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giurisprudenza di legittimità

Note sulla ricorribilità per cassazione dell’ordinanza che dichiara inammissibile l’appello

di Giuliano Scarselli
Professore Ordinario Diritto Processuale Civile - Univ. di Siena
Un conflitto su questioni di massima importanza. Commento a Cass. 27 marzo 2014 n. 7273 e Cass. 17 aprile 2014, n. 8940
Note sulla ricorribilità per cassazione dell’ordinanza che dichiara inammissibile l’appello

“L’amicizia è un valore, ma la verità lo è di più”.

Aristotele, Etica Nicomachea, libro Alfa, 4, 16 

 

1. Siano consentite due osservazioni preliminari nel commentare la recente ordinanza della terza sottosezione della Cass. 17 aprile 2014 n. 8940, che ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c della Corte di Appello di Torino, così ponendosi in contrasto alla seconda sottosezione Cass. 27 marzo 2014 n. 7273.

a) La prima è che si tratta (direi) di una ordinanza particolarmente lunga: 37 pagine, quasi interamente dedicate a motivare le ragioni di inammissibilità del ricorso per cassazione avverso l’ordinanza di inammissibilità dell’appello ex art. 348 ter c.p.c. (sulla motivazione delle sentenze della cassazione v. VITTORIA, La motivazione della sentenza tra esigenze di celerità e giusto processo, in ACIERNO – CURZIO - GIUSTI, La Cassazione civile. Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana, Bari, 2011, 275).

La lunghezza di questa ordinanza sembra stridere con la raccomandazione che Sua Eccellenza Primo Presidente ha inviato agli avvocati, di (preferibilmente) contenere i ricorsi nelle 20 pagine (v. CAPPONI, Sulla “ragionevole brevità” degli atti processuali civili, in Judicium, 2013).

E personalmente a me sembra che questa riforma dell’appello abbia invertito i ruoli tra giudici e avvocati: gli avvocati, con la riforma dell’art. 342 c.p.c., si vedono oggi costretti a progettare sentenze per evitare il rischio di inammissibilità dell’appello (in giurisprudenza in questo senso v. Corte App. Salerno, 1 febbraio 2013 n. 139, Giusto proc. civ., 2013, 481; v. anche CSM, delibera 5 luglio 2012, per la quale l’atto di appello deve essere “un vero e proprio progetto alternativo di sentenza”), e quindi si vedono costretti a ragionare da giudice, mentre i giudici qui sembrano sposare i metodi degli avvocati, ovvero non si limitano a motivare la decisione, ma anche affrontano ogni possibile argomento contrario a quello sostenuto per dimostrarne l’infondatezza, proprio come normalmente fanno gli avvocati nello scrivere le memorie, e da lì la lunghezza dei provvedimenti.

In questa logica, si ha quasi la sensazione che, prima di andare alle sezioni unite, debba darsi una replica alle seconda sezione.

Sarò un conservatore, ma questa inversione dei ruoli non mi piace, e la considero un danno aggiuntivo ai molti che, a mio parere, questa riforma dell’appello ha causato (v. per tutti COMOGLIO, Requiem per il processo giusto, Nuova giur. Civ., 2013, 1, 47; sulle sue applicazioni pratiche rinvio alla giurisprudenza in Foro it., 2013, I, 969 e ss.; e 2629 e ss.).

b) La seconda osservazione preliminare verte sul ruolo della cassazione.

Non intendo ovviamente qui riprendere il dibattito su ius constitutionis e ius litigatoris, e nessuno mette in discussione la funzione di nomofilachia della corte di cassazione.

Credo però che la funzione di nomofilachia si esplichi con la decisione dei casi, mentre qui la sensazione che si ha leggendo questa ordinanza è che essa abbia affrontato più di una questione non strettamente necessaria con la decisione da assumere, e tutti i temi relativi alla possibilità o meno di impugnare in cassazione l’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. sembrano volutamente affrontanti, con uno scritto più simile ad un saggio che non ad una decisione giurisdizionale.

