria riedizione del tratto di azione amministrativa lasciato libero dall’accertamento giudiziale, di non potere comunque ordinare la rimozione delle opere in mancanza delle condizioni previste dall’art. 21-novies (e richiamate, appunto, dall’art. 19, comma 4), e poi i terzi controinteressati impugnino il nuovo diniego (ed eventualmente spieghino domanda di condanna al rilascio del provvedimento richiesto).

Anche ove non si fosse fermata all’inammissibilità, difficilmente la Corte, dopo la sentenza n. 45 del 2019, avrebbe potuto accogliere le questioni sollevate dal Tar Emilia-Romagna. 

Quanto alla prima, infatti, come già ricordato, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, «il legislatore gode di ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali (ex multis, sentenze n. 172, n. 160, n. 139 e n. 45 del 2019, n. 225, n. 77 del 2018, n. 241, n. 94 del 2017) e nella fissazione di termini di decadenza o prescrizione, ovvero di altre disposizioni condizionanti l’azione (tra le tante, sentenze n. 45 del 2019, n. 6 del 2018, n. 94 del 2017 e n. 155 del 2014), “con il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute (ex plurimis, sentenze n. 44 del 2016, n. 23 del 2015 e n. 157 del 2014), che si ravvisa, con riferimento specifico all’art. 24 Cost., ogniqualvolta emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire (sentenze n. 44 del 2016 e n. 335 del 2004)” (sentenza n. 121 del 2016)» (sentenza n. 271 del 2019).

Nel caso di specie, la necessità di una previa istanza sollecitatoria dei poteri dell’amministrazione non sembra risolversi in un «sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione» (sentenza n. 117 del 2012) poiché essa non integra un onere aggiuntivo apprezzabile o che ritardi in modo significativo l’azione giurisdizionale, e anzi pone in condizione il segnalante di raggiungere più velocemente il bene della vita, ove l’amministrazione si determini in senso positivo sulla sua istanza, invece di attendere i tempi del giudizio e della successiva attività di conformazione dell’amministrazione medesima.

L’onere di previa sollecitazione, inoltre, è conforme al normale atteggiarsi dell’interesse pretensivo del terzo – che nel caso di specie è l’interesse all’esercizio del potere di controllo dell’amministrazione su un’attività posta in essere da altri (non quindi, come accade di norma, all’accrescimento della propria sfera giuridica) – il quale interesse, per il suo soddisfacimento, postula l’intermediazione di un’attività amministrativa, che normalmente trae origine da un’istanza di parte.

Avendo il legislatore configurato in questi termini la posizione sostanziale del terzo, l’onere di sollecitazione risponde all’apprezzabile ratio di fare emergere, a fronte del potere di controllo officioso dell’amministrazione, la sua concorrente posizione legittimante.

Come osservato in dottrina, cioè, la norma parrebbe confermare «la possibile coesistenza di un interesse legittimo pretensivo e di poteri amministrativi ad iniziativa d’ufficio quali sono quelli inibitori/repressivi dell’attività da altri intrapresa a mezzo di Scia. La titolarità di un interesse legittimo in capo al terzo lascia intatta — per il principio di tipicità dell’iniziativa procedimentale, riflesso del principio di legalità dell’azione amministrativa — la conformazione officiosa dell’avvio della procedura di esercizio dei poteri inibitori/repressivi, poteri spendibili pure in assenza di qualsivoglia sollecitazione del terzo»[113]

Correlativamente, da un punto di vista pratico, l’onere della previa sollecitazione «costituisce un espediente (…) per aggirare il delicatissimo (e mai a sufficienza indagato) problema di un silenzio-inadempimento che altrimenti dovrebbe essere inteso come inadempimento del dovere di procedere (ex officio), logicamente e cronologicamente antecedente rispetto al dovere di provvedere (e cioè di concludere il procedimento, già avviato d’ufficio, con l’adozione di un provvedimento espresso). La previa sollecitazione è prescritta, come onere del terzo, perché radica uno degli “altri casi previsti dalla legge”, nei quali il ricorrente “può chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere” (art. 31, comma 1, c.p.a.)»[114]. E infatti – si aggiunge – l’inserimento della citata locuzione «e negli altri casi previsti dalla legge» nel corpo dell’art. 31, comma 1, cpa, ad opera del primo correttivo al codice[115], è stato operato proprio per una ritenuta necessità di coordinamento con il da poco introdotto art. 19, comma 6-ter[116].

La previa segnalazione, dunque, farebbe scattare il dovere di provvedere, come se fosse un’istanza di parte[117], integrando uno degli «altri casi previsti dalla legge», che legittimano l’azione avverso il silenzio, ulteriore rispetto all’ipotesi “classica” dello scadere del termine per la conclusione del procedimento.

Detto altrimenti, se non fosse stato introdotto anche l’onere della previa sollecitazione, l’azione avverso il silenzio apprestata dal legislatore avrebbe potuto essere intrapresa solo decorso il termine dei sessanta/trenta giorni (per l’esercizio del potere inibitorio vincolato) o dei successivi diciotto mesi (per l’esercizio di quello discrezionale), posto che prima della scadenza di quei termini, ai sensi della prima parte dell’art. 31, comma 1, cpa, non potrebbe considerarsi cogente il dovere di provvedere, ma ciò avrebbe determinato – in una sorta di perverso corto circuito normativo – una declaratoria di tardività dell’azione a causa della consumazione dell’ormai temporizzato potere della pubblica amministrazione. 

Quanto alla seconda questione (che effettivamente sembra cadere sull’art. 19, comma 4 più che sull’art. 19, comma 6-ter), l’assunto di fondo da cui muove il rimettente è che una tutela effettiva dell’interesse legittimo del terzo presuppone sempre un potere vincolato dell’amministrazione, con la conseguente possibilità del giudice amministrativo di accertare la fondatezza della pretesa, ai sensi dell’art. 31, comma 3, cpa[118]

Tale assunto è tuttavia insostenibile, poiché non può certamente dirsi che una tutela effettiva dell’interesse legittimo presupponga sempre e comunque l’attribuzione all’amministrazione di un potere vincolato, ed escluda, quindi, l’attribuzione di quelli discrezionali, che, per contro, sono proprio la quintessenza dell’agire amministrativo.

La Corte, del resto, nella citata sentenza n. 45 del 2019 ha affermato la legittimità costituzionale del meccanismo ideato dal legislatore, che, in primo luogo, ha temporizzato il potere di controllo sulla Scia e, in secondo luogo, lo ha connotato come vincolato in una prima fase e discrezionale in una seconda, decorsa la quale si estinguono quel potere di controllo e il correlato interesse legittimo del terzo che con esso dialoga.

La elaborata ricostruzione della disciplina della Scia e della tutela del terzo controinteressato operata dalla Corte nella sentenza n. 45 del 2019 e confermata nella sentenza n. 153 del 2020 è stata recepita dalla giurisprudenza amministrativa[119].

Questa ricostruzione, ciò nonostante, lascia sul tappeto alcuni aspetti critici, esterni al perimetro delle questioni di costituzionalità sollevate, e il cui approfondimento sembra rimesso, quanto meno in prima battuta, al giudice comune.

Quest’ultimo dovrà affrontare, in primo luogo, il problema della “cristallizzazione” del potere di controllo al momento della sollecitazione del terzo: che succede se il terzo presenta l’istanza sollecitatoria nei sessanta (o trenta giorni), ma l’amministrazione decide o non decide (e quindi si forma il silenzio rifiuto) dopo il decorso di tale termine? L’amministrazione esercita o avrebbe dovuto esercitare il potere vincolato o quello discrezionale? O, ancora: che succede se il terzo presenta la domanda, ad esempio, al secondo giorno del diciassettesimo mese, ma l’amministrazione decide al secondo giorno del diciottesimo mese? L’amministrazione deve esercitare il potere di verifica (discrezionale) o deve considerarsi decaduta, nonostante il terzo si sia attivato per tempo?

In relazione a tale aspetto la Corte, nella sentenza n. 45 del 2019, ha segnalato «l’opportunità di un intervento normativo sull’art. 19, quantomeno ai fini (…) di impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del ritardo nell’esercizio del potere da parte dell’amministrazione e al conseguente effetto estintivo di tale potere».

La dottrina è divisa sulla effettiva necessità di un intervento legislativo, ritenendo alcuni che l’effetto di cristallizzazione discenda già dalla portata retroattiva della sentenza del giudice[120], e non mancano pronunce giurisprudenziali in questo senso[121].

Strettamente connesso a tale profilo è quello dell’individuazione del momento in cui il terzo, una volta effettuata la sollecitazione, può agire in giudizio, ai sensi dell’art. 31 cpa: il terzo, cioè, deve attendere il decorso dei 30 giorni (ai sensi dell’art. 2, comma 2, l. n. 241/1990) perché maturi il silenzio sulla sua “istanza”, secondo il modello ordinario, o può agire in giudizio non appena inoltrata la sollecitazione?

La questione risulta complessivamente ancora poco scandagliata dalla giurisprudenza amministrativa.

Nel primo senso potrebbe essere letto il già rammentato inciso della sentenza n. 45 del 2019, secondo cui «il comma 6-ter è stato introdotto (…) con la finalità di escludere l’esistenza di atti amministrativi impugnabili (il cosiddetto silenzio-diniego) e quindi di limitare le possibilità di tutela del terzo all’azione contro il silenzio, inteso in modo tradizionale come inadempimento».

Tale ipotesi, tuttavia, finirebbe per rendere inutile l’introduzione della locuzione «negli altri casi previsti dalla legge», perché la possibilità di agire in giudizio dopo la scadenza del termine per concludere il procedimento attivato dalla sollecitazione della parte ricadrebbe già nel presupposto “tradizionale” dell’azione per il silenzio inadempimento, codificato dall’art. 31, comma 1, prima parte, cpa. 

D’altro canto, la seconda ipotesi, che restituisce un senso alla locuzione «negli altri casi previsti dalla legge», sembra in contrasto con il classico concetto di «inerzia», che pure l’art. 19, comma 6-ter, richiama e che presuppone un contegno silente dell’amministrazione per il periodo fissato per la conclusione del procedimento.

In definitiva, nonostante l’intervento normativo sull’art. 31, comma 1, cpa avesse una finalità di coordinamento con l’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990, sembra esservi un contrasto di fondo tra la locuzione «negli altri casi previsti dalla legge» introdotta nella prima disposizione e la locuzione «in caso di inerzia» presente nella seconda, contrasto che in via interpretativa può essere risolto solo svilendo la reale portata dell’una o dell’altra.

Vi è poi il problema dell’immediata conoscibilità della Scia a opera del terzo, che potrebbe non essere edotto della stessa e della sua illegittimità fino al momento della realizzazione dell’attività, che però potrebbe darsi quando sono ormai decorsi i termini per l’esercizio del potere di controllo dell’amministrazione.

La Corte, nella sentenza n. 45 del 2019 – dopo avere ritenuto che, anche ove spiri il termine del potere di controllo, la tutela del terzo è sufficientemente garantita dagli altri strumenti a sua disposizione (sollecitazione del potere sanzionatorio di inibizione e rimozione delle opere in caso di dichiarazioni mendaci; sollecitazione del potere repressivo di settore; azione risarcitoria nei confronti della p.a. e del funzionario per omesso controllo; azione di risarcimento del danno o riduzione in pristino davanti al g.o. in caso di violazione di diritti soggettivi) – ha comunque segnalato «l’opportunità di un intervento normativo sull’art. 19, quantomeno ai fini (…) di rendere possibile al terzo interessato una più immediata conoscenza dell’attività segnalata»[122].

Vi è, infine, la questione dell’attivabilità o meno – e in che termini – dei poteri repressivi di settore spettanti all’amministrazione, ai sensi dell’art. 21, comma 2-bis, l. n. 241/1990 e, in particolare, di quelli di vigilanza in materia edilizia (artt. 27 ss. dPR n. 380/2002), una volta decorsi i termini del generale potere di controllo sulla Scia[123]

Il problema si pone perché, secondo l’orientamento della giurisprudenza amministrativa più recente, tali poteri hanno un oggetto più limitato – potendo colpire solo le difformità rispetto alle opere segnalate e non rispetto alla legge, stante il diaframma del titolo ormai inoppugnabile[124] – e perché spesso conducono non alla rimozione delle opere ma all’irrogazione di una sanzione pecuniaria.

Su questo punto la Corte non ha preso espressa posizione, limitandosi a ricordare l’esistenza del potere di vigilanza, quale strumento che concorre a formare l’apparato sistemico di tutela del terzo.

 

6. Conclusioni

L’esame delle sentenze passate in rassegna – che, per l’ampiezza delle tematiche sottese e per la complessità delle soluzioni adottate, tagliano trasversalmente il “moderno” diritto amministrativo sostanziale e processuale – consegna all’interprete un’idea forte del ruolo della Corte costituzionale: una Corte che negli ultimi anni, anche in questa materia, ha riscoperto la sua assoluta centralità e infungibilità nell’architettura costituzionale[125].

Centralità e infungibilità che passano, in primo luogo, per un aperto, fitto e mai scontato dialogo con la Corte di giustizia (come nel caso delle nota vicenda Taricco) e con la Corte europea dei diritti dell’uomo (come nel caso della vicenda Mottola e Staibano[126]), volto anche al reciproco posizionamento istituzionale[127]; in secondo luogo, per una chiara minore ritrosia a guidare il giudice comune, anche nomofilattico, nell’attività interpretativa secundum constitutionem (come emerge dal notevole ridimensionamento delle sentenze di inammissibilità e, in particolare, di quelle per omesso esperimento del tentativo di interpretazione costituzionalmente orientata[128], nonché per l’alleggerimento del vaglio sulla rilevanza mediante il sostanziale abbandono del criterio dell’influenza concreta nel giudizio a quo[129]); e, infine, per una maggiore profondità di scrutinio e conformazione dell’attività legislativa (ad esempio, con il superamento della necessità delle rime obbligate[130] e con il nuovo meccanismo processuale del rinvio della decisione con contestuale “diffida” al Parlamento[131], ma anche con l’intensificarsi dei moniti e degli auspici).

Per restare alle sentenze oggetto di questo contributo, nella prima direzione possono leggersi la n. 271 del 2019 sulla giurisdizione soggettiva, che fornisce un avallo importante alle condivisibili resistenze del giudice amministrativo di fronte alla posizione inspiegabilmente oltranzista della Corte di giustizia sull’esame dei ricorsi incrociati nella materia degli appalti pubblici; nonché le sentenze nn. 123 del 2017 e 93 del 2018, ove la Corte lascia chiaramente intendere di non poter fornire un lasciapassare incondizionato a un (eventuale) obbligo convenzionale di riapertura dei processi civili e amministrativi in violazione del diritto costituzionale di difesa.

Nella seconda direzione, invece, possono leggersi la sentenza n. 6 del 2018, che, con una statuizione di vestitissima inammissibilità, pone la parola fine a un prolungato contrasto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, oltre che interno alle stesse sezioni unite della Corte di cassazione; la sentenza n. 94 del 2017, che, al fondo, sdogana il contestato abbandono della pregiudiziale amministrativa e rinforza la tregua imposta dal legislatore alla Corte di cassazione e al Consiglio di Stato; ma anche la sentenza n. 160 del 2019, là dove richiama l’attenzione del legislatore e dell’interprete sulla eccezionalità delle deroghe alla tutela annullatoria e sulla sua non disponibilità ad opera del giudice comune; e, infine, la sentenza n. 45 del 2019, che, lungi, dal lasciare a quest’ultimo l’onere di rinvenire nel sistema un termine a tutela del segnalante mediante una pure possibile additiva di principio, si fa carico di individuarlo tra le numerose interpretazioni prospettate in dottrina e in giurisprudenza.

Nell’ultima direzione, infine, vanno le già citate sentenze nn. 123 del 2017 e 6 del 2018, che, sia pure nei termini sopra esposti, auspicano un intervento del legislatore per regolare l’ipotesi della revocazione delle sentenze civili e amministrative per sopravvenuto contrasto con le pronunce della Corte Edu, nonché la pure citata sentenza n. 45 del 2019, che si premura di indicare al Parlamento degli spazi ulteriori per migliorare la disciplina della (tutela del terzo nella) Scia.

È forse presto per dire se questa tendenza espansiva della Corte nei confronti degli altri attori istituzionali (Corti sovranazionali, giudice comune e legislatore) sia giunta al colmo, ma quel che appare certo è che la stabilizzazione del suo forte riposizionamento nell’architettura costituzionale (al netto di fisiologici e auspicabili assestamenti, dovuti anche alle altrettanto fisiologiche reazioni dei menzionati interlocutori) abbisognerà di quella autorevolezza che nasce solo dalla forza delle motivazioni e dall’attitudine alla cooperazione istituzionale di cui essa, nonostante critiche a volte inutilmente ingenerose, ha dato prova negli ultimi anni. 

 

 

1. Allegato 1 al d.lgs 2 luglio 2010, n. 104 («Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo»).

2. Questioni sostanzialmente identiche, sia pur con riferimento al comma 5 dell’art. 30, erano state sollevate dal Tar Sicilia e dal Tar Liguria. La Corte, tuttavia, le aveva dichiarate inammissibili, rispettivamente, con la sentenza n. 280/2012 e con l’ordinanza n. 57/2015.

