Magistratura democratica

Un giorno ragionando con Carlo...

di Maria Acierno
Carlo Verardi tra i primi ha individuato nei temi “eticamente sensibili” – in particolare, nel rapporto tra le scelte sul corpo, la salute, la generazione, il fine vita da un lato e le biotecnologie e i progressi della scienza dall’altro – uno dei profili basilari per la formazione del giudice. In uno dei primi incontri di studio ad essi dedicato erano già contenute le tematiche oggi al centro dell’impegno delle corti e del legislatore. Si è cercato, molto sommariamente, di darne conto, partendo dall’approccio plurale e aperto che Carlo ha sempre avuto nell’indagare i nuovi orizzonti del diritto.

1. Un giorno ragionando con Carlo

Di Carlo Verardi si conoscono la passione e l’impegno dimostrati nella formazione dei magistrati. A lui si devono la progettazione e la realizzazione di un modello interattivo e coinvolgente dell’attività didattica e scientifica del Consiglio superiore della magistratura, che costituisce tutt’ora l’architrave della crescita professionale e deontologica dei magistrati.

Forse meno conosciuta, perché condivisa prevalentemente con amici e colleghi più vicini, è la sua intelligenza visionaria e progettuale, rivolta, nell’attività di formazione, a individuare quei temi che, grazie ai mutamenti dei modelli comportamentali e relazionali della società civile, hanno imposto l’allargamento degli orizzonti della cultura giuridica al fine di comprenderne l’impatto e le modalità di adattamento (o trasformazione) del tradizionale catalogo dei diritti fondamentali della persona.

Così, ragionando dei traguardi delle biotecnologie in relazione al processo generativo umano, nacque circa 24 anni fa il primo corso di formazione dedicato alla bioetica e al biodiritto.

L’attenzione era rivolta, in particolare, al diritto elaborato dalle corti straniere e da quelle internazionali[1] che, fin dalla fine degli anni ottanta, avevano dovuto confrontarsi con i primi conflitti dovuti alla scomposizione del processo generativo ad opera delle tecniche di fecondazione assistita, oltre che con la oggettiva difficoltà di adattare le tradizionali definizioni giuridiche della genitorialità e degli status filiali ai problemi aperti dall’accesso alla procreazione medicalmente assistita. Subito sono venute in luce le questioni relative alla natura, all’efficacia e alla revocabilità del consenso al processo procreativo per pma[2]; alla definizione del regime giuridico di appartenenza dei gameti maschile e femminile conservati in vitro[3] e degli embrioni formati e non impiantati[4]; alla preminenza del favor veritatis o del consenso prestato nella fecondazione eterologa; alla preferenza di una regolazione “forte”, fondata su una rigida predeterminazione delle condizioni soggettive di accesso alle pma e delle tecniche lecite in funzione della supremazia etica del concepimento e della generazione “tradizionali” o, invece, al ricorso[5] a una soft law anche di carattere secondario, volta prioritariamente ad adeguare i centri sanitari agli standard scientificamente più avanzati di sicurezza della salute di chi si sottopone alle pma, lasciando alle corti il compito di rinvenire la regola di compatibilità tra culture e valori che appaiono contrapposti e di effettuare il corretto bilanciamento tra l’attuazione del desiderio di genitorialità, la tutela della salute e la salvaguardia dei diritti di tutti i soggetti coinvolti dalla scelta, da svolgersi alla luce del sistema dei diritti fondamentali tracciato dalla Costituzione e, attualmente, dal quadro multilivello di protezione dei diritti della persona.

2. Il diritto e la legge

Fin dalle prime riflessioni sulle scelte personali o relazionali attraversate dall’intervento delle biotecnologie e dai progressi scientifici in campo genetico, si è posto sul tappeto il tema della compatibilità degli strumenti giuridici tradizionali con le nuove forme di disposizione del corpo. La necessità di un nuovo approccio è stata dettata dal convergere, da un lato, della crescente centralità dell’autodeterminazione consapevole in relazione alle vicende che investono il corpo e, dall’altro, dalla progressiva scomposizione scientifica delle sue parti oltre ciò che è visibile e tangibile, da cui scaturisce l’esigenza di stabilire un regime giuridico relativo alla disponibilità e all’appartenenza delle sequenze del dna, dei tessuti cellulari, dei gameti, degli embrioni e degli altri processi biochimici e biofisici attualmente conosciuti. L’espansione delle ricerche e dei traguardi in campo scientifico e tecnologico ha rivelato contenuti e funzioni del corpo umano e delle sue parti del tutto nuovi, che investono e possono entrare in conflitto con i diritti fondamentali della persona. Lo studio della genetica e del dna intercetta, in primo luogo, la titolarità e l’esercizio di dati personali supersensibili, anche in chiave predittiva, la cui conoscenza da parte di terzi può determinare effetti distorsivi di carattere discriminatorio e di controllo in funzione dello sfruttamento di caratteristiche di particolari gruppi sociali, territoriali, etc. a fini economici o, peggio, politici[6]. Occorre, tuttavia, rilevare che il grado di selezione delle informazioni e la conseguente incisività degli approdi biotecnologici sul diritto alla protezione dei dati personali è direttamente proporzionale alla natura e all’incidenza del processo di elaborazione scientifica dell’oggetto di esame.

