Magistratura democratica

L’eco dell’insegnamento di Carlo Verardi nell’esperienza del giudice dell’asilo

di Luca Minniti
La cognizione del giudice civile nel giudizio di protezione internazionale incontra molti ostacoli sul suo percorso, in fatto e in diritto. L’articolo affronta le insidie cui va incontro il giurista dell’asilo, evidenziando come la sensibilità culturale che questo settore impone di coltivare richiami alla mente molti degli insegnamenti di Carlo Verardi: la sua idea del processo, la sua cultura dei diritti e della giurisdizione, la sua attenzione alla persona umana.

1. Il diritto di asilo ripensando a Carlo

Dedicare a Carlo Verardi una riflessione sul diritto di asilo non è una esercitazione astratta, ma si rivela un impegno suggestivo e complesso. Questo perché, da una parte, impone uno sguardo retrospettivo sulla giustizia civile, sempre necessario per comprendere il presente; dall’altra, fornisce molte sollecitazioni culturali allo studioso e all’operatore che abbiano interesse a guardare al futuro della giurisdizione civile e a migliorarne la qualità.

E ciò anche se Carlo è scomparso prima che i diritti umani degli stranieri si affacciassero in modo prorompente nelle nostre aule, materializzando nei nostri tribunali altre culture, altre storie, altri corpi, in definitiva nuovi punti di vista mai sino ad ora conosciuti nel processo civile, almeno in queste forme e dimensioni.

Eppure, a tutti coloro che hanno conosciuto Carlo nel lavoro quotidiano, nella formazione dei giuristi, nell’impegno culturale e politico in Magistratura democratica e negli Osservatori sulla giustizia civile, non può sfuggire che il terreno della protezione internazionale oggi costituisca una concretissima manifestazione delle sue principali linee di pensiero e impegno.

Uno dei tratti essenziali della cura con cui Carlo Verardi si avvicinava ai diritti e, per loro tramite, al processo è stato certamente caratterizzato dalla sua capacità di riportare l’esigenza di protezione del soggetto debole dentro i canoni del diritto positivo, con la qualità e il rigore scientifico che gli furono propri; e ciò senza che tale necessità, coessenziale alla funzione giurisdizionale riservata ai magistrati, corresse il rischio di veder sacrificata la qualità della cognizione (del fenomeno sociale nel suo complesso) e della puntuale valutazione dei fatti nella loro irriducibile singolarità. In una visione del diritto civile sia come lente d’ingrandimento dei particolari aspetti delle vicende umane portate al cospetto del giudice, sia come strumento per avvicinare il diritto obiettivo alle persone e non, viceversa, come un burocratico distanziatore del giudice dai fatti.

Perché Carlo ci ha insegnato a leggere i fascicoli con la consapevolezza e la lungimiranza di colui il quale vede nei fatti l’alimento del diritto e la norma non come la rigida forma destinata a contenerli, ma come lo strumento tecnico del loro divenire giuridico.

Di qui non solo la lettura funzionale e organizzativa delle regole processuali, ma anche l’interpretazione costituzionalmente orientata degli assetti normativi via via dettati dal legislatore e, infine, la sensibilità dimostrata nell’attribuire efficacia pervasiva dell’intero ordinamento alle innovazioni contenute in atti normativi o interpretazioni giurisprudenziali, magari circoscritte a settori peculiari, mediante la valorizzazione, tecnicamente attrezzata, dei connotati espansivi delle libertà civili, delle loro tutele e strumenti rimediali.

In altre parole, il mettere al centro la necessità di individuare nei processi reali i fattori di trasformazione progressiva della giurisdizione (e dell’ordinamento nel suo complesso) laddove vi fosse la possibilità concreta, anche nelle vicende più minute, di dare integrale attuazione al principio di solidarietà e di eguaglianza di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione.

Perciò, siamo sicuri che Carlo avrebbe subito colto l’essenza della questione giuridica posta dal diritto d’asilo non come diritto speciale, ma come ambito elettivo, in questo senso straordinario, di attuazione della tutela giurisdizionale dei diritti umani di fonte costituzionale e sovranazionale, occasione, questa, per nulla semplice di incontro e confronto tra diritto civile e diritto internazionale.

In questo modesto contributo si vuole provare a individuare, nel lavoro quotidiano del giudice della protezione internazionale, le tracce del pensiero di Carlo Verardi per contribuire ad offrire a quel pensiero e al suo impegno il futuro che ha meritato e merita ancora.

