Magistratura democratica
giustizia internazionale

ICTY, Šešelj Trial: cronaca di un fallimento annunciato

di Francesco Florit
Giudice del Tribunale di Udine
Il processo nei confronti del politico serbo segna il declino della giustizia internazionale
ICTY, Šešelj Trial: cronaca di un fallimento annunciato

La vicenda politica e giudiziaria di Vojislav Šešelj ha attraversato e si è intrecciata con gli ultimi due decenni di storia Balcanica, sia essa vissuta sui campi di battaglia del conflitto Serbo-Croato-Bosniaco o narrata, negli aspetti più tragici, nell’aula di giustizia dell’ICTY a l’Aja.

Dotato di notevole capacità oratoria e di una vis polemica fuori dal comune (due qualità che si sono rilevate utilissime nel procedimento avanti la corte internazionale, come vedremo), nel corso della sua carriera politica (tra i primi anni Ottanta ed il 2003) ha condotto le formazioni da lui stesso create (da ultimo, nel 1991, il Partito Radicale Serbo) su posizioni nazionaliste di estrema destra.

Andando a cogliere spunti dell’anima serba profonda, sopiti ma mai soppressi dalla ideologia comunista del dopoguerra, egli ha ridato vita, per oltre un ventenio, al mito della Grande Serbia, ha esaltato i ribelli Cetnici (recentemente resi famosi da noi da “Ivan il Terribile”, il tifoso Serbo arresto per i fatti di Genova nel 2012, in occasione di una partita di pallone) ed ha addirittura abbracciato, per un periodo di tempo non irrilevante (4 anni) e già in età adulta, l’idea monarchica, prima di ritornare alla fede repubblicana a seguito di un curioso episodio che lo vide vittima di un impostore, spacciatosi per discendente della antica casa regnante serba, al quale Šešelj nel 1992 giunse ad offrire il trono della nuova Grande Serbia che fosse uscita dal Conflitto Serbo-Croato-Bosniaco.

Nonostante tali premesse, sarebbe tuttavia errato ridurne la statura ed il ruolo politico a quello di una ‘macchietta’ o ad una figura politica di secondo piano: basti pensare che nel 1992 il Partito Radicale guidato da Šešelj ha guadagnato oltre un quarto dei seggi del Parlamento di Belgrado diventando, almeno inizialmente, uno dei principali sostegni del potere di Milosevic. Con il regime, Šešelj ha condiviso l’ideologia anticroata ed il suprematismo serbo.

Alla fine del secolo passato, Šešelj è giunto alla vice presidenza del Governo Serbo, all’epoca del conflitto in Kosovo.

A narrare questa storia passata si può immaginare che Šešelj sia oramai un vecchio indebolito, che ha perso ogni battaglia e che ora attende, malato e seduto sul banco degli imputati, la sentenza di una corte internazionale nei confronti della quale, rimanendogli poco tempo da vivere, egli nutra una sorta di indifferenza.

In realtà Šešelj ha appena compiuto 60 anni (è nato nel 1954) e benchè minato da una grava malattia non ha perso la passione per le provocazioni, come ha dimostrato non appena ritornato a Belgrado, dopo quasi dodici anni di custodia cautelare in attesa di giudizio.

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La sua vicenda processuale può dirsi paradigmatica delle lentezze, complicazioni ed errori che il meccanismo processuale stabilito per giudicare i crimini commessi nel corso del conflitto balcanico ha affrontato negli anni e continua ad affrontare nel momento in cui si avvicina la chiusura dell’ICTY, quasi una metafora del declino (del fallimento?) degli ideali di giustizia internazionale che ne avevano giustificato la creazione.

L’indictment nei confronti di Vojilsav Šešelj risale al Gennaio 2003: in 10 pagine e 15 capi di imputazione vi si riassumono le ragioni per cui a Šešelj andava attribuita la responsabilità ideologica delle campagne dirette alla espulsione ed all’annichilimento delle etnie croate, bosniache e albanesi da territori che dovevano rientrare nel progetto della nuova Grande Serbia.

L’indictment può essere letto qui:

Quello del Procuratore Del Ponte fu certamente un atto di grande coraggio, che, in linea con gli ideali che avevano portato allo stabilimento della Corte, mirava a colpire le responsabilità al più alto livello, quello dei politici che promuovono ed istigano i militari a conflitti senza regole e senza prigionieri.

