Magistratura democratica
giurisprudenza di legittimità

Tutela del lavoro, etica della responsabilità e principio di affidamento

di Stefano Palmisano
avvocato in Brindisi
“La condizione di ubriachezza del lavoratore sul luogo di lavoro non è circostanza eccezionale e quindi non prevedibile dal datore di lavoro". Questo è il principio sancito dalla Corte di Cassazione in una recente pronuncia
Tutela del lavoro, etica della responsabilità e principio di affidamento

Il fatto

Nel corso delle operazioni di lavorazione del mosto il M.P, lavoratore stagionale alle dipendenze del D.L.M, legale rappresentante di cooperativa sociale, cadeva all'interno della vasca contenente il mosto e decedeva a seguito dell'insufficienza respiratoria acuta determinata da permanenza in ambiente privo di ossigeno e ricco di CO2, anidride solforosa ad altri gas.

Le cause della caduta non venivano precisamente individuate, dal momento che questa non aveva avuto testimoni oculari e tenuto altresì conto del fatto che nel sangue della vittima era stato trovato un tasso alcolemico compatibile con uno stato di ubriachezza patologica.

Il diritto

A fronte di questa situazione la Corte di Appello perveniva alla conferma del giudizio di responsabilità (già emesso in primo grado) dell’imputato sulla scorta dell’individuazione di una precisa violazione cautelare quale causa del sinistro, ovvero la mancata predisposizione di barriere atte a prevenire la caduta del lavoratore nel corso della lavorazione e il mancato controllo in ordine alle condizioni con cui venivano svolte le singole operazioni di frollatura del mosto.

L’imputato impugnava, con ricorso per Cassazione, la sentenza di condanna sotto vari profili, ma, per quello che maggiormente interessa ai fini di queste note, sosteneva, tra le altre, la tesi per cui lo stato di ubriachezza della vittima concreta una situazione eccezionale che recide il nesso causale tra la condotta illecita dell’imputato (in chiave di mancata realizzazione delle misure antinfortunistiche) ed il sinistro.

Su questa questione specifica, la Cassazione ha formulato il fondamentale principio giuridico: “la condizione di ubriachezza del lavoratore sul luogo di lavoro non è circostanza eccezionale e quindi non prevedibile dal datore di lavoro, con l'ulteriore effetto della riconducibilità al medesimo dell'infortunio occorso, pur in presenza di uno stato di ebbrezza alcolica del lavoratore rimasto vittima del sinistro” (Cass. pen. Sez. IV, Sent., -ud. 13-06-2013- 17-09-2013, n. 38129).

La norma che, più delle altre, viene invocata dal Supremo Collegio a supporto di questa draconiana asserzione a carico dell’imputato è quella del D.Lgs. n. 81 del 2008 (il cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”), art. 28, comma 1, in materia di valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori.

In pratica, secondo i supremi giudici, il datore di lavoro deve prevedere, a livello di rischi “gravanti” sui propri dipendenti, anche quelli connessi ad una condizione di ubriachezza volontaria di questi ultimi, e deve, di conseguenza, adottare misure cautelari idonee a scongiurare gli effetti dannosi che anche da quella condizione possano derivare.

Note a margine

Indipendentemente dalla vicenda specifica e dal fatto che questo principio di diritto ne abbia o meno determinato, in concreto, l’esito processuale, il principio stesso, in sé, suscita perplessità.

In prima battuta, sotto un profilo strettamente gius – penalistico.

La formulazione dell’art. 28, c. 1, del T.U. sicurezza è estremamente ampia: “la valutazione di cui all'articolo 17, comma 1, lettera a) (quella che costituisce un obbligo non delegabile a carico del datore di lavoro), anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori….”

Se viene usata come fondamento per imputare a una persona un reato, uno decisamente pesante come l’omicidio colposo, questa norma, interpretata come ha fatto il Supremo Collegio nel caso sopra esaminato, non può non sollevare serie riserve sotto il profilo della sua compatibilità con il principio di tassatività - tipicità che è, tra gli altri, a base del nostro sistema penale.

Esso, in modo estremamente semplice, significa che tutte le componenti di un fatto di reato devono esser specifiche, puntuali e conoscibili a monte per mettere i cittadini nella condizione di conoscerli e, quindi, sapere precisamente, prima, quale condotta, attiva od omissiva, integri un reato e quale non.