L’indagine prende origine dall’esame di parti – peraltro scomponibili in microorganismi – del corpo, ma assume rilievo per l’intervento di sempre più elevato carattere scientifico e tecnologico che vi si immette. La provenienza dal corpo della “materia” di studio e ricerca non esaurisce la complicata questione della regolazione giuridica. I “beni” o le “utilità” che derivano dall’indagine scientifica, non solo in ambito genetico, hanno natura e contenuto prevalentemente “immateriale”. Come già osservato, possono desumersene informazioni, anche a carattere predittivo, che rientrano nell’ambito della protezione dei dati personali o risultati d’indagini incidenti sull’individuazione dell’eziologia di alcune patologie e sulle possibilità d’intervento terapeutico che sorgono da processi manipolativi su tessuti cellulari. Con riferimento al contenuto informativo-predittivo, non è del tutto disagevole, alla luce della legislazione esistente e dell’elaborazione giurisprudenziale che su di essa si è formata, predisporre un sistema di tutela del diritto alla protezione dei dati personali sensibili, pur non potendosi ignorare le infinite possibilità di sfruttamento non autorizzato delle informazioni, in particolare su larga scala. Ma è più complesso disegnare un sistema di effettiva regolazione giuridica dell’utilizzo di microorganismi estratti dal corpo umano e “processati” scientificamente. Entrano in conflitto l’appartenenza individuale del tessuto originario sul quale interviene il processo di elaborazione tecnologica e scientifica, la tutela della creatività e delle invenzioni, anche a fini di sfruttamento economico e, infine – ma non in ordine d’importanza – l’interconnessione con i diritti fondamentali della persona per i riflessi sull’autodeterminazione e, come rilevato, sul diritto alla protezione dei dati personali che da tali ricerche possano derivare.

Una riflessione specifica meritano gli interventi delle biotecnologie in ambito riproduttivo e, conseguentemente, i molteplici profili problematici relativi al regime giuridico inerente al potere di disposizione sui gameti maschili e femminili, ove trattati a fini di pma e separati dal corpo, e sugli embrioni fecondati in vitro; all’incidenza sul diritto alla salute di chi si sottopone a tali trattamenti e alla configurabilità di un’autonoma posizione giuridica tutelata delle varie fasi del processo di generazione umana realizzato mediante pma; all’esistenza di un diritto alla vita dell’embrione; infine, all’esigenza di aggiornare lo statuto giuridico della genitorialità e della filiazione. Contestualmente a tali (solo relativamente) nuovi fronti d’interesse, si è sviluppata una crescente domanda di tutela della sfera individuale delle scelte relative alla malattia, alla sua declinazione non solo fisica, ma anche psichica (così occupando un ambito rispetto al quale la volontà personale aveva una funzione inesistente o marginale), fino alla decisione di porre fine all’esistenza in vita. L’autodeterminazione, ove considerata nel suo tradizionale contenuto volontaristico di matrice sostanzialmente negoziale, si è rivelata fin da subito uno strumento inadeguato in relazione alle decisioni che coinvolgono, in varia misura, interventi sul corpo in funzione di scelte che determinano lo sviluppo della personalità individuale e relazionale (art. 2 Cost.). In particolare, si è compreso gradualmente, ma irreversibilmente il rilievo primario della consapevolezza degli effetti di tali scelte in relazione alla crescente complessità degli interventi sul corpo e alla pluralità delle variabili a essi correlate. Si è rivelato, di conseguenza, un imponente squilibrio conoscitivo e informativo destinato a incrementarsi in relazione agli sviluppi della ricerca scientifica. È apparso progressivamente sempre più evidente come l’effettività delle scelte nell’ambito degli interventi sul corpo, variamente declinabili, imponga la preventiva creazione di un’alleanza relazionale, informativa e conoscitiva al fine di porre in luce non in astratto, attraverso una modulistica poco comprensibile, ma in concreto e in relazione alla condizione soggettiva e alla personalità di chi deve effettuare la scelta, gli elementi conoscitivi imprescindibili per poter esercitare il diritto individuale ad autodeterminarsi. Dunque, anche in relazione all’esercizio libero e consapevole delle scelte in questo ambito così complesso della vita individuale e relazionale, la soluzione più adeguata rimane quella di non creare un sistema imperativo rigidamente formalizzato relativo al diritto di conoscere le conseguenze di scelte riguardanti passaggi fondamentali dell’esistenza, ma di lasciare che, sulla base della rete costituzionale (artt. 2 e 32 Cost.) dei principi posti a base dei diritti fondamentali e inviolabili della persona, si possano in modo equilibrato conformare le esigenze conoscitive, in quanto correlate allo statuto dell’identità personale, al profilo psichico del destinatario di esse e alla natura oltre che all’incidenza diffusiva delle stesse, in funzione di una nozione della dignità personale che non escluda il rilievo del patrimonio delle esperienze passate e della memoria di sé che s’intende trasmettere.

