Magistratura democratica
Pillole di Sezioni Unite

Sentenze di aprile-settembre 2024

a cura di Redazione

Le più interessanti sentenze delle Sezioni Unite Penali depositate nel periodo aprile 2024 – settembre 2024

1. In materia di misure cautelari personali, l'ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti di un imputato o indagato alloglotta, ove sia già emerso che questi non conosca la lingua italiana, è affetta, in caso di mancata traduzione, da nullità ai sensi del combinato disposto degli artt. 143 e 292 cod. proc. pen. Ove, invece, non sia già emerso che l'indagato o imputato alloglotta non conosca la lingua italiana, l'ordinanza di custodia cautelare non tradotta emessa nei suoi confronti è valida fino al momento in cui risulti la mancata conoscenza di detta lingua, che comporta l'obbligo di traduzione del provvedimento in un congruo termine, la cui violazione determina la nullità dell'intera sequenza di atti processuali compiuti sino a quel momento, in essa compresa l'ordinanza di custodia cautelare

(Cass. Sez. U n. 15069 del 26.10.2023, dep.11.04.2024, Niecko Tomasz Pawel)

Le sezioni unite penali con la decisione n.15069 del 2024 hanno affrontato un tema di sicura rilevanza, elaborando una soluzione non priva di criticità dogmatiche.

Il problema affrontato riguarda la validità o meno del titolo cautelare emesso ed eseguito nei confronti dello straniero alloglotta, anche alla luce della formulazione testuale dell’art.143 comma 2 cod.proc.pen., disposizione introdotta dal d.lgs. n.32 del 2014 (secondo cui va disposta la traduzione scritta, entro un termine congruo, di una serie di atti del procedimento – in ipotesi di imputato alloglotta – tra cui le ordinanze che dispongono misure cautelari personali).

La diversità di approccio registrata nel corso degli anni nelle pronunzie delle sezioni semplici riguarda in primis il punto della “incidenza” della omessa traduzione del provvedimento - in lingua nota all’indagato - sulla «validità» dell’atto. 

In particolare, in numerosi arresti si è escluso che il deposito dell’atto (solo) in lingua italiana potesse dar luogo ad un vizio (data la tassatività delle ipotesi di nullità) con incidenza solo sulla decorrenza del termine per proporre impugnazione, da posporsi al momento della conoscenza effettiva del contenuto dell’atto (così, per tutte Sez. VI n. 51951 del 17.10.2017, Minte) , mentre in altri casi si è ritenuta la omessa traduzione fonte di invalidità dell’atto medesimo (orientamento risalente alla decisione emessa dalle Sezioni Unite del 2003, ricorrente Zalagaitis, pur con un importante distinguo tra l’ipotesi in cui la mancata conoscenza della lingua sia già nota e momento in cui si manifesti in sede di interrogatorio). 

Le Sezioni Unite propendono per la tesi del vizio dell’atto, correlato alla mancata o tardiva traduzione del medesimo, lì dove risulti la mancata conoscenza della lingua italiana in capo al destinatario, richiamando i contenuti della decisione emessa dalla Corte Costituzionale in punto di necessaria effettività dei diritti di difesa e contraddittorio spettanti allo straniero alloglotta (sent. n.10 del 1993) e quelli della direttiva UE 2010/64 in tema di diritto alla interpretazione e traduzione nei procedimenti penali.

Viene peraltro precisato che il vizio assume – in rapporto alla concreta dinamica procedimentale – una consistenza e una modalità di manifestazione diversa:

a) se l’adozione del provvedimento avviene in un momento in cui è già nota al giudice procedente la mancata conoscenza della lingua italiana in capo al destinatario, il provvedimento nasce viziato, in riferimento all’obbligo nascente dall’articolo 143 del codice di rito. Si tratta di una nullità di ordine generale a regime intermedio, che va eccepita con l’impugnazione dell’ordinanza davanti al Tribunale del Riesame;

b) se la particolare condizione soggettiva del destinatario emerge in un momento posteriore alla emissione, il provvedimento nasce valido, ma l’autorità procedente è gravata dall’obbligo di disporre la traduzione dell’atto, in un congruo termine, pena il manifestarsi (ex post rispetto al momento di emissione dell’atto) della nullità di ordine generale per violazione dei diritti difensivi. La nullità non si determina lì dove l’indagato, anche in rapporto all’avvenuta traduzione orale effettuata ai sensi dell’art.51 bis disp.att. cpp, formuli espressa rinunzia alla traduzione scritta.

Tanto premesso, le Sezioni Unite si diffondono anche sul punto dell’interesse alla deduzione della nullità di cui sopra. 

Si tratta di un punto della decisione di estrema delicatezza, in termini dogmatici, posto che si rischia – in tal modo – di introdurre una causa di sanatoria del vizio non espressamente prevista dalla legge. Si afferma in particolare che «l’interesse a dedurre una tale patologia processuale sussiste soltanto se e in quanto il soggetto alloglotta abbia allegato di aver subìto, in conseguenza dell’ordinanza non tradotta, un pregiudizio illegittimo». 

In tal modo si ritiene di tradurre, nel caso concreto, la generale previsione di cui all’articolo 182 cpp ove si legge che le nullità di ordine generale non assolute non possono essere dedotte da chi «non ha interesse alla osservanza della disposizione violata» ma il punto è altamente discutibile. 

In altre decisioni – sempre dell’organo di vertice della giurisdizione – si era precisato che l’interesse alla deduzione va identificato in rapporto alla titolarità del diritto sotteso alla disposizione violata e non necessita di specifiche allegazioni ( v. Sez. U n. 58120 del 2017 ric. Tuppi in tema di modalità di notifica della citazione ove si è affermato, in tema di deduzione : «assegnando alla parte interessata un onere di allegare, si giungerebbe infatti al risultato paradossale di "sterilizzare" automaticamente un vizio, che si ammette integrare una nullità di ordine generale, ogniqualvolta la notifica pur irregolare sia compiuta a mani del difensore di fiducia»).

Sta di fatto che nel caso concreto sottoposto al giudizio, proprio l’assenza di una espressa deduzione di pregiudizio correlato alla omessa traduzione in lingua del titolo cautelare conduce alla declaratoria di inammissibilità del ricorso (pur se la traduzione era avvenuta a distanza di più di due mesi dalla emissione della ordinanza). 