3. F. Patroni Griffi, A 20 anni dalla sentenza n. 500-1999: attività amministrativa e risarcimento del danno, presentazione generale del congresso tenutosi a Palazzo Spada, Roma, 16 dicembre 2019, www.giustizia-amministrativa.it/-/a-20-anni-dalla-sentenza-n-500-1999-attivita-amministrativa-e-risarcimento-del-danno-, il quale osserva che il codice del processo amministrativo «ridisegna l’armamentario delle azioni esperibili dinanzi al giudice amministrativo e conseguentemente la tipologia delle pronunce di questi. E disciplina esplicitamente, all’art. 30, il rapporto tra azione di annullamento e azione di condanna, con un compromesso che potrà far storcere il naso a qualche purista ma che mi sembra abbia funzionato quanto basta nella pratica». Sulla natura di compromesso della norma in esame si vedano anche F.F. Pagano, Il principio costituzionale di effettività della tutela giurisdizionale e il termine di decadenza per proporre l’azione autonoma di condanna nel processo amministrativo (nota a Corte cost. n. 94 del 2017), in Osservatorio costituzionale, n. 2/2017 (20 luglio), www.osservatorioaic.it/images/rivista/pdf/Pagano%20definitivo.pdf ; E.M. Barbieri, Il danno patrimoniale da provvedimento illegittimo tra prescrizione e decadenza, in Nuovo notiziario giuridico, n. 2/2011, p. 464; M. Nunziata, Il risarcimento del danno conquista l’autonomia? I nuovi rapporti tra l’azione risarcitoria e quella per l’annullamento nel Codice del processo, in Federalismi, n. 19/2011, www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?artid=18915.

4. Si è criticamente osservato che l’esigenza di certezza, presidiata dall’annullamento, riguarderebbe solo il rapporto giuridico amministrativo “puro”, ossia l’assetto d’interessi definito con il provvedimento amministrativo (F.G. Scoca, Sul termine per proporre l’azione risarcitoria autonoma nei confronti dell’amministrazione, in Giur. cost., n. 3/2017, p. 980). In senso contrario, tuttavia, non può essere obliterato che la prospettazione di un’azione risarcitoria ben può indurre l’amministrazione all’annullamento in autotutela (oggi nei più ristretti limiti di cui all’art. 21-novies l. n. 241/1990) e alla conseguente rideterminazione dell’assetto d’interessi ormai consolidato. Nella relazione illustrativa al codice del processo amministrativo si afferma, al riguardo: «[s]i è optato per l’autonoma esperibilità della tutela risarcitoria per la lesione delle posizioni di interesse legittimo, prevedendo per l’esercizio di tale azione un termine di decadenza di quattro mesi – sul presupposto che la previsione di termini decadenziali non è estranea alla tutela risarcitoria, vieppiù a fronte di evidenti esigenze di stabilizzazione delle vicende che coinvolgono la pubblica amministrazione – e affermando l’applicazione di principi analoghi a quelli espressi dall’art. 1227 c.c. per quanto riguarda i danni che avrebbero potuto essere evitati mediante il tempestivo esperimento dell’azione di annullamento». Tali due aspetti (la previsione di un termine decadenziale e la limitazione dello spettro dei danni risarcibili) rappresentano proprio i punti di maggiore specialità dell’azione risarcitoria per lesione dell’interesse legittimo introdotta dal cpa: E.M. Barbieri, Il danno patrimoniale, op. cit.; G. Greco, Che fine ha fatto la pregiudiziale amministrativa?, in Giustamm.it, n. 12/2010; M. Nunziata, Il risarcimento del danno conquista l’autonomia?, op. cit. Sull’esigenza di certezza anche con riferimento all’azione risarcitoria vds., tra gli altri, anche A. Caldarera, Il risarcimento del danno da lesione dell’interesse legittimo dopo il Codice del processo amministrativo. Esiste ancora la pregiudiziale amministrativa? Poche battute a margine della sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 23 marzo 2011, n. 3 e dell’ordinanza del T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. I, 7 settembre 2011, n. 1628, in Giustamm.it, n. 11/2011.

5. Le stesse sezioni unite della Corte di cassazione, nella nota sentenza 23 dicembre 2008, n. 30254, hanno affermato che è «nella disponibilità del legislatore disciplinare la tutela delle situazioni soggettive assoggettando a termini di decadenza l’esercizio dell’azione, come si è visto quando ha assoggettato in campo societario al medesimo termine l’azione di impugnazione e quella di risarcimento spettante ai soci non legittimati all’esercizio della prima». 

6. E.M. Barbieri, Il danno patrimoniale, op. cit.: «La strumentalità delle regole processuali credo non vada necessariamente e sempre sacrificata ad astratte premesse dogmatiche, ma dovrebbe piuttosto essere verificata sul terreno concreto dei risultati che si intende conseguire ed assicurare. In particolare, poi, nel caso di rapporti con la pubblica amministrazione mi riesce ancora più difficile pensare che esistano esigenze di certezza relativamente alla sorte del provvedimento e non anche agli effetti conseguenti alla illegittimità di esso, come se la concreta correttezza dei bilanci pubblici sia una variabile secondaria, assoggettabile a termini potenzialmente privi di ogni limite».

7. La tesi contraria (vds., ad esempio, A. Masaracchia, Una doppia esigenza: effetti giuridici stabili e bilanci Pa più solidi, in Guida al diritto, n. 22/2017, p. 103) si fonda su una sostanziale parificazione, a fini risarcitori, delle due situazioni giuridiche sostanziali, secondo la lettura dell’art. 2043 cc offerta dalla Corte di cassazione con la nota sentenza n. 500 del 22 luglio 1999. Essa, tuttavia, non tiene in considerazione le novità non solo processuali ma anche sostanziali apportate dall’art. 30 cpa. Sul punto A. Travi, Nota a Corte costituzionale sentenza 4.5.2017, n. 94, in Foro it., 2017, c. 2592, osserva: «gli argomenti accolti dalla Corte costituzionale rilevano anche più in generale sull’interpretazione del principio di eguaglianza, ai sensi dell’art. 3 Cost. Se è vero, come sembra ragionevole, che questo principio interpella a ricercare una giustificazione effettiva ogni qual volta sia prospettata una disciplina “speciale”, la specialità, alla stregua di quanto ritiene la Corte, va riconosciuta immanente rispetto ad ogni situazione riconducibile a un potere amministrativo, perché è sufficiente un riferimento, anche solo indiretto (come è nel caso del diritto al risarcimento del danno in esame), alla distinzione fra diritto soggettivo e interesse legittimo»; nonché F. Cortese, Autonomia dell’azione di condanna e termine di decadenza, in Gior. dir. amm., n. 5/2017, p. 666: «la disciplina, anche sostanziale, del risarcimento degli interessi legittimi non è una epifania circostanziata dell’art 2043 c.c., ma corrisponde ad un’autonoma e speciale fattispecie, come lo stesso art. 30, comma 3, c.p.a. sembra ormai suggerire anche sul piano testuale. Basti osservare, al riguardo, che la disposizione si esprime proprio in termini di “risarcimento per lesione di interessi legittimi”, sicché è assai complesso pensare che in tale espressione si possa riassumere o assorbire automaticamente ciò che la Cassazione aveva elaborato nell’ambito della già richiamata sentenza n. 500/ 1999». Nella stessa direzione, anche G. Greco, Che fine ha fatto la pregiudiziale amministrativa?, op. cit.

8. Nello stesso senso la Corte di cassazione, sez. unite, 13 dicembre 2018, n. 32358: «la limitazione alla sola tutela per equivalente di pregiudizi difficilmente misurabili e/o coessenziali a situazioni nelle quali l’autonomia e la stabilità dei rapporti costituisce dimensione prioritaria rispetto alla tutela reale in forma specifica, in disparte il decisum di C. cost. n. 49/2011, è tecnica di tutela assai diffusa e ritenuta pienamente legittima in numerosi e delicati comparti (conf. Cass., Sez. U., 15/03/2016, n. 5072 e 27/12/2017, n. 30985, in motivazione sulle tutele obbligatorie in ambito lavoristico)».

9. Per la natura generale e ordinaria della tutela caducatoria dell’interesse legittimo vds. M. Midiri, Diritti fondamentali, effettività della tutela, giudice amministrativo, in Rivista AIC, n. 3/2015, p. 1436, nonché F.G. Scoca, Autonomia sportiva e pienezza della tutela giurisdizionale, in Giur. cost., n. 3/2019, p. 1687, secondo cui dal sistema generale il legislatore (e non il giudice) si può allontanare solo in caso di «solide giustificazioni o situazioni eccezionali», che però l’Autore esclude ricorrano nel caso dell’ordinamento sportivo. Nello stesso senso E. Lubrano, La giurisdizione meramente risarcitoria del giudice amministrativo in materia disciplinare sportiva: la Corte costituzionale (n. 160 del 2019) “spreca” un’occasione per la riaffermazione della effettività e della pienezza della tutela giurisdizionale, in Federalismi, n. 23/2019, https://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=40772. 

10. A. Masaracchia, Una giurisdizione di tipo oggettivo compete al legislatore, in Guida al diritto, n. 20/2015, p. 98; D. Turroni, Justice delayed is (not) justice denied. L’annullamento dell’atto non è «variabile dipendente» dalla durata del processo, in Dir. proc. amm., n. 1/2016, p. 196.

11. Con la sentenza del 13 aprile 2015, n. 4, ove si è affermato che «sulla base del principio della domanda che regola il processo amministrativo, il giudice amministrativo non può ex officio limitarsi a condannare l’Amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti agli atti illegittimi impugnati anziché procedere al loro annullamento, che abbia formato oggetto della domanda dell’istante ed in ordine al quale persista il suo interesse, ancorché la pronuncia possa recare gravi pregiudizi ai controinteressati, anche per il lungo tempo trascorso dall’adozione degli atti, e ad essa debba seguire il mero rinnovo, in tutto o in parte, della procedura esperita». 

12. Quale quella prevista in sede di ottemperanza dall’art. 112, comma 3, cpa, ai sensi del quale «[p]uò essere proposta, anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza (…) azione di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione» (secondo Cons. Stato, adunanza plenaria, 12 maggio 2017, n. 2, la norma introduce una ipotesi di responsabilità oggettiva dell’amministrazione). 

13. Su cui si tornerà più avanti, al par. 5.

14. Ammessa dal Consiglio di Stato con la sentenza 10 maggio 2011, sez. IV, n. 2755, essa è stata implicitamente sconfessata dall’adunanza plenaria 13 aprile 2015, n. 4 (vds. nota 11). L’adunanza plenaria ha poi riaffrontato il problema in relazione al “prospective overruling”, ritenendo di poter escludere gli effetti temporali retroattivi del principio di diritto affermato (sentenza 22 dicembre 2017, n. 13, richiamata anche da Cons. Stato, sez. VI, 3 dicembre 2018, n. 6858) non solo in relazione alle norme processuali (come da tempo ritengono le sezioni unite della Corte di cassazione), ma anche per quelle sostanziali. Tale apertura è stata, però, riassorbita dalle successive sentenze dell’adunanza plenaria 23 febbraio 2018, n. 1, che ha ammesso l’esclusione degli effetti temporali solo per le norme processuali, a pena di compromissione del principio costituzionale di separazione dei poteri, e dalla sentenza 27 febbraio 2019, n. 5, ove si afferma che la valutazione delle «ripercussioni socio-economiche che deriverebbero» dall’esecuzione della sentenza spetta «al legislatore e non al giudice». Di recente Cons. Stato, sez. I, 30 giugno 2020, n. 1233, ha di nuovo ammesso la modulabilità degli effetti temporali della decisione di annullamento, sia pure affermando la necessità di farne un uso «avveduto» e «accorto»: «limitandolo alle sole ipotesi in cui un temperamento alla regola della caducazione retroattiva degli atti illegittimi si renda strettamente necessario per la tutela degli interessi rilevanti nel caso concreto» e «solo nelle ipotesi in cui si renda necessario per una migliore tutela degli interessi fatti valere nel giudizio in confronto con quelli pubblici e privati coinvolti. E ciò anche al fine di evitare che le esigenze di effettività della tutela trasmodino – com’è stato giustamente paventato – in situazioni di incertezza giuridica o amministrativa. In particolare tale possibilità soccorrerà allorché – come nel caso in esame – occorre evitare che l’annullamento di un atto dell’amministrazione possa generare una condizione amministrativa di vuoto regolatorio (in caso di annullamento di atti normativi o generali), tale da determinare effetti peggiorativi della posizione giuridica tutelata col ricorso, nel senso di pregiudicare, anziché proteggere, il bene della vita che l’interessato aspira a conseguire o mantenere». La modulabilità degli effetti temporali nei limiti in cui meglio risponda all’interesse della parte ricorrente sembra tuttavia inutile, perché in tal caso il giudice dovrà adottare una pronuncia, in parte qua, di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse (E. Folieri, L’ingegneria processuale del Consiglio di Stato, in Giur. it., n. 2/2012, p. 439, nonché A. Carbone, Azione di annullamento, ricorso incidentale e perplessità applicative della modulazione degli effetti temporali, in Dir. proc. amm., n. 2/2013, p. 428), ovvero di annullamento (solo) parziale, cioè nei limiti proprio dell’interesse della parte (in questo senso la citata adunanza plenaria, n. 4/2015, nonché G.D. Comporti, Azione di annullamento e dintorni nell’ottica della soggettività delle forme di tutela, in Giur. it., n. 7/2015, p. 1692); mentre il richiamo al contemperamento con gli altri interessi in gioco attribuisce al giudice un pericoloso ruolo di “amministratore” degli effetti delle sue sentenze che la legge non gli affida.

15. La nota e molto criticata sentenza sulla cd. “Robin Tax”, sulla quale la letteratura è sconfinata. Tra i tanti commenti si vedano L. Antonini, Forzatura dei principi versus modulazione temporale degli effetti della sentenza, in Quad. cost., n. 4/2015, p. 718; A. Barbera, La sentenza relativa al blocco pensionistico: una brutta pagina per la Corte, in Rivista AIC, n. 2/2015, p. 1; M. Bignami, Cenni sugli effetti temporali della dichiarazione di incostituzionalità in un’innovativa pronuncia della Corte costituzionale, in questa Rivista online, 18 febbraio 2015, www.questionegiustizia.it/articolo/cenni-sugli-effetti-temporali-della-dichiarazione-_18-02-2015.php; R. Bin, Quando i precedenti degradano a citazioni e le regole evaporano in principi, in Forum di Quad. cost. (rass. n. 4/2015), 27 aprile 2015; P. Carnevale, La declaratoria di illegittimità costituzionale “differita” fra l’esigenza di salvaguardia del modello incidentale e il problema dell’auto-attribuzione di potere da parte del giudice delle leggi, in Dir. pubbl., n. 2/2015, p. 389; V. Onida, Una pronuncia costituzionale problematica: limitazione degli effetti nel tempo o incostituzionalità sopravvenuta?, in Rivista AIC, n. 1/2016, www.cortecostituzionale.it/documenti/file_rivista/27391_2015_10.pdf; C. Padula, Dove va il bilanciamento degli interessi? Osservazioni sulle sentenze 10 e 155 del 2015, in Federalismi, n. 19/2015, www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=30535; A. Pugiotto, Un inedito epitaffio per la pregiudizialità costituzionale, in Forum di Quad. cost. (rass. n. 4/2015), 3 aprile 2015; R. Romboli, L’“obbligo” per il giudice di applicare nel processo a quo la norma dichiarata incostituzionale ab origine: natura incidentale del giudizio costituzionale e tutela dei diritti, ivi, 6 aprile 2015.

16. A. Travi, Accoglimento dell’impugnazione di un provvedimento e “non annullamento” dell’atto illegittimo, in Urb. e app., n. 8/2011, p. 937: «[c]he l’azione di annullamento in certi casi possa non determinare la caducazione dell’atto illegittimo è pacifico, ma il punto è un altro: la Costituzione, all’art. 113, comma 3, richiede che questi casi siano individuati dal legislatore. È compito del legislatore, e non del giudice, stabilire se possa ammettersi un bilanciamento fra le ragioni della pretesa annullatoria ed esigenze divergenti: l’intermediazione della legge appare irrinunciabile. E la riserva di legge posta dalla norma costituzionale ha un significato importante, che a maggior ragione impedisce al giudice di superarla: la pretesa annullatoria del cittadino è una componente fondamentale della tutela giurisdizionale degli interessi legittimi, garantita dall’art. 24 Cost». Nello stesso senso, tra tanti, si veda anche M. Condorelli, Il nuovo prospective overruling, «dimenticando» l’adunanza plenaria n. 4 del 2015, in Foro it., n. 3/2018, c. 145; nonché, con sfumature più possibiliste, M. Macchia, L’efficacia temporale delle sentenze del giudice amministrativo, prove di imitazione, in Gior. dir. amm., n. 12/2011, p. 1310.

17. Art. 264, comma 2, Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, ai sensi del quale la Corte di giustizia, «ove lo reputi necessario, precisa gli effetti dell’atto annullato che devono essere considerati definitivi».

