Magistratura democratica
Pillole di Sezioni Unite

Sentenze di settembre 2023-febbraio 2024

a cura di Redazione

Le più interessanti sentenze emesse dalle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione nel periodo settembre 2023–febbraio 2024

1. Il rilievo della fase di convivenza antecedente al matrimonio ai fini delle determinazioni economiche conseguenti allo scioglimento del vincolo coniugale e dell’unione civile (Cassazione, Sez. Unite, sentenze n. 35385 del 18/12/2023 e n. 35969 del 27/12/2023)

Le Sezioni unite civili tornano, in materia di relazioni familiari, in piena sintonia con la valorizzazione della situazione “de facto” che costituisce uno dei pilastri della tutela della Corte Edu, del diritto alla vita familiare, all’affermazione della preminenza del rapporto sull’atto.

Lo fanno con due pronunce che attengono alle statuizioni economiche conseguenti allo scioglimento del vincolo coniugale e dell’unione civile.

Nella prima sentenza n.35385 del 2023, è stato dato rilievo alla fase di convivenza antecedente al matrimonio al fine di avere un quadro più esauriente del ruolo endofamiliare dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio, quando non vi sia stata soluzione di continuità tra la impostazione della relazione e della convivenza prima e dopo il matrimonio e, come nella specie, la prima abbia avuto una durata più estesa della seconda. Ove la fotografia della ripartizione dei ruoli e del contributo del coniuge richiedente alla conduzione della vita familiare sia del tutto coerente con l’andamento della convivenza, la continuità induce a valorizzare anche la fase temporale anteriore alla costituzione del vincolo coniugale.

Le Sezioni Unite pervengono a questa soluzione svolgendo un ampio excursus di tutte le situazioni giuridicamente rilevanti nelle quali la convivenza fuori del matrimonio abbia avuto incidenza sulle determinazioni economiche da assumere dopo lo scioglimento della relazione o in funzione della assunzione della responsabilità genitoriale. Si è, a quest’ultimo proposito, richiamata la inclusione della fase della convivenza per la quantificazione della durata minima della comunione familiare come condizione per la domanda di adozione. In ordine alle decisioni di carattere economico si è fatto riferimento al profilo della durata della convivenza nella ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge superstite e divorziato, nella valutazione del limite impeditivo dell’ordine pubblico nelle pronunce di nullità del matrimonio da parte dei tribunali ecclesiastici, dal rilievo non solo impeditivo della convivenza post divorzile ai fini della determinazione dell’assegno.

Il principio di diritto espresso nella sentenza è il seguente:

Ai fini dell’attribuzione e della quantificazione, ai sensi dell’art. 5, comma 6, l. n. 898/1970, dell’assegno divorzile, avente natura, oltre che assistenziale, anche perequativo-compensativa, nei casi peculiari in cui il matrimonio si ricolleghi a una convivenza prematrimoniale della coppia, avente i connotati di stabilità e continuità, in ragione di un progetto di vita comune, dal quale discendano anche reciproche contribuzioni economiche, laddove emerga una relazione di continuità tra la fase «di fatto» di quella medesima unione e la fase «giuridica» del vincolo matrimoniale, va computato anche il periodo della convivenza prematrimoniale, ai fini della necessaria verifica del contributo fornito dal richiedente l’assegno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei coniugi, occorrendo vagliare l’esistenza, durante la convivenza prematrimoniale, di scelte condivise dalla coppia che abbiano conformato la vita all’interno del matrimonio e cui si possano ricollegare, con accertamento del relativo nesso causale, sacrifici o rinunce, in particolare, alla vita lavorativa/professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato, successivamente al divorzio».

Nella seconda, la sentenza n. 35969 del 2023, la medesima ratio è stata applicata alle statuizioni economiche conseguenti allo scioglimento dell’unione civile formata da coppie omoaffettive ex art. 1 comma venticinquesimo della legge n. 76 del 2016.

E’ stato posto in rilievo che non sussiste alcuna frattura o soluzione di continuità tra la fase della convivenza ante unione civile e quella successiva ove la relazione abbia in concreto avuto le medesime caratteristiche di stabilità, coabitazione, condivisione degli obblighi morali e materiali conseguente alla scelta di creare un nucleo familiare.