3. I temi “eticamente sensibili” e il ruolo del giudice

La formula “è un tema eticamente sensibile” nasconde più di un’ambiguità. In primo luogo, è difficile delinearne il perimetro. Assumendo, in via esclusivamente esemplificativa, l’angolo prospettico costituito dai nuovi modelli relazionali e genitoriali che richiedono riconoscimento giuridico, ci si deve chiedere se le domande che involgono il desiderio di genitorialità espresso da coppie omoaffettive siano da includere tra quelle che pongono temi eticamente sensibili. E, in caso di risposta affermativa, perché? Perché scardinano il paradigma dei ruoli genitoriali determinati dal genere diverso e non considerano, di conseguenza, l’alterazione nello sviluppo equilibrato della personalità dei figli che la mancanza di tale definizione sessuata dei ruoli può determinare? Questo timore, prevalentemente fondato su un pregiudizio discriminatorio, non ha natura etica, ma trae origine da convinzioni che, se pur desumibili da correnti di pensiero tratte dalla psicologia o da altre scienze umane, tuttavia non sono univoche e, anzi, trovano forte opposizione in posizioni contrapposte, legittimate da studi e ricerche scientifiche. In conclusione, la divergenza di opinioni è del tutto neutra, in relazione al profilo etico o bioetico, sul piano della regolazione dei conflitti e del riconoscimento dei diritti che, nel caso di specie, devono fondarsi su due cardini costituzionali: il principio di uguaglianza sostanziale, correlato al divieto di discriminazioni per orientamento sessuale, e la definitiva inclusione delle coppie omoaffettive nell’ambito delle garanzie e dei diritti connessi alle relazioni costituzionalmente riconosciute ex art. 2 Cost. Questo è l’ambiente costituzionale all’interno del quale si devono collocare le scelte genitoriali delle coppie omoaffettive, così come riconosciuto dal legislatore con la legge sulle unioni civili. Non vi sono valori etici da privilegiare, il contesto assiologico è quello costituzionale, così come inverato dall’interpretazione della Corte costituzionale[7], della Corte Edu[8] e della giurisprudenza di legittimità[9]. L’accesso alle pratiche di procreazione assistita per poter realizzare progetti genitoriali da parte di coppie omoaffettive deve, di conseguenza, essere valutato alla luce dei principi esaminati, senza introdurre questioni quali quelle, cui si è accennato nel par. 2, relative all’individuazione del momento iniziale della “vita umana” o proporre atteggiamenti di pregiudiziale sospetto per la scomposizione del progetto generativo che l’accesso a tali tecniche introduce, specie in relazione alla fecondazione eterologa. Si deve, al contrario, rilevare che, per le coppie omoaffettive, il ricorso alla pma costituisce lo strumento allo stato non sostituibile per realizzare una forma di genitorialità il più possibile vicina a quella biologica. Nelle coppie omogenitoriali femminili si registra, generalmente, una scomposizione dei ruoli generativi femminili, essendovi una partner che fornisce il gamete e l’altra che è gestante. Nelle coppie omoaffettive maschili, uno dei due partner fornisce il gamete maschile. Si determina un modello misto di genitorialità, fondato su discendenza genetico-biologica e genitorialità d’intenzione, entrambe rinforzate da un processo decisionale e attuativo di non breve durata, che consente di acquisire sempre maggiore impegno e consapevolezza della scelta adottata.