18. Cgue [GS], Inter-Environnement Wallonie ASBL, C411/17, 29 luglio 2019: «Occorre aggiungere che solo la Corte può, eccezionalmente e per considerazioni imperative di certezza del diritto, concedere una sospensione provvisoria dell’effetto di disapplicazione esercitato da una norma di diritto dell’Unione rispetto a norme di diritto interno con essa in contrasto. Infatti, se i giudici nazionali avessero il potere di attribuire alle norme nazionali il primato, anche solo provvisoriamente, in caso di contrasto con il diritto dell’Unione, ne risulterebbe pregiudicata l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione (vds., in tal senso, le sentenze dell’8 settembre 2010, Winner Wetten, C409/06, EU:C:2010:503, punti 66 e 67, nonché del 28 luglio 2016, Association France Nature Environnement, C379/15, EU:C:2016:603, punto 33). Tuttavia, la Corte ha parimenti dichiarato, al punto 58 della sua sentenza del 28 febbraio 2012, Inter-Environnement Wallonie e Terre wallonne (C41/11, EU:C:2012:103), che un giudice nazionale – tenuto conto dell’esistenza di un’esigenza imperativa legata, come nella causa che ha dato luogo a tale sentenza, alla protezione dell’ambiente e purché siano rispettate le condizioni elencate in tale sentenza – può essere eccezionalmente autorizzato ad applicare la disposizione nazionale che gli consente di mantenere determinati effetti di un atto nazionale annullato. Da detta sentenza risulta quindi che la Corte ha inteso riconoscere, caso per caso ed eccezionalmente, a un giudice nazionale la facoltà di amministrare gli effetti dell’annullamento di una norma nazionale dichiarata incompatibile con il diritto dell’Unione nel rispetto delle condizioni poste dalla giurisprudenza della Corte (vds. in tal senso, sentenza del 28 luglio 2016, Association France Nature Environnement, C379/15, EU:C:2016:603, punto 34).  Nel caso di specie, conformemente alla giurisprudenza citata al punto 177 della presente sentenza, spetta solo alla Corte determinare le condizioni alle quali può giustificarsi, in via eccezionale, il mantenimento degli effetti di misure come quelle di cui trattasi nel procedimento principale sulla base di considerazioni imperative attinenti alla sicurezza dell’approvvigionamento di energia elettrica nello Stato membro interessato. A tal riguardo, considerazioni del genere possono giustificare il mantenimento degli effetti di misure nazionali adottate in violazione degli obblighi derivanti dalle direttive “VIA” e “Habitat” soltanto se, nell’ipotesi di annullamento o di sospensione degli effetti di tali misure, vi sia una minaccia grave ed effettiva di interruzione dell’approvvigionamento di energia elettrica dello Stato membro interessato, cui non si potrebbe fare fronte mediante altri mezzi e alternative, in particolare nell’ambito del mercato interno».

19. Si legge nella sentenza n. 10 del 2015: «così ulteriori limiti alla retroattività delle decisioni di illegittimità costituzionale possono derivare dalla necessità di salvaguardare principi o diritti di rango costituzionale che altrimenti risulterebbero irreparabilmente sacrificati. In questi casi, la loro individuazione è ascrivibile all’attività di bilanciamento tra valori di rango costituzionale ed è, quindi, la Corte costituzionale – e solo essa – ad avere la competenza in proposito». Sul punto vds. R. Romboli, Nota a Corte costituzionale, sentenza, 11-02-2015, n. 10, in Foro it., n. 1/2015, c. 1502: «[u]n’ultima osservazione concerne invece le possibili ricadute della sentenza in epigrafe nei riguardi dei giudici comuni; e questo in due diversi significati. Secondo il primo, ci potremmo chiedere se l’operazione svolta dalla Corte costituzionale, nell’ambito della propria attività di bilanciamento tra principî e valori costituzionali, non possa essere svolta anche dai giudici comuni, ai quali infatti più volte la corte stessa ha riconosciuto la funzione di bilanciamento, con riguardo alla applicazione della decisione di incostituzionalità nei propri giudizi. Di questo la corte pare accorgersi allorché, nel sostenere la possibilità individuare limiti alla efficacia generalmente riconosciuta alle dichiarazioni di incostituzionalità sulla base di quanto normativamente stabilito e di farlo quando sussista la necessità di salvaguardare principî o diritti di rango costituzionale che altrimenti risulterebbero irrimediabilmente sacrificati, precisa che in questi casi “la loro individuazione è ascrivibile all’attività di bilanciamento tra valori di rango costituzionale ed è, quindi, la Corte costituzionale — e solo essa — ad avere la competenza in proposito”». Nel senso che la modulabilità degli effetti temporali spetta alla Corte in ragione del suo ruolo politico e “normativo” nell’ordinamento e che tale ruolo ovviamente non possa predicarsi per il giudice amministrativo, vds. R. Di Pace, L’annullamento tra tradizione e innovazione, la problematica flessibilità dei poteri del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., n. 4/2012, p. 1273; nello stesso senso A. Vacca, L’Adunanza plenaria, tra lo ius dicere e la creazione del diritto, in LexItalia, n. 1/2018 (4 gennaio 2018), ove si sottolinea la funzione «paralegislativa» delle Corte costituzionale. 

20. In questo senso sembra doversi leggere E. Folieri, L’Adunanza plenaria, “sovrano illuminato”, prende coscienza che i principi enunciati nelle sue pronunzie sono fonti del diritto, in Urb. e app., n. 3/2018, p. 373: «il processo innanzi alla Corte costituzionale ha un ruolo istituzionale del tutto diverso e le sentenze di accoglimento riguardano leggi ed atti aventi forza di legge che esplicano efficacia erga omnes, per cui la limitazione degli effetti trova giustificazione in profili che investono la collettività intera e numerosi ed indeterminati soggetti dell’ordinamento» (anche se l’Autore ammette poi la modulabilità degli effetti temporali per le pronunce dell’adunanza plenaria).

21. L. Bertonazzi, Sentenza che accoglie l’azione di annullamento amputata dell’effetto eliminatorio?, in Dir. proc. amm., n. 3/2012, p. 1128: «Una simile azione di annullamento è ammissibile sotto il profilo dell’interesse a ricorrere, senza che al giudice sia consentito di farsi interprete autentico delle reali finalità alla base dell’iniziativa processuale (…) e, muovendo da esse, di discostarsi, nel contempo, dalla domanda giudiziale e dalla tipicità dell’esito di accoglimento dell’azione di annullamento»; R. Villata, Ancora spigolature sul nuovo processo amministrativo?, ivi, n. 4/2011, p. 1516, secondo cui l’interesse delle parte «è affare esclusivo della medesima, una volta positivamente accertata la sussistenza dell’interesse processuale: si finisce altrimenti con il valutare l’opportunità dell’azione proposta, in tal modo non rispettando il principio fondamentale della domanda di parte»; sostanzialmente negli stessi termini, A. Scognamiglio, Annullamento “dalla data in cui” (nota a Consiglio di Stato, Sez. Prima, 30 giugno 2020 n. 1233), in Giustizia insieme, 3 agosto 2020: «Ad apparire incompatibile con i principi propri del processo amministrativo come processo di parti retto dal principio dispositivo è proprio l’esercizio officioso del potere di modulare l’effetto caducatorio sull'“autentico interesse delle parti” come individuato dallo stesso giudice. Di detto interesse  – invece – solo le parti sono interpreti. Perché il giudice possa pronunciare la decorrenza dell’annullamento ex tunc, ex nunc o “dalla data in cui” è essenziale che le parti manifestino un interesse in tal senso. Le parti, dunque la parte ricorrente o l’amministrazione resistente che – come nel caso di specie – ben potrebbe rappresentare al giudice l’eccessiva compromissione dell’interesse generale che l’annullamento retroattivo comporta e ne faccia però esplicita richiesta».

22. Sul punto è netta la presa di posizione del giudice amministrativo: «A sua volta l’art. 34 esprime il principio dispositivo del processo amministrativo in relazione all’ambito della domanda di parte; si tratta, nel caso della giurisdizione amministrativa di legittimità, come noto, di una giurisdizione di tipo soggettivo, sia pure con aperture parziali alla giurisdizione di tipo oggettivo (ma che si manifestano in precisi, limitati ambiti come, per esempio, nella estensione della legittimazione ovvero nella valutazione sostitutiva dell’interesse pubblico in sede di giudizio di ottemperanza o in sede cautelare, ovvero ancora nella esistenza di regole speciali, quali quelle contenute negli artt. 121 e 122 c.p.a., che, riguardo alle controversie in materia di contratti pubblici, consentono al giudice di modulare gli effetti della inefficacia del contratto)». (Cons. Stato, adunanza plenaria, 13 aprile 2015, n. 4). Vds. anche Cons. Stato, adunanza plenaria, 27 aprile 2015, n. 5: «Sul punto non può che ribadirsi quanto più volte enunciato da questa stessa Adunanza plenaria (cfr. da ultimo n. 4 del 2015; n. 9 del 2014, n. 7 del 2013, n. 4 del 2011), in ordine all’impossibilità di considerare quella amministrativa una giurisdizione di diritto oggettivo e su come tale approdo sia coerente con il significato che assume il principio della domanda nel dettato dell’art. 24, co. 1, Cost. che affianca, sia pure prendendo atto per ciò solo della loro diversità, le due situazioni soggettive attive del diritto soggettivo e dell’interesse legittimo quali presupposti per l’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale intesa come principio fondamentale costitutivo dell’ordine pubblico costituzionale (cfr. da ultimo le fondamentali conclusioni cui è pervenuta Corte cost. 22 ottobre 2014, n. 238)».
In termini, ancora, Cons. Stato, sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321: «La necessità di dimostrare nei fatti tale evoluzione appare anche coerente con la recente affermazione – che il collegio condivide pienamente – secondo la quale, avendo riguardo alla concezione soggettiva della tutela e alla centralità processuale della situazione soggettiva rispetto all’interesse alla legittimità dell’azione amministrativa, sembra ormai potersi “capovolgere definitivamente l’allocazione tradizionale delle due situazioni soggettive, entrambe attive, che si muovono nel processo, e ci si può forse spingere ad affermare che è l’interesse alla mera legittimità ad essere divenuto un interesse occasionalmente protetto, cioè protetto di riflesso in sede di tutela della situazione di interesse legittimo”». Infine, nello stesso senso, Cons. Stato, adunanza plenaria, 7 aprile 2011, n. 4: «In questo senso, deve essere accuratamente valorizzato, in tutte le sue implicazioni, il principio della domanda, che contrassegna il sistema attuale della giustizia amministrativa, quale tipica giurisdizione “di diritto soggettivo”». In dottrina, vds. F.G. Scoca, L’interesse legittimo, storia e teoria, Giappichelli, Torino, 2017, p. 179: «La tutela dell’interesse legittimo è concepita e disciplinata in Costituzione come tutela propria del solo interesse privato: ad essere tutelato indirettamente, almeno in sede processuale, e non sempre (se si vuole: occasionalmente), è semmai, l’interesse pubblico»; Id., Il principio della domanda nel processo amministrativo, in Corr. giur., n. 6/2015, p. 1600; A. Berti Suman, L’immediata impugnazione delle clausole del bando di gara e il ruolo dell’interesse strumentale nel (nuovo) contenzioso appalti, pubblicazione su portale, 28 maggio 2018, www.sipotra.it/old/wp-content/uploads/2018/05/L%E2%80%99immediata-impugnazione-delle-clausole-del-bando-di-gara-e-il-ruolo-dell%E2%80%99interesse-strumentale-nel-nuovo-contenzioso-appalti.pdf, secondo cui «Il filtro dell’interesse a ricorrere deve invece continuare ad avere un ruolo selettivo per non rientrare nella giurisdizione oggettiva, che ha ad oggetto la mera legittimità della azione amministrativa, la quale non pare compatibile con l’art. 103 Cost. L’ordinamento, pur a fronte delle ripetute istanze di “giurisdizione oggettiva” che caratterizzano il momento attuale, continua infatti ad accogliere il modello di giurisdizione soggettiva, il quale postula la sussistenza di un interesse attuale e concreto in capo al soggetto che lo fa valere» (ivi, p. 33); M. Silvestri, Il principio della domanda nel processo amministrativo. L’Adunanza plenaria n. 4 del 2015, in Foro amm., n. 9/2015, p. 2207.

23. Sia pure condizionata, in concreto, all’effettiva conoscenza delle ragioni poste a fondamento dei provvedimenti di ammissione ed esclusione.

24. Così Cons. Stato, adunanza della Commissione speciale del 22 marzo 2017, parere n. 782, avente ad oggetto le «Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50»; nonché Cons. Stato, adunanza plenaria, 26 aprile 2018, n. 4.

25. La tesi sostenuta dall’adunanza plenaria sin dalla sentenza n. 4 del 7 aprile 2011 è che – facendo applicazione degli istituti di diritto sostanziale e processuale interno (in particolare delle tradizionali nozioni di «legittimazione ad agire» e di «ricorso incidentale») – l’esame del ricorso incidentale escludente è sempre preliminare rispetto all’esame di quello principale, poiché l’accertamento della illegittima ammissione alla gara del concorrente comporta il suo difetto di legittimazione ad agire: l’altrui aggiudicazione, cioè, può essere efficacemente contestata solo dal concorrente legittimamente ammesso alla gara, perché altrimenti esso non avrebbe titolo all’aggiudicazione, a nulla rilevando il suo eventuale interesse (strumentale) alla rinnovazione dell’intera procedura. Ne consegue, a questa stregua, che l’accoglimento del ricorso incidentale escludente ha effetto paralizzante del ricorso principale, che pertanto non deve essere esaminato dal giudice. La Corte di giustizia, per contro, con la sentenza Fastweb, C-100/12, 4 luglio 2013, ha affermato il diverso principio secondo cui, «qualora per mezzo di un ricorso incidentale l’aggiudicatario di una procedura di assegnazione di un appalto deduca che l’offerta del ricorrente principale sarebbe stata da escludere dalla gara a causa del mancato rispetto delle specifiche tecniche prescritte dalla stazione appaltante, sì da rendere inammissibile l’impugnazione (a sua volta incentrata sulla non conformità dell’offerta dell’aggiudicatario alle medesime specifiche tecniche) proposta dallo stesso, il diritto dei partecipanti a una gara e a una tutela giurisdizionale effettiva delle rispettive ragioni esige che entrambe le domande siano esaminate nel merito da parte del giudice investito della controversia». Secondo la Corte di giustizia, infatti, in questo caso, il concorrente che ha proposto ricorso principale avrebbe comunque interesse al suo esame, poiché, se fossero accolti entrambi i gravami, l’amministrazione, constatata l’impossibilità dell’aggiudicazione, potrebbe indire una nuova gara. Sollecitata a un nuovo intervento che tenesse conto delle conclusioni alle quali era pervenuta la Corte di giustizia, l’adunanza plenaria, con la sentenza 25 febbraio 2014, n. 9, è ritornata sulla questione e ha riconosciuto l’obbligo dell’esame (anche) del ricorso principale, pur successivamente alla riconosciuta fondatezza del ricorso incidentale escludente, ma ciò, attraverso una lettura restrittiva della regula iuris emergente dalla particolare fattispecie concreta esaminata dalla sentenza Fastweb, unicamente a condizione che: a) si versi all’interno del medesimo subprocedimento; b) gli operatori rimasti in gara siano soltanto due; c) il vizio che affligge le offerte sia identico per entrambe (cd. “simmetria invalidante”). A sua volta, la Corte di giustizia, adita dal Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana, si è nuovamente pronunciata su tali profili con la sentenza Puligienica [GS], C-689/13, 5 aprile 2016, affermando che i princìpi enunciati con la sentenza Fastweb del 2013 risultano applicabili anche nel caso di una gara con più di due concorrenti e a prescindere dal numero dei soggetti che hanno proposto ricorso e che l’interesse (strumentale) del ricorrente principale destinatario del ricorso incidentale escludente non deve essere ricollegato all’iniziativa giurisdizionale, bensì all’operato della stessa amministrazione, che potrebbe agire in autotutela, annullando l’intera procedura.

26. L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, a seguito di altre pronunce della Corte di giustizia (sez. ottava, Archus, C-131/16, 10 maggio 2017, e Bietergemeinschaft Technische Gebäudebetreuung e Caverion Österreich, C-355/15, 21 dicembre 2016) e a fronte di persistenti incertezze nella giurisprudenza nazionale sull’esatta applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza comunitaria, ha ritenuto di effettuare un nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, con cui ha dato atto, in primo luogo, di essersi allineata alla posizione del giudice comunitario sulla nozione di interesse strumentale alla ripetizione della gara: «a) nel caso in cui siano rimasti in gara unicamente due concorrenti e gli stessi propongano ricorsi reciprocamente escludenti»; b) anche in presenza di una pluralità di contendenti rimasti in gara, «ove il ricorso principale contenga motivi che, se accolti, comporterebbero il rinnovo della procedura in quanto: I) si censuri la regolarità della posizione – non soltanto dell’aggiudicatario e di tutti gli altri concorrenti rimasti in gara, collocati in posizione migliore della propria ma, anche – dei rimanenti concorrenti collocati in posizione deteriore; II) ovvero perché siano proposte censure avverso la lex specialis idonee, ove ritenute fondate, ad invalidare l’intera selezione evidenziale; c) in tali casi, si è raggiunta una piena concordanza di opinioni circa l’obbligatorietà dell’esame del ricorso principale, in quanto dall’accoglimento di quest’ultimo discenderebbe con certezza la caducazione integrale della gara e verrebbe così tutelato il subordinato interesse strumentale alla riedizione della procedura». A questo punto, l’adunanza plenaria ha tuttavia rappresentato alla Corte di giustizia che vi è «incertezza, viceversa, nell’evenienza in cui, essendo rimasti in gara una pluralità di contendenti: a) i ricorsi reciprocamente escludenti non riguardino la posizione di talune delle ditte rimaste in gara di guisa che, anche laddove entrambi i ricorsi (principale ed incidentale) siano scrutinati, e dichiarati fondati, rimarrebbero purtuttavia alcune offerte non “attinte” dai vizi riscontrati; b) al contempo, il ricorso principale non prospetti censure avverso la lex specialis estese ad invalidare l’intera gara e determinanti – ove accolte – la certa ripetizione della procedura». Per tale evenienza, il Consiglio di Stato ha in sostanza suggerito alla Corte di giustizia di leggere restrittivamente le pronunce Fastweb e Puligienica, facendo presente che, ove «tale obbligo di esame del ricorso principale andasse correlato ad una eventualità non meramente ipotetica di un intervento in autotutela dell’amministrazione che comporti la ripetizione della intera gara, per stabilire se procedere all’esame congiunto del ricorso principale e del ricorso incidentale si dovrebbe valutare in concreto se i vizi delle offerte prospettati come motivi di ricorso possano, in via astratta, dirsi comuni anche alle altre offerte rimaste estranee al giudizio, di modo che possa figurarsi, in ipotesi, un possibile intervento in autotutela dell’amministrazione idoneo a fondare l’interesse c.d. strumentale del ricorrente alla decisione del ricorso principale; in mancanza assoluta almeno di tale situazione strumentale non sembrerebbe trovare utile e ragionevole applicazione una interpretazione assoluta del diritto europeo sganciato da qualsivoglia interesse». Tutto ciò premesso, l’adunanza plenaria ha formulato il seguente quesito interpretativo: se le norme comunitarie regolanti la materia possano essere interpretate nel senso che esse consentano «che allorché alla gara abbiano partecipato più imprese e le stesse non siano state evocate in giudizio (e comunque avverso le offerte di talune di queste non sia stata proposta impugnazione) sia rimessa al Giudice, in virtù dell’autonomia processuale riconosciuta agli Stati membri, la valutazione della concretezza dell’interesse dedotto con il ricorso principale da parte del concorrente destinatario di un ricorso incidentale escludente reputato fondato, utilizzando gli strumenti processuali posti a disposizione dell’ordinamento, e rendendo così armonica la tutela di detta posizione soggettiva rispetto ai consolidati principi nazionali in punto di domanda di parte (art. 112 c.p.c.), prova dell’interesse affermato (art. 2697 cc), limiti soggettivi del giudicato che si forma soltanto tra le parti processuali e non può riguardare la posizione dei soggetti estranei alla lite (art. 2909 cc)».