Avevo già scritto in altra occasione che di questo passo la cassazione potrebbe addirittura arrivare ad emanare circolari su come debbano interpretarsi le riforme o le leggi (v. Circa il supposto potere della cassazione di pronunciare d’ufficio il principio di diritto nell’interesse della legge, Foro it., 2010, I, 3339) .

Però chiedo se questo è il compito della cassazione, o se non sia un eccesso, e quali siano i limiti.

 

2. Volendo riassumere la decisione a commento, due sono i nodi centrali, che peraltro ben emergono dai principi di diritto che la stessa ordinanza riporta nelle pagine 21 e 32.

a) Sotto un primo profilo (pag. 32) si afferma che l’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. non è mai impugnabile con il ricorso per cassazione, né in via ordinaria né’ in via straordinaria, nemmeno quando questa è stata emessa al di fuori dei casi nei quali l’ordinamento ne consente l’emissione, e nemmeno quando questa è stata pronunciata senza il rispetto delle regole procedimentali di cui allo stesso art. 348 ter c.p.c. L’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. non è mai impugnabile nemmeno sotto il profilo della statuizione delle spese. L’unica impugnazione possibile è sempre e solo quella avverso la sentenza di primo grado.

b) Sotto altro profilo (pag. 21 dell’ordinanza, affrontando peraltro un tema che, ripeto, non doveva sembrare necessario alla decisione da assumere), si afferma che l’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. può avere ad oggetto sia questioni di merito che di rito “ivi comprese quelle di inammissibilità o improcedibilità espressamente previste dalla legge aliunde”; e si precisa che l’inciso “Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello” di cui all’art. 348 bis c.p.c., fa riferimento alle ipotesi nelle quali il giudice abbia dato corso alla trattazione dell’appello in via normale e non abbia rilevato la mancanza di ragionevole probabilità dell’appello di essere accolto in limine litis all’udienza di cui all’art. 350 c.p.c., cosicché (soprattutto) si conclude (in aperto contrasto con l’ordinanza Cass. 27 marzo 2014 n. 7273) “che la declaratoria di inammissibilità ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c. è possibile anche ove l’appello non sia rispettoso dell’art. 342 c.p.c.” (così l’ordinanza a commento, pag. 22; in dottrina ricordo COSTANTINO, Le riforme dell'appello civile e l'introduzione del «filtro», in www.treccani.it; IMPAGNATIELLO,  Pessime nuove in tema di appello e ricorso in cassazione, Giusto proc. civ.,  2012, 735; BALENA, Le novità relative all’appello nel d.l. n. 83/2012, Giusto proc. civ., 2013, 360; POLI, Il nuovo giudizio di appello, in Riv. dir. proc. 2013, I, 120 ss.; PANZAROLA,  Tra filtro in appello e doppia conforme, Giusto proc. civ., 2013, 89; tutti sostanzialmente dell’avviso che l’ordinanza di inammissibilità dell’appello debba essere invece ricorribile per cassazione per vizi suoi propri. Per una rassegna puntuale delle posizioni v. DIDONE, Appunti sull’inammissibilità dell’appello ex art. 348 bis c.p.c., Corr. Giur., 2013, 1142)

 

3. Personalmente avevo previsto che si potesse leggere la riforma escludendo il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza di inammissibilità (SCARSELLI, Sul nuovo filtro per proporre appello Foro it., 2012, V, 287); ora questa previsione si è materializzata con l’ordinanza in commento, e la non ricorribilità è motivata sull’assenza di definitività in senso sostanziale dell’ordinanza che dichiara l’inammissibilità dell’appello.

L’ordinanza Cass. 8940/2014 motiva la questione soprattutto richiamando il precedente delle sezioni unite Cass. 15 luglio 2003 n. 11026 (vedila in Foro it., 2005, I, 2210; Giur. It., 2004, 1162, con nota di CARRATTA; e in Corr. Giur., 2004, 1212, con nota di TISCINI).