Quella dell’art. 28, c. 1, sopra riportata, è una “formula legale”, come la qualifica la Cassazione nella sentenza in esame, “volutamente onnicomprensiva”.

In quanto tale, almeno nella misura in cui essa fondi un’incriminazione per un illecito penale grave come quello di omicidio colposo, quella formula non può non risultare di aderenza assai dubbia al fondamentale principio penalistico sopra rammentato.

Che l’art. 28, c. 1, miri a tutelare un bene giuridico primario come la vita e l’incolumità dei lavoratori è notorio e meritorio.

Che, quando quella tutela attinga la sfera penale, una “formula legale volutamente onnicomprensiva” sia il modo migliore per raggiungere quell’obiettivo è assai meno certo.

Indipendentemente dalle altre criticità, in chiave garantistica, di quella costruzione normativa e delle sue interpretazioni giurisprudenziali come quella che ci occupa, se tutto è reato, se qualsiasi condotta, attiva od omissiva, è punibile, se chi deve adempiere un obbligo di legge deve prevedere anche le ipotesi più “eccentriche” collegate a quell’obbligo, se la norma penale, e per traslazione il creatore di questa ossia lo Stato, alla fine diventa un cieco leviatano che non dà scampo, ebbene il destinatario del precetto penale finisce per non avere più un grande incentivo a tenere una condotta anche solo minimamente corretta e legale.

Nel caso di specie, se il datore di lavoro si fa la malsana idea, anche non del tutto fondata, che, comunque, gli verrà imputato qualsiasi evento di danno accada nella sua azienda, la conseguenza quasi fatale di ciò sarà che i livelli di tutela della vita e della salute delle persone che in quell’azienda lavorino difficilmente registreranno un’impennata.

Vi è un ultimo, ma non per questo residuale, ordine di ragioni, “extragiuridiche”, che militano a sostegno delle perplessità che circondano la sentenza in esame e, in specie, il principio di diritto che si sta commentando.

In uno Stato di diritto, in un Paese civile ognuno deve fare la sua parte e assumersi le responsabilità connesse a quella parte.

Ma, per quel che maggiormente rileva ai fini di queste note, ognuno, in qualsiasi ambito sociale, una volta adempiuti i propri obblighi, deve poter legittimamente attendersi che l’interlocutore o gli interlocutori facciano altrettanto.

E’ la cosiddetta, imprescindibile, “etica della responsabilità individuale”.

La trasposizione in ambito giuridico di questo concetto assume il nome di “principio di affidamento”.

Entrambi, unitamente ad altri, sono fondativi di qualsiasi consorzio civile. In assenza anche di uno solo dei due, difficilmente quel consorzio potrà esser qualificato civile.

E, alla lunga, probabilmente, non rimarrà granché neanche della stessa idea di consorzio.

Se un lavoratore deve poter attendersi dal suo datore di lavoro il rigoroso rispetto delle norme poste a tutela della sua vita e della sua salute, il datore, a sua volta, deve poter fare lo stesso nei confronti del suo dipendente sotto il profilo della garanzia, da parte di quest’ultimo, di sussistenza dei più elementari requisiti di adempimento dell’obbligazione lavorativa, quale quello di presentarsi al lavoro in condizioni di sobrietà e, dunque, di piena capacità di autodeterminazione e di autotutela, prim’ancora che di efficienza produttiva.

Nel nostro sistema penale, il principio di affidamento, in assoluto, non gode, invece, di particolare credito, se si può leggere in sentenze della Suprema Corte che “in tema di reati commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale, costituisce di per sé condotta negligente l'aver riposto fiducia nel fatto che gli altri utenti della strada si attengano alla prescrizioni del legislatore, poiché le norme sulla circolazione stradale impongono severi doveri di prudenza e diligenza proprio per far fronte a situazioni di pericolo, determinate anche da comportamenti irresponsabili altrui, se prevedibili” (Cass. pen. Sez. IV, 15-07-2010, n. 32202).

Più che una massima giuridica, è un icastico esergo di una nazione e del suo rapporto culturalmente, per non dire antropologicamente, difficile, a tutti i livelli, con l’etica della responsabilità.

Anche sotto questo profilo, pertanto, questo non è un paese responsabile.

Dunque, non è un paese civile.

06/05/2014
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