Non può, tuttavia, ignorarsi una differenza di fondo nei due percorsi generativi. Nella coppia omoaffettiva maschile, l’accesso alla pma eterologa richiede l’intervento di una gestante terza rispetto al nucleo relazionale che intende attuare, al proprio interno, un progetto genitoriale. Sotto questo peculiare aspetto, il riconoscimento di atti di nascita o di pronunce giurisdizionali estere riguardanti lo status genitoriale di entrambi i componenti la coppia omoaffettiva maschile hanno determinato una pluralità di controversie dovute al diniego opposto dagli ufficiali dello stato civile in alcuni comuni italiani e dalla coerente posizione della parte pubblica dei processi che ne sono seguiti (il sindaco come ufficiale del governo e il Ministero dell’interno, entrambi legittimati passivi ex sez. unite, n. 12193 del 2019), fondata sulla contrarietà all’ordine pubblico internazionale delle richieste di trascrizione o iscrizione di status genitoriali caratterizzati, in relazione al processo generativo, dal ricorso alla gestazione per altri. Può la prospettazione di una condizione impeditiva del riconoscimento di un titolo estero essere qualificata come questione “eticamente sensibile”? Il parametro costituito dall’ordine pubblico internazionale, pur se di complessa declinazione, richiama principi e limiti di carattere giuridico, ancorché permeati di valori assiologici di provenienza costituzionale e convenzionale. Tale complesso di valori deve ispirarsi, in tema di diritti fondamentali della persona, a una logica inclusiva delle scelte che riguardano le relazioni fondanti lo sviluppo della personalità (art. 2 Cost.), non potendosi declinare l’uguaglianza e la pari dignità soltanto in relazione all’individuo senza considerare che la realizzazione di sé passa, ineludibilmente, per l’espressione delle proprie opzioni affettive e proiettive. Il limite all’autodeterminazione relazionale è senz’altro determinato dal paradigma della libertà e della dignità dei terzi a vario titolo coinvolti nei progetti relazionali, ma il punto d’equilibrio non deve essere rinvenuto nella selezione di una posizione, tra quelle in campo, contrassegnata da una rigida impalcatura etico-culturale e dalla radicale esclusione di opzioni concorrenti. Al contrario, si deve assumere come criterio ordinante il cd. “minimo comune etico”, sulla base di una prognosi di condivisibilità che tenga conto dell’evoluzione della civiltà giuridica e rinvenga soluzioni che non travolgono le nuove istanze di riconoscimento di diritti fondamentali e, al contempo, non ledano lo statuto di dignità e libertà dei soggetti (in particolare, con riferimento alla gestazione per altri, la donna gestante e il minore) ineludibilmente coinvolti. Solo l’individuazione e l’adozione di un paradigma pluralistico di valori, peraltro da assumere come complesso di principi dinamici e soggetti a revisione, può garantire un corretto giudizio di bilanciamento di diritti e di interessi nel rapporto di crescente complessità che si determina tra nuovi diritti e l’apporto delle biotecnologie. L’intervento legislativo, proprio per il carattere transnazionale dei conflitti che sorgono in relazione ai nuovi modelli genitoriali, è insufficiente sia per la non omogeneità delle soluzioni che per l’incompletezza degli interventi. Molto spesso si assiste a interventi legislativi cogenti, che stabiliscono un rigido sistema di divieti, ma sono privi di strumenti efficaci in relazione alla disciplina giuridica della filiazione conseguente a forme di filiazione ritenute illegittime[10]. In altri ordinamenti, ove non sussistono tali divieti, si regola anche il rapporto di filiazione. La trasmigrazione degli status genitoriali, di conseguenza, interroga sul corretto paradigma giuridico relativo, non all’accesso alle pma, ma ai rapporti genitoriali in essere. Il ruolo primario torna dunque alla giurisdizione, e in particolare alle corti destinate alla ricerca di soluzioni equilibrate, da rinvenire in principi e “valori” individuati nell’ampio spettro della tutela costituzionale multilivello, che costituisce l’orizzonte all’interno del quale devono essere riconosciuti e conformati i diritti fondamentali della persona. Occorre trovare soluzioni che, senza creare discriminazioni – incompatibili con i parametri costituzionali e convenzionali di cui agli artt. 2 e 3 Cost. e 8 e 14 Cedu[11] – tra relazioni eterosessuali e relazioni omoaffettive, individuino le effettive criticità assiologiche connesse alla gestazione per altri, senza pregiudizi e generalizzazioni e distinguendo tra sistemi giuridici che ne prevedono una regolazione con adeguate garanzie e sistemi che ne sono privi; tra accordi onerosi e accordi di natura solidale e gratuita; tra le diverse forme di relazioni genitoriali che si formano anche in relazione alla derivazione genetica da almeno uno dei componenti la coppia omoaffettiva. La Corte Edu ha praticato questa ultima distinzione, diversamente decidendo i casi in cui i cd. “genitori intenzionali” non avessero alcun legame biologico genetico con il minore (i citati casi Labasse e Mennesson[12]) dai casi in cui tale legame non vi fosse e fosse stata anche violata la legge del Paese straniero ove l’accordo di gestazione e la nascita del minore erano intervenuti[13], tenendo conto anche della natura e della qualità del rapporto stabilito dai genitori d’intenzione con il minore.

Sono temi che impongono un continuo studio del sempre più complesso sistema delle fonti, accompagnato dalla conoscenza delle decisioni delle corti internazionali e delle corti costituzionali, in particolare provenienti dai Paesi facenti parte dell’Unione europea. Allo studio giuridico si deve accompagnare una prospettiva dinamica di approfondimento interdisciplinare, che Carlo tra i primi ha indicato come strada maestra nell’organizzazione dei corsi di formazione, nella formidabile stagione di crescita culturale e deontologica della magistratura legata al suo impegno. Il suo principale insegnamento riguarda l’approccio aperto e problematico all’esame di questi casi, fondato sull’inclusione (e non sul sospetto) degli stimoli provenienti dalle esperienze internazionali e sulla comprensione effettiva delle nuove domande di riconoscimento dei diritti. Un approccio opposto a quello che, talvolta, si coglie ancora (ancorché meno frequentemente che in passato) nell’affrontare i cd. “temi eticamente sensibili”, fondato sulla rigida osservanza del proprio sistema di valori etico-culturali di riferimento in funzione di una sorta di libertà di coscienza nella valutazione e decisione, del tutto illegittima, imponendosi al contrario un confronto approfondito e aperto con il complesso sistema di fonti di riferimento all’interno del quale si collocano i diritti fondamentali della persona, senza chiudersi nel proprio soggettivo orizzonte valoriale.

[1] Tra i primi, la Corte suprema del New Jersey nel 1988 (in re Baby “M” 98.11), che negò la liceità del contratto di surrogazione di maternità ritenendolo una forma di baby selling; qualche anno dopo (nel 1993), la Corte suprema della California (Johnson c. Calvert, n. S023721) riconobbe la liceità del contratto e l’idoneità a costituire lo status genitoriale nella donna committente. Alla fine degli anni novanta, la Corte suprema di Israele affrontò il caso di una coppia che decise di avere un figlio per mezzo di madre surrogata, utilizzando embrioni formati dai rispettivi gameti maschili e femminili. Il matrimonio finì e il marito si oppose all’impianto dell’embrione in utero di una madre surrogata, come richiesto dalla ex moglie. Quest’ultima, al contrario, chiese che fosse portato a termine il progetto. La prima decisione fu contraria all’impianto. L’ultima è favorevole, sul rilievo che questa fosse l’unica e ultima possibilità per Ruth, la moglie, di diventare madre. In Israele vige una legislazione rigorosa, che consente la surrogazione di maternità. Per una più puntuale conoscenza della vicenda israeliana, sia consentito il rinvio a M. Acierno, Il potere di disposizione sugli embrioni prima dell’impianto, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 3/1999, p. 463; Id., Tecniche di riproduzione assistita e revoca del consenso: una questione ancora insoluta, in Quaderno AIAF, n. 2/2015, p. 31.