Ove si determinino queste condizioni, coerenti con la situazione dedotta nel giudizio,  (preesistenza di una relazione stabile, trasferimento in un’altra città al fine di consolidare il rapporto affettivo preesistente da parte di una delle due componenti la coppia, significative modifiche di lavoro e di vita di quest’ultima in funzione della relazione, rilevante squilibrio economico patrimoniale in favore dell’obbligata), all’esito dello scioglimento dell’unione civile ed in applicazione dei criteri derivanti dall’art. 5 c.6 l. n. 898 del 1970, richiamati dall’art.1 c.25 l. n. 76 del 2016, non si può prescindere dal complessivo quadro della relazione, dal momento della sua effettiva stabilizzazione successiva al trasferimento e alla coabitazione. Tanto più che, hanno precisato le Sezioni Unite, l’Italia era stata reiteratamente condannata dalla Corte Edu per il ritardo, non più giustificabile, nel fornire una forma di tutela adeguata alle coppie omoaffettive, equiparabile al sistema di diritti e doveri fondati sul vincolo coniugale, non essendo convenzionalmente compatibile un regime compressivo del loro diritto alla vita privata e familiare.

Sulla base di queste premesse, le S.U. hanno, conseguentemente, ritenuto che la durata della relazione da tenere in considerazione e la definizione dei ruoli all’interno della coppia convivente, dovessero comprendere anche la fase pre-unione civile, così da adeguare i criteri attributivi e determinativi dell’assegno da corrispondere alla richiedente, fondata sui principi elaborati dalle S.U. con la sentenza n. 18827 del 2018,  all’andamento dell’intera fase di convivenza pre e post unione civile.

Al riguardo le S.U. hanno fissato il seguente principio di diritto:

«In caso di scioglimento dell’unione civile, la durata del rapporto, prevista dall’art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970, richiamato dall’art. 1, comma venticinquesimo, della legge n. 76 del 2016, quale criterio di valutazione dei presupposti necessari per il riconoscimento del diritto all’assegno in favore della parte che non disponga di mezzi adeguati e non sia in grado di procurarseli, si estende anche al periodo di convivenza di fatto che abbia preceduto la formalizzazione dell’unione, ancorché lo stesso si sia svolto in tutto o in parte in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge n. 76 cit.».

 

2. Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia sulle recenti riforme in materia di trattenimento dei migranti richiedenti protezione provenienti da “paese sicuro” (Cassazione, Sez. Unite, ordinanze interlocutorie nn. 3562 e 3563 dell’8/2/2024)

In un altro ambito, sempre riguardante, tuttavia, la protezione dei diritti fondamentali della persona ed in particolare il diritto alla libertà personale del cittadino straniero che richiede il riconoscimento del diritto alla protezione internazionale nello Stato Italiano, le S.U. hanno esaminato i ricorsi del Ministero dell’Interno avverso i provvedimenti con i quali il Tribunale di Catania non ha convalidato il trattenimento e la conseguente privazione della libertà personale di cittadini stranieri, entrati  in Italia attraverso la frontiera marittima di Lampedusa e trasferiti nella zona di transito di Pozzallo e provenienti da uno dei “paesi sicuri” e privi di documenti identificativi e passaporto.

Le S.U. (ord. interlocutorie n. 3562 e 3563 del 2024) hanno ritenuto che, in relazione alle norme interne applicate dal Questore per emanare i decreti di trattenimento e disapplicate dal giudice della convalida, in relazione all’obbligo di motivazione caso per caso e alla configurazione della garanzia finanziaria che, unitamente alla consegna del passaporto od altro documento identificativo, avrebbero potuto evitare la privazione della libertà personale, si renda necessario interpellare la Corte di Giustizia, individuando consistenti perplessità interpretative nelle norme predette in relazione all’effettività delle misure alternative al trattenimento così come delineate dal legislatore dell’ultima riforma (art. 6 bis d.lgs n. 142 del 2015 e D. Min. Interno 14 settembre 2023). La garanzia finanziaria, per come normativamente prevista, può risultare apparente ed inapplicabile in concreto oltre che non fondata su una valutazione e motivazione individuale.

Il quesito sottoposto alla Corte di Lussemburgo è il seguente:

«Se gli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, tenuto conto altresì dei fini desumibili dai suoi considerando 15 e 20, ostino a una normativa di diritto interno che contempli, quale misura alternativa al trattenimento del richiedente (il quale non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente), la prestazione di una garanzia finanziaria il cui ammontare è stabilito in misura fissa (nell’importo in unica soluzione determinato per l’anno 2023 in euro 4.938,00, da versare individualmente, mediante fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa) anziché in misura variabile, senza consentire alcun adattamento dell'importo alla situazione individuale del richiedente, né la possibilità di costituire la garanzia stessa mediante intervento di terzi, sia pure nell’ambito di forme di solidarietà familiare, così imponendo modalità suscettibili di ostacolare la fruizione della misura alternativa da parte di chi non disponga di risorse adeguate, nonché precludendo la adozione di una decisione motivata che esamini e valuti caso per caso la ragionevolezza e la proporzionalità di una siffatta misura in relazione alla situazione del richiedente medesimo».