Quanto, inoltre, alla possibile identificazione del «termine congruo» in cui posizionare la traduzione del provvedimento cautelare (nelle ipotesi di mancata conoscenza della lingua italiana emersa dopo la esecuzione del titolo) le Sezioni Unite non forniscono una indicazione analitica, limitandosi ad affermare che simile accertamento integra una questione di fatto rimessa alla valutazione del giudice del merito. Vengono evocate le possibili variabili (complessità del provvedimento, elevato numero dei soggetti coinvolti, rarità dell’idioma parlato dallo straniero) in un contesto teso ad evocare la necessaria tempestività dell’adempimento. 

 

2. La condotta, tenuta nel corso di una pubblica riunione, consistente nella risposta alla “chiamata del presente” e nel cosiddetto “saluto romano” integra il delitto previsto dall’art. 5 legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo alle circostanze del caso, sia idonea ad attingere il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disp. trans. fin. Cost; tale condotta può integrare anche il delitto, di pericolo presunto, previsto dall’art. 2, comma 1, d.l. n. 122 del 26 aprile 1993, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, ove, tenuto conto del significativo contesto fattuale complessivo, la stessa sia espressiva di manifestazione propria o usuale delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’art. 604-bis, secondo comma, cod. pen. (già art. 3 legge 13 ottobre 1975, n. 654)

(Cass. Sez. Un. n. 16153 del 18.01.2024, dep. 17.04.2024, Clemente ed altri)

Le Sezioni Unite penali, con la sentenza n. 16153 del 18 gennaio 2024, sono intervenute a dirimere un contrasto giurisprudenziale relativo alla rilevanza penale del c.d. “saluto romano” e della risposta al “presente”, gesti rituali sovente compiuti nel corso di manifestazioni commemorative di soggetti riconducibili al periodo fascista o comunque di dichiarata fede fascista. Il tema controverso concerneva la possibilità di ricondurre tali condotte alla fattispecie incriminatrice dell’art. 5 della legge Scelba (l. n. 645 del 1952), ovvero a quella dell’art. 2 della legge Mancino (d.l. n. 122 del 1993, conv. in l. n. 205 del 1993), nonché la configurabilità di un rapporto di specialità o di un concorso tra le due disposizioni.

Sul punto, potevano riscontrarsi due diversi orientamenti giurisprudenziali. Il primo tendeva a ricondurre simili condotte nell’alveo dell’art. 5 cit., ritenendoli espressione di manifestazioni esteriori usuali del disciolto partito fascista, e dunque penalmente rilevanti in quanto idonei a suscitare un concreto pericolo di ricostituzione dello stesso, secondo una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 1 della medesima legge. Il secondo orientamento riteneva, invece, che le medesime condotte potessero essere qualificate ai sensi dell’art. 2, comma 1, cit., come espressione di simbologie riconducibili a movimenti fondati su ideologie di odio e discriminazione, in quanto manifestazioni idonee a diffondere messaggi di intolleranza e violenza.

Dopo aver ricostruito il quadro normativo di riferimento e richiamato i principi costituzionali in materia (in particolare la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, nonché gli artt. 3 e 21 Cost.), le Sezioni Unite hanno evidenziato che le due norme incriminatrici tutelano beni giuridici distinti: l’art. 5 della legge Scelba è diretto a prevenire la riorganizzazione del partito fascista, dunque è posto a tutela dell’ordine democratico o costituzionale, mentre l’art. 2 della legge Mancino mira a contrastare la diffusione di idee discriminatorie e di atti di violenza per ragioni razziali, etniche, nazionali o religiose, e ciò a salvaguardia dei valori di solidarietà, dignità e eguaglianza di tutti i consociati. Ne discende che le due fattispecie, pur avendo un nucleo comune – rappresentato dal compimento di talune manifestazioni durante pubbliche riunioni – sono autonome e possono concorrere nella medesima condotta, purché siano soddisfatti i relativi presupposti. Difatti, non può rivenirsi alcun rapporto di specialità unilaterale, considerato che, al più, nel caso in esame ricorre la c.d. specialità ‘bilaterale’, la quale, per orientamento costante della Corte di legittimità, è estranea alla previsione dell’art. 15 cod.pen.

In particolare, la Corte, condividendo un orientamento già esposto dalla Consulta (cfr. sent. n. 15 del 1973), ha chiarito che l’art. 5 cit. configura un reato di pericolo concreto, per cui è necessaria la verifica della capacità della condotta di suscitare un rischio concreto ed attuale di ricostituzione del disciolto partito fascista. «È la stessa funzione “ancillare” della norma dell’art. 5 cit. rispetto ad una precisa disposizione costituzionale che rivela l’oggetto del pericolo che si vuole contrastare (ovvero la ricostituzione del disciolto partito fascista) e, allo stesso tempo, per conseguente necessità di considerare i limiti intrinseci del bilanciamento con altri valori costituzionali, la natura non astratta bensì concreta dello stesso».

Di contro, l’art. 2 legge Mancino configura un reato di pericolo presunto, poiché punisce la semplice manifestazione di simbologie o comportamenti riconducibili a movimenti con finalità discriminatorie, indipendentemente dall’effettivo pericolo di propagazione. Tuttavia, le Sezioni Unite hanno ribadito la necessità di rileggere una simile norma incriminatrice alla luce del principio di offensività, data la necessità di bilanciare i principi di pari dignità e di non discriminazione con quello della libertà di espressione. Da ciò deriverebbe dunque, il dovere del giudice di indagare la concreta pericolosità del fatto, e di conseguenza la probabilità (e non la mera possibilità) di lesione del bene giuridico tutelato. Avendo il legislatore già compiuto una valutazione del pericolo, che si esaurisce all’interno della fattispecie astratta, al giudice spetta il compito di verificare la sussistenza di elementi di fatto capaci di dimostrarne, in concreto, l’assenza. Difatti, è orientamento ormai pacifico che anche le fattispecie costruite sul modello del “pericolo presunto” debbano essere sottoposte ad un vaglio di resistenza al principio di offensività. Sul punto, viene richiamata la pronuncia n. 139 del 2023 della Corte costituzionale, nella quale la Consulta ha ribadito che il principio di offensività in concreto deve operare anche in rapporto alla figura del pericolo presunto. In altri termini, spetta al giudice «il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa» (Corte cost., sent. n. 225/2008, richiamata dalle Sezioni Unite). La conseguenza di un simile orientamento è la riduzione della distanza tra le due tipologie di fattispecie criminose, ossia quelle di pericolo concreto e quelle di pericolo astratto o presunto. 