Nella relazione si scrive espressamente che “in queste ipotesi (ovvero nelle ipotesi di cui alle ordinanze ex art. 348 ter c.p.c.) la definitività dell’ordinanza non è quella ritenuta dalla giurisprudenza delle sezioni unite della Corte idonea a giustificare, in una con il requisito della decisorietà, l’accesso al ricorso straordinario”; poiché infatti “Quando il provvedimento sia privo dei caratteri della decisorietà e definitività in senso sostanziale (come nel caso di provvedimenti emessi in sede di volontaria giurisdizione) il ricorso straordinario per cassazione di cui all’art. 111, settimo comma Cost. non è ammissibile neppure se il ricorrente lamenti la lesione di situazioni aventi rilievo processuale, quali espressione del diritto di azione….stante la natura strumentale della problematica processuale e la sua idoneità a costituire oggetto di dibattito soltanto nella sede, e nei limiti, in cui sia aperta o possa essere riaperta la discussione nel merito”, (così ordinanza 8940/2014, pagg. 6-7 richiamando Cass. Sez. un. 11026/2003).

In sostanza, le questione processuali non hanno diritto al controllo di legalità in cassazione se sfociate nell’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c., poiché “la definitività sulle modalità di svolgimento dell’azione in giudizio (cioè su un c.d. diritto processuale) è stata dunque ritenuta (già) del tutto inidonea a giustificare il ricorso straordinario” (così ordinanza 8940/2014, pag. 7).

La posizione è confermata dal collegio (pag. 22 e ss. dell’ordinanza 8940/2014), secondo il quale le argomentazioni in senso contrario di Cass. 7273/2014 si pongono, appunto, in contraddizione palese con i principi di Cass. Sez. un. 11026/2003 (pag. 23).

Infatti Cass. 7273/2014 non si è avveduta, a parere di Cass. 8940/2014, che nei casi in discussione la situazione giuridica da rimettere in discussione sarebbe “soltanto di natura processuale alla decisione con l’appello nelle forme ordinarie anziché con quella speciale………onde non si comprende come possa ragionarsi di definitività, se non ritenendo che si sia voluto abbandonare, senza però dirlo, l’insegnamento di Cass. Sez. un. 11026 del 2003” (così ordinanza 8940/2014, pag. 24).

Infatti, si ricorda, “il diritto processuale all’azione….non ha carattere proprio e fine a se stesso, ma ha natura strumentale…..Questo carattere strumentale postula che al diritto processuale di azione non può essere attribuita una tutela diversa e speciale rispetto a quella che la normativa contempla in relazione all’atto destinato a provvedere sulla situazione sostanziale…….(cosicché) se un atto non è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione perché privo di carattere decisorio e definitivo quando contiene una pronuncia di merito, non lo è neppure quando esso si esaurisca in una pronuncia di rito, dal momento che la natura processuale della pronuncia non vale ad attribuirle la qualificazione decisoria e definitiva di cui come pronuncia di merito sarebbe stata priva.” (così ordinanza 8940/2014, pag. 25, richiamando ancora Cass. Sez. un. 11026/2003).

“Ne segue che la costruzione operata da Cass. 7273/2014 si pone in insanabile contrasto con i principi di Cass. Sez. un. 11026 del 2003 che giustificano pienamente quella esclusione trattandosi solo di definitività sul diritto processuale ad una certa forma” (così l’ordinanza 8940/2014, pag. 30).

E dunque, l’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. poiché definitiva solo sul “diritto processuale ad una certa forma”, non può essere oggetto di ricorso in cassazione nemmeno per vizi suoi propri, che mai la parte potrebbe far valere con il ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado, e ciò anche perché, (chiosa l’ordinanza 8940/2014) “il ricorso per cassazione servirebbe solo a tutelare il diritto al modo del processo” (corsivo dell’ordinanza), comportando ciò “una singolare dilatazione dei gradi di giudizio” (così l’ordinanza 8940/2014, pag. 30).