27. Completamente adesiva alla posizione della Corte di giustizia è la recente ordinanza della Corte di cassazione, sez. unite, 19 settembre 2020, n. 19598, per come si dirà più diffusamente al paragrafo che segue.

28. Consiglio di Stato, adunanza plenaria, 2 aprile 2020, n. 10, punti 14.3. e 14.4 della motivazione (anche se la qualificazione siccome «troppo ampia» della concezione di interesse strumentale patrocinata dalla Corte di giustizia sembra disvelare la consapevolezza di fondo del suo non allineamento a quella fatta propria dalla Corte costituzionale).

29. Sui cd. controlimiti si vedano, tra le più recenti, l’ordinanza di rinvio pregiudiziale nel caso Taricco: «Il riconoscimento del primato del diritto dell’Unione è un dato acquisito nella giurisprudenza di questa Corte, ai sensi dell’art. 11 Cost.; questa stessa giurisprudenza ha altresì costantemente affermato che l’osservanza dei principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona è condizione perché il diritto dell’Unione possa essere applicato in Italia. Qualora si verificasse il caso, sommamente improbabile, che in specifiche ipotesi normative tale osservanza venga meno, sarebbe necessario dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge nazionale che ha autorizzato la ratifica e resi esecutivi i Trattati, per la sola parte in cui essa consente che quell’ipotesi normativa si realizzi (sentenze n. 232 del 1989, n. 170 del 1984 e n. 183 del 1973)» (ordinanza n. 24 del 2017); nonché la sentenza n. 238 del 2013 sull’immunità giurisdizionale degli Stati nel caso di crimini di guerra: «Non v’è dubbio, infatti, ed è stato confermato a più riprese da questa Corte, che i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un “limite all’ingresso (…) delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione” (sentenze n. 48 del 1979 e n. 73 del 2001) ed operino quali “controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n.170 del 1984, n. 232 del 1989, n. 168 del 1991, n. 284 del 2007), oltre che come limiti all’ingresso delle norme di esecuzione dei Patti Lateranensi e del Concordato (sentenze n. 18 del 1982, n. 32, n. 31 e n. 30 del 1971). Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (artt. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n. 1146 del 1988). In un sistema accentrato di controllo di costituzionalità, è pacifico che questa verifica di compatibilità spetta alla sola Corte costituzionale, con esclusione di qualsiasi altro giudice, anche in riferimento alle norme consuetudinarie internazionali. Vero è, infatti, che la competenza di questa Corte è determinata dal contrasto di una norma con una norma costituzionale e, ovviamente, con un principio fondamentale dell’assetto costituzionale dello Stato ovvero con un principio posto a tutela di un diritto inviolabile della persona, contrasto la cui valutazione non può competere ad altro giudice che al giudice costituzionale. Ogni soluzione diversa si scontra – nel sistema accentrato di controllo – con la competenza riservata dalla Costituzione a questa Corte, restando scolpito nella sua giurisprudenza, fin dal primo passo, che “La dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge non può essere fatta che dalla Corte costituzionale in conformità dell’art. 136 della stessa Costituzione” (sentenza n. 1 del 1956). Anche di recente, poi, questa Corte ha ribadito che la verifica di compatibilità con i principi fondamentali dell’assetto costituzionale e di tutela dei diritti umani è di sua esclusiva competenza (sentenza n. 284 del 2007); ed ancora, precisamente con riguardo al diritto di accesso alla giustizia (art. 24 Cost.), che il rispetto dei diritti fondamentali, così come l’attuazione di principi inderogabili, è assicurato dalla funzione di garanzia assegnata alla Corte costituzionale (sentenza n. 120 del 2014)» (sentenza n. 238 del 2013).

30. Sentenza n. 238 del 2013: «Fin dalla sentenza n. 98 del 1965 in materia comunitaria, questa Corte affermò che il diritto alla tutela giurisdizionale “è tra quelli inviolabili dell’uomo, che la Costituzione garantisce all’art. 2, come si arguisce anche dalla considerazione che se ne è fatta nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo” (punto 2. del Considerato in diritto). In una meno remota occasione, questa Corte non ha esitato ad ascrivere il diritto alla tutela giurisdizionale “tra i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale, in cui è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia l’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio” (sentenze n. 18 del 1982, nonché n. 82 del 1996). D’altra parte, in una prospettiva di effettività della tutela dei diritti inviolabili, questa Corte ha anche osservato che “al riconoscimento della titolarità di diritti non può non accompagnarsi il riconoscimento del potere di farli valere innanzi ad un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale”: pertanto, “l’azione in giudizio per la difesa dei propri diritti (…) è essa stessa il contenuto di un diritto, protetto dagli articoli 24 e 113 della Costituzione e da annoverarsi tra quelli inviolabili e caratterizzanti lo stato democratico di diritto” (sentenza n. 26 del 1999, nonché n. 120 del 2014, n. 386 del 2004 e n. 29 del 2003). Né è contestabile che il diritto al giudice ed a una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti inviolabili è sicuramente tra i grandi principi di civiltà giuridica in ogni sistema democratico del nostro tempo».

31. Che anche il processo amministrativo possa avere e spesso abbia ad oggetto diritti fondamentali della persona è ormai un dato acquisito che non ha bisogno di essere dimostrato (si pensi, a mero titolo esemplificativo, alle controversie sul sostegno scolastico ai disabili e a quelle sui provvedimenti, emergenziali e non, di organizzazione e svolgimento del sistema sanitario). Con la nota sentenza n. 140 del 2007, la Corte ha affermato che non esiste «alcun principio o norma nel nostro ordinamento che riservi esclusivamente al giudice ordinario – escludendone il giudice amministrativo – la tutela dei diritti costituzionalmente protetti».

32. Come nell’ipotesi classica dell’impugnazione di atti amministrativi da parte di altre amministrazioni pubbliche incise dal o coinvolte nell’esercizio del potere (tra le tante, Cass. civ., sez. unite, 19 luglio 2013, n. 17656; Cons. Stato, sez. VI, 27 dicembre 2012, n. 6834).

33. È il caso dell’art. 21-bis l. n. 287/1990, introdotto dall’art. 35, comma 1, dl 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla l. 22 dicembre 2011, n. 214, che attribuisce all’Agcm «la inedita posizione di parte processuale ricorrente per l’impugnazione davanti al giudice amministrativo degli atti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato» (sentenza n. 13 del 2019). Secondo F. Cintioli, Osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato e sulla legittimazione a ricorrere delle autorità indipendenti, in Federalismi, n. 6/2012, www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?artid=20213, l’Agcm, nell’esercizio di tale funzione, svolge il ruolo di «pubblico ministero» della concorrenza. Contra M.A. Sandulli, Introduzione a un dibattito sul nuovo potere di legittimazione al ricorso dell’AGCM nell’art. 21 bis, l. n. 287 del 1990, in Federalismi, n. 12/2012, www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?artid=20212, che vede nell’Agcm una parte titolare di un interesse differenziato, in quanto affidataria della cura dell’interesse pubblico alla tutela della concorrenza. È anche il caso, per citare uno degli esempi più rilevanti, dell’art. 211, commi 1-bis e 1-ter, del codice dei contratti pubblici, che legittimano l’Anac all’impugnazione, rispettivamente, dei bandi, degli altri atti generali e dei provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, emessi da qualsiasi stazione appaltante, qualora ritenga che essi violino le norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, e dei provvedimenti delle stazioni appaltanti viziati da gravi violazioni del codice dei contratti, ove l’amministrazione non abbia provveduto alla rimozione in via amministrativa.

34. Nell’importante arresto, la Corte ha negato all’Agcm la legittimazione a sollevare questioni di legittimità costituzionale, partendo dal riscontro della natura di parte processuale dell’Autorità e osservando che la «veste processuale di parte riflette, del resto, la natura del potere attribuito all’Autorità: una funzione amministrativa discrezionale, il cui esercizio comporta la ponderazione dell’interesse primario con gli altri interessi pubblici e privati in gioco. Essa, infatti, al pari di tutte le amministrazioni, è portatrice di un interesse pubblico specifico, che è quello alla tutela della concorrenza e del mercato (artt. 1 e 10 della legge n. 287 del 1990), e quindi non è in posizione di indifferenza e neutralità rispetto agli interessi e alle posizioni soggettive che vengono in rilievo nello svolgimento della sua attività istituzionale (si veda, in questo senso, già Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 29 maggio 1998, n. 988/97)». Sulle stesse coordinate si era già mossa l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 4 del 26 aprile 2018 (punto 19.3.5).

35. E. Bindi e A. Pisaneschi, La Corte costituzionale non consente la revocazione delle sentenze amministrative passate in giudicato per contrasto con la sentenza della Corte EDU, in Giustamm.it, n. 6/2017; R.G. Conti, L’esecuzione delle sentenze della Corte EDU nei processi penali dopo Corte cost. n. 123 del 2017, in Consulta on line, n. 2/2017, p. 333 (www.giurcost.org/studi/conti7.pdf); E. D’Alessandro, Il giudicato amministrativo (e quello civile) per ora non cedono all’impatto con la Corte europea dei diritti dell’uomo, in Foro it., n. 1/2017, c. 2186; F. Francario, La violazione del principio del giusto processo dichiarata dalla CEDU non è motivo di revocazione della sentenza passata in giudicato, in Federalismi, n. 13/2017, www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=34208; G.V.A. Petralia, Conflitto tra giudicato nazionale e sentenze delle Corti europee: nota a margine di Corte costituzionale n. 123/2017, in Rivista AIC, n. 4/2017, p. 1; A. Randazzo, A proposito della sorte del giudicato amministrativo contrario a pronunzie della Corte di Strasburgo (note minime alla sent. n. 123 della Corte costituzionale), in Osservatorio costituzionale, n. 3/2017, www.osservatorioaic.it/images/rivista/pdf/Randazzo%20-%20Definitivo.pdf; A. Travi, Pronunce della Corte di Strasburgo e revocazione delle sentenze: un punto fermo della Corte costituzionale, in Giur. cost., n. 3/2017, p. 1260.

36. R. Caponi, Corti europee e giudicati nazionali, relazione al XXVII Congresso nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, Verona, 25-26 settembre 2009, in Aa. Vv., Corti europee e giudici nazionali, Bononia University Press, Bologna, 2011, p. 270; V. Sciarabba, Il giudicato e la CEDU: profili di diritto costituzionale, internazionale e comparato, Cedam, Padova, 2012; G. Sorrenti, Crisi e tenuta del mito del giudicato nell’impatto con le condanne emesse a Strasburgo, in Federalismi, n. 2/2015, www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?artid=28680.

37. R. Caponi, Corti europee, op. cit.

38. A tale regola si può derogare, secondo la Corte Edu, quando non via siano rimedi interni, oppure quando l’imposizione dell’obbligo di adire i tribunali domestici si risolverebbe per la vittima convenzionale in un’attività inutile per via di una giurisprudenza consolidata in senso a essa sfavorevole. È noto, poi, che il progetto di riforma della Corte Edu atto a consentire anche il rinvio pregiudiziale interpretativo è allo stato fermo, poiché l’art. 5 del Protocollo addizionale n. 16 alla Cedu, che prevede tale strumento, non è ancora in vigore per mancanza del numero minimo di ratifiche (l’Italia lo ha sottoscritto ma non ratificato). Nella corrente legislatura sono stati presentati due progetti di legge (C. 1124 Governo e C. 35 Schullian), recanti ratifica ed esecuzione del Protocollo n. 15 e, per quanto qui rileva, del Protocollo n. 16; vds., sul punto, le numerose audizioni presso le Commissioni riunite Affari esteri e Giustizia della Camera dei deputati, tra cui, di particolare spessore critico, quella di M. Luciani. 

39. L’art. 35, par. 1, Cedu, recita: «La Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, come inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva». La Corte costituzionale, nella sentenza n. 113 del 2011, ha osservato al riguardo: «[s]i comprende, peraltro, come al fine di assicurare la restitutio in integrum della vittima della violazione, nei sensi indicati dalla Corte europea, occorre poter rimettere in discussione il giudicato già formatosi sulla vicenda giudiziaria sanzionata. L’avvenuto esaurimento dei rimedi interni rappresenta, infatti, condizione imprescindibile di legittimazione per il ricorso alla Corte di Strasburgo (art. 35, paragrafo 1, della Cedu): con la conseguenza che quest’ultima si pronuncia, in via di principio, su vicende già definite a livello interno con decisione irrevocabile».

40. Con l’ordinanza 4 marzo 2015, n. 2.

41. Il quale paragrafo impegna gli Stati contraenti «a conformarsi alle sentenze definitive della Corte [europea dei diritti dell’uomo] sulle controversie di cui sono parti»; il par. 2, invece, prevede che «la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei ministri che ne controlla l’esecuzione». L’art. 46, per come rimaneggiato dal Protocollo n. 14 alla Convenzione (ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 15 dicembre 2005, n. 280), prevede negli ulteriori paragrafi che il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa possa chiedere alla Corte di Strasburgo una decisione interpretativa, quando vi siano dubbi circa il contenuto di una sentenza definitiva in precedenza adottata, tali da ostacolare il controllo sulla sua esecuzione (par. 3); e che possa chiedere alla Corte una ulteriore pronuncia, la quale accerti l’avvenuta violazione dell’obbligo per una Parte contraente di conformarsi alle sue sentenze (parr. 4 e 5). «Viene introdotto, così, uno specifico procedimento di infrazione, atto a costituire un più incisivo mezzo di pressione nei confronti dello Stato convenuto» (sentenza n. 113 del 2011).
L’art. 46 è sempre stato letto, sia in dottrina che dalla giurisprudenza della Corte Edu, in combinato disposto con l’art. 41 della Cedu, a mente del quale «se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette che in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa». Si è a lungo ritenuto che tale combinato disposto attribuisse alla Corte Edu il solo potere di dichiarare la violazione degli obblighi convenzionali, con rimessione agli Stati contraenti della scelta discrezionale di come adempiere all’obbligo di conformarsi a tali pronunce, e che l’impossibilità di adempiere alla reintegrazione in forma specifica menzionata dall’art. 41 andasse intesa come impossibilità non solo materiale, ma anche giuridica («se il diritto interno dell’Alta Parte contraente»), in deroga al principio di diritto internazionale della priorità della riparazione in forma specifica. L’art. 41, cioè, pur manifestando apparentemente una preferenza verso la reintegrazione in forma specifica, avrebbe in realtà lasciato liberi gli Stati membri di prevederla o meno e di determinarne l’ambito di applicazione. Secondo questa originaria impostazione, dunque, il giudicato, costituendo una “impossibilità giuridica” di diritto interno, avrebbe ostato in ogni caso alla restitutio in integrum e imposto la via della condanna pecuniaria ad opera della Corte europea, che, per lungo tempo, in un atteggiamento di self-restraint, si è infatti dichiarata non competente a prescrivere o indicare le misure atte a garantire l’attuazione delle sue decisioni. Tale originaria lettura degli artt. 41 e 46 della Cedu ha poi ceduto il passo, con il crescere del processo di integrazione europea, a una interpretazione teleologico-funzionale volta ad ampliare la portata precettiva delle sentenze della Corte Edu e dell’obbligo convenzionale di conformazione. A partire dagli anni novanta e con una forte accelerazione attorno agli anni 2000, con «un ribaltamento di prospettiva» di cui si sono fatti promotori sia la Corte Edu che il Comitato dei Ministri, le sentenze della prima si sono andate arricchendo di livelli e contenuti, e ha ripreso quota l’idea della restitutio in integrum quale strumento prioritario di adempimento dell’obbligo convenzionale di conformazione, impedito dalla sola impossibilità materiale. Il presupposto logico di questa evoluzione è il rilievo che gli Stati contraenti si sono impegnati a rispettare le decisioni della Corte Edu rese nei giudizi in cui essi sono parti, e una sentenza che constata una violazione comporta per lo Stato convenuto l’obbligo giuridico, ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, di porre fine alla violazione e di eliminarne le conseguenze in modo da ristabilire per quanto possibile la situazione anteriore a quest’ultima. Sin dalla sentenza Grande Camera, Scozzari e Giunta c. Italia, 13 luglio 2000, la Corte Edu ha quindi ritenuto che l’obbligo di conformazione alle proprie sentenze implicasse, anche cumulativamente, a carico dello Stato condannato: 1) il pagamento dell’equa soddisfazione, ove attribuita dalla Corte ai sensi dell’art. 41 Cedu; 2) l’adozione di misure individuali necessarie, nel singolo caso, all’eliminazione delle conseguenze della violazione accertata; 3) l’introduzione di misure generali volte a far cessare la violazione derivante da un atto normativo o da prassi amministrative o giurisprudenziali e ad evitare violazioni future. Tale svolta risulta ritratta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 113 del 2011.