Dunque, il delitto previsto dall’art. 5 della legge Scelba è integrato quando la condotta – quale il saluto romano o la risposta alla “chiamata del presente” – si svolge in un contesto pubblico e organizzato che, per modalità, finalità, simboli e partecipanti, risulti oggettivamente idoneo a suscitare il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista. È dunque necessario accertare l’attitudine della manifestazione a porsi come momento collettivo di rievocazione o rilancio ideologico e politico del fascismo storico, in chiave ricostitutiva.

Il reato di cui all’art. 2 della legge Mancino è invece integrato quando la medesima condotta venga compiuta in un contesto dal quale emerga che il gesto costituisce espressione simbolica di ideologie discriminatorie o di incitamento all’odio razziale, etnico, nazionale o religioso, anche in assenza del concreto pericolo di riorganizzazione di movimenti eversivi. In questo caso, però, non saranno sanzionabili le mere manifestazioni esteriori espressive di incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi raziali, etnici, nazionali o religiosi, ma esclusivamente quelle manifestazioni che risultino proprie od usuali dei gruppi che tale incitamento pongono in essere, ossia le manifestazioni che appartengono al linguaggio tipico di quelle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’art. 604-bis, secondo comma, cod. pen. (già art. 3 legge 13 ottobre 1975, n. 654) – a prescindere da finalità politiche o evocative del fascismo storico. Tuttavia, non risulta necessario altresì una precedente, rigida e formale schematizzazione di simili organizzazioni. O meglio, non si deve procedere ad una dimostrazione dei tempi e dei modi della costituzione di tali gruppi (in ciò le Sezioni Unite prendono le distanze dal precedente cui pure, in massima parte si ispirano), ben potendo l’operatività di tali aggregazioni essere dimostrata proprio dalla condotta “collettiva” posta in essere, dalla quale si può ricavare anche lo scopo di incitamento alla discriminazione o alla violenza, per i riprovevoli motivi suindicati. 

Infine, la Corte ha precisato che, in assenza di una disciplina espressa sul concorso tra le due norme, spetta al giudice valutare in concreto la possibilità di configurare la pluralità di reati. Questa, in particolar modo, ricorrerà nel caso in cui il rituale descritto dall’art. 5 legge cit. sia accompagnato da «elementi, relativi al contesto complessivo in cui lo stesso sia tenuto, idonei ad attribuirgli non la sola funzione semplicemente evocativa del disciolto partito fascista […] ma anche, a fronte del contesto materiale o dell’ambito nel quale la manifestazione ha luogo, il significato discriminatorio tipizzante il reato di cui all’art. 2 cit.».

 

3. Non sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all’art. 346, secondo comma, cod. pen. - abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 - e il reato di traffico di influenze illecite di cui all’art. 346-bis cod. pen., come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. t) della citata legge. Le condotte, già integranti gli estremi dell’abolito reato di cui all’art. 346, secondo comma, cod. pen., potevano, e tuttora possono, configurare gli estremi del reato di truffa (in passato astrattamente concorrente con quello di millantato credito corruttivo), purché siano formalmente contestati e accertati in fatto tutti gli elementi costitutivi della relativa diversa fattispecie incriminatrice

(Cass., Sez. Un., Sentenza n. 19357 del 29.02.2024, dep. 15.05.2024, Mazzarella)

Con la sentenza n. 19357, le Sezioni Unite hanno affrontato la questione della continuità normativa tra l’abrogato reato di millantato credito, in particolar modo nella ipotesi c.d. ‘corruttiva’ (art. 346, comma 2, cod. pen.), e l’attuale reato di traffico di influenze illecite (art. 346-bis cod. pen.), come modificato dalla legge 9 gennaio 2019, n. 3. Il quesito sottoposto alla Corte riguardava la possibilità di riqualificare le condotte già riconducibili alla norma abrogata nella nuova previsione di cui all’art. 346-bis, in un’ottica di continuità normativa ex art. 2, co. 4, cod. pen.

La questione ha trovato origine nella divergenza interpretativa formatasi nella giurisprudenza di legittimità successivamente all’entrata in vigore della legge 9 gennaio 2019, n. 3, che ha abrogato l’art. 346 cod. pen. (millantato credito), contestualmente modificando l’art. 346-bis cod. pen. (traffico di influenze illecite). 

Un primo orientamento, incline a ritenere la sussistenza di una piena continuità normativa tra le due disposizioni, valorizzava la circostanza che la riforma legislativa del 2019 era stata adottata al dichiarato scopo di conformare la disciplina penale interna agli obblighi internazionali assunti dal nostro Paese. In tale prospettiva, si riteneva che il nuovo art. 346-bis cod. pen., pur contenendo delle novità – estensione della punibilità al soggetto che intende trarre vantaggi dal traffico di influenze illecite e non perfetta coincidenza fra le figure dei pubblici agenti interessati – punisse, in sostanza, le medesime condotte in precedenza descritte dall’art. 346 cod. pen. Si sosteneva che la mediazione meramente vantata, ancorché non effettiva, potesse rientrare nella nozione di “influenza illecita” richiamata nella nuova norma, di fatto affermando che il reato di traffico di influenze illecite avesse “inglobato” anche la descrizione delle condotte in precedenza sanzionate dal reato di millantato credito.