 

4. Ora, è già stato osservato in dottrina che un’ordinanza ex art. 348 bis c.p.c. potrebbe, ad esempio, esser pronunciata non solo in ipotesi di inammissibilità dell’appello ex art. 342 c.p.c. (come nel caso ord. 7273/2014) o in altre aliunde ipotesi di inammissibilità o improcedibilità dell’appello (cosa peraltro ritenuta ammissibile da ord. 8940/2014), ma potrebbe anche, ad esempio, esser dichiarata dopo la trattazione dell’appello, magari nell’udienza fissata per la precisazione delle conclusioni, o prima della costituzione dell’appellato, prescindendo così da ogni possibile impugnazione incidentale, e quindi con palese violazione dei comma 1° e 2° dell’art. 348 ter c.p.c.

Potrebbe, ancora, esser pronunciata fuori dell’udienza ex art. 350 c.p.c., o senza attivare sulla questione il contraddittorio (così come impone lo stesso art. 348 ter, 1° comma c.p.c.), o, ancora più gravemente, potrebbe esser dichiarata in cause nelle quali vi è ex lege l’intervento del pubblico ministero, o quando il processo di primo grado si era chiuso con l’ordinanza ex art. 702 quater c.p.c.  (v. per tutti BALENA, Le novità relative all’appello nel d.l. n. 83/2012, cit., 335 e ss.).

Davvero pensiamo che in tutti questi casi non debba ammettersi la cassazione del provvedimento pronunciato in violazione di legge?

Davvero riteniamo che, siccome si tratta, sostanzialmente, di aspetti processuali, questi non hanno diritto ad alcun controllo di legalità?

Perché, a me sembra, che al di là di riflessioni teoriche che su questi temi possano essere sviluppate, se noi riteniamo davvero una cosa del genere, dobbiamo conseguentemente ammettere che dette norme processuali non hanno allora alcun valore né alcun effetto vincolante per il giudice che debba applicarle.

Non fissano più principi giuridici, ma solo consigli, suggerimenti di massima, che il giudice, a suo piacimento, di volta in volta, può anche disattendere.

A che servono, infatti, le disposizioni processuali di cui agli artt. 348 bis e ter se la loro violazione non ha conseguenze?

Per quali ragioni le Corti di appello dovrebbero rispettarle, se le parti non hanno il diritto di denunciarne la violazione?

Devo qui ripetere quanto ebbi già a scrivere insieme ad altri colleghi qualche anno fa (CAPONI – DALFINO – PROTO PISANI - SCARSELLI, In difesa delle norme processuali, Foro it., 2010, I, 1794), ovvero che così ragionando non ha più senso avere un codice di procedura civile e/o avere delle regole processuali dettagliate e minuziose, visto che queste, come diceva Calamandrei (CALAMANDREI, Abolizione del processo civile, Riv. dir. proc., 1939, I, 386), in una tale logica, costituirebbero solo un intralcio “all’opera del giudice, col prescrivergli la meticolosa e ingombrante osservanza di un rito”.

Ma, poiché nessuno pensa si possa arrivare a ciò, allora, prima ancora dell’ermeneutica giuridica,  qualcosa ci deve dire che le disposizioni processuali di cui agli artt. 348 bis e ter non possono scadere a meri suggerimenti, e che non è pensabile, anche solo per l’art. 3 Cost., che ogni Corte di Appello (ne abbiamo 26) crei le proprie modalità di interpretazione e applicazione di dette disposizioni.

E’ al contrario necessario che di queste norme sia assicurato il rispetto, e che su di esse si diano, se necessario, principi di diritto tali da imporne l’applicazione uniforme su tutto il territorio nazionale.

 

5. L’ordinanza Cass. 8940/2014 risponde però che il diritto processuale ha natura strumentale, e detta strumentalità esclude il ricorso per cassazione se la questione di merito non può dirsi decisoria e definitiva, il tutto come già stabilito dalle sezioni unite Cass. 11026 del 2003 (anche se i precedenti di quel precedente erano in senso contrario, v. ancora BALENA, Le novità relative all’appello nel d.l. n. 83/2012, cit., 358).

