Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Diritti dei detenuti: quando usciremo dal Medio Evo?

di Alberto Marcheselli
Professore di Diritto Finanziario nella Università di Genova
Sulla scia di una sentenza della Corte Costituzionale, su un conflitto di attribuzioni fra magistrato di sorveglianza e potere esecutivo, è necessario riflettere su quali strumenti adoperare per garantire effettività ai diritti dei detenuti
Diritti dei detenuti: quando usciremo dal Medio Evo?

Costituisce un problema annoso, anzi ultradecennale (secolare..), quello della effettività della tutela dei diritti delle persone sottoposte a limitazione della libertà personale.

Il problema è ben noto nella sua dimensione materiale e politica, nel senso che le condizioni fatiscenti di una parte consistente dell’universo penitenziario sono oggetto di grande attenzione da parte dei media e di una irresponsabilmente inversamente proporzionale concreta preoccupazione da parte dei gestori della cosa pubblica, ossessionati da valutazioni di bilancio e dimentiche del fatto che il crimine è un costo sociale altissimo, anche se non entra nelle stime delle Agenzie di rating.

Meno noto, ma non meno importante è il profilo giuridico della questione.

Alcuni dati sono infatti acquisiti ormai da tempo, mentre altri, quelli decisivi, rimangono “in sospensione e stallo” da tempo altrettanto lungo.

Ciò chè è ormai pacifico è che

a) la giurisdizione in tema di diritti delle persone sottoposte a privazione della libertà personale spetta, funzionalmente, alla Magistratura di Sorveglianza;

b) tale giurisdizione deve svolgersi con modalità tali da assicurare al detenuto l’espletamento della fondamentale facoltà di contraddire e difendersi.

Sono risultati acquisiti da tempo, fin dalle sentenze 26/1999 della Corte Costituzionale e Cass. Sez. Unite, 26 febbraio 2003, n. 25079 ric. Giani.

Quel che i Magistrati di Sorveglianza denunciano da tempo , come Cassandre profetiche ma inascoltate, perché nessuno meglio di loro lo vede e lo sa, è che il riconoscimento di un diritto non si esaurisce nella sua più o meno solenne affermazione, ma necessita la concreta attuazione.

Il detenuto che si trovi ristretto in condizioni disumane non ha ancora soddisfazione del suo diritto se questo viene riconosciuto in provvedimento giurisdizionale, che nulla muta sul piano delle concrete condizioni di vita all’interno degli istituti.

La tutela dei diritti non si realizza con il rilascio di patenti o certificazioni, “provvedimenti canzonatori” come li definiva quell’antico detenuto, ma con istituti che cambino la realtà.

Su questo punto, qualche passo indubbiamente è stato fatto, dai tempi più bui e oscurantisti.

Così, la Corte Costituzionale ha riconosciuto la necessità di assicurare vincolatività ai provvedimenti del Magistrato di Sorveglianza (C. Cost. 266/2009).

Neppure questo richiamo è stato tuttavia sufficiente se la posizione ministeriale in ordine a tale vincolatività si è attestata, in modo francamente deludente, sulla tesi che il provvedimento del Magistrato di Sorveglianza “costituisce dunque un precetto giuridicamente vincolante, anche in assenza di una sanzione specifica, il cui mancato rispetto espone comunque l’Amministrazione e l’esecutivo a conseguenze sul piano politico, finendo per certifi care la inadeguatezza dell’azione amministrativa al perseguimento di finalità imposte da leggi dello Stato”(così Falzone, La sentenza n. 266/2009 della Corte Costituzionale: è innovativa dell’att uale sistema di tutela dei diritti dei detenuti?, Rass. pen. Criminologica 2010, 3, 123).

Come possa esserci vincolo effettivo senza sanzione e come possa essere satisfattoria dei diritti fondamentali una certificazione della inadeguatezza dell’azione amministrativa rilevante sul piano politico non è dato sapere.

Non è un caso che a tale pervicace omissione e colpevole politica dello struzzo sia seguita la condanna dello Stato italiano in sede Cedu, sentenza 8 gennaio 2013, Torreggiani v. Italia.

Sempre allo stesso punto, quindi, stiamo: di quali strumenti dispone il soggetto leso nei suoi diritti fondamentali per avere effettiva soddisfazione di tali diritti?

Così come scrivemmo già 8 anni fa,la soluzione, in diritto, dipende dalla natura che si voglia attribuire all’intervento del Magistrato di Sorveglianza.

Sono ipotizzabili almeno tre diverse ricostruzioni.

Quella di giudizio di annullamento su atti; quello di accertamento di fatti; quello di accertamento e condanna.