[2] La Corte europea dei diritti umani, nel caso Evans c. Regno Unito, ha ritenuto che in caso di conflitto sopravvenuto alla formazione in vitro degli embrioni e alla condivisione del progetto procreativo mediante pma, nessuno dei due partner può disporre in via esclusiva del prodotto del concepimento ai fini dell’impianto senza il consenso dell’altro partner (Corte Edu, ric. n. 6889/2005, pronuncia del 10 aprile 2007); e ciò sebbene per la ricorrente fosse questa l’unica possibilità residua di diventare madre. Ha affermato la Corte Edu che, nella specie, non fosse in discussione il generico diritto alla genitorialità, ma la prosecuzione di quello specifico progetto procreativo sorto come condiviso e soltanto in tale condizione da portare a termine. Presumibilmente opposta sarebbe stata la soluzione nel caso fossero stati congelati soltanto gli ovociti della Evans, trattandosi di materiale biologico di sua esclusiva appartenenza, salvi i vincoli e i divieti delle legislazioni nazionali. Prima del 2004, in Italia, il Tribunale di Bologna (ordinanza del 9 maggio 2000 in www.diritto.it) ha affrontato un caso di conflitto tra coniugi separati relativo alla sorte degli embrioni congelati formati dai loro gameti. La moglie aveva richiesto di poter procedere all’impianto, mentre il marito aveva rifiutato il consenso. Il Tribunale ha ritenuto di dover dare prevalenza alle ragioni del marito, non potendosi imporre coattivamente la paternità, e perché alla luce del quadro costituzionale e convenzionale deve ritenersi che il nascituro abbia diritto ad avere entrambi i genitori. Viene affermato il diritto a non proseguire nel progetto procreativo mediante manifestazione di volontà, purché espressa prima dell’impianto. La l. n. 40/2004 stabilisce, all’art. 6, che il consenso diviene irrevocabile fin dal momento in cui l’embrione o gli embrioni siano formati in vitro, così anticipando a una fase che può essere anche molto lontana dall’impianto il momento perfezionativo della definitività del consenso, senza tenere conto delle concrete possibilità di conflittualità sopravvenute tra i partner.

Non ha ritenuto di riscontrare rilievi d’incostituzionalità in relazione a tale regolazione del consenso l’ordinanza della Corte di cassazione n. 30924/2017, nella quale è stato affermato che, nella fecondazione assistita eterologa, così come nell’omologa, il preventivo consenso manifestato dal coniuge o convivente può essere revocato fino al momento della fecondazione dell’ovulo, sicché ove la revoca intervenga successivamente, ai sensi dell’art. 9, comma 1, l. n. 40/2004, il partner non ha azione per il disconoscimento della paternità del bambino concepito e partorito in esito a tale inseminazione. L’ordinanza è pubblicata in Famiglia e diritto, n. 1/2019, p. 21, con nota di A. Figone.

Tra i più recenti provvedimenti sul nesso tra accesso alla genitorialità da pma, consenso e regime probatorio della filiazione, si devono segnalare le ordinanze del Tribunale di Roma relative all’errore sanitario nell’impianto dell’embrione. Nella specie, i genitori “genetici” (ovvero coloro che, con i loro gameti maschili e femminili, hanno determinato la creazione in vitro degli embrioni impiantati) erano venuti in conflitto con la madre “portante” (ovvero colei che ha partorito) e il padre “sociale” (del tutto estraneo geneticamente e biologicamente alla vicenda procreativa) da ritenersi, tuttavia, genitore ex art. 231 cc anche nella versione novellata ex d.lgs n. 154/2013, in quanto coniuge della donna che ha portato a termine la gestazione. Nella difficile situazione creata dall’errore sanitario, i cd. genitori genetici non hanno potuto manifestare e far valere il radicale dissenso all’impianto del “proprio” embrione all’altra coppia, e tanto meno impedire la gestazione, rimessa esclusivamente alla scelta individuale della donna. Il profilo interessante consiste proprio nell’eliminazione di ogni margine di apprezzamento della volontà dei genitori “genetici” nella complessa vicenda, nonostante l’accesso alle tecniche di procreazione assistita costituisca una delle più incisive espressioni dell’autodeterminazione individuale o di coppia, in quanto diretta a oltrepassare limiti naturalistici o impedimenti biologici. I giudici romani hanno ritenuto prevalente la situazione determinatasi all’esito dell’impianto e del parto, riconoscendo a quel nucleo familiare il diritto a essere genitori ed escludendo la legittimazione dell’altra coppia a inficiare lo status filiale così accidentalmente determinatosi.