2. Lo scenario nel quale opera il giurista del diritto di asilo

La mappa dei conflitti bellici torna a presentare una intensità tale da interrogare anche i più cinici assertori dell’utilità della guerra circoscritta. Ne è conseguita, in questi ultimi decenni, una letale diffusione di epidemie, carestie, trasmigrazioni forzate, conflitti etnici e religiosi, sradicamenti di collettività, lotte di moltitudini e di singoli: tutti fenomeni connotati dalla lotta per la sopravvivenza.

Almeno con riferimento al diritto contemporaneo, non è fuori luogo affermare che, in nessun altro ambito giuridico, le vicende del mondo (le guerre, le lotte per la libertà e l’eguaglianza, le religioni, i conflitti etnici, le carestie, i colpi di Stato, il terrorismo nei Paesi di origine e di transito, la violenza di genere) abbiano prima d’ora mai pervaso con tanta immediatezza e radicalità l’ordinamento e il sistema giudiziario italiano ed europeo: le loro regole e i loro principi costitutivi.

Le ragioni della vita e l’istinto di sopravvivenza degli individui in fuga da tormentate vicende hanno sottoposto e sottopongono quotidianamente alla massima tensione la capacità degli Stati nazionali e dell’ordinamento Ue di dare una risposta commisurata agli impegni derivanti dalle rispettive carte fondamentali e, quindi, consona alla loro stessa ragion d’essere.

Per queste ragioni, nel processo di protezione internazionale c’è sempre, in primo piano, la drammaticità della posta in gioco – in ogni storia, in ogni processo, in ogni provvedimento. Una posta sempre molto elevata, individuabile nella lotta per la sopravvivenza dignitosa di un uomo o di una donna, spesso di una ragazza o di un ragazzo.

Il giudice civile, in questo ambito, affronta dunque un “mare agitato”: come il Mar Mediterraneo, teatro di tragici eventi e di eroici salvataggi, anche il mare del diritto, con le sue vecchie e nuove categorie giuridiche, è sottoposto a una sfida complessa, che interessa funditus il ruolo del giudice (del decisore amministrativo) e dell’avvocato.

Non mancano però le boe, i punti fermi, che consentono qui ed ora di tracciare le coordinate di diritto positivo, sempre necessarie al giurista di diritto comune e certamente identificabili, in primo luogo, nei principi e nelle norme di rango costituzionale, internazionale e sovranazionale.

Di qui la rilevanza della identificazione dell’estensione obiettiva e soggettiva dell’art. 10, comma 3, della Costituzione, norma che, proiettando sullo straniero l’art. 2 Cost., colloca il diritto di asilo tra i diritti fondamentali della persona.

Ciò unitamente al ruolo che il nostro diritto costituzionale d’asilo assume nel sistema di asilo europeo, attraverso anche l’impulso offerto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Cdfue), a partire dalle prescrizioni dei suoi artt. 18, 19 e 4.

3. Gli strumenti della giurisdizione nel giudizio di asilo

Come noto, la qualificazione giuridica delle fattispecie rilevanti in materia di protezione internazionale deve necessariamente prendere le mosse dalla Costituzione (art. 10, comma 3) in base alla quale «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge».

Una norma che, riconoscendo un diritto soggettivo di rango costituzionale, funge da principale bussola in quel “mare agitato” del diritto della protezione degli stranieri, anche perché volutamente collocata tra i principi fondamentali della Costituzione, concepiti come, tra loro, indivisibili. È noto che il Costituente, memore della catastrofe determinata dal nazionalismo del regime fascista, operò negli artt. 10 e 11 della Costituzione una rottura con il passato, optando in maniera netta per l’apertura all’ordinamento internazionale e alla protezione universale dei diritti umani, anche tramite l’asilo prestato alle vittime di violazioni dei diritti fondamentali commessi dagli, o non protetti negli, altri Stati sovrani.

La norma segna dunque un’apertura internazionalistica non solo verso gli altri Stati e il diritto internazionale, ma anche verso i diritti umani delle persone, quand’anche violati da altri Stati o minacciati a causa della loro inadeguata protezione statale.

Il Costituente opponeva, dunque, ai nazionalismi autoritari usciti sconfitti dalla Seconda guerra mondiale, con il nitido rigore del lessico costituzionale, l’antichissimo diritto di asilo, coniato, come espressione del ius gentium, nell’Europa devastata dalle guerre di religione all’epoca delle prime “guerre civili europee”[1].

Di lì a poco, anche la Dichiarazione universale dei diritti umani, all’art. 14, avrebbe sancito il diritto di ogni individuo di cercare protezione in altri Paesi.

Ma il diritto di asilo è rimasto, anche in Italia, a lungo sostanzialmente circoscritto in ristretti ambiti, vuoi per ragioni storiche (l’Italia è stata storicamente un Paese di emigrazione e non meta di significativi flussi migratori), vuoi per