Un secondo orientamento, invece, negava radicalmente l’idea di una simile continuità normativa, sottolineando le differenze strutturali e funzionali tra le due disposizioni. Secondo questa linea interpretativa, il millantato credito, nella sua versione “corruttiva”, costituiva una figura autonoma di reato, incentrata sulla vanteria di relazioni inesistenti e priva di un effettivo collegamento con l’agente pubblico, oltreché sulla circostanza che il denaro richiesto servisse a corrompere il pubblico funzionario, come evidenziato dal fatto che la norma abrogata faceva espresso riferimento all’ottenimento dell’utilità «col pretesto» di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare, formula non riproposta nella nuova disciplina dell’art. 346-bis cod. pen. Pertanto, si riteneva che in realtà, nonostante la manifestata volontà del legislatore del 2019 di realizzare una forma di abrogatio sine abolitione, l’abrogazione del reato di millantato credito avesse determinato una vera e propria abolitio criminis, stante la mancanza di un’esatta corrispondenza tra la condotta in precedenza prevista dall’abrogato art. 346, co. 2, cod. pen. e quella contenuta nel nuovo art. 346-bis cod. pen., con conseguente improcedibilità per i fatti anteriori, salvi i casi in cui ricorressero gli estremi di una diversa fattispecie, come la truffa.

La Corte, premessa la prevalenza dell’interpretazione letterale rispetto al riferimento alla volontà del legislatore, ha aderito al secondo orientamento, negando che tale continuità sussista. Le Sezioni Unite sono pervenute a simile esito sulla base di un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, è stato valorizzato il risultato del raffronto generale tra i modelli tipici delle due fattispecie delittuose: la norma abrogata prevedeva un reato a struttura monosoggettiva, centrato sulla condotta del soggetto che “millantando credito” presso un pubblico ufficiale riceveva, si faceva dare o promettere una utilità "col pretesto" di dover corrompere o remunerare il pubblico agente, ingannando un soggetto che restava vittima del raggiro. Viceversa, la nuova fattispecie di cui all’art. 346-bis configura un reato plurisoggettivo, nel quale viene punito anche il committente, con pari trattamento sanzionatorio, in quanto consapevole dell’assenza attuale di una relazione effettiva con il pubblico agente e partecipe, in posizione paritaria, dell’intesa criminosa.

La Corte ha rilevato, inoltre, che la nuova norma si atteggia come un “reato-contratto”, nel quale il “committente” e il “trafficante” sono entrambi privati che stipulano un accordo sinallagmatico, volto a ottenere illecitamente un risultato mediante una mediazione verso il pubblico agente. La causa di tale “contratto” illecito, che è assente nella previgente disposizione, costituisce il ‘nucleo essenziale’ della nuova fattispecie.

In secondo luogo, la Corte ha evidenziato la rilevante difformità lessicale tra le due disposizioni: nella norma abrogata era presente il sintagma «col pretesto», che esprimeva una componente frodatoria della condotta e rappresentava la specifica causa della dazione o promessa da parte del privato ingannato. Questo elemento è assente nella nuova norma, che utilizza la formula «vantando relazioni asserite», priva di riferimento alla falsa rappresentazione della realtà e indicativa di una consapevolezza reciproca dei contraenti. La soppressione della formula «col pretesto» esclude che il legislatore abbia inteso ricomprendere, nella nuova norma, l’ipotesi in cui il privato sia tratto in inganno dal mediatore.

Di conseguenza, secondo le Sezioni Unite, riconoscere una continuità normativa tra le due fattispecie determinerebbe la punizione anche del committente vittima dell’inganno, solo per il disvalore delle sue intenzioni, in assenza di una condotta concretamente offensiva; esito che contrasterebbe con i principi costituzionali di materialità e offensività.

È quindi ragionevole ritenere che il legislatore, omettendo nella nuova disposizione il riferimento al «pretesto», abbia deliberatamente escluso l’ipotesi della vittima ingannata, configurando una fattispecie incriminatrice distinta e autonoma rispetto al previgente millantato credito. Piuttosto, si deve ritenere che con la modifica normativa si è voluto sanzionare il soggetto “compratore”, al pari del “trafficante”, perché, pur consapevole che la relazione con il pubblico funzionario è ancora inesistente e solo “vantata”, decide di fare affidamento sulla potenziale capacità del mediatore di instaurare quel rapporto affaristico, in tal modo concorrendo a determinare quella effettiva messa in pericolo del bene giuridico protetto, che, in una lettura costituzionalmente orientata, è l’unica condizione che può legittimare l’omogeneo trattamento sanzionatorio per entrambi i correi.

La Corte ha altresì osservato che le condotte precedentemente punite come millantato credito possono in astratto ricadere nella fattispecie della truffa, a condizione che siano presenti e accertati in concreto tutti gli elementi costitutivi della relativa figura criminosa, tra cui l’induzione in errore, l’ingiusto profitto e il danno patrimoniale. Tuttavia, per procedere in tal senso è necessaria una formale contestazione del diverso titolo di reato, non potendosi operare una mera trasposizione automatica.

 

4. «In materia di ordine europeo di indagine, l’acquisizione dei risultati di intercettazioni disposte da un’autorità giudiziaria straniera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, ed effettuate su una piattaforma informatica criptata e su criptofonini, non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 234-bis cod. proc. pen., che opera al di fuori delle ipotesi di collaborazione tra autorità giudiziarie, ma è assoggettata alla disciplina di cui all’art. 270 cod. proc. pen.».

«La trasmissione, richiesta con ordine europeo di indagine, del contenuto di comunicazioni scambiate mediante criptofonini, già acquisite e decrittate dall’autorità giudiziaria estera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 234-bis cod. proc. pen., che opera al di fuori delle ipotesi di collaborazione tra autorità giudiziarie, bensì nella disciplina relativa alla circolazione delle prove tra procedimenti penali, quale desumibile dagli artt. 238 e 270 cod. proc. pen. e 78 disp. att. cod. proc. pen.».

«In materia di ordine europeo di indagine, le prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione possono essere legittimamente richieste ed acquisite dal pubblico ministero italiano senza la necessità di preventiva autorizzazione da parte del giudice del procedimento nel quale si intende utilizzarle».

«L’emissione, da parte del pubblico ministero, di un ordine europeo di indagine diretto ad ottenere i risultati di intercettazioni disposte da un’autorità giudiziaria straniera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, ed effettuate attraverso l’inserimento di un captatore informatico sui server di una piattaforma criptata, è ammissibile, perché attiene ad esiti investigativi ottenuti con modalità compatibili con l’ordinamento italiano, e non deve essere preceduta da autorizzazione del giudice italiano, quale condizione necessaria ex art. 6 Direttiva 2014/41/UE, perché tale autorizzazione, nella disciplina nazionale relativa alla circolazione delle prove, non è richiesta per conseguire la disponibilità del contenuto di comunicazioni già acquisite in altro procedimento».