Sostanzialmente, tutte le condotte ascritte a Šešelj sono temporalmente racchiuse tra la metà del 1991 e l’autunno dell’anno seguente, epoca in cui l’imputato, oltre al reclutamento di volontari (“Chetniks” o “gli uomini di Šešelj”) ed alla raccolta di fondi, si impegnò in un’opera sistematica di persuasione delle forze serbe, regolari e irregolari (tra cui le notorie formazioni delle ‘Tigri di Arkan” e delle “Aquile Bianche”) e delle formazioni politiche affiliate al Partito Radicale, affinchè venisse portata avanti sul piano militare la deportazione di Crotati e di Mussulmani dal territorio della Bosnia e della Croatia in prossimità di enclave serbe. Nell’indictment si indicano specifici episodi in cui quest’opera di istigazione alla pulizia etnica ebbe immediato e diretto riflesso nei crimini contro l’umanità commessi a più riprese da formazioni militiari e paramilitari serbe ai danni della popolazione civile in Croazia ed in Bosnia.

Su tali premesse concettuali si è quindi ricostruita la responsabilità del leader politico serbo in termini di partecipazione alla ‘joint criminal enterprise’ promossa dalla elitè politico militare serba, condividendone gli intenti ed essendo consapevole delle prevedibili conseguenze.

Come precisato al punto 5 dell’indictment si tratta di una responsabilità criminale diretta per istigazione.

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Il processo che ne è seguito non ha mantenuto le aspettative generate da un progetto così ambizioso ed è stato travagliato da vicende che ne hanno segnato un destino infausto: a distanza di quasi dodici anni dall’atto iniziale e dopo una lunghissima custodia cautelare, la parola finale non è ancora stata pronunciata.

L’imputato si è immediatamente consegnato alla giustizia volando a l’Aja un mese dopo il depostito dell’indictment, nel Febbraio 2003.

Tuttavia, sin dalle fasi della procedura di conferma dell’indictment Šešelj ha dichiarato e dimostrato nei fatti l’intenzione di rendere il processo un’esercizio impossibile, attuando ogni tattica possibile per irritare ed insultare i procuratori ed i giudici e per rendere ardua, se non precludere, l’amministrazione della attività giudiziale. 

Oltre a chiedere di potersi difendere da solo (possibilità consentita dallo Statuto ma solo previa autorizzazione del Collegio giudicante) ed ad attuare uno sciopero della fame conclusosi dopo mesi di sospensione dell’attività processuale e grazie ad un ordine della corte che ha imposto l’alimentazione forzata, l’imputato ha sistementicamente coperto la Corte ed il Procuratore di insulti (giungendo a riferirsi comunemente alla Del Ponte come ‘la prostituta’ o ricordando al Presidente della corte che l’unico diritto che gli riconosceva era quello di praticargli sesso orale...) venendo ricambiato con un comportamento che è stato definito troppo condiscendente e tollerante.

In due distinte occasioni, nel 2009 e nel 2010 Šešelj è stato processato dalla stessa Corte per contempt of court per aver rivelato, la prima volta in un libro e la seconda nel sito internet del Partito Radicale Serbo, i nomi di testimoni protetti per ordine del Tribunale con l’anonimato. Nelle due procedure l’imputato è stato condannato a 15 mesi e 18 mesi di detenzione rispettivamente.

Nel Febbraio del 2009, alla fine dell’esame dei testimoni del Procuratore, il processo è stato sospeso indefinitamente a seguito della denuncia, da parte dell’Accusa, che alcuni testimoni erano stati individuati ed avevano ricevuto minacce.

Alla ripresa del processo a distanza di quasi un anno, Šešelj, autorizzato a difendersi in proprio, ha lanciato pesanti accuse di intimidazione e corruzione dei testi da parte del Procuratore Del Ponte a cui ha addebitato di aver ottenuto dichiarazioni grazie a promesse ai testimoni di denaro o di offerte di posti di lavoro ovvero dietro minacce di incriminazioni o addirittura estorsioni. Per fare chiarezza sulle circostanze descritte, la corte ha ordinato una indagine indipendente che ha richiesto un ulteriore aggiornamento della procedura.

Infine, a Giugno dell’anno scorso (2013) un ulteriore colpo alla credibilità del processo e della stessa Corte internazionale è stato inferto dalla lettera di un giudice (della Corte e del collegio giudicante del caso Šešelj), giunta alla stampa, in cui si criticava duramente l’orientamento adottato dalla Corte in occasione di alcune recenti decisioni assolutorie in processi a carico di generali e apparatniki sia Serbi che Croati (Gotovina case, Stanisic-Simatovic case). Nella missiva, inviata a 56 tra colleghi ed avvocati e commentata anche in questo sito in un intervento della collega Giuliana Civinini, il giudice Frederik Harhoff apertamente accusava il Presidente della Corte (l’Israeliano naturalizzato Americano Meron) di aver esercitato indebite pressioni affinchè l’orientamento tradizionale della corte sul tema della ‘command responsibility’ fosse rivisto ed affinchè venisse affermato un nuovo principio, secondo cui i comandanti dovessero essere ritenuti responsabili delle atrocità commesse dai subordinati solo in caso di loro diretta conoscenza o partecipazione o ordine ad una specifica impresa criminale, escludendo quindi che un generale dovere di controllo al fine di evitare violazioni potesse essere fonte di responsabilità penale.