Ora, non v’è dubbio che da un punto di vista logico il ragionamento dell’ordinanza Cass. 8940/2014 tiene, costituendo un puro sillogismo aristotelico.

Si dice: il ricorso straordinario in cassazione per questioni processuali può esser concesso solo se il provvedimento da ricorrere è decisorio e definitivo con riguardo alla tutela sostanziale; l’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. non è definitiva riguardo alla tutela sostanziale perché a seguito di essa v’è la possibilità di ricorrere in cassazione la sentenza di primo grado; dunque il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza di inammissibilità dell’appello non può essere concesso nemmeno per questioni processuali.

Però, mi chiedo se una sentenza ultradecennale, pronunciata in un caso di giurisdizione volontaria, possa, sic et simpliciter, essere applicata ad una ipotesi del tutto nuova, assolutamente insolita e del tutto singolare come quella dell’ordinanza ex art. 348 bis c.p.c. che, ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., consente l’impugnazione in cassazione della sentenza di primo grado.

Il legislatore, infatti, prevedendo la cassazione non dell’ordinanza di inammissibilità ma della sentenza di primo grado, ha spezzato in due un percorso altrimenti unitario, e che fino ad ieri era, ed è stato, unitario.

Credo, allora, sia indispensabile riportare ad unità quel percorso per rispettare la logica delle sezioni unite 11026 del 2003, altrimenti il rischio è di applicare un medesimo principio a cose diverse.

Nella logica delle sezioni unite 11026 del 2003 il discorso è questo: se tu, con riferimento alla tutela sostanziale dedotta nel processo, non hai diritto al ricorso straordinario per cassazione, come avviene per i provvedimenti cautelari e di giurisdizione volontaria, tu, per quella stessa vicenda sostanziale, non può avere diritto al ricorso per cassazione nemmeno per le questioni processuali a monte di quella decisione.

Ma se questa è la logica delle sezioni unite 11026 del 2003, allora (a mio parere) la conseguenza che deve darsi è proprio inversa rispetto al decisum dell’ordinanza Cass. 8940/2014.

Il sillogismo aristotelico va infatti rovesciato in questo modo: il ricorso per cassazione è ammesso per questioni processuali quando è ammesso per la tutela sostanziale; nel caso dell’ordinanza di inammissibilità dell’appello ex art. 348 bis c.p.c. la tutela sostanziale è ammessa con l’impugnazione in cassazione della sentenza di primo grado; dunque il ricorso per cassazione deve esser concesso anche per questioni processuali.   

E’ ovvio che qui per concedere questa naturale conseguenza (ovvero il ricorso per questioni processuali quando questo è ammesso per questioni sostanziali) devo ammettere il ricorso avverso l’ordinanza di inammissibilità.

Ma ciò non deve stupirci, perché dipende dalla stranezza (rectius: dall’originalità) del legislatore, che ha spezzato in due un percorso processuale unitario; scelta del legislatore che non può però comportare il venir meno di spazi di tutela per dette sopraggiunte complicazioni tecniche.

D’altronde, sono, sotto altro profilo, evidenti le differenze del caso delle sezioni unite 11026 del 2003 rispetto a quello dell’ordinanza di inammissibilità dell’appello: là si diceva che il provvedimento non è definitivo perché sempre revocabile e modificabile; qui si dice che non è definitivo perché un altro provvedimento è ricorribile per cassazione.

Ma se allora il ricorso per cassazione c’è, perché non dovrebbe esservi per le questioni processuali?

Qual tutela altrimenti io assicuro ai vizi propri dell’ordinanza di inammissibilità dell’appello?

Dunque, a me sembra che il primo sillogismo non tenga conto delle novità di cui agli artt. 348 bis e ter c.p.c., mentre il secondo sì, e sia quello da condividere.