«L’utilizzabilità dei risultati di intercettazioni disposte da un’autorità giudiziaria straniera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, ed effettuate su una piattaforma informatica criptata e su criptofonini, deve essere esclusa se il giudice del procedimento nel quale dette risultanze istruttorie vengono acquisite rileva che, in relazione ad esse, si sia verificata la violazione dei diritti fondamentali, fermo restando che l’onere di allegare e provare i fatti da cui in ferire tale violazione grava sulla parte interessata».

«L’impossibilità per la difesa di accedere all’algoritmo utilizzato nell’ambito di un sistema di comunicazioni per criptare il testo delle stesse non determina una violazione dei diritti fondamentali, dovendo escludersi, salvo specifiche allegazioni di segno contrario, il pericolo di alterazione dei dati in quanto il contenuto di ciascun messaggio è inscindibilmente abbinato alla sua chiave di cifratura, ed una chiave errata non ha alcuna possibilità di decriptarlo anche solo parzialmente».

(Cass., Sez. Un., nn. 23755 e 23756 del 29.02.2024, dep. 14.06.2024, Gjuzi, Giorgi)

Con le sentenze nn. 23755 e 23756 del 14 giugno 2024, le Sezioni Unite sono intervenute, a seguito di due ordinanze di rimessione emesse da Sezioni diverse, sulle questioni connesse all’utilizzabilità in sede penale dei dati crittografati estratti dalla piattaforma Sky-Ecc, acquisiti tramite Ordine europeo di indagine. Si trattava, in particolare, di valutare se e in che limiti i risultati delle operazioni di intercettazione compiute all’estero potessero essere impiegati nel procedimento penale italiano, quando trasmessi su richiesta del magistrato nazionale attraverso lo strumento dell’o.e.i. previsto dalla Direttiva 2014/41/UE e dal d.lgs. n. 108 del 2017.

Il tema centrale che ha generato i due diversi rinvii alle Sezioni Unite concerneva l’utilizzabilità, nel processo penale italiano, dei dati acquisiti mediante intercettazioni operate dalle autorità della Francia su dispositivi criptati, poi trasmessi all’Italia tramite o.e.i., nonché la natura dell’autorizzazione richiesta per tale trasmissione, e i limiti del sindacato che il giudice italiano può operare sull’attività compiuta all’estero. Le Sezioni Unite, pur partendo dai due quesiti diversi, hanno affrontato congiuntamente la tematica, fornendo una ricostruzione organica della disciplina dell’o.e.i. e della portata dell’intervento dell’autorità giudiziaria italiana, secondo una logica di cooperazione rafforzata tra Stati membri fondata sulla fiducia reciproca, ma non cieca.

Preliminarmente, la Corte, nel definire i criteri di applicabilità della disciplina dettata in tema di Ordine europeo di indagine, ha precisato che, con riferimento all’acquisizione — mediante o.e.i. — di messaggi scambiati su chat di gruppo tramite sistemi cifrati e già nella disponibilità dell’autorità giudiziaria straniera, non può trovare applicazione l’art. 234-bis cod. proc. pen., in quanto norma alternativa e incompatibile rispetto a quella che regola l’o.e.i. Le due disposizioni disciplinano, infatti, ipotesi del tutto differenti sotto il profilo strutturale e funzionale.

L’art. 234-bis cod. proc. pen. regola infatti una modalità autonoma e diretta di acquisizione di dati informatici conservati all’estero, anche non pubblicamente accessibili, purché previo consenso del legittimo titolare. Tale forma di acquisizione è caratterizzata dalla totale assenza di collaborazione con l’autorità dello Stato estero. Diversa è, invece, la disciplina dell’Ordine europeo di indagine, strumento di cooperazione giudiziaria basato su una richiesta formale inoltrata da uno Stato membro dell’U.E. ad un altro, al fine di ottenere o trasmettere elementi di prova, secondo un modello di cooperazione regolato da norme sovranazionali comuni. Se ne può dedurre che, se l’acquisizione probatoria avviene tramite un o.e.i., l’art. 234-bis cod. proc. pen. non può trovare applicazione, trattandosi di una disposizione concepita per casi in cui l’autorità giudiziaria italiana operi autonomamente, senza dover attivare strumenti di cooperazione con autorità estere.

In seguito, le Sezioni Unite hanno chiarito che, in base al combinato disposto tra il D.lgs. n. 108 del 2017 e la Direttiva 2014/41/UE, l’utilizzabilità degli atti acquisiti tramite o.e.i. da parte dell’autorità giudiziaria italiana è, sì, subordinata al rispetto dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea - e, tra questi, del diritto di difesa e della garanzia di un giusto processo – ma non altresì all’osservanza, da parte dello Stato di esecuzione, di tutte le disposizioni in tema di formazione ed acquisizione di tali atti vigenti nell’ordinamento giuridico italiano. Tale impostazione, peraltro, risulta coerente con quel consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in materia di rogatorie internazionali, si applicano le regole procedurali dello Stato estero in cui l’atto è stato compiuto, salvo però che le modalità di acquisizione non siano in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento italiano, ed in particolar modo con le garanzie difensive.

Occorre peraltro ricordare che, nell’ambito della cooperazione giudiziaria tra Stati membri dell’Unione Europea, l’attività svolta all’estero in esecuzione di un o.e.i. beneficia di una presunzione relativa di conformità ai diritti fondamentali. Tale presunzione, fondata sul principio di reciproca fiducia tra ordinamenti nazionali e riconosciuta sia dalla già citata Direttiva europea, sia dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, consente all’autorità giudiziaria italiana, appunto, di presumere la legittimità dell’atto compiuto all’estero, salvo che non emergano elementi concreti in senso contrario.