[3] Si rinvia alla sentenza della Corte di giustizia del 18 dicembre 2014, caso International Stemm Corporation c. Controller General of Patenty, la quale ha definito il confine tra le cellule staminali, che possono essere sfruttate scientificamente ed economicamente – tanto da poter essere brevettabili – e gli organismi intrinsecamente idonei ad avviare un processo procreativo, per i quali il regime di protezione e il divieto di sfruttamento è assoluto. Radicalmente esclusa la brevettabilità dell’embrione umano ex art. 6, par. 2, lett. c della direttiva 98/44/CE, il divieto si estende alle unità cellulari che abbiano la capacità intrinseca di svilupparsi in essere umano. La domanda di registrazione, nella specie, ha avuto ad oggetto cellule staminali umane pluripotenti da ovociti partenogeneticamente attivati e linee cellulari staminali prodotte secondo tali metodi, inidonee ad attivare autonomamente un processo generativo effettivo. La Corte ha ritenuto brevettabili tali cellule staminali, affermando che l’ovulo non fecondato non può essere incluso nel concetto di “embrione umano”, anche quando sia stato indotto a dividersi e a svilupparsi, se alla luce delle attuali conoscenze scientifiche esso sia privo della capacità intrinseca di svilupparsi in essere umano. Le cellule staminali in questione esauriscono, riproducendo esclusivamente se stesse, la propria funzione generativa. Lo sfruttamento scientifico di tale potenzialità e le tecniche di laboratorio per realizzare la partenogenesi possono essere brevettate perché relative esclusivamente a una parte, ancorché di dimensioni infinitesimali, del corpo umano. Non si determina alcuna lesione della dignità umana, che in questo campo costituisce il parametro di valutazione della legittimità di tutti gli atti eurounitari.

[4] Oltre alle pronunce già esaminate, si ritiene utile fornire un quadro della giurisprudenza internazionale e interna sul potere di disposizione dell’embrione dopo la morte del partner che ha fornito uno dei due gameti.  Le pronunce giurisprudenziali riguardano tutte ipotesi di decesso del partner maschile, in quanto per l’impianto non c’è bisogno di ricorrere alla gestazione per altri. La prima pronuncia edita (Trib. Palermo, 8 gennaio 1999, in Foro it., 1999, I, 1655) riguarda l’autorizzazione a procedere all’impianto dopo la morte del partner, accolta ex art. 700 cpc. In Inghilterra fece scalpore la pronuncia della High Court nel celebre caso denominato “Blood”, dal nome della ricorrente. Il marito della signora Blood venne colpito da una malattia cerebrale fulminante nella fase iniziale del processo procreativo, prima ancora di procedere alla raccolta dei gameti maschili mediante la raccolta del liquido seminale. La signora ne richiese (e ottenne) al centro medico l’asportazione prima della morte del marito, nonostante il contrario avviso dell’Authority e la necessità, per la legge inglese, del consenso di entrambi i coniugi. La Corte d’appello non censurò l’operato dei medici, ritenendo che una soluzione di segno opposto avrebbe impedito la domanda giudiziale, e accolse la domanda di inseminazione con i gameti del marito morto, evidenziando che in altri Paesi dell’Ue esiste tale possibilità, rivolgendosi ai centri sanitari competenti. Nella stessa linea di pensiero si sono collocati due provvedimenti adottati in sede cautelare dal Tribunale di Bologna (ordinanza 16 gennaio 2015, in Quotidiano giuridico, con nota di A. Scalera, www.quotidianogiuridico.it/documents/2015/02/13/embrioni-congelati-il-tribunale-di-bologna-autorizza-l-impianto-post-mortem, e ordinanza 21 maggio 2014, in BioDiritto, www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Giurisprudenza/Tribunale-di-Bologna-ord.-21-maggio-2014-negata-l-autorizzazione-all-impianto-di-embrioni-congelati-sedici-anni-prima). La ricorrente e il proprio coniuge avevano deciso di far ricorso alla fecondazione assistita omologa e, nel 1996, furono impiantati tre degli undici embrioni realizzati, ma senza successo. La coppia non richiese di procedere a impianti successivi. Gli otto embrioni prodotti in soprannumero rimasero crioconservati. Nel 2010, venne sottoscritta dalla coppia una dichiarazione di non abbandono degli embrioni. Il marito della ricorrente morì nel 2011. Il 27 marzo 2012, la ricorrente chiese al centro medico lo scongelamento degli embrioni crioconservati nel 1996 e il loro trasferimento. Nonostante il parere favorevole del Comitato di bioetica dell’Università, la direzione sanitaria del Policlinico negò l’autorizzazione a effettuare la prestazione richiesta. Da tale rifiuto conseguì il ricorso ex art. 700 cpc. Di particolare interesse è il confronto tra le argomentazioni del giudice di primo grado e quelle del giudice del reclamo, perché entrambe hanno posto in evidenza le gravi ambiguità interpretative derivanti dal regime giuridico della revoca del consenso alle pma contenuto nella l. n. 40/2004. 

Un altro profilo di enorme rilievo, in relazione al potere di disposizione sugli embrioni, riguarda le ipotesi in cui la coppia o il partner superstite non intendano o non possano destinarli all’impianto. Esemplare, al riguardo, è il caso Parrillo c. Italia, approdato alla Corte di Strasburgo e, successivamente, affrontato dalla Corte costituzionale. La Corte Edu (ric. n. 46470/2011 e sentenza della Grande Camera del 27 agosto 2015) ha affermato che il divieto di donare gli embrioni non destinati all’impianto alla ricerca scientifica, previsto dalla legislazione italiana, non viola l’art. 8 Cedu, essendo rimesso al libero apprezzamento degli Stati stabilire come regolare la sorte degli embrioni cd. “sovrannumerari”, così giustificando il divieto assoluto previsto dall’art. 13 l. n. 40/2004. Sull’inesistenza di una disciplina giuridica relativa alle conseguenze del divieto sopraindicato (tempo di conservazione degli embrioni sovrannumerari, configurabilità di una loro “morte” se non più utilizzabili per l’impianto, etc.) in Italia, sia consentito il rinvio a M. Acierno, Cambia la rappresentazione simbolica del corpo e cambiano i modelli familiari. L’approccio delle Corti dei diritti, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2016 (obiettivo Il Corpo. Anatomia dei diritti). La questione è tornata all’esame della Corte costituzionale, che aveva differito la decisione in attesa della Corte Edu, ma non vi è stata una risposta soddisfacente. La Corte, con una pronuncia d’inammissibilità, ha affermato:

«È quella, dunque, recata dalla normativa impugnata una scelta di così elevata discrezionalità, per i profili assiologici che la connotano, da sottrarsi, per ciò stesso, al sindacato di questa Corte.

Per di più, una diversa ponderazione dei valori in conflitto, nella direzione, auspicata dal rimettente, di una maggiore apertura alle esigenze della collettività correlate alle prospettive della ricerca scientifica, non potrebbe comunque introdursi nel tessuto normativo per via di un intervento additivo da parte di questa Corte (come quello che si richiede dal Tribunale a quo), stante il carattere non “a rima obbligata” di un tale intervento.

Il differente bilanciamento dei valori in conflitto, che attraverso l’incidente di costituzionalità si vorrebbe sovrapporre a quello presidiato dalla normativa scrutinata, non potrebbe, infatti, non attraversare (e misurarsi con) una serie di molteplici opzioni intermedie, che resterebbero, anch’esse, inevitabilmente riservate al legislatore.

Unicamente al legislatore, infatti, compete la valutazione di opportunità (sulla base anche delle “evidenze scientifiche” e del loro raggiunto grado di condivisione a livello sovranazionale) in ordine, tra l’altro, alla utilizzazione, a fini di ricerca, dei soli embrioni affetti da malattia – e da quali malattie – ovvero anche di quelli scientificamente “non biopsabili”; alla selezione degli obiettivi e delle specifiche finalità della ricerca suscettibili di giustificare il “sacrificio” dell’embrione; alla eventualità, ed alla determinazione della durata, di un previo periodo di crioconservazione; alla opportunità o meno (dopo tali periodi) di un successivo interpello della coppia, o della donna, che ne verifichi la confermata volontà di abbandono dell’embrione e di sua destinazione alla sperimentazione; alle cautele più idonee ad evitare la “commercializzazione” degli embrioni residui». 

Si possono individuare due principi nella pronuncia esaminata. Il primo evidenzia l’insufficienza del mero divieto assoluto di sperimentazione sugli embrioni a fronte della varietà e complessità delle ipotesi verificabili in concreto. Il secondo la necessità di un intervento legislativo che, tuttavia, non inibisce al giudice comune di trovare un corretto bilanciamento d’interessi a fronte della dichiarata inesistenza di un paradigma legislativo soddisfacente, nelle ipotesi in cui si debba trovare a dirimere un conflitto relativo al potere di disposizione degli embrioni.

[5] Stefano Rodotà, tra i primi, ha sottolineato la necessità di un intervento regolatore limitato agli standard di sicurezza per la salute dei centri che praticano le pma, da sottoporre ad aggiornamento periodico, attesa la pericolosità d’interventi legislativi che pongano al centro una nozione di “vita umana” unilateralmente desunta da un’opzione etico-culturale definita, che si riveli lesiva dei diritti individuali della persona che ruotano attorno alle scelte sul corpo e sulla vita di relazione che da tali scelte è permeata. Cfr., tra le prime riflessioni, S. Rodotà, Diritti della persona, strumenti di controllo sociale e nuove tecnologie riproduttive, in G. Ferrando (a cura di), La procreazione artificiale tra etica e diritto, Cedam, Padova, 1989, p. 140.

[6] Ha avuto clamore mediatico, qualche anno fa, la cessione da parte del Governo islandese dei dati genetici appartenenti a tutti i propri cittadini, raccolti in una banca dati statale istituita per legge, a una società (la De Code Genetics), con il dichiarato scopo di favorire la conoscenza e la prevenzione o terapia delle malattie genetiche più comuni. L’Islanda, caratterizzata da una popolazione limitata e geneticamente omogenea, ha costituito un patrimonio informatico particolarmente appetibile anche dal punto di vista dello sfruttamento commerciale delle ricerche effettuate. Le informazioni ottenute sono state cedute a una importante casa farmaceutica e la scelta degli organi governativi è stata contestata dalla parte di cittadini islandesi che si è sentita non protetta dalla non identificabilità personale dei dati e che ha ritenuto illegale il potere di disposizione dei dati interamente statuale. In particolare, circa 20 mila cittadini islandesi hanno chiesto di essere esclusi dalla raccolta di informazioni. Alcuni di loro, tra l’altro, hanno rivendicato il diritto di non fornire dati e persino di non ricevere informazioni su rischi desunti dallo studio di geni di parenti e familiari. Nel 2003, una ragazza allora minorenne, Ragnhildur Gudmundsdottir, si è rivolta tramite la madre alla Corte suprema del Paese per impedire che i dati genetici del padre, nel frattempo deceduto, venissero inseriti nel database. La ragione della richiesta risiedeva nel fatto che una figlia condivide il 50 percento dei geni paterni, e può esercitare il diritto di veto, mentre una moglie, che non condivide geni comuni, non può appellarvisi. La Corte suprema le ha dato ragione, poiché ha riconosciuto che attraverso i geni del padre è possibile ottenere informazioni anche su di lei, stabilendo di fatto, per la prima volta in Europa, un diritto alla privacy genetica. Il 19 novembre del 2009, la De Code Genetics ha dichiarato fallimento, travolta dalla bancarotta in cui versava l’intero Paese. Da quando è nata, infatti, non è riuscita a generare profitti se non quelli ottenuti grazie a contratti con case farmaceutiche per la messa a punto di nuove terapie mirate o per l’identificazione di eventuali bersagli. Ora l’intero patrimonio di informazioni (comprendente il genoma di circa 140 mila islandesi) è in vendita e si è fatta avanti una nota casa farmaceutica britannica, conosciuta anche per la sua imponente attività di ricerca.