42. L’adunanza plenaria ripropone, cioè, le problematiche che la Corte costituzionale aveva già separatamente affrontato con riferimento al giudicato penale, rispettivamente, nelle note sentenze n. 129 del 2008, n. 113 del 2011 (sul caso Dorigo), e n. 210 del 2013 (sul caso “fratelli minori” di Scoppola).

43. Punto 2 del considerato in diritto della sent. n. 123/2017.

44. Vds. parr. 10-12 del considerato in diritto.

45. La Corte lo afferma chiaramente al punto 13 del considerato in diritto, ove si legge che la presenza di soggetti diversi dallo Stato che hanno preso parte al giudizio interno riguarda non solo i processi civili ma anche «quelli amministrativi, anch’essi caratterizzati dalla frequente partecipazione al giudizio di amministrazioni diverse dallo Stato, di parti resistenti private affidatarie di un munus pubblico e di controinteressati». Nella prospettiva della Corte, peraltro, non sembra rilevare la nozione allargata di “Stato” (ai fini Cedu, anche le autonomie locali sono Stato), ma una più ristretta che tenga conto della necessità di garantire la effettività del diritto costituzionale di difesa: da questo punto di vista, si potrebbero considerare Stato tutte le amministrazioni che, avvalendosi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, sono messe sostanzialmente in condizione, tramite essa, di fare valere le proprie ragioni a Strasburgo (nel caso delle sentenze Mottola e Staibano, l’Università degli Studi di Napoli e l’Inps non avevano partecipato al giudizio davanti alla Corte Edu e l’Inps nel giudizio davanti alla Corte costituzionale aveva eccepito di non aver potuto spiegare le proprie difese in ordine alla legittimità dell’art. 69, comma 7, d.lgs n. 165/2011). Quanto agli enti locali, non a caso il Tribunale ordinario di Bari ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 16-bis, comma 5, l. 4 febbraio 2005, n. 11, il quale prevede il diritto di rivalsa dello Stato nei confronti delle amministrazioni locali responsabili di violazioni della Cedu per gli oneri finanziari sostenuti in esecuzione delle sentenze di condanna rese dalla Corte di Strasburgo nei confronti dello Stato. La censura di violazione dell’art. 24 Cost., incentrata sul rilievo che gli enti locali subiscono una condanna resa nel giudizio a Strasburgo cui non hanno partecipato, è stata rigettata per «inconferenza del parametro costituzionale evocato», poiché la disposizione censurata «è volta a regolare il procedimento attraverso il quale viene esercitato il diritto statale di rivalsa nell’ordinamento interno, non già il diverso procedimento dinanzi alla Corte europea, nell’ambito del quale, ad avviso del rimettente, si sarebbe determinata la compressione del diritto di difesa dell’ente locale» (sentenza n. 219 del 2016). Non sembra poi utilmente spendibile l’osservazione critica che anche il processo penale conosce la parte civile costituita, che potrebbe non essere parte del processo convenzionale, sia perché quella parte ha un ruolo e dei poteri “minori” rispetto alle altre parti del processo penale, sia perché essa può scegliere la via dell’azione risarcitoria davanti al giudice civile (di guisa che le minori garanzie che incontra il suo diritto di difesa nel processo penale, in termini di resistenza del giudicato, sono frutto di una libera scelta processuale).

46. La Corte ha anche affermato, al riguardo, che «l’indicazione della riapertura del processo, quale misura atta a garantire la restitutio in integrum, è presente esclusivamente in sentenze rese nei confronti di Stati i cui ordinamenti interni già prevedono, in caso di violazione delle norme convenzionali, strumenti di revisione delle sentenze passate in giudicato (si vedano, tra le altre, le sentenze 22 novembre 2016, Artemenko contro Russia, paragrafo 34; 26 aprile 2016, Kardoš contro Croazia, paragrafo 67; 26 luglio 2011, T.Ç. e H.Ç contro Turchia, paragrafi 94 e 95; 20 dicembre 2007, Iosif e altri contro Romania, paragrafo 99; 20 dicembre 2007, Paykar Yev Haghtanak LTD contro Armenia, paragrafo 58; 10 agosto 2006, Yanakiev contro Bulgaria, paragrafo 90; 11 luglio 2006, Gurov contro Moldavia, paragrafo 43)». In dottrina, c’è chi ha osservato (R.G. Conti, L’esecuzione delle sentenze della Corte EDU, op. cit.) che tale affermazione risulterebbe smentita dalle pronunce della Corte Edu Tence c. Slovenia, 31 maggio 2016, e Perak c. Slovenia, 1° marzo 2016. L’osservazione, tuttavia, non sembra cogliere nel segno, non solo perché il caso della Slovenia risulta isolato nella giurisprudenza della Corte Edu, ma anche e soprattutto perché le citate pronunce non indicano la riapertura del processo come necessaria misura ripristinatoria individuale, ma contengono un invito, rivolto al legislatore, a prevedere una misura generale («the most appropriate form of redress in cases where it finds that an applicant has not had access to court in breach of Article 6 § 1 of the Convention would be for the legislature to provide for the possibility of reopening the proceedings and re-examining the case in keeping with all the requirements of a fair hearing»).

47. La Corte manifesta interesse alla risoluzione del problema quando afferma che anche «nel nostro ordinamento la riapertura del processo non penale, con il conseguente travolgimento del giudicato, esige una delicata ponderazione, alla luce dell’art. 24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi, e tale ponderazione spetta in via prioritaria al legislatore. In questa prospettiva, se è vero che non è irrilevante l’interesse statale ad una disciplina che eviti indennizzi a volte onerosi, per lesioni anche altrimenti riparabili, non si può sottacere che l’invito della Corte Edu potrebbe essere più facilmente recepito in presenza di un adeguato coinvolgimento dei terzi nel processo convenzionale» (par. 17 del considerato in diritto). Si legge, poi, nella sentenza n. 6 del 2018 (par. 14.1): «L’intervento delle sezioni unite, in sede di controllo di giurisdizione, nemmeno può essere giustificato dalla violazione di norme dell’Unione o della Cedu, non essendo peraltro chiaro, nell’ordinanza di rimessione e nella stessa giurisprudenza ivi richiamata, se ciò valga sempre ovvero solo in presenza di una sentenza sopravvenuta della Corte di giustizia o della Corte di Strasburgo. In ogni caso, ancora una volta, viene ricondotto al controllo di giurisdizione un motivo di illegittimità (sia pure particolarmente qualificata), motivo sulla cui estraneità all’istituto in esame non è il caso di tornare. Rimane il fatto che, specialmente nell’ipotesi di sopravvenienza di una decisione contraria delle Corti sovranazionali, il problema indubbiamente esiste, ma deve trovare la sua soluzione all’interno di ciascuna giurisdizione, eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all’art. 395 cod. proc. civ., come auspicato da questa Corte con riferimento alle sentenze della Corte Edu (sentenza n. 123 del 2017)».

48. Al par. 16 la Corte analizza le soluzioni introdotte in Germania, Spagna e Francia.

49. La giurisprudenza convenzionale sull’art. 46, par. 1, Cedu e sulla portata dell’obbligo di riapertura dei processi (penali e non) appare obiettivamente oscillante, ambigua e di difficile lettura. Una testimonianza significativa di ciò si rinviene nella lettura delle opinioni dissenzienti nella sentenza della Grande Camera Moreira Ferreira c. Portogallo (n. 2), 11 luglio 2017, di cui si dirà appresso: al par. 18 della dissenting opinion del giudice Pinto De Albuquerque (condivisa dai giudici Karakas, Sajò, Lazarova Trajkovska, Tsotsoria, Vehabovic e Kuris) si stigmatizza, proprio con riferimento alla portata dell’art. 46 e alla riapertura dei processi, come «the variety of formulae present in the case-law not only raises an issue of lack of readability of the judgment and consequently of legal certainty, but also undermines the full and effective enforcement of the Court’s judgments». L’ambiguità della giurisprudenza della Corte Edu sulla riapertura dei processi è stigmatizzata anche nell’opinione dissenziente del giudice Kuris (condivisa dai giudici Sajò, Tsotsoria e Vehabobic): «2. The language used by the Court throughout its case-law “recommending” that respondent States, after the Court has found a violation of Article 6, conduct a retrial or to reopen proceedings has often been too tentative and therefore somewhat uneven, confusing and inconsistent with the substance of the message it wished to convey to the States concerned.[163] The Court’s stance which that language reveals, or sometimes effectively conceals, may also be seen as confusing, at least in some cases».

50. Sentenze nn. 49 del 2015 e 348 del 2007.

51. Questo sembra essere il vero senso dell’auspicio rivolto al legislatore: la Corte Edu, dal lato suo, ha il compito di aprire sistematicamente al terzo, ma questi deve anche essere avvisato della pendenza del processo convenzionale per decidere se parteciparvi o meno. Vds. nota 44.

52. Coglie il punto A. Travi, Pronunce della Corte di Strasburgo e revocazione delle sentenze, op. cit., che, a proposito del rilievo del deficit di tutela del terzo nel processo convenzionale contenuto nella sentenza n. 123 del 2017, osserva: «la Corte costituzionale non formula un’osservazione ultronea, né tanto meno polemica, ma mette in luce che nel nostro ordinamento una previsione che preveda il travolgimento del giudicato, per la necessità di rispettare una pronuncia della Corte di Strasburgo cui non abbiano potuto partecipare tutte le parti del giudizio nazionale, solleverebbe a sua volta problemi gravi, anche di legittimità costituzionale».

53. Questa è la soluzione adottata dal legislatore spagnolo, dove nel 2015 si è introdotta la revocazione in via legislativa, ma sempre a condizione che non pregiudichi i terzi in buona fede. Si veda, al riguardo, il quaderno redatto dall’Ufficio studi della Corte costituzionale, Gli effetti delle sentenze di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo sulle sentenze dei giudici nazionali passati in giudicato, a cura di P. Passaglia, con contributi di C. Guerrero Picò, S. Passetto, M. T. Rorig, C. Torrisi, reperibile sul sito web della Corte.

54. La Corte si rivolge sia agli Stati membri che alla Corte Edu, auspicando una sistematica apertura del processo convenzionale ai terzi «per mutamento delle fonti convenzionali o in forza di una loro interpretazione adeguatrice», ma è evidente che la seconda via è molto meno accidentata e complessa.

55. La sentenza non fornisce ulteriori specificazioni sul tipo di intervento legislativo auspicato, ma nell’ottica cennata pare che la Corte abbia in mente il caso della Germania, dove il legislatore ha dettato norme per assicurare il patrocinio ai terzi non abbienti dinanzi alla Corte Edu e dove l’agente del Governo informa i terzi medesimi, ove appaia chiaro che i loro interessi possano essere pregiudicati nel processo convenzionale, all’evidente fine di consentirne l’intervento in giudizio (così l’«Overview of the exchange of views held at the 8th meeting of DH-GDR on the provision in the domestic legal order for the re-examination or reopening of cases following judgments of the Court», Strasburgo, 12 febbraio 2016, https://rm.coe.int/CoERMPublicCommonSearchServices/DisplayDCTMContent?documentId=0900001680654d5a). In questo senso vds. E. Bindi e A. Pisaneschi, La Corte costituzionale non consente la revocazione, op. cit. È ovvio, peraltro, che questi accorgimenti non potrebbero ritenersi sufficienti a scongiurare la violazione dell’art. 24 Cost., laddove l’intervento in giudizio venga poi tentato ma non ammesso dalla Corte Edu, cui, in definitiva, anche da questa angolazione, spetta il compito primario di tutelare il terzo.

56. A seguito della sentenza della Corte Edu Zhou c. Italia, 21 gennaio 2014, con cui si è accertata la violazione dell’art. 8 Cedu, sul rilievo che, a salvaguardia del rispetto della vita familiare da ingerenze non giustificate, le autorità italiane, prima di disporre l’affidamento del minore e avviare una procedura di adottabilità, avrebbero dovuto prendere misure concrete per permettergli di vivere con la madre, occorrendo preservare, per quanto possibile, il legame tra gli stessi e favorirne lo sviluppo.

57. Si tratta dell’opinione del giudice Wojtyczek: «7. The question of the effects of the Court’s judgments is intrinsically linked to the question of the procedure before the Court. All procedural rules must be suited to the purpose and object of the proceedings and must ensure effective protection of the legitimate interests of all the parties concerned. Moreover, they must guarantee the undisputed procedural legitimacy of the decisions given. Procedural justice requires in particular that all the persons concerned by the outcome of the proceedings are guaranteed the right to be heard. As Seneca observed in Medea: Qui statuit aliquid parte inaudita altera, aequum licet statuerit, haud aequus fuit. The more far-reaching the effects of the Court’s judgments the more vital it is to ensure that all the persons concerned have the right to be heard. Developments in case-law and practice regarding the effects and execution of the Court’s judgments may call for adjustments to be made to the applicable procedural rules (…) The Convention does not guarantee the other parties to domestic proceedings who are concerned by the impugned judicial decision the right to be heard by the Court. It is true that under Article 36 § 2 of the Convention, as supplemented by Rule 44 § 3 of the Rules of Court, the President of the Chamber may, in the interests of the proper administration of justice, authorise or invite any person concerned who is not the applicant to submit written comments or, in exceptional circumstances, to take part in the hearing. The Court sometimes makes use of this possibility, in particular in cases dealing with family law. The approach adopted strikes me as inadequate, as the option, left to the discretion of the President of the Chamber, of hearing the views of a person who is concerned does not equate to a guarantee of the right to be heard. It is not always used where the rights of third parties are concerned. When sitting in cases dealing with violations of the Convention in civil proceedings or arising from a judicial decision in a civil case, I invariably wonder whether the other parties concerned should not be granted the right to submit observations to the Court. Is it right to give a decision without hearing the other parties concerned? Ensuring that they have the right to be heard would not only give greater effect to the principles of procedural justice, but in many cases would also afford greater insight into the issues under examination. Given the case-law developments referred to above, the rules applicable to the procedure for the examination of applications by the Court do not confer a sufficient degree of procedural legitimacy on the decisions given. Against that background, it is time to rethink the procedure before the Court in order better to adapt it to the requirements of procedural justice».

58. «66. The Court emphasises that its assessment of the Bochan (no. 2) case (cited above) focused on issues relating to the civil aspect of Article 6 of the Convention However, there are significant differences between civil and criminal proceedings. 67. The Court considers that the rights of persons accused of or charged with a criminal offence require greater protection than the rights of parties to civil proceedings. The principles and standards applicable to criminal proceedings must therefore be laid down with particular clarity and precision. Lastly, whereas in civil proceedings the rights of one party may conflict with the rights of the other party, no such considerations stand in the way of measures taken in favour of persons who have been accused, charged or convicted, notwithstanding the rights which the victims of offences might seek to uphold before the domestic courts».

59. «60. The Court reiterates that in Bochan (no. 2) (cited above) it considered the issue of the applicability of Article 6 to remedies concerning the reopening of civil proceedings which had been concluded by final judicial decisions. The principles set out by the Court in that case may be summarised as follows: (a) According to long-standing and established case-law, the Convention does not guarantee a right to have a terminated case reopened. Extraordinary remedies by which the reopening of terminated judicial proceedings may be sought do not normally involve the determination of “civil rights and obligations” or of “any criminal charge” and therefore Article 6 is deemed inapplicable to them. This approach has also been followed in cases where the reopening of terminated domestic judicial proceedings has been sought on the ground of a finding by the Court of a violation of the Convention (ibid., §§ 44‑45, with the references therein). (b) However, should an extraordinary remedy lead automatically or in the specific circumstances to a full reconsideration of the case, Article 6 applies in the usual way to the “reconsideration” proceedings. Moreover, Article 6 has also been found to be applicable in certain instances where the proceedings, although characterised as “extraordinary” or “exceptional” in domestic law, were deemed to be similar in nature and scope to ordinary appeal proceedings, the national characterisation of the proceedings not being regarded as decisive for the issue of applicability (ibid., §§ 46-47). (c) In sum, while Article 6 § 1 is not normally applicable to extraordinary remedies by which the reopening of terminated judicial proceedings may be sought, the nature, scope and specific features of the relevant procedure in the legal system concerned may be such as to bring the procedure within the ambit of Article 6 § 1 and of the safeguards of a fair trial which that provision affords to litigants (ibid., § 50)».