Di conseguenza, si può affermare che incombe sulla difesa l’onere di allegare puntualmente i fatti concreti da cui deriverebbe la lesione dei diritti fondamentali e, per l’effetto, l’inutilizzabilità della prova. Tale principio è in linea con l’orientamento della Cassazione, secondo cui è onere della parte che eccepisce l’invalidità di un atto istruttorio indicare specificamente la causa della nullità o dell’inutilizzabilità, nonché fornirne la relativa prova documentale, ove questa non sia già presente nel fascicolo processuale.

In sintesi, in assenza di specifici e comprovati elementi offerti dalla difesa, l’attività compiuta all’estero mediante o.e.i. su richiesta dell’autorità italiana si presume conforme ai principi del giusto processo e, pertanto, è utilizzabile nel procedimento penale interno.

Un profilo significativo analizzato dalle Sezioni Unite è quello della distinzione tra «prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione» al momento dell’emissione dell’o.e.i. e atti di indagine da compiere, stante le significative differenze di disciplina nei due casi. Nelle vicende esaminate, si trattava di dati già acquisiti dalle autorità francesi nell’ambito di un loro procedimento penale; dunque, la trasmissione di tali informazioni all’Italia costituiva un atto di traslazione processuale di prove già disponibili e non un’attività istruttoria da eseguire su impulso del nostro Paese. Di conseguenza, le Sezioni Unite, facendo applicazione degli artt. 238 e 270 cod. proc. pen. e 78 disp. att. cod. proc. pen., e considerato che si trattava di «prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione», hanno ritenuto che il pubblico ministero italiano potesse legittimamente richiederle e acquisirle senza necessità di preventiva autorizzazione del giudice interno. Resta fermo, tuttavia, che al momento della richiesta di utilizzazione nel procedimento nazionale, il giudice ha il compito di valutare la sussistenza dei presupposti per l’ammissibilità e l’utilizzabilità delle prove acquisite, anche in relazione al rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione e dalla Carta di Nizza, e, quindi, anche del diritto di difesa e della garanzia di un giusto processo. In un simile contesto, come già si è precisato, l’onere di allegare e provare eventuali violazioni resta in capo alla parte che le eccepisce.

Ulteriore profilo di criticità concerne la tipologia dello specifico atto trasmesso, considerato che secondo l’ordinanza impugnata, gli atti acquisiti costituiscono «documenti informatici», mentre ad opinione del ricorrente si tratterebbe di dati concernenti il traffico, l’ubicazione, e il contenuto di comunicazioni elettroniche – per la cui acquisizione è necessaria, tra l’altro, la previa autorizzazione di un giudice. Le Sezioni Unite, aderendo alla seconda tesi, hanno precisato che la disciplina che richiede la preventiva autorizzazione del giudice si riferisce alla acquisizione dei dati presso il gestore dei servizi telefonici e telematici, ma non anche all’utilizzazione dei dati in un procedimento penale diverso da quello in cui sono stati già acquisiti, considerato che l’art. 132 del d. lgs. n. 196 del 2003 fa riferimento ai dati relativi al traffico telefonico e telematico «conservati dal fornitore». Tale chiarimento è molto rilevante, dal momento che, qualora i dati relativi al traffico o all’ubicazione delle comunicazioni elettroniche siano già stati acquisiti nell’ambito di un diverso procedimento penale e risultino dunque nella disponibilità di un’autorità pubblica, non è necessario ottenere una nuova autorizzazione giudiziale per la loro acquisizione da parte del pubblico ministero. In tal caso, infatti, non si pone il problema dell’accesso iniziale da parte dell’autorità pubblica a dati riservati, trattandosi di informazioni già detenute legittimamente. Pertanto, in base ai principi generali del sistema processuale italiano ed in assenza di norme che dispongano diversamente per la materia in esame, il pubblico ministero può acquisire tali dati da un’altra autorità giudiziaria senza preventiva autorizzazione del giudice competente per il procedimento nel quale intende utilizzarli. Ciò vale anche nel caso in cui l’acquisizione avvenga mediante o.e.i., considerato che, secondo l’art. 6, paragrafo 1, lett. b), della Direttiva 2014/41/UE, l’o.e.i. è ammissibile quando l’atto richiesto avrebbe potuto essere emesso «alle stesse condizioni in un caso interno analogo». Difatti, se il pubblico ministero può acquisire in Italia dati relativi al traffico o all’ubicazione già disponibili in altro procedimento senza necessità di autorizzazione giudiziale, è evidente come non occorra tale autorizzazione neppure quando l’o.e.i. ha ad oggetto dati della stessa natura già nella disponibilità dell’autorità giudiziaria straniera. 

Spostando l’attenzione sui diritti fondamentali, le Sezioni Unite hanno precisato che, per una corretta tutela degli stessi, è necessario che l’originaria acquisizione dei dati relativi al traffico e all’ubicazione delle comunicazioni elettroniche presso i gestori sia avvenuta previa autorizzazione di un giudice o di un’autorità indipendente e imparziale, secondo quanto stabilito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Tuttavia, non si configura una violazione dei diritti fondamentali quando il pubblico ministero acquisisce e utilizza tali dati già legittimamente acquisiti in altro procedimento previa autorizzazione giudiziale, poiché l’accesso statuale è già stato sottoposto a un controllo preventivo idoneo a tutelare le garanzie individuali. Inoltre, l’ampiezza della mole di dati acquisiti non rileva, di per sé, come elemento lesivo di tali diritti, posto che la giurisprudenza sovranazionale non pone limiti quantitativi, ma esige solo che l’accesso avvenga sulla base di criteri oggettivi, che tengano conto della gravità del reato e del reale coinvolgimento del soggetto.

Per quanto attiene alla mancata disponibilità dell’algoritmo di decriptazione utilizzato dai sistemi di comunicazione cifrata, le Sezioni Unite hanno evidenziato che tale circostanza non costituisce, di per sé, violazione dei diritti fondamentali, in assenza di specifiche allegazioni che dimostrino il rischio di alterazione o inaffidabilità dei dati. La struttura tecnica dei sistemi crittografici – in cui ogni messaggio è inscindibilmente legato alla propria chiave di cifratura – fa sì che una chiave errata non ha alcuna possibilità di decriptarlo, anche solo parzialmente. Né la giurisprudenza della Corte EDU ha mai ritenuto che l’indisponibilità dell’algoritmo equivalga automaticamente a un vulnus delle garanzie difensive, limitandosi piuttosto a sottolineare l’opportunità, ove possibile, di consentire all’imputato la conoscenza del contenuto decriptato nei suoi confronti. In ogni caso, grava sempre sulla difesa l’onere di allegare e provare in modo puntuale l’esistenza di fatti da cui possa derivare una concreta violazione dei diritti fondamentali.