[7] Corte cost., nn. 138/2010, 170/2014, 272/2017.

[8] Corte Edu, S.H. c. Austria (ric. n. 57813/2000) sentenza della Grande Camera, 3 novembre 2011; più di recente, le due sentenze “gemelle” Labasse e Mennesson c. Francia (vds. www.articolo29.it/tag/Mennesson/-V-/France). Il più recente intervento della Corte Edu in tema di gestazione per altri è stato il parere preventivo richiesto dalla Corte di cassazione francese nel 2018 proprio in relazione ai casi sopra richiamati (Labasse e Mennesson), tornati all’attenzione del giudice francese per la richiesta di trascrizione del certificato di nascita estero relativo allo status filiationis da parte della madre intenzionale. In questo atto la Corte Edu è tornata a riconoscere il valore del preminente interesse del minore in relazione alla concretezza ed effettività della relazione genitoriale, affermando i seguenti principi: a) deve essere fornito riconoscimento legale alla relazione tra il minore e la madre d’intenzione; b) l’adeguata protezione della relazione può avvenire anche mediante strumenti come l’adozione, purché produca effetti simili a quelli del riconoscimento dell’atto di nascita e consenta un procedimento celere.

[9] Il riconoscimento del rango costituzionale e convenzionale dell’omogenitorialità è stato affermato dalla giurisprudenza di legittimità in Cass., n. 12962/ 2016 (in Giur. it. 2016, 2573), con riferimento al diritto della partner di una coppia omoaffettiva femminile di richiedere l’adozione in casi particolari della figlia minore di cui è madre genetica, già riconosciuta dalla madre gestante; in Cass., n. 19599/2016 (in Giur. it, 2017, 2075), si è stabilita la non contrarietà al limite costituito dall’ordine pubblico internazionale della trascrizione nel registro dello stato civile italiano dell’atto di nascita straniero dal quale risulti lo status genitoriale di entrambe le componenti un’unione omoaffettiva femminile, in fattispecie identica a quella di cui in Cass., n. 12962/2016. In Cass., n. 14878/2017, la fattispecie si distingue perché una delle due partner non aveva alcun legame biologico genetico con il figlio minore. In Cass., n. 14007/2018, la trascrizione riguardava una genitorialità adottiva piena riferita a coppia omogenitoriale femminile. L’omogenitorialità maschile è stata affrontata dalle sez. unite nella sentenza n. 12193/2019 (in Fam. e diritto, 2019, 653), che ha affermato la contrarietà al (e la conseguente operatività del) limite dell’ordine pubblico internazionale in relazione alla richiesta di trascrizione dell’atto di nascita estero. La diversa soluzione è stata fondata sul divieto della gestazione per altri, previsto dal nostro ordinamento interno, ma fondato su un sistema di valori costituzionali e convenzionali cogenti. Nella medesima pronuncia, tuttavia, si è ritenuto di salvaguardare il preminente interesse del minore a conservare il proprio nucleo genitoriale anche ex art. 8 Cedu, attraverso l’accesso all’adozione in casi particolari ex art. 44, lett. d, l. n. 184/1983.

[10] Un plastico esempio è la nostra legge n. 40 del 2004 che, oltre ai limiti denunciati dai reiterati interventi della Corte costituzionale, ha fornito una disciplina normativa insufficiente in relazione alla filiazione conseguente all’adozione di pma vietate. Opinione parzialmente divergente ha M. Gattuso inGestazione per altri: modelli teorici e protezione dei nati in forza dell’articolo 8, legge 40, in Giudicedonna, n. 1/2017, www.giudicedonna.it/2017/numero-uno/articoli/forum/maternit%C3%A0/Gestazione%20per%20altri%20-%20Gattuso.pdf, il quale ritiene che la l. n. 40/2004, come interpolata specie dalla sentenza della Corte cost. n. 162/2014, fornisce risposta anche a questa forma di genitorialità.

[11] Le sez. unite, nella citata pronuncia n. 12193/2019, hanno ribadito la dignità costituzionale delle relazioni omoaffettive, peraltro riconosciute anche nella legislazione interna dalla disciplina normativa delle unioni civili.

[12] Vds., supra, nota 10.

[13] Caso Paradiso e Campanelli sentenza della Grande Camera, 27 gennaio 2015, rinvenibile in Articolo 29, www.articolo29.it/tag/paradiso-e-campanelli-c-italia/.