60. M. Branca, L’esecuzione della sentenza CEDU e la riapertura del processo civile o amministrativo: Corte cost. n. 123 del 2017, n. 6 e n. 93 del 2018, in Giur. cost., n. 3/2018, p. 1521; F. Dal Canto, Il ricorso in Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione dinanzi alla Corte costituzionale, ivi, p. 1537; M. Mazzamuto, Il giudice delle leggi conferma il pluralismo delle giurisdizioni, in Giur. it., n. 3/2018, p. 704; D. Ponte, Un segnale che punta a responsabilizzare gli attori del processo, in Guida al diritto, n. 8/2018, p. 90; L. Salvato, I limiti strutturali del sindacato di legittimità e le principali cause di inammissibilità “sostanziale” della questione di legittimità, in Forum di Quad. cost. (paper), 16 maggio 2018, www.forumcostituzionale.it/wordpress/?p=10514; G. Sigismondi, Questioni di legittimità costituzionale per contrasto con le sentenze della Corte EDU e ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione contro le sentenze dei giudici speciali: la Corte costituzionale pone altri punti fermi, in Giur. cost., n. 1/2018, p. 122; P.L. Tomaiuoli, L’“altolà” della Corte costituzionale alla giurisdizione dinamica (a margine della sentenza n. 6 del 2018), in Consulta on line, n. 1/2018; A. Travi, Un intervento della Corte costituzionale sulla concezione “funzionale” delle questioni di giurisdizione accolta dalla Corte di cassazione, in Dir. proc. amm., n. 3/2018, p. 111.

61. Per una più compiuta analisi delle sentenze delle sezioni unite espressione dell’orientamento tradizionale e di quello evolutivo, sia consentito rimandare a P.L. Tomaiuoli, L’“altolà” della Corte costituzionale, op. cit.

62. R. De Nictolis, L’eccesso di potere giurisdizionale (tra ricorso per “i soli motivi inerenti alla giurisdizione” e ricorso per “violazione di legge”), pubblicazione su portale, 22 maggio 2017, www.sipotra.it/old/wp-content/uploads/2017/06/L%E2%80%99eccesso-di-potere-giurisdizionale.pdf; F. Dinelli e G. Palazzesi, Sindacato per motivi di giurisdizione – La tendenza all’estensione del sindacato per motivi di giurisdizione: una “innovativa conferma”, in Giur. it, n. 4/2015, p. 939; M. D’Orsogna, Il ricorso per Cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, in A. Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Giuffrè, Milano, 2005, p. 920; F. Elefante, Un conflitto di attribuzione sulla c.d. pregiudizialità amministrativa?, in Foro amm. TAR, n. 1/2008, p. 305; V. Fanti, La «rivoluzione» operata dalla Corte di cassazione sulla giurisdizione del Giudice amministrativo in tema di pregiudiziale amministrativa, in Dir. proc. amm., n. 1/2007, p. 145; S. Fantini, La pregiudiziale amministrativa come “!””””motivo inerente alla giurisdizione”, in Urb. e app., n. 5/2009, p. 548; M. Mazzamuto, L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. proc. amm., n. 4/2012, p. 1677; A. Travi, Intervento al seminario di studi sul tema “Eccesso di potere giurisdizionale e diniego della giurisdizione dei giudici speciali al vaglio delle Sezioni Unite della Cassazione”, Roma, Corte di cassazione, 21 settembre 2017; A. Travi, La Corte regolatrice della giurisdizione e la tutela del cittadino, in Corr. giur., n. 8/2006, p. 1041; B. Sassani, Sindacato sulla motivazione e giurisdizione: complice la translatio, le Sezioni Unite riscrivono l’articolo 111 della Costituzione, in Dir. proc. amm., n. 4/2012, p. 1583; R. Vaccarella, I confini della giurisdizione (tra giudice ordinario e giudice amministrativo), in Judicium, 26 marzo 2012, www.judicium.it/wp-content/uploads/saggi/272/Vaccarella.pdf; G. Verde, La Corte di cassazione e i conflitti di giurisdizione (appunti per un dibattito), in Dir. proc. amm., n. 2/2013, p. 367; G. Verde, L’Adunanza plenaria n. 12/2007 dal punto di vista del processualista, in Corr. giur., n. 6/2008, p. 879; R. Villata, Sui “motivi inerenti alla giurisdizione”, in Riv. dir. proc., n. 3/2015, p. 632; Id., La giurisdizione amministrativa e il suo processo sopravviveranno ai “Cavalieri dell’apocalisse”?, ivi, n. 1/2017, p. 106; Id., Giustizia amministrativa e giurisdizione unica, ivi, n. 2/2014, p. 285; R. Villata, “Lunga marcia della Cassazione” verso la giurisdizione unica (“dimenticando” l’art. 103 della Costituzione)?, ivi, n. 1/2013, p. 324; Id., Corte di cassazione, Consiglio di Stato e c.d. pregiudiziale amministrativa, in Dir. proc. amm., n. 4/2009, p. 897. In senso problematico, R. Rodorf, Il rifiuto di giurisdizione, Corte di cassazione, Roma, 21 settembre 2017, il quale afferma: «La giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione, a partire dall’ultimo decennio circa, ha dato segno – sia pure con molta cautela e sempre in relazione a situazioni ben determinate – di volersi spingere un po’ oltre il confine tradizionalmente segnato dalla già accennata distinzione tra limiti interni ed esterni; o forse si potrebbe dire che ha manifestato talvolta una certa tendenza a spostare quei limiti un po’ più in là»; nello stesso senso, P. Vittoria, Sparse considerazioni in tema di giurisdizione, in Corr. giur., n. 8/2007, p. 1041. È invece apertamente favorevole al nuovo corso A. Lamorgese, Eccesso di potere giurisdizionale e sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, Corte di cassazione, Roma, 21 settembre 2017 (www.corteconti.it/Download?id=077a7e36-9aa7-4a6b-bbd9-26a120b5fbb8), in quanto l’ampliamento del concetto di motivi inerenti alla giurisdizione sarebbe espressione del tendenziale orientamento del Costituente a favore della giurisdizione unica (dello stesso Autore, vds. anche L’eccesso di potere giurisdizionale e il diritto eurounitario, in questa Rivista online, 18 aprile 2017, www.questionegiustizia.it/articolo/l-eccesso-di-potere-giurisdizionale-e-il-diritto-eurounitario_18-04-2017.php); favorevole, ma solo per il caso di abnormità della decisione, M.A. Sandulli, A proposito del sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni dei giudici amministrativi, pubblicazione su portale, 6 giugno 2017, www.sipotra.it/old/wp-content/uploads/2017/06/A-proposito-del-sindacato-della-Corte-di-cassazione-sulle-decisioni-dei-giudici-amministrativi.pdf.

63. M. Mazzamuto, L’eccesso di potere giurisdizionale, op. cit.: «Non poteva dunque mancare un intervento anche sull’art. 111 Cost., sia perché si tratta di uno dei tasselli fondamentali nell’assetto dell’ordinamento giurisdizionale, sia perché il sindacato sulle pronunce dei giudici speciali è oggetto di una previsione costituzionale, rimessa dunque, in ultima istanza, all’interpretazione del giudice delle leggi. Ed un siffatto intervento appariva tanto più ineludibile di fronte alla valenza sistematica che avevano sembrato ormai assumere i nuovi orientamenti del giudice della giurisdizione». Nonché L. Salvato, I limiti strutturali del sindacato di legittimità, op. cit.: «La Corte ha ritenuto incompatibile con l’art. 111, ottavo comma, Cost. l’interpretazione c.d. “evolutiva” della giurisdizione accolta dal rimettente e ciò ha fatto muovendo dalla premessa che la verifica di detta tesi doveva essere più stringente. Il relativo accertamento, secondo la sentenza, implica infatti l’interpretazione delle norme costituzionali (art. 111, settimo ed ottavo comma, Cost.) che “regolano i confini e l’assetto complessivo dei plessi giurisdizionali” e, proprio per questo, rientra nella sua competenza naturale, in quanto garante ed interprete ultimo della Costituzione».

64. Sugli stringenti passaggi motivazionali della Corte si veda M. Mazzamuto, L’eccesso di potere giurisdizionale, op. cit.: «In tal senso, viene anzitutto messo in evidenza il dato esegetico. L’art. 111, riguardo alla impugnabilità delle pronunce del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, fa significativamente riferimento ai “soli” motivi inerenti alla giurisdizione, mentre, per altri giudici, lo stesso articolo configura il ricorso in cassazione per violazione di legge. Ma l’argomento principale rimane quello sistematico, ovvero sia “la scelta di fondo dei Costituenti dell’assetto pluralistico delle giurisdizioni”, di cui la citata previsione dell’art. 111, correttamente interpretata, costituisce, tra altri, un naturale quanto ineludibile corollario»; nonché A. Travi, Un intervento della Corte costituzionale, op. cit.: «La Corte costituzionale, nella sentenza in esame, dichiarando inammissibile la questione sollevata dalle Sezioni unite, ha confutato anche la tesi che ne rappresentava il presupposto, rappresentata da una lettura “evolutiva” dell’art. 111, comma 8, Cost.: una lettura del genere “non è compatibile con la lettera e lo spirito della norma costituzionale”. Le considerazioni svolte in proposito dalla Corte costituzionale, come la genesi della disposizione costituzionale, la chiarezza del suo testo, la codificazione in essa di una nozione tipica di “motivi inerenti alla giurisdizione”, l’insufficienza dell’argomento ‘evolutivo’ e la sua sostanziale arbitrarietà, l’assoluta debolezza da ultimo dell’argomento ‘quantitativo’, mi sembrano tutte evidenti e non richiedono perciò particolare illustrazione».

65. Punti 14 e 14.1 del considerato in diritto.

66. Punti 15 e 16 del considerato in diritto.

67. P.L. Tomaiuoli, L’“altolà” della Corte costituzionale, op. cit.

68. Sez. unite, 19 luglio 2019, n. 19283. 

69. Tra le tante sentenze, si vedano 21 agosto 2020, n. 17580; 26 maggio 2020, n. 9775; 13 maggio 2020, nn. 8842 e 8843, ove si legge: «La sentenza della Corte costituzionale, nella parte sopra richiamata, benché abbia dichiarato inammissibile la questione scrutinata, ha carattere vincolante, dato che detta pronuncia ha identificato gli ambiti dei poteri attribuiti alle differenti giurisdizioni dalla Costituzione, nonché i presupposti ed i limiti del ricorso ex art. 111 Cost., comma 8, così decidendo una questione che involge l’interpretazione di norme costituzionali e l’identificazione dei confini tra poteri da queste stabiliti (con riguardo a quelli tra le giurisdizioni contemplate dal parametro), che non può non spettare alla Corte costituzionale, quale interprete ultimo delle norme costituzionali»; nonché 13 marzo 2020, n. 7215; 18 giugno 2019, n. 16338; 14 giugno 2019, n. 15992; 12 giugno 2019, n. 15744; 16 maggio 2019, n. 13243; 25 marzo 2019, n. 8311; 20 marzo 2019, n. 7926; 19 dicembre 2018, n. 32773; 17 dicembre 2018, n. 32621; 30 luglio 2018, n. 20168.

70. Sez. unite, 10 giugno 2020, n. 11125.

71. Si vedano, infra, le note 74 e 75.

72. Sulla inconfigurabilità di un motivo inerente alla giurisdizione anche ove l’error in iudicando cada su norma di diritto dell’Unione, si vedano, dopo la sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, Cass. civ., sez. unite, 21 agosto 2020, n. 17580; Cass. civ., sez. unite, 6 marzo 2020, n. 64601 e Cass. civ., sez. unite, 6 maggio 2019, n. 13243, citata dalla stessa ordinanza.

73. Il riferimento, in particolare, è alle radicali affermazioni secondo cui il giudice nazionale che decida una controversia facendo applicazione di una norma interna in violazione del diritto dell’Unione eserciti, per ciò solo, un’attività «di produzione normativa» non consentita neanche al legislatore nazionale (affermazione che in realtà sembra utile alle sezioni unite per poi predicare, come si dirà appresso, un’improbabile assimilazione del caso di specie all’invasione della sfera del legislatore), e che nelle materie interessate dal diritto dell’Unione la giurisdizione esisterebbe «esclusivamente» in funzione dell’applicazione di quel diritto.

74. Cgue [GS], Unibet, C-432-05, 13 marzo 2007: «39. Occorre altresì ricordare che, in mancanza di una disciplina comunitaria in materia, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario (v., in particolare, sentenze citate Rewe, punto 5; Comet, punto 13; Peterbroeck, punto 12; 20 settembre 2001, causa C-453/99, Courage e Crehan, Racc. pag. I-6297, punto 29, nonché 11 settembre 2003, causa C-13/01, Safalero, Racc. pag. I-8679, punto 49). 40. Infatti, nonostante il Trattato CE abbia istituito un certo numero di azioni dirette che possono essere eventualmente esperite dai singoli dinanzi al giudice comunitario, detto Trattato non ha comunque inteso creare mezzi d’impugnazione esperibili dinanzi ai giudici nazionali, onde salvaguardare il diritto comunitario, diversi da quelli già contemplati dal diritto nazionale (sentenza 7 luglio 1981, causa 158/80, Rewe, Racc. pag. 1805, punto 44). 41. La situazione sarebbe diversa solo se risultasse dall’economia dell’ordinamento giuridico nazionale in questione che non esiste alcun rimedio giurisdizionale che permetta, anche in via incidentale, di garantire il rispetto dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario (v., in tal senso, sentenza 16 dicembre 1976, Rewe, cit., punto 5, e sentenze citate Comet, punto 16, nonché Factortame e a., punti 19-23). 42. Pertanto, anche se in via di principio spetta al diritto nazionale determinare la legittimazione e l’interesse ad agire di un singolo, il diritto comunitario richiede tuttavia che la normativa nazionale non leda il diritto ad una effettiva tutela giurisdizionale (v., in particolare, sentenze 11 luglio 1991, cause riunite da C-87/90 a C-89/90, Verholen e a., Racc. pag. I-3757, punto 24, e Safalero, cit., punto 50). Spetta infatti agli Stati membri prevedere un sistema di rimedi giurisdizionali e di procedimenti inteso a garantire il rispetto di tale diritto (sentenza Unión de Pequeños Agricultores/Consiglio, cit., punto 41). 43. A tale riguardo, le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza), né devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (v., in particolare, sentenza 16 dicembre 1976, Rewe, cit., punto 5, e sentenze citate Comet, punti 13-16; Peterbroeck, punto 12; Courage e Crehan, punto 29; Eribrand, punto 62, nonché Safalero, punto 49)».

75. Cgue, sez. prima, Abdelhafid Bensada Benallal, C-161/15, 17 marzo 2016: «[s]i deve ricordare che, secondo una giurisprudenza costante della Corte, il principio di equivalenza presuppone che la norma nazionale controversa si applichi indifferentemente ai ricorsi fondati sui diritti che i singoli traggono dal diritto dell’Unione e a quelli fondati sull’inosservanza del diritto interno aventi un oggetto e una causa analoghi (sentenza del 27 giugno 2013, Agrokonsulting-04, C-93/12, EU:C:2013:432, punto 39). Il rispetto di tale principio presuppone un pari trattamento dei ricorsi basati su una violazione del diritto nazionale e di quelli, analoghi, basati su una violazione del diritto dell’Unione (sentenza del 6 ottobre 2015, Târșia, C-69/14, EU:C:2015:662, punto 34)».

76. Si vedano le sentenze della Corte di giustizia riportate alle note 74 e 75, ove il termine di comparazione viene individuato nei «ricorsi analoghi di natura interna».

77. Per una ipotesi in cui le sezioni unite hanno escluso che la violazione del diritto dell’Unione sia sindacabile quale sconfinamento nell’attività legislativa, vds. la sentenza 17 gennaio 2017, n. 956. Più in generale, sulla eccezionalità della cd. invasione della sfera legislativa, si vedano, tra le altre, le decisioni delle sez. unite, 15 aprile 2020, n. 7839; 19 marzo 2020, n. 7453; 13 marzo 2020, n. 7215; 14 gennaio 2020, n. 413; 20 aprile 2017, n. 9967; 10 aprile 2017, n. 4094; 27 marzo 2017, n. 7758; 21 marzo 2017, n. 7157; 1° febbraio 2016, n. 1840; 21 novembre 2011, n. 24411.

78. Tra le tante, Cass. civ., sez. unite, 4 febbraio 2014, n. 2403: «Certo, può accadere che la decisione del giudice amministrativo di ultima istanza contenga una violazione del diritto comunitario in pregiudizio di situazioni giuridiche soggettive protette dal diritto dell’Unione. Ma il principio di effettività della tutela in presenza di danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario imputabili al giudice amministrativo di ultima istanza non impone né di riaprire quella controversia ormai definitivamente giudicata negli aspetti di merito né di attribuire alla parte soccombente un nuovo grado di impugnazione dinanzi al giudice regolatore della giurisdizione al fine di rimediare ad un errore che, pur “sufficientemente caratterizzato”, non si traduca in uno sconfinamento dai limiti della giurisdizione devoluta al giudice amministrativo. L’ordinamento conosce infatti, là dove la violazione del diritto comunitario sia grave e manifesta, altri strumenti di tutela, secondo una logica di compensazione solidaristica»; nello stesso senso, tra le tante, sez. unite, 17 novembre 2015, n. 23460: «Del resto l’ordinamento giuridico interno assicura comunque un’effettività di tutela rispetto al pregiudizio ipoteticamente subito a fronte della lesione di un diritto riconosciuto dal Trattato europeo, ben potendo il preteso danneggiato ottenere il relativo ristoro in sede risarcitoria (Cass. S.U. 5 luglio 2013 n. 16886)»; nonché sez. unite, 4 febbraio 2014, n. 2403 e 5 luglio 2013, n. 16886. Si vedano anche F. Dinelli e G. Palazzesi, Sindacato per motivi di giurisdizione, op. cit.

79. Così Cgue [GS], Unibet, cit., riportata alla nota 74.

80. Sez. unite, 17 novembre 2015, n. 23460. Sia consentito anche rinviare a P.L. Tomaiuoli, L’“altolà” della Corte costituzionale, op. cit., pp. 10 ss.