 

5. «Nella nozione di danno patrimoniale rilevante ai fini della configurabilità del delitto di estorsione rientra anche la perdita della seria e consistente possibilità di conseguire un bene o un risultato economicamente valutabile, la cui sussistenza deve essere provata sulla base della nozione di causalità propria del diritto penale».

«La condotta di chi, con violenza o minaccia, allontani l’offerente da una gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private, oltre ad integrare il reato di cui all’art. 353 cod. pen., può integrare altresì quello di cui all’art. 629 cod. pen. ove abbia causato un danno patrimoniale derivante dalla perdita di una seria e consistente possibilità di ottenere un risultato utile per effetto della partecipazione alla predetta gara».

(Cass., Sez. Un., Sentenza n. 30016 del 28.03.2024, dep. 22.07.2024, Annunziata e altri)

Con la sentenza n. 30016 del 2024 le Sezioni Unite hanno affrontato due questioni problematiche, fonte di contrasto interpretativo nella giurisprudenza di legittimità: la prima attinente alla configurabilità del concorso formale tra i reati di estorsione e di turbata libertà degli incanti o delle licitazioni private nella condotta di allontanamento degli offerenti con violenza o minaccia; la seconda concernente la possibilità di sussumere il danno da perdita di chance all’interno della nozione di danno patrimoniale prevista dall’art. 629 cod. pen.

La prima questione assume rilevanza non nel caso in cui dalla condotta estorsiva derivi la perdita di un bene materiale, essendo pacifica in simili casi la configurabilità del concorso formale tra i reati citati, ma nella diversa situazione in cui non sia riscontrabile una diminuzione patrimoniale materialmente apprezzabile. Sul punto, si era formato un contrasto interpretativo tra chi non riteneva configurabile il concorso di reati – sul presupposto che il delitto di cui all’art. 353 cod. pen. assorba in sé l’intero disvalore dell’evento criminoso, quando il danno del delitto di estorsione consiste nella lesione della libertà di partecipare o meno ad una gara ed influenzarne l’esito –, e chi, di contro, riteneva possibile il concorso formale, data la differenza non solo dell’oggetto giuridico, ma anche degli elementi costitutivi delle fattispecie in esame. 

Per una corretta risoluzione di tale questione ermeneutica, è stato ritenuto necessario, preliminarmente, accertare se nel danno previsto dal reato di estorsione possa rientrare qualsiasi tipologia di perdita di chance, o solamente quella propria del diritto civile, da intendersi quale «concreta e consistente possibilità di conseguire vantaggi economicamente apprezzabili». Ad opinione della Sezione remittente, infatti, solamente a fronte di una chance intesa quale concreta probabilità di successo potrebbe configurarsi altresì il delitto di estorsione, e dunque il concorso formale, considerato che questo sarebbe l’unico caso in cui si potrebbe ravvisare uno stesso fatto riconducibile ad entrambe le fattispecie astratte di reato. 

Le Sezioni Unite, dopo aver precisato che il danno, nel delitto di estorsione, costituisce il perno dell’offesa criminale su cui è costruita l’intera fattispecie, affermano che l’accertamento di tale elemento costitutivo del reato deve essere svolto secondo i canoni probatori del diritto penale, dunque escludendo la rilevanza di qualsivoglia meccanismo di tipo presuntivo. In via preliminare, va ricordato che la nozione di danno rilevante ai fini della configurabilità del reato di estorsione ricomprende ogni pregiudizio suscettibile di alterare in senso peggiorativo la situazione economica del soggetto passivo, includendo anche la frustrazione di aspettative legittime di incremento patrimoniale o di consolidamento di posizioni giuridicamente rilevanti. Dopo aver ripercorso le tappe interpretative sulla corretta definizione del concetto di “chance”, le Sezioni Unite hanno concentrato l’attenzione alle sole ipotesi “patrimoniali”, evidenziando come, per orientamento costante della Corte di legittimità, sia necessaria una concreta possibilità di successo non priva di consistenza. Tuttavia, come ha chiarito a più riprese la giurisprudenza civilistica, per evitare una sovrapposizione con il concetto di “mera aspettativa di fatto”, è necessario intendere la chance non come un risultato perduto, ma come seria e consistente possibilità di ottenere tale risultato, la cui perdita è dunque risarcibile, a condizione che ne sia stata provata la sussistenza; e ciò, sempre in termini concreti ed attuali, mai meramente ipotetici ed eventuali. Nello svolgimento di una simile indagine, bisogna tenere ben distinto l’accertamento del nesso di causa con oggetto la perdita di chance di conseguire un risultato utile dall’accertamento della concreta probabilità di conseguire il risultato, considerato che solo il primo dei due rileva nel caso che ci occupa. Ossia, la seconda linea causale, che collega l’evento (lesione di un diritto) alle sue conseguenze dannose, resta estranea al perimetro penalistico, in quanto attiene alla tematica civilistica del c.d. danno-conseguenza e ai relativi criteri di liquidazione.

Mutuata la nozione di chance dal diritto civile, è bene rammentare che non può essere ripresa anche la regola probatoria del “più probabile che non”, ma devono trovare applicazione i principi della causalità propri del diritto penale. Considerato che l’articolo 629 cod. pen. sanziona «Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno», risulta necessario individuare, con certezza, il nesso causale tra la condotta colpevole del soggetto attivo e l’evento di danno – ossia la perdita di chance –, prodotto a sua volta dall’evento intermedio del fare o dell’omettere «qualche cosa». Dunque, si deve raggiungere la certezza processuale (intesa come alta credibilità razionale o probabilità logica, esclusa la possibilità di eventuali processi causali alternativi) che sia stata una determinata condotta a determinare lo specifico evento lesivo. 