Šešelj ha immediatamente approfittato della situazione di grave imbarazzo creata dalla pubblicazione della lettera ed ha chiesto la ricusazione del giudice danese, membro del Collegio che lo giudicava, sostenendo che egli con la sua condotta aveva dimostrato di essere orientato per la condanna.

Un collegio appositamente costituito ha infine accolto la mozione di ricusazione accettando la tesi che il giudice Hanhoff avesse dimostrato ‘un’inaccettabile apparenza di pregiudizio”.

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Il processo è giunto alle battute finali ma non è ancora finito. Le arringhe conclusive sono state pronunciate da oltre due anni ma la sentenza è attesa per non prima della fine della primavera del 2015.

Nel frattempo Šešelj è stato autorizzato dalla Corte, all’inizio di Novembre di quest’anno, a ritornare in Serbia per ragioni umanitarie, essendogli stata diagnosticata la fase terminale di una malattia che non lascia scampo.

Tuttavia, appena rientrato a Belgrado, Šešelj ha approfittato per lanciare le usuali provocazoni contro i nemici di sempre, i Croati e contro gli ex compagni di partito, ora divenuti rispettivamente Capo di Stato (Tomislav Nikolic) e Capo del Governo (Aleksandar Vucic).

Cogliendo l’occasione del Giorno della Memoria Croata (che ricorda la caduta e la devastazione della città di confine di Vukovar nelle mani dei Chetnik Serbi il 19 Novembre 1991)  Šešelj ha inviato alle Autorità Croate una lettera di celebrazione ed esaltazione degli autori della carneficina citando la liberazione (anzichè caduta) della città e ricordando che il suo partito farà tutto il possibile perchè Vukovar ritorni ad esser parte della Grande Serbia.

Ai politici locali, ha ricordato che non ritornerà volontariamente a l’Aja e che se le Autorità Serbe vorranno un giorno dare esecuzione all’ordine di traduzione della Corte ed estradarlo di nuovo in Olanda per le ulteriori fasi del processo (a cominciare dalla lettura del dispositivo) dovranno fare di lui un martire.

Con una risoluzione adottata il 27 Novembre scorso, il Parlamento Europeo ha stigmatizzato le parole e le provocazioni dell’imputato Šešelj invitando l’ICTY a riconsiderare la propria decisione di consentire a Šešelj il ritorno in Serbia e richiamando il Governo Serbo a condannare le parole del leader populista.

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L’intera vicenda lascia perplessi.

L’inefficienza di un corpo giudiziale, che appare sempre più dominato da logiche autoreferenziali piuttosto che dal desiderio di portare a compimento in maniera ordinata e celere il compito per cui era stato costituito, causa e consente la detenzione di un imputato in attesa di processo per un tempo inaccettabile in qualsiai Paese civilizzato (quasi dodici anni per il solo primo grado...).

Le parole utilizzate dalla Corte nel Settembre del 2011 per respingere una richiesta di cessazione della detenzione in attesa di giudizio suonano come un cinico e falso uso di formulette giudiziali che non troverebbero spazio in Italia: si è affermato che “non c’è una soglia predeterminata con riguardo al tempo oltre il quale un processo può essere considerato ingiusto per ritardo ingiustificato (dopo otto anni e mezzo? n.d.r.) e che “Šešelj non è riuscito a dare concreta prova di abuso del processo”....

Inevitabilmente, il passare del tempo, soprattutto in processi di questo respiro, in cui elementi giuridici si fondono a profili politici, porta ad un logoramento delle tesi della accusa ed ad una svalutazione dei fatti e delle responsabilità. Come si è comprende dal revirement giurisprudenziale sopra ricordato, la Corte pare intenzionata a ritagliarsi un profilo più modesto, lontano dalla audace giurisprudenza dei primi anni, che aveva consentito la condanna di politici e di comandanti militari di primo livello.

Se poi l’imputato, come nel caso di specie ha passato oltre un decennio in prigione preventiva a causa della complessità del procedimento ma anche a causa della maniera in cui il porcedimento è stato condotto, è lecito chiedersi quali misure possano essere adottate perché situazioni del genere non abbiano a ripetersi e perché una Corte internazionale non dia l’impressione di indifferenza nei confronti del diritto di chi vi è soggetto ad un giusto processo in tempi ragionevoli.

 

16/02/2015
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