81. Sez. unite, 1° marzo 2012, n. 3236. 

82. Tra le tante pronunce delle sezioni unite, si vedano: 6 marzo 2020, n. 6460, secondo cui: «[n]eppure può accedersi alla richiesta di rinvio pregiudiziale: la quale inutilmente si fonda (Cass. Sez. U. 22/5/2017, n. 12796) sulla denuncia dei medesimi vizi dedotti nei mezzi di censura ed attinenti alle modalità con le quali il Consiglio di Stato ha esercitato la propria giurisdizione nell’interpretazione delle norme alla stregua dei parametri europeo e costituzionale: da un lato, tale richiesta così postula la soluzione, in senso favorevole alla ricorrente, di questioni sulle quali, come si è appena detto, questa Corte è priva di potestà di sindacato e sarebbe quindi non pertinente (o, con terminologia nazionale, irrilevante); e, dall’altro lato, difetta in radice il potere di questa Corte di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, omesso dal Consiglio di Stato nella sentenza impugnata, siccome spetta a queste Sezioni Unite solo di vagliarne il rispetto dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, senza che, su tale attribuzione di controllo, siano evidenziabili norme dell’Unione Europea su cui possano ipotizzarsi quesiti interpretativi (Cass. Sez. U. 08/07/2016, n. 14042; Cass. Sez. U. 19/09/2017, n. 21617)»; nonché 18 dicembre 2018, n. 32622; 15 novembre 2018, n. 29391; 17 dicembre 2017, n. 30301; 17 gennaio 2017, n. 956; 14 dicembre 2016, n. 2403; 20 maggio 2016, n. 10501; 8 luglio 2016, n. 14042; 17 novembre 2015, n. 23460; 4 febbraio 2014, n. 2403; 20 gennaio 2014, n. 1013; 05 luglio 2013, n. 16886; 1° marzo 2012, n. 3236.

83. Dal momento che, secondo la Corte di giustizia, la chiarezza della norma o della sua interpretazione giurisprudenziale, pur esonerando il giudice di ultima istanza dall’obbligo di rinvio pregiudiziale, non conduce a una pronuncia di inammissibilità, «Quanto all’asserita chiarezza della soluzione della questione sollevata, occorre ricordare che, quando la soluzione di una questione pregiudiziale può essere chiaramente dedotta dalla giurisprudenza o quando essa non dà adito ad alcun ragionevole dubbio, da un lato, il giudice le cui decisioni non sono impugnabili non ha l’obbligo, in talune circostanze, di sollevare una questione pregiudiziale (v., in questo senso, sentenze 6 ottobre 1982, causa 283/81, Cilfit e a., punti 14 e 16-20) e, dall’altro, la Corte può statuire con ordinanza motivata conformemente all’art. 104, n. 3, del regolamento di procedura. Tuttavia tali circostanze non vietano in alcun modo al giudice nazionale di sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale (v., in tal senso, citata sentenza Cilfit e a., punto 15) e non hanno per effetto di rendere la Corte incompetente a statuire su una siffatta questione» (Cgue, Unión General de Trabajadores de La Rioja, da C-428/06 a C-434/06, 11 settembre 2008).

84. Il modello della Dia è stato in seguito recepito dall’art. 12 d.lgs 29 dicembre 2003, n. 387, in materia di promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili; dagli artt. 87 e 87-bis d.lgs 1° agosto 2003, n. 259, in materia di comunicazioni elettroniche; dall’art. 38 dl 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2008, n. 133, in materia di attività produttive, e dagli artt. 8, 17 e 64 d.lgs 26 marzo 2010, n. 59, di attuazione della cd. “direttiva servizi”, in materia di attività imprenditoriali e professionali. Il modello della Scia è stato recepito dal dPR 9 luglio 2010, n. 159, in materia di accreditamento delle agenzie delle imprese, e dal dPR 7 settembre 2010, n. 160, in tema di sportello unico delle attività produttive. Sul tema dell’applicabilità di detto modello alla materia edilizia è intervenuto l’art. 5 dl 13 maggio 2011, n. 70, convertito dalla l. 12 luglio 2011, n. 106. Ulteriori modifiche al regime dell’istituto sono state apportate dall’art. 2 dl 9 febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 35/2012; dal dl 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 134/2012; dal dl 24 giugno 2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 116/2014 e, infine, dal dl 12 settembre 2014, n. 133, cd. “sblocca-Italia”, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 164/2014.

85. Per l’esercizio delle attività di impianti produttivi di beni e di prestazioni di servizi di cui alla direttiva 2006/123/CE, compresi gli atti che dispongono l’iscrizione in albi o ruoli o registri a efficacia abilitante.

86. «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica».

87. Cons. Stato, Commissione speciale, parere n. 839 del 2016 sullo «schema di decreto legislativo recante attuazione della delega di cui all’articolo 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di segnalazione certificata di inizio attività – SCIA».

88. «L’amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione di cui al medesimo comma, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa. Qualora sia possibile conformare l’attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente, l’amministrazione competente, con atto motivato, invita il privato a provvedere, [disponendo la sospensione dell’attività intrapresa e] prescrivendo le misure necessarie con la fissazione di un termine non inferiore a trenta giorni per l’adozione di queste ultime. In difetto di adozione delle misure da parte del privato, decorso il suddetto termine, l’attività si intende vietata. Con lo stesso atto motivato, in presenza di attestazioni non veritiere o di pericolo per la tutela dell’interesse pubblico in materia di ambiente, paesaggio, beni culturali, salute, sicurezza pubblica o difesa nazionale, l’amministrazione dispone la sospensione dell’attività intrapresa. L’atto motivato interrompe il termine di cui al primo periodo, che ricomincia a decorrere dalla data in cui il privato comunica l’adozione delle suddette misure. In assenza di ulteriori provvedimenti, decorso lo stesso termine, cessano gli effetti della sospensione eventualmente adottata».

89. Ai sensi del comma 1, il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d’ufficio, «sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo». Ai sensi del comma 2-bis, l’amministrazione conserva il potere di intervenire dopo la scadenza del richiamato termine di diciotto mesi nel solo caso in cui i provvedimenti amministrativi sono stati «conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato», «fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445».

90. Avendo la Scia effetti ampliativi della sfera giuridica del segnalante, deve farsi riferimento in ogni caso non al «termine ragionevole» ma a quello di diciotto mesi previsto dall’art. 21-novies per i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici. Così R. De Nictolis, L’autotutela provvedimentale di annullamento degli atti illegittimi tra principi costituzionali, regole ed eccezioni, pubblicazione su portale, 22 novembre 2017, www.sipotra.it/old/wp-content/uploads/2017/11/L%E2%80%99autotutela-provvedimentale-di-annullamento-degli-atti-illegittimi-tra-principi-costituzionali-regole-e-eccezioni.pdf.

91. Per una ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali anche anteriori all’adunanza plenaria, si vedano L. Gizzi, SCIA e tutela del terzo: brevi considerazioni alla luce della legge Madia e dei decreti attuativi, in Riv. giur. edil., n. 3/2017, p. 112; M.A. Sandulli, La segnalazione certificata di inizio attività (S.C.I.A.) (Artt. 19 e 21 L. n. 241 del 1990 S.M.I.), in Id. (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Giuffrè, Milano, 2015, p. 155.

92. A conferma di questa impostazione si osservava che la previsione di un potere di autotutela in capo all’amministrazione, quale potere di secondo grado, presuppone necessariamente un atto di natura provvedimentale su cui intervenire.

93. Non sarebbe d’ostacolo la previsione espressa di un potere di autotutela decisoria, trattandosi, in realtà, di un potere amministrativo sui generis, volto a consentire un esercizio tardivo dei poteri di verifica, controllo e inibitori sull’attività intrapresa dal dichiarante alle sole condizioni previste per l’esercizio dell’autotutela.

94. La ricostruzione dell’adunanza plenaria è tributaria delle tesi di G. Greco, La SCIA e la tutela dei terzi al vaglio dell’adunanza plenaria: ma perché, dopo il silenzio assenso e il silenzio inadempimento, non si può prendere in considerazione anche il silenzio diniego?, in Dir. proc. amm., n. 1/2011, p. 359.

95. Così anticipando l’intervento del legislatore, che ha introdotto l’azione di adempimento pubblicistica con il d.lgs 14 settembre 2012, n. 160 («Ulteriori disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante codice del processo amministrativo, a norma dell’articolo 44, comma 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69»).

96. Nello stesso senso M.A. Sandulli, Gli effetti diretti della L. 7 agosto 2015, n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di SCIA, silenzio-assenso e autotutela, in Federalismi, n. 17/2015, www.federalismi.it/nv14/editoriale.cfm?eid=376: «Per evitare prevedibili contrasti interpretativi, con inevitabili riflessi anche sulle certezze del titolo, è auspicabile un sollecito intervento legislativo sul punto, che, magari riprendendo il modello costruito dall’Adunanza plenaria, riveda il sistema di tutela del terzo, collegandone in ogni caso espressamente l’onere di attivazione all’effettivo avvio dell’attività oggetto di d.i.a./s.c.i.a. (ovvero ad altra circostanza idonea a consentirgli la conoscenza di quest’ultima)»; nonché A. Dapas e L. Viola, Una sistematica di tutela non molto equilibrata, in Urb. e app., n. 4/2017, p. 537.

97. Si vedano R. Chieppa, Commento all’art. 31 del codice del processo amministrativo, in Id. (a cura di), Il processo amministrativo dopo il correttivo al codice. Le novità apportate al giudizio amministrativo dal correttivo al Codice (d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195) e i primi orientamenti della giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 2012; L. Gizzi, SCIA e tutela del terzo, op. cit.; G. Greco, SCIA e tutela del terzo al vaglio della Corte costituzionale: è troppo auspicare un ritorno al passato (o quasi)?, in Giustamm.it, n. 6/2018; F. Liguori, Le incertezze degli strumenti di semplificazione. Lo strano caso della d.i.a.-s.c.i.a., in Dir. proc. amm., n. 4/2015, p. 1123.

98. Tar Sicilia, Catania, sez. III, 30 novembre 2016, n. 3112; Tar Campania, Napoli, sez. IV, 5 aprile 2016, n. 1658, ove si legge: «Il terzo che invochi l’intervento del giudice, pertanto, non dovrebbe poter ottenere più dell’attuazione del diritto obiettivo ed il giudice non potrebbe fare più di quanto non possa la stessa Amministrazione cui la cura di quell’interesse è affidata, con condizioni e tempi che tengono conto del contemperamento degli interessi operato in sede normativa. Parimenti, quand’anche sia l’Amministrazione ad attivarsi di sua iniziativa, l’effetto finale non può prescindere dall’osservanza dei limiti imposti dalla legge, perché, a ragionare diversamente, il titolare di un titolo abilitativo “semplificato”, come la Scia, avrebbe costantemente una tutela minore di quella di cui gode il titolare di un titolo “tradizionale”, come il permesso di costruire»; Tar Calabria, sez. I, 20 luglio 2016, n. 153.

99. F. Liguori, Le incertezze, op. cit.; A. Berti Suman, Scia e tutela del terzo. Le questioni aperte dopo la riforma Madia ed i decreti attuativi SCIA 1 e SCIA 2 a margine della ordinanza TAR Toscana, sez. III, 11 maggio 2017, n. 667, pubblicazione su portale, 16 giugno 2017, www.sipotra.it/old/wp-content/uploads/2017/06/Scia-e-tutela-del-terzo.pdf.

100. Ai sensi dell’art. 2, comma 4, d.lgs 25 novembre 2016, n. 222 («Individuazione dei procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio attività – SCIA –, silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell’art. 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124»), «[n]ei casi del regime amministrativo della SCIA, il termine di diciotto mesi di cui all’art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990, decorre dalla data di scadenza del termine previsto dalla legge per l’esercizio del potere ordinario di verifica da parte dell’amministrazione competente. Resta fermo quanto stabilito dall’art. 21, comma 1, della legge n. 241 del 1990».

101. Tale rilievo è ormai pacifico in giurisprudenza e in dottrina, e si basa sull’osservazione che il terzo, dopo avere istato per la verifica (non in autotutela ma) alle condizioni previste per l’autotutela, ha la possibilità di agire con l’azione avverso il silenzio, che presuppone l’obbligo di provvedere dell’amministrazione.

102. G. Greco, SCIA e tutela del terzo al vaglio della Corte costituzionale, op. cit. L’Autore sembra criticare la tesi della sollecitazione del potere discrezionale, una volta decorso il termine di sessanta giorni: «Tale interesse del terzo, ove assuma – secondo i noti parametri – la consistenza di un vero e proprio interesse legittimo (pretensivo) correlato al potere inibitorio doveroso, sorge, infatti, al momento della presentazione della S.C.I.A. ed è ben altra cosa dall’interesse legittimo correlato all’eventuale esercizio dei poteri di autotutela. Sicché, a meno che non si dica – in frontale contrasto con l’art. 24 della Costituzione – che detto (primo) interesse legittimo sia privo di tutela giurisdizionale, la stessa deve essere comunque garantita. Viceversa, se la tutela del terzo fosse limitata all’esercizio dei poteri di autotutela, da un lato risulterebbe conculcato detto interesse legittimo, d’altro lato la posizione del terzo (globalmente considerata) risulterebbe gravemente pregiudicata e peggiorata, tenuto conto che nel bilanciamento degli interessi, proprio dell’autotutela, l’amministrazione potrebbe legittimamente giungere ad una decisione di non intervento pur in presenza di una S.C.I.A. priva dei requisiti di legge».

103. Cons. Stato, sez. IV, 12 novembre 2015, n. 5161; Cons. Stato, sez. IV, 6 dicembre 2013, n. 5822; Tar Sardegna, sez. II, 31 luglio 2017, n. 515; Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 9 gennaio 2017, n. 28; Tar Emilia-Romagna, Parma, sez. I, 11 marzo 2016, n. 82.

104. Tar Lombardia, Milano, sez. II, 5 ottobre 2017, n. 1902; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 15 aprile 2016, n. 735.

105. Cons. Stato, sez. VI, 3 novembre 2016, n. 4610: «Nel caso della Scia, invece, il terzo è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’adozione di atti sfavorevoli per il destinatario dell’azione amministrativa. Non è, pertanto, a conoscenza “diretta” dell’andamento procedimentale della vicenda. Ne consegue che il termine decorre da quando il terzo ha avuto piena conoscenza dei fatti idonei a determinare un pregiudizio nella sua sfera giuridica»; nonché Tar Toscana, sez. III, 3 ottobre 2016, n. 1423. Nello stesso senso, M. Lipari, La SCIA e l’autotutela nella legge n. 124/2015: primi dubbi interpretativi, in Federalismi, n. 20/2015 (www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=30592): secondo l’Autore, esigenze «di giustizia sostanziale dovrebbero portare alla conclusione secondo cui l’interessato può chiedere l’esercizio dei poteri di controllo a partire dal momento in cui ottiene la conoscenza effettiva della Scia, o, eventualmente da quando l’attività segnalata è effettivamente iniziata».

106. Tar Basilicata, sez. I, 7 dicembre 2016, n. 1101; Tar Lombardia, Milano, 5 dicembre 2016, n. 2301; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 30 novembre 2016, n. 2274, secondo cui, «il terzo può sempre impugnare l’atto con cui l’amministrazione si pronuncia sulla sua istanza (cfr. Tar Lombardia, Milano, sez. II, 15 aprile 2016, n. 735). Il rispetto del termine di sessanta giorni rileva dunque al solo fine di stabilire quale tipo di potere l’amministrazione potrà esercitare, giacché, se il terzo interviene tempestivamente, gli deve essere assicurata, ai sensi degli artt. 3 e 24 Cost., una tutela non inferiore a quella di cui avrebbe goduto qualora avesse tempestivamente impugnato un permesso di costruire (e siccome in questo caso, il giudice avrebbe annullato l’atto sulla base del mero riscontro della sua illegittimità, allo stesso modo l’amministrazione deve privare la Dia/Scia dei propri effetti abilitativi sulla base del mero riscontro della non conformità della stessa alla vigente normativa)»; Tar Veneto, sez. II, 12 ottobre 2015, n. 1038; Tar Piemonte, sez. II, 1° luglio 2015, n. 1114.