Per quanto attiene, invece, alla patrimonialità del danno, la perdita di chance, nel delitto di estorsione, può assumere rilevanza esclusivamente nel caso in cui le si possa attribuire un valore economico, ritenuto che, come hanno chiarito le Sezioni Unite, «solo dalla certezza dell’esistenza di una seria e consistente possibilità di conseguire un risultato utile nei termini sopra indicati discende una lesione, immediata e obiettivamente riconoscibile, del patrimonio del danneggiato, da accertare quindi come un danno attuale e concreto, non come un danno futuro». Dunque, è necessario evitare ogni contaminazione della connaturale base valutativa di ordine probabilistico, propria del concetto stesso di “chance”, nel giudizio che deve svolgersi, in termini di certezza probatoria, sul nesso causale tra evento e danno.

Risolta in questi termini la prima questione rimessa alle Sezioni Unite, le stesse sono passate all’analisi del secondo nodo problematico, attinente alla configurabilità o meno del concorso formale tra i reati di estorsione e di turbativa d’asta, in presenza di una condotta violenta o minatoria che faccia desistere gli offerenti dal presentare un’offerta in una gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private. Dunque, come già precisato, la questione non investe l’ipotesi in cui il danno si concretizzi nella perdita di un bene materiale, non essendoci dubbi in tal caso attorno alla configurabilità del concorso formale di reati, ma la specifica situazione in cui il danno si configuri in una lesione dell’autonomia negoziale, ossia della libertà di regolamentare i propri interessi. Sia il reato di estorsione, che quello di turbata libertà degli incanti, sono costruite come fattispecie plurioffensive, poste a tutela la prima dell’inviolabilità del patrimonio e della libertà personale, la seconda dell’interesse della pubblica amministrazione al regolare svolgimento della gara e dell’interesse del privato a parteciparvi liberamente e ad influenzarne l’esito. Appare evidente, allora, che, se la condotta violenta o minatoria impedisce all’offerente di curare liberamente i propri interessi, scegliendo se partecipare o meno ad una gara, la stessa può essere ricondotta all’interno dell’area applicativa dell’articolo 353 cod. pen., così verificandosi un punto di intersezione tra questa fattispecie e quella di estorsione, di cui all’art. 629 cod. pen. Sul punto, si sono sviluppati due indirizzi ermeneutici contrastanti, uno minoritario, secondo il quale doveva trovare applicazione l’articolo 15 cod. pen., con conseguente assorbimento del delitto di estorsione in quello di turbata libertà degli incanti, ed uno maggioritario, che sosteneva la configurabilità di un concorso formale tra i due reati, considerato che diversi sarebbero i perimetri di offensività che le due previsioni, strutturalmente e teleologicamente non sovrapponibili, mirano a delineare.

Le Sezioni Unite, nell’aderire al secondo orientamento interpretativo, hanno preliminarmente ribadito che l’unico criterio applicabile per risolvere le ipotesi di concorso apparente di norme è quello della specialità, disciplinato dall’art. 15 c.p. Tale principio trova applicazione esclusivamente in presenza di un rapporto di continenza tra fattispecie, da accertarsi attraverso un confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurate, fondato sull’analisi degli elementi costitutivi che concorrono a definire le rispettive ipotesi di reato. Applicando tale criterio al caso che ci occupa, si deve concludere per una profonda diversità strutturale delle due fattispecie. Difatti, sebbene entrambe possano implicare condotte di violenza o minaccia, l’estorsione è finalizzata a reprimere atti dispositivi immediatamente lesivi del patrimonio della vittima, realizzati sotto costrizione, con ingiusto profitto per l’agente e correlativo danno per l’offeso, mentre la turbativa tutela la regolarità delle gare pubbliche e private, sanzionando condotte lesive del principio di concorrenza e della libertà di partecipazione. Da un’attenta analisi delle due fattispecie, si può notare come in ciascuna di esse ricorrano elementi specializzanti, dovendosi riconoscere allora l’esistenza di un rapporto di specialità reciproca che impedisce di ritenere l’una assorbita nell’altra. L’estorsione si “specializza” per lo specifico fine del conseguimento dell’ingiusto profitto con altrui danno, dunque per le modalità della condotta e l’elemento soggettivo, mentre il reato di turbativa risulta a sua volta speciale sia per l’evento (di pericolo e non di danno), sia per l’elemento soggettivo (coscienza e volontà di impedire o turbare la gara o allontanare gli offerenti, tramite l’utilizzo dei mezzi indicati). Inoltre, si deve considerare che per il reato di estorsione è richiesto un quid pluris tra la condotta e l’evento, ossia un atto di disposizione patrimoniale da parte della persona offesa, da cui poi scaturisce l’ingiusto profitto con altrui danno. Dunque, si deve concludere che le due ipotesi di reato non sono sovrapponibili sul piano strutturale, ma possono concorrere, in presenza di tutti i presupposti.

Date tali premesse di portata più generale, occorre spostare l’attenzione sullo specifico caso di cui si sono occupate le Sezioni Unite, ossia sulla condotta violenta o minatoria che abbia determinato l’allontanamento coattivo dell’offerente da una gara svolta nelle forme dei pubblici incanti o delle licitazioni private. Se simile condotta integra indubbiamente il delitto di cui all’art. 353 cod. pen., non altrettanto può dirsi per l’ipotesi di reato disciplinata dall’art. 629 cod. pen. Difatti, affinché sia integrata anche quest’ultima, è necessario che ricorrano il danno patrimoniale recato alla persona offesa ed il correlato ingiusto profitto del soggetto agente, e ciò in conseguenza del succitato atto dispositivo. In estrema sintesi, il reato di estorsione sarà ravvisabile esclusivamente nel caso in cui «alla condotta di allontanamento coattivo sia causalmente riconducibile […] un pregiudizio economicamente valutabile per effetto della perdita, ai danni dell’offerente, di una seria e consistente possibilità di ottenere un risultato utile legato all’aspettativa di partecipazione ad una gara». Se tale danno patrimoniale, in termini di perdita di chance, non è stato riscontrato, allora deve escludersi che ricorra un’ipotesi estorsiva, e risulterà integrato il solo delitto di cui all’art. 353 cod. pen.

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