 

3. La decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi per il pubblico impiego contrattualizzato in costanza di rapporto (Cassazione, Sez. Unite, sentenza n. 36197 del 28/12/2023)

La Sezione Lavoro della Corte di cassazione, con l’ordinanza interlocutoria 28 febbraio 2023, n. 6051, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione di massima di particolare importanza, concernente la decorrenza, nel pubblico impiego contrattualizzato, della prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori assunti a seguito di procedura di stabilizzazione, dopo lo svolgimento di rapporti di lavoro regolari e dotati di stabilità reale. 

All’origine dell’odierna pronuncia vi è Cass., sez. lav., 6 settembre 2022 n. 26246, che alla luce delle modifiche legislative apportate al regime della tutela da illegittimo licenziamento prima dalla legge n. 92 del 2012 (cd. Legge Fornero), poi dal d.lgs. n. 23 del 2015 (Jobs act),  ha adeguato i principi tradizionali che differenziavano il regime del decorso della prescrizione dei crediti a seconda della natura della tutela offerta al lavoratore, che si negava potesse iniziare in caso di rapporti assistiti dalla sola tutela obbligatoria, e così estendendo l’effetto sospensivo anche  a quelli presidiati dalla tutela reale, dato che quest’ultima è oggi del tutto frammentata e non tale da garantire la sicurezza della reintegra pur a fronte dell’accertamento dell’illegittimità del licenziamento[1].

La stessa sezione lavoro ha dunque interpellato le Sezioni Unite al fine di conoscere se quella nuova nozione di “stabilità” portata dalle riforme e tale da determinare il diverso orientamento potesse valere anche nel settore del pubblico impiego, in particolare nel caso di reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato cui avesse fatto seguito la stabilizzazione, così da determinare la sospensione del decorso della prescrizione.

Le Sezioni unite hanno però escluso la possibilità di estendere anche al pubblico impiego il regime ora valido per l’impiego privato, riconoscendo innanzitutto il persistere di decisive differenze determinate essenzialmente da esigenze di rilievo costituzionale; hanno ribadito che almeno sino alla modifica legislativa (con l. n. 75 del 2017, art. 21) dell’art. 63, co.2 del d. lgs. N. 165/2021 nei confronti dei i lavoratori assoggettati al regime dell’impiego pubblico privatizzato continuava a trovare applicazione l’art. 18 Stat. Lav. nella originaria formulazione; hanno poi escluso che pur dopo la riforma il dipendente pubblico possa essere assoggettato al metus capace di impedire il decorso della prescrizione dei crediti, visto che pur sempre al dipendente pubblico è garantita la tutela reintegratoria seppure in forma attenuata.

Il principio di diritto formulato è il seguente: «La prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato decorre sempre – tanto in caso di rapporto a tempo indeterminato, tanto di rapporto a tempo determinato, così come di successione di rapporti a tempo determinato – in costanza di rapporto (dal momento di loro progressiva insorgenza) o dalla sua cessazione (per quelli originati da essa), attesa l’inconfigurabilità di un metus. Nell’ipotesi di rapporto a tempo determinato, anche per la mera aspettativa del lavoratore alla stabilità dell'impiego, in ordine alla continuazione del rapporto suscettibile di tutela».  

Le Sezioni unite hanno dunque ulteriormente scavato il solco tra i due regimi, lasciando soccombere quelle esigenze di uniformità che viceversa dovrebbero muovere lo stesso Legislatore ad una complessiva azione riformatrice capace di riportare la materia a canoni di razionalità e di equità quanto più urgenti e necessari.

 

4. L’applicabilità del disposto dell’art. 230 bis, comma 3, c.c., in tema di impresa familiare, in caso di convivenza di fatto di accertata stabilità: questione di legittimità costituzionale (Cassazione, Sez. Unite, ordinanza n. 1900 del 18/1/2024)

La Sezione Lavoro con l’ordinanza interlocutoria n. 2121 del 24 gennaio 2023, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione di massima di particolare importanza consistente nel quesito «se l’art. 230 bis, comma terzo, cod. civ. possa essere evolutivamente interpretato (in considerazione del mutamento dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso) in chiave di esegesi orientata sia agli artt. 2, 3, 4 e 35 Cost. sia all’art. 8 CEDU come inteso dalla Corte di Strasburgo, nel senso di prevedere l’applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da un grado accertato di stabilità».