L’ordinanza 8940/2014 ha dato (ovviamente a mio parere) una interpretazione errata delle regole delle sezioni unite 11026 del 2003, perché non ha tenuto conto del necessario riadattamento che quel principio necessitava di fronte all’opera innovativa, e del tutto originale, del legislatore.

Un conto sono infatti i provvedimenti cautelari e di giurisdizione volontaria, sempre revocabili e modificabili, altro conto è un’ordinanza che chiude un processo di impugnazione, né revocabile né modificabile.

Lo spezzettamento del processo non può comportare la libertà delle norme processuali relative al giudizio di appello, e non può comportare il venir meno dei diritti dei cittadini al controllo di legalità sulle regole del giusto processo, cui si richiamano (in gran parte) le disposizioni processuali degli artt. 348 bis e ter c.p.c.

 

6. Ancor meno condivisibile pare l’ordinanza Cass. 8940/2014 ove esclude il ricorso per cassazione dei provvedimenti ex art. 348 bis c.p.c. anche sotto il profilo della liquidazione delle spese (v. pagg. 9 e ss. richiamate a pag. 33)

Qui non si mette in discussione che il provvedimento abbia carattere decisorio e definitivo, solo si sostiene che la condanna alle spese è accessoria ad un provvedimento di natura sommaria (tale sarebbe l’ordinanza ex art. 348 bis c.p.c.), avente pertanto forza paragonabile a quella dei titoli esecutivi stragiudiziali, e dunque, anche alla luce di Cass. 24 maggio 2011 n. 11370, “una discussione sull’eccessività delle spese può farsi in sede di opposizione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. al precetto intimato sulla base dell’ordinanza o all’esecuzione sulla base di essa iniziata” (così l’ordinanza 8940/2014, pag. 10).

Mi sembra, di nuovo, che, oltre all’opinabilità della equiparazione dei provvedimenti giurisdizionali sommari ai titoli esecutivi stragiudiziali, non si tenga conto di una differenza.

Nel caso Cass. 11370/2011 le spese erano state liquidate in un giudizio cautelare ante causam.

La cassazione in quell’occasione aveva affermato, e direi giustamente, che il provvedimento cautelare non è ricorribile per cassazione nemmeno in punto di spese, e la parte soccombente, può, se crede, porre in discussione la questione con la successiva causa di merito, da introdursi, se del caso, anche con l’opposizione a precetto.

Ma nei casi qui in discussione la questione è diversa, poiché a seguito dell’ordinanza di inammissibilità dell’appello non segue alcuna causa di merito.

Ed infatti, direi sicuramente, l’ordinanza ex art. 348 bis c.p.c. potrà (forse) avere natura sommaria, ma certo non ce l’ha cautelare.

Come può dirsi allora che la discussione sulle spese possa farsi con l’opposizione ex art. 615 c.p.c.?

Con l’opposizione all’esecuzione o al precetto è possibile mettere in discussione il titolo giudiziale?

Io direi proprio di no.

Capisco, ed è comprensibile, che la cassazione, con il carico di lavoro che ha, non veda in buona luce possibili ricorsi per cassazione solo in punto di spese.

Però argomenti giuridici in senso contrario a mio parere non vi sono (sulla ricorribilità in cassazione in punto di spese v. già CONSOLO, Nuovi ed indesiderabili esercizi normativi sul processo civile: le impugnazioni a rischio svaporamento, Corr. Giur.,, 2012, 1133).

 

7. Circa, infine, il rapporto tra gli artt. 348 bis e ter c.p.c. da una parte, e l’art. 342 c.p.c. dall’altra, o se si preferisce, più genericamente, circa il rapporto tra “ragionevole probabilità di accoglimento” e “inammissibilità e improcedibilità dell’appello” a me sembra che l’ordinanza in commento abbia fondamento dove ritiene che un appello possa essere dichiarato inammissibile con ordinanza anche per questioni processuali, ma non abbia invece fondamento ove arriva a spingere tale posizione fino a ricomprendere nell’alveo degli artt. 348 bis e ter c.p.c anche le questioni processuali relative all’inammissibilità o all’improcedibilità dell’appello.