107. F.S. Amodio, S.c.i.a. e tutela del terzo: la complessa ricerca di un equilibrio, in Riv. giur. edil., n. 1/2020, p. 14; L. Bertonazzi, SCIA e tutela del terzo nella sentenza della Corte costituzionale n. 45 del 2019, in Dir. proc. amm., n. 2/2019, p. 711; S. Bigolaro, La SCIA edilizia e la tutela del terzo, in LexItalia, n. 6/2019 (18 giugno 2019); F. Botteon, La tutela del terzo nei confronti delle SCIA, ivi, 14 marzo 2019; A. Briamonte, SCIA e tutela del terzo: la Corte costituzionale si pronuncia sul termine ex art. 19, comma 6-ter, legge n. 241/1990, in Dir. proc. amm., n. 1/2020, p. 125; S. Capozzi, SCIA e tutela del terzo: la Consulta chiarisce, in Riv. giur. edil., n. 2/2019, p. 318; E. Frediani, Scia, tutela del terzo ed esigenze di coerenza, in Giorn. dir. amm., n. 5/2019, p. 579; G. Giannì, La piena tutela dell’interesse sostanziale del terzo davanti al Giudice amministrativo nell’attività edilizia soggetta a SCIA, in amministrativ@mente, n. 1/2019, p. 3 (www.amministrativamente.com/index.php/formez/article/view/13012/11788); L. Gizzi, Tutela dell’interessato: intervento esplicativo della Consulta, in Guida al diritto, n. 16/2019, p. 91; C. Lamberti, Segnalazione certificata di inizio attività scia – La scia tutela le attività economiche non il terzo, in Giur. it., n. 4/2019, p. 917; G. La Rosa e E.L. Bonsignori, SCIA e tutela del terzo dopo la Corte cost. n. 45/2019, in Urb. e app., n. 4/2019, p. 480; F. Liguori, La “parentesi amministrativa” della S.C.I.A. e le tutele del terzo, in Riv. giur. edil., n. 4/2019, p. 281; G. Mannucci, I limiti alla tutela dei terzi in materia di Segnalazione certificata di inizio attività, in Giur. cost., n. 2/2019, p. 727; M. Polenzani, Ancora su SCIA e tutela del terzo: una pronuncia della Corte costituzionale e una questione forse irrisolta, in Le Corti umbre, n. 1/2019, p. 203; A. Travi, Giustizia amministrativa e giurisdizione esclusiva nelle recenti riforme, in Foro it., n. 3/ 2001, c. 68; A. Vacca, SCIA e tutela del terzo, in LexItalia, n. 3/2019 (19 marzo 2019); C. Villanacci, La tutela del terzo nella SCIA: natura e limiti dei poteri della pubblica amministrazione nella ricostruzione della Corte costituzionale, in Foro amm., n. 5/2019, p. 762.

108. La Corte sembra aderire, in sostanza, a una posizione già rappresentata in dottrina da diversi autori. Si vedano F. Liguori, Le incertezze, op. cit.: «Ma appunto di diritto obiettivo si tratta, e perciò, l’iniziativa dei terzi deve rapportarsi a poteri che sono stati dalla legge sottoposti a termini perentori, proprio per trovare un accettabile punto di equilibrio tra l’affidamento di chi intraprende l’attività e l’effettività della regolazione, la quale ultima è diretta a contemperare gli interessi di tutte le parti (…). Il potere rispetto al cui esercizio il c.d. terzo può vantare un interesse qualificato va individuato, sulla base di una lettura piana della disposizione, in primo luogo nel potere inibitorio, che è poi, per così dire, il potere “principe” ed originario che contraddistingue il modello (…). Oltre al potere inibitorio c’è l’autotutela, cui si aggiunge l’inibitoria speciale senza termini quando si tratti di s.c.i.a. corredata da dichiarazioni false o mendaci (co. 3, terzo punto) (…). Sopravvivono, inoltre, i poteri sanzionatori e repressivi previsti per l’attività in assenza o in difformità del titolo provvedimentale fatti salvi dall’art. 21 (…). Il terzo, dunque, può sollecitare tutte le verifiche doverose finché il potere c’è: e perciò quelle volte all’esercizio dell’inibitoria “ordinaria” soltanto entro 60 (o 30) giorni; tutte le altre sine die». Ancora: «È la legge a delineare i contorni del potere, definendone condizioni, limiti e termini ed in questo modo ripartisce i “costi sociali” delle scelte politiche, nel caso di specie della scelta semplificatrice. Il giudice, chiamato all’attuazione del diritto obiettivo sull’azione del terzo, non può perciò far rivivere un potere esauritosi per mancato esercizio quando la legge ne abbia previsto il carattere temporaneo in ragione della ripartizione dei costi sociali prodotti dall’utilizzo del modello». Nello stesso senso, A. Travi, La tutela del terzo nei confronti della d.i.a. (o della s.c.i.a.): il codice del processo amministrativo e la quadratura del cerchio, in Foro it., n. 3/2011, c. 517: l’Autore afferma che «Gli strumenti di tutela giurisdizionale sono strettamente legati alla configurazione degli istituti nel diritto sostanziale»; che «le utilità conseguibili dal processo devono essere coerenti con il diritto sostanziale»; e che «il processo non può “inventare” figure o pretese giuridiche che non esistono nel diritto sostanziale. In altre parole, se il legislatore modifica il regime di un’attività sottraendola al provvedimento e la sottopone a Scia/Dia, liberalizzandola, ciò incide di riflesso anche sui contenuti della tutela giurisdizionale del terzo e il mutamento non può ritenersi lesivo per ciò stesso del diritto di azione. Il punto di partenza del ragionamento non deve essere una tutela del terzo in termini equivalenti a quelli configurabili nei confronti di un provvedimento amministrativo che non esiste più, ma deve essere semmai la disciplina sostanziale dell’istituto». Nello stesso senso, S. Tuccillo, La s.c.i.a. edilizia alla ricerca di un equilibrio tra il ruolo dell’amministrazione e le ragioni dei privati, in Riv. giur. edil., n. 1/2016, p. 141, secondo cui: «Dall’esame della norma che disciplina il controllo successivo sulla segnalazione discende che il potere inibitorio – sia in forma piena (esercitabile nei 60 giorni successivi alla segnalazione) che attenuata (attingibile invece nel termine di 18 mesi) – ha una durata massima di esercizio pressoché definita. Decorso questo periodo (...) anche l’intervento del terzo dovrebbe considerarsi “fuori campo”, se non per il limitato ambito di esplicazione dei poteri sanzionatori residui». 

109. Questo aspetto era stato rimarcato da F. Botteon, Scia e tutela del terzo: un (piccolo) passo avanti del Consiglio di Stato nel rafforzamento dell’istituto, in LexItalia, n. 11/2016 (25 novembre 2016), nonché da G.P. Cirillo, L’attività edilizia e la tutela giurisdizionale del terzo, in Giurisdizione amministrativa, n. 5/2011, p. 218. Nello stesso senso A. Travi, La tutela del terzo nei confronti della d.i.a. (o della s.c.i.a.): il codice del processo amministrativo e la quadratura del cerchio, op. cit.: «La d.i.a. (o la s.c.i.a.) è strumento di “liberalizzazione”, in forza della quale la posizione giuridica del privato che avvia l’attività si qualifica essenzialmente come diritto soggettivo; nei confronti dell’esercizio di un tale diritto, la tutela del terzo presuppone fisiologicamente che egli assuma essere stato leso in un proprio diritto, e una tutela del genere, che inerisce a un rapporto fra privati, è demandata al giudice ordinario».

110. Vds. nota 97.

111. Cons. Stato, sez. IV, 14 maggio 2019, n. 3124; Cons. giust. amm. Reg. sic., 17 aprile 2019, n. 33; Tar Veneto, sez. II, 19 dicembre 2019, n. 1379; Tar Toscana, sez. III, 14 agosto 2019, n. 1174; Tar Campania, Salerno, sez. II, 17 luglio 2019, n. 1298; Tar Basilicata, sez. I, 16 aprile 2019, n. 367; Cons. Stato, sez. IV, 14 febbraio 2017, n. 625.

112. Vds. nota 101.

113. L. Bertonazzi, SCIA e tutela del terzo, op. cit. In questo senso sembra anche doversi leggere l’inciso della sentenza n. 45 del 2019, secondo cui «il comma 6-ter è stato introdotto (…) in aperta dialettica con la nota sentenza n. 15 del 2011 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la finalità di escludere l’esistenza di atti amministrativi impugnabili (il cosiddetto silenzio-diniego) e quindi di limitare le possibilità di tutela del terzo all’azione contro il silenzio, inteso in modo tradizionale come inadempimento. Il riferimento alle “verifiche spettanti all’amministrazione”, dunque, non è finalizzato ad introdurre nuovi poteri, ma è funzionale alla sollecitazione da parte del terzo».

114. L. Bertonazzi, ibid.; vds. anche F. Liguori, La “parentesi amministrativa”, op. cit.: «Il fatto che l’azione nei confronti del silenzio sia di norma esperibile solo quando sia decorso il termine per la conclusione del procedimento, non può essere d’ostacolo, perché in questo caso i poteri inibitori sono da esercitare immediatamente ed è previsto un termine finale di natura perentoria. Del resto tale lettura è avvalorata dall’estensione (di cui al primo correttivo al c.p.a.) dell’azione ex art. 31 anche ai casi previsti dalla legge diversi dall’infruttuosa decorrenza del termine»; nonché F.S. Amodio, S.c.i.a. e tutela del terzo, op. cit.

115. Ossia dal d.lgs 15 novembre 2011, n. 195 («Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante codice del processo amministrativo a norma dell’articolo 44, comma 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69»).

116. Ad opera dell’art. 6, comma 1, lett. c, dl 13 agosto 2011, n. 138, recante «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo», convertito con modificazioni nella l. 14 settembre 2011, n. 148. Sul punto, L. Bertonazzi, SCIA e tutela del terzo, op. cit.; R. Chieppa, Commento, op. cit.; R. De Nictolis, Commento all’art. 31 del codice del processo amministrativo, in Id. (a cura di), Codice del processo amministrativo commentato. Aggiornato con il D.L. 31 agosto 2016, n. 168, convertito in L. 25 ottobre 2016, n. 197 e con il D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, Wolters Kluwer, Milano, 2019 (IV ed.). Dalla relazione illustrativa del decreto legislativo recante disposizioni correttive e integrative al codice del processo amministrativo emerge che la modifica all’art. 31, comma 1, «è stata apportata in sede di approvazione definitiva, per adeguamento al rilievo in proposito formulato dalla commissione Bilancio della Camera»; che, in particolare, «l’art. 1, comma 1, lettera g), recepisce il rilievo formulato dalla Quinta Commissione della Camera, operando il coordinamento del Codice con le modifiche introdotte dall’art. 6 del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, in tema di S.C.I.A. e D.I.A., secondo quanto richiesto, in punto di “conseguenze di carattere finanziario”, da detta Commissione Bilancio della Camera»; mentre «l’art. 1, comma 1, lettera ll), n. 1), recepisce il rilievo sulle “conseguenze di carattere finanziario” formulato dalla V Commissione bilancio della Camera; la previsione – strettamente coordinata con quella di cui alla superiore lettera B), parimenti richiesta dalla Commissione V Bilancio – coordina il Codice con le modifiche introdotte dall’art. 6, comma 3, del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazione dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, con riguardo alla S.C.I.A. e alla D.I.A.». Dall’esame dei lavori della Commissione bilancio della Camera del 29 settembre 2011, risulta, infine che le modifiche sono state apportate in ragione della «assenza di coordinamento tra il codice del processo amministrativo e le modifiche di recente introdotte dall’articolo 6, comma 1, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, all’articolo 19 della legge n. 241 del 1990, relative, in particolare, alla segnalazione certificata di inizio attività, denuncia e dichiarazione di inizio di attività», e del rilievo che «in assenza di tale coordinamento, il giudice amministrativo potrebbe consentire la proposizione di azioni giurisdizionali avverso le dichiarazioni di inizio di attività e le segnalazioni certificate di inizio attività, determinando l’aumento del contenzioso e l’aggravio del carico di lavoro in capo ai giudici, con prevedibili effetti finanziari negativi sul bilancio dello Stato».

117. L. Bertonazzi, SCIA e tutela del terzo, op. cit.: «come se la sollecitazione fosse un atto di iniziativa procedimentale: non lo è, si badi, ma è come se lo fosse, ai limitati fini del modo di formazione del silenzio e dei rimedi avverso lo stesso, stante il combinato disposto dell’art. 31, comma 1, c.p.a. e dell’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241/1990».

118. Secondo cui «Il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione».

119. TAR Lazio, Roma, sez. II, 30 aprile 2020, n. 4522; TAR Veneto, sez. II, 31 marzo 2020, n. 323; TAR Veneto, sez. II, 19 febbraio 2020, n. 176; TAR Veneto, sez. I, 19 dicembre 2019, n. 1379; TAR Toscana, sez. III, 14 agosto 2019, n. 1174; TAR Campania, Salerno, sez. II, 17 luglio 2019, n. 1298; Cons. Stato, sez. IV, 14 maggio 2019, n. 3124; Cons. giust. amm. Reg. sic., 17 aprile 2019, n. 33; TAR Basilicata, sez. I, 16 aprile 2019, n. 367. In termini, anche Cass. pen., sez. III, 3 marzo 2020, n. 13148.

120. In questo senso, F. Liguori, La “parentesi amministrativa”, op. cit.: «L’effetto retroattivo della pronuncia di accertamento dell’inadempimento nello svolgimento della funzione di controllo è, dunque, in grado di far rivivere il potere solo se il terzo si è attivato entro il termine: unicamente in questo caso la pronuncia del giudice, ancorché intervenuta a termine scaduto, può avere effetti retroattivi laddove negli altri casi incontra il “limite esterno” costituito dalla irreversibile decadenza del potere per il decorso di termini perentori». Contra, F.S. Amodio, S.c.i.a. e tutela del terzo, op. cit.

121. Si vedano TAR Veneto, sez. II, 31 marzo 2020, n. 323; TAR Veneto, sez. II, 19 dicembre 2019, n. 1379; TAR Veneto, sez. II, 27 settembre 2019, n. 1028; Cons. Stato, sez. IV, 14 maggio 2019, n. 3124.

122. F.S. Amodio, S.c.i.a. e tutela del terzo, op. cit.: «Una possibile soluzione che consentirebbe di rafforzare la tutela del terzo, senza tuttavia contraddire la portata ontologica della s.c.i.a. quale strumento di liberalizzazione appena riaffermata dalla Corte, appare rinvenibile nella definizione di strumenti che consentano ai controinteressati di acquisire conoscenza piena e tempestiva delle segnalazioni presentate, anche indipendentemente dall’avvio effettivo dell’attività. In tal modo, inoltre, si favorirebbe l’immediato coinvolgimento dei controinteressati nel procedimento di verifica dei requisiti dichiarati, con un evidente beneficio in termini di completezza istruttoria. Un interessante suggerimento sul punto può trarsi, ad esempio, dall’esperienza anglosassone, ove la disciplina del planning permission prevede l’obbligo per l’istante di dare notizia dell’intervento che intende realizzare a tutti i soggetti potenzialmente interessati ovvero a tutti coloro cui potrebbe derivare un danno dalla nuova opera progettata. D’altra parte, alcune leggi regionali hanno già stabilito che, per darne idonea pubblicità, gli estremi della s.c.i.a. siano riportati nel cartello esposto presso il cantiere». 

123. M. Polenzani, Ancora su SCIA, op. cit., p. 216, nota 28 e dottrina ivi richiamata.

124. Tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 14 ottobre 2019, n. 6975; Cons. Stato, sez. VI, 20 dicembre 2018, n. 7172; Cons. Stato, sez. VI, 30 ottobre 2017, n. 5018; Cons. Stato, sez. VI, 11 luglio 2016, n. 3044. L’Avvocatura dello Stato, nella memoria d’intervento nel giudizio avente ad oggetto le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tar Emilia-Romagna, sembra ritenere, contrariamente alla menzionata giurisprudenza amministrativa, che, quanto meno nella materia edilizia, il potere repressivo possa essere esercitato in ogni tempo, anche a prescindere dal decorso dei termini del potere di controllo (e quindi dall’avvenuta formazione del diaframma del titolo Scia). 

125. Sul recente riposizionamento della Corte si vedano, tra i tanti, R. Bin, Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quad. cost., n. 4/2019, p. 757; G. Campanelli - G. Famiglietti - R. Romboli (a cura di), Il sistema “accentrato” di costituzionalità, atti del seminario annuale dell’Associazione Gruppo di Pisa, 25 ottobre 2019, Editoriale Scientifica, Napoli, 2020; A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., n. 2/2019, p. 251; C. Padula, Le “spinte centripete” nel giudizio incidentale di costituzionalità (pubblicato in anteprima in questa Rivista online, 23 ottobre 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/le-spinte-centripete-nel-giudizio-incidentale-di-costituzionalita), e A. Guazzarotti, Le controspinte centrifughe nel sindacato di costituzionalità, entrambi in questo fascicolo; D. Tega, La Corte nel contesto. Percorsi di ri-accentramento della giustizia costituzionale in Italia, Bononia University Press, Bologna, 2020, nonché Id., La Corte nel contesto, in questo fascicolo.

126. Sentenze nn. 123 del 2017 e 6 del 2018.

127. Il riferimento è anche e soprattutto alla nota e tormentata vicenda della cd. doppia pregiudizialità, a seguito del nuovo corso iniziato con la sentenza n. 269 del 2017 e poi proseguito, con aggiustamenti di tiro, con le successive decisioni nn. 20, 63, 112 e 117 del 2019 (sul tema, come è noto, la letteratura è sconfinata, sì che qualsiasi citazione, in questa sede, appare inutile).

128. G. Campanelli - G. Famiglietti - R. Romboli (a cura di), Il sistema “accentrato” di costituzionalità, op. cit.; M. Ruotolo, L’interpretazione conforme torna a casa?, ivi (su cui cfr. Rivista GdP, n. 3/2019, p. 37, www.gruppodipisa.it/images/rivista/fascicoli/Rivista_Gruppo_di_Pisa_Fascicolo_3_2019.pdf). 

129. A.M. Nico, L’accesso e l’incidentalità, in Il sistema “accentrato” di costituzionalità, op. cit. (su cui cfr. Rivista GdP, n. 1/2020, p. 163, www.gruppodipisa.it/images/rivista/pdf/Anna_Maria_Nico_-_L_accesso_e_l_incidentalita.pdf).

130. A.M. Nico, op. ult. cit. Sul punto si vedano le sentenze nn. 56, 236 del 2016, 222 del 2018, 40, 99, e 112 del 2019.

131. Con l’ordinanza n. 207 del 2018, nel famoso caso Cappato, cui ha fatto seguito la sentenza n. 242 del 2019; e poi con l’ordinanza n. 132 del 2020, in materia di pena detentiva a carico dei giornalisti.