Le Sezioni unite, con l’ordinanza n. 1900/2024,, hanno dichiarato rilevante e non manifestamente infondata – in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., all’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ed all’art. 117, comma 1, Cost., in riferimento agli artt. 8 e 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 230 bis c.c., norma che, al primo comma, dispone che «il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato» e, al terzo comma, indica che «ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo», ma non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio.

Considerando preliminarmente come non applicabile ratione temporis dell’art. 230 ter c.c. (introdotto dall’art. 1, comma 46, l. n. 76 del 2016), norma insuscettibile di applicazione o di interpretazione retroattiva, il dubbio di legittimità costituzionale si fonda sulla potenziale irragionevolezza del trattamento differenziato del lavoro prestato nell’impresa dal convivente rispetto a quello del familiare, che, ha ritenuto la S.C., non poteva superarsi mediante un’interpretazione estensiva,  conforme alla Costituzione, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e ai principî enunciati dalla Corte EDU,  dell’art. 230 bis c.c. in ragione dell’insuperabile testo della disposizione e dei rischi di distonia del sistema ingenerati da una tale lettura.

La Corte ha però espressamente considerato l’evoluzione che si è avuta nella società con la sempre maggiore diffusione della convivenza more uxorio, evoluzione di cui hanno tenuto conto, in ambito nazionale, sia la Corte costituzionale sia il legislatore con la citata legge n. 76/2016. Ed allora, ad avviso della Corte, la situazione del convivente more uxorio che per lungo tempo abbia lavorato nell’impresa familiare dell’altro convivente non pare integrare alcuno dei motivi eccezionali che possono legittimare una differenziazione rispetto alle persone che vivono una relazione formalizzata in un vincolo giuridico - sia esso matrimonio o altro tipo di unione registrata - e così l’esclusione di ogni tutela pare porsi in contrasto non solo con gli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost. ma soprattutto con la giurisprudenza della Corte EDU e con il diritto UE.

Prendendo le mosse dai principi generali che vengono in rilievo in questo particolare settore, che coinvolge tanto la materia della famiglia quanto quella del lavoro, la Corte ha osservato che sia la Corte EDU sia la Corte costituzionale, pur riconoscendo la discrezionalità del legislatore nel prevedere diverse soglie di tutela dei vincoli discendenti dal matrimonio e dalla convivenza di fatto in relazione alla necessità di proteggere i controinteressi in gioco, hanno tuttavia stigmatizzato che nessuna situazione espressiva della scelta di un differente modello familiare può restare priva di tutela. Di qui la necessità di rivolgersi al Giudice delle leggi per la soluzione del dubbio come prospettato.

 

5. La “sussidiarietà” dell’azione di ingiustificato arricchimento (Cassazione, Sez. Unite, sentenza n. 33954 del 5/12/2023)

La pronuncia in esame concerne la nozione di “sussidiarietà” dell’azione di ingiustificato arricchimento, sancita dalla disposizione dell’art. 2042 c.c. 

Le SS.UU. affermano che la finalità di tale disposizione è quella di preservare la certezza del diritto ed impedire il ricorso all’azione di arricchimento per recuperare un’azione non più esercitabile a causa del comportamento colpevole del titolare, come nei casi di intervenuta prescrizione o decadenza.

La sussidiarietà ha dunque carattere generale e va applicata “in astratto”, nel senso che se l’impoverito dispone di altre azioni l’azione di arricchimento non può essere esercitata.

Tale principio va però temperato, in quanto nella sua accezione più rigorosa rischierebbe di svuotare la finalità intrinsecamente equitativa dell’azione e legittimare un utilizzo strumentale della sussidiarietà.

L’azione ex art. 2041 c.c. sarà dunque esperibile anche nell’ipotesi di carenza o nullità del titolo contrattuale posto a fondamento della pretesa, salvo che la nullità derivi da illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico.

Del pari, l’azione ex art. 2041 c.c. potrà essere esercitata nell’ipotesi di carenza di uno degli elementi costitutivi della responsabilità aquiliana, e segnatamente nell’ipotesi in cui lo squilibrio patrimoniale tra le parti non possa qualificarsi come “ingiusto” (cioè contra ius) ma “ingiustificato”, vale a dire in ipotesi di assenza della lesione di un diritto, carenza dell’elemento soggettivo ovvero laddove non sia ravvisabile un pregiudizio nei termini di cui all’art.1223 c.c., ma solo un arricchimento.