Direi che le questioni procedurali fanno distinte a seconda che concernano o meno l’inammissibilità dell’appello.

Normalmente l’ordinanza di inammissibilità dell’appello trova fondamento in ragioni di merito.

E’ ovvio, però, che se, invece, la ragionevole probabilità di accoglimento trova ragione in una questione processuale che non concerna l’ammissibilità o la procedibilità del mezzo di impugnazione (si pensi, ad esempio, al difetto di legittimazione all’azione, o di carenza di interesse di agire, o di carenza di giurisdizione del giudice ordinario), l’appello, anche per quella ragione processuale, può essere dichiarato egualmente inammissibile con la tecnica dei nuovi artt. 348 bis e ter c.p.c.

Cosa diversa deve avvenire se la questione processuale attiene proprio all’ammissibilità dell’appello (ad esempio appello fuori termine o avverso sentenza inappellabile).

Lì a me sembra che il giudice debba pronunciare l’inammissibilità con sentenza, come è già avvenuto in più di un caso, perché il tenore della legge è chiaro, e l’art. 348 bis c.p.c. recita in modo inequivocabile che l’ordinanza può essere emanata solo “Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità”.

L’argomento portato in senso contrario dall’ordinanza 8940/2014 (v. pag. 13 e ss.), secondo il quale l’art. 348 bis c.p.c., farebbe riferimento a tutte le ipotesi, nessuna esclusa, nelle quali il giudice abbia dato corso alla trattazione dell’appello in via normale e non abbia rilevato la mancanza di ragionevole probabilità dell’appello di essere accolto in limine litis all’udienza di cui all’art. 350 c.p.c. (v. in particolare pag. 15), contrasta con il tenore letterale della stessa disposizione di legge.

Se così fosse il legislatore si sarebbe limitato a dire “Fuori dei casi in cui l’appello deve esser deciso con sentenza”; mentre il legislatore ha precisato “Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità”.

Vi è un riferimento specifico ai casi di inammissibilità e improcedibilità, che pertanto debbano essere necessariamente pronunciati con sentenza, anche per assicurare ogni garanzia e più ampia tutela alla parte che si veda, appunto, dichiarare inammissibile o improcedibile l’appello che ha proposto.

 

8. Dunque, a me sembra che se l’ordinanza di inammissibilità dell’appello è pronunciata nel rispetto della legge, il ricorso per cassazione si dà avverso la sentenza di primo grado; ma se l’ordinanza di inammissibilità è pronunciata contra ius e presenta vizi propri, essa non può non esser soggetta a cassazione quale provvedimento illegittimo.

Direi anche che l’una possibilità esclude l’altra, e ciò nel senso che se l’ordinanza di inammissibilità è ricorribile per cassazione non lo è la sentenza di primo grado, mentre se ricorribile per cassazione è la sentenza di primo grado, allora non lo è l’ordinanza.

Se poi le parti impugnano tanto l’ordinanza di inammissibilità dell’appello, quanto la sentenza di primo grado, sostenendo cose diverse, ovvero un litigante sostenendo che l’ordinanza è stata pronunciata contro la legge e l’altra viceversa sostenendo che è stata pronunciata nel rispetto della legge, la cassazione non avrà problemi, se del caso anche con la riunione dei procedimenti, a stabilire con un unico processo, ed una unica sentenza, chi ha ragione o torto fra i due litiganti.

L’alternatività di un ricorso con l’altro dovrebbe così impedire un aggravio dei compiti della cassazione; anche se, certo, si tratta di una complicazione, e v’è il rischio che la cassazione debba disporre giudizio di rinvio per due volte.

Ma la colpa non è dei ricorrenti, è del legislatore, che negli ultimi venti anni ha fatto riforme tese solo a complicare i meccanismi del processo civile (per questi aspetti rinvio al mio Per un ritorno al passato, Milano, 2012, XI, 346).

Alle sezioni unite l’ardua sentenza.

 

05/05/2014
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