Nella prima configurazione, al Magistrato di Sorveglianza spetterebbe solo di verificare la legittimità di un provvedimento della P.A. ed eventualmente annullarlo.

Nella seconda configurazione il Magistrato di Sorveglianza dovrebbe accertare la situazione di fatto e se questa sia conforme a diritto, con una pronuncia dichiarativa.

Nella terza dovrebbe accertare quanto appena espresso e ordinarne la rimozione, il suo provvedimento costituendo titolo esecutivo contro la P.A.

La prima soluzione sconta la difficoltà rappresentata dal fatto che molto spesso a ledere i diritti non sono tanto singoli provvedimenti espressi, ma scelte organizzative generali, se non addirittura mere situazioni materiali. Nel caso in cui comunque sussistesse un atto amministrativo e questo fosse annullato, viene da chiedersi quale sarebbe il modo di effettiva tutela dell’interessato. In effetti, se il provvedimento che fondava la sua condizione lesiva (allocazione in regime di rigore, o qualsiasi trattamento restrittivo con violazione di diritti) è stato espunto dall’ordinamento giuridico, dovrebbe divenire palese che egli subisce una lesione priva persino della copertura formale del provvedimento. L’illecito civile (per la compressione sine divenuta completamente sine titulo della sfera giuridica) dovrebbe divenire palese, così come va esplorata la configurabilità del reato di cui all’art. 608 c.p., atteso che la iniziativa lesiva non sarebbe “coperta” da un provvedimento legittimante).

La terza è stata, per lungo tempo, tendenzialmente respinta dalla stessa giurisprudenza. Essa è sempre stata, di fatto, assunta dalla Amministrazione, che non ha ritenuto vincolanti le decisioni della Magistratura di Sorveglianza, tanto da disporre, talvolta, espressamente di non ottemperarvi.

L’ottemperanza alla decisione rimane pertanto un aspetto problematico, qualunque sia l’opzione che si adotta.

Anche sotto questo aspetto, si possono ipotizzare soluzioni molto diverse.

La più “forte” è ritenere che quanto previsto dall’art. 69 comma 5 O.P. significhi che le direttive del Magistrato di Sorveglianza si sostituiscono a quelle del vertice della Amministrazione (che sarebbe una sorta di commissario ad acta ex lege), con conseguente immediato dovere degli operatori penitenziari di attuare la decisione, disapplicando gli eventuali ordini contrari di Direttore, Provveditorato e Dipartimento.

In tale ricostruzione il potere di ingerenza del Magistrato di Sorveglianza assumerebbe un contenuto invasivo nell’area dell’Amministrazione di eccezionale rilevanza.

Per vero, questo sembra l’assunto, finora inascoltato, alla base della giurisprudenza della Corte Costituzionale: la sentenza 266/1999 ha ritenuto che “l’art. 69 Ordinamento Penitenziario dispone, nel quinto comma (ultimo periodo), che il magistrato di sorveglianza «impartisce, inoltre, nel corso del trattamento, disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati».

La parola “disposizioni”, nel contesto in cui è inserita, non significa segnalazioni (tanto più che questa modalità d'intervento forma oggetto di apposita previsione nel primo comma dell'art. 69), ma prescrizioni od ordini, il cui carattere vincolante per l'amministrazione penitenziaria è intrinseco alle finalità di tutela che la norma stessa persegue.

Anche qui, l’omessa ottemperanza alle disposizioni del Mag. Sorv. costituirebbe evidentemente fonte di responsabilità disciplinare, comportamento civilisticamente illecito e fonte di risarcimento del danno e, ugualmente, condotta valutabile nel quadro dell’art. 608 c.p.

Nell’ipotesi in cui si ritenesse il provvedimento una condanna, sarebbero attivabili le reazioni per l’inottemperanza al giudicato, con tutti i problemi ben noti, rispetto all’esecuzione coattiva di un facere, per di più da parte della P.A.

Molta strada è stata fatta, ma resta ancora l’ultimo miglio, giusto per evitare che alla persona sottoposta a lesione dei suoi diritti fondamentali capiti quel che capitò a Renzo davanti all’avvocato Azzeccagarbugli: la legge che vieta ai prepotenti di spadroneggiare sugli umili eccome se esiste… ma a Don Rodrigo non si applica!

Vogliamo che lo Stato italiano smetta, finalmente (sono passati 400 anni dai tempi delle grida manzoniane, bellissime, onnicomprensive ma inutili) la maschera di Don Rodrigo ed entri finalmente nella modernità.

 

11/06/2013
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