Essa sarà infine esperibile anche nell’ipotesi di accertata insussistenza del titolo di una domanda fondata su una clausola generale, come nella responsabilità ex art. 1337 c.c. 

Il principio di diritto espresso è il seguente: «Ai fini della verifica del rispetto della regola di sussidiarietà di cui all’art. 2042 c.c., la domanda di arricchimento è proponibile ove la diversa azione, fondata sul contratto, su legge ovvero su clausole generali, si riveli carente ab origine del titolo giustificativo. Viceversa, resta preclusa nel caso in cui il rigetto della domanda alternativa derivi da prescrizione o decadenza del diritto azionato, ovvero nel caso in cui discenda dalla carenza di prova circa l’esistenza del pregiudizio subito, ovvero in caso di nullità del titolo contrattuale, ove la nullità derivi dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico».

 

6. La misura degli interessi moratori in materia di prestazioni sanitarie erogate dalle strutture private accreditate (Cassazione, Sez. Unite, n. 35902 del 14/12/2023)

Con la pronuncia in esame le Sezioni unite risolvono la questione se sia applicabile alle strutture private “accreditate” la particolare disciplina introdotta dal d.lgs. 231 del 2002 in materia di ritardi nei pagamenti delle “transazioni commerciali”, che ha recepito la Direttiva 2000/35/CE del 29.6.2000, diretta a disincentivare la mora nel pagamento delle prestazioni di beni e servizi forniti da imprese e liberi professionisti.

Si  ricostruisce l’inquadramento del rapporto tra struttura privata accreditata e Servizio sanitario nazionale, nei seguenti termini:

a) il presupposto della costituzione del rapporto è l’autorizzazione all’ esercizio di attività sanitarie rilasciata dal Comune; 

b) è inoltre necessario il c.d. “accreditamento istituzionale”, riconducibile al genus della concessione di pubblico servizio, affidata alla Regione;

c) segue infine una fase contrattuale con le singole strutture “accreditate”, affidata alla Regione ed alle AUSL, in assenza della quale le Aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale non sono tenuti a corrispondere il corrispettivo per le prestazioni erogate.

Il rapporto tra SSN e strutture private accreditate si articola dunque su un duplice piano: una prima fase unilaterale (provvedimentale) in cui la P.A. agisce iure imperii ed una seconda fase contrattuale, a valle, regolata dallo ius privatorum.

Le prestazioni sanitarie erogate dalle strutture accreditate trovano dunque fondamento in una fattispecie negoziale, che può essere qualificata come contratto a favore di terzi, ad esecuzione continuata, soggetta a pena di nullità alla forma scritta, e con obbligo di pagamento di un corrispettivo.

Da ciò discende che dette prestazioni rientrano nell’ampia nozione di transazioni commerciali tra una pubblica amministrazione ed un imprenditore, di cui all’art. 2, lett. a) del d.lgs. 231 del 2002, ed in caso di ritardo nei pagamenti saranno applicabili gli interessi di mora nella misura prevista dal medesimo d.lgs. n.231 del 2002. 

Il principio di diritto formulato è il seguente: «Le prestazioni sanitarie erogate ai fruitori del Servizio sanitario nazionale dalle strutture private con esso accreditate, sulla base di un contratto scritto, accessivo alla concessione che ne regola il rapporto di accreditamento, concluso dalle stesse con la pubblica amministrazione dopo l’8 agosto 2002, rientrano  nella nozione di transazione commerciale di cui all’art. 2 del d.lgs n. 231 del 2002, avendo le caratteristiche di un contratto a favore di terzo, ad esecuzione continuata, per il quale alla erogazione della prestazione in favore del privato da parte della struttura accreditata corrisponde la previsione dell’erogazione di un corrispettivo da parte dell’amministrazione pubblica.

Ne consegue che, in caso di ritardo nella erogazione del corrispettivo dovuto da parte della amministrazione obbligata, spettano alle strutture private accreditate gli interessi legali di mora ex art. 5 del d.lgs. n. 231 del 2002».


 
[1] Sul tema in generale, v. E. Tarquini, I confini della reintegrazione, “terribile rimedio”, e la sospensione della prescrizione dei crediti dei lavoratori: la tutela della parte debole quando è più debole, su questa rivista, https://www.questionegiustizia.it/articolo/terribile-rimedio.

 

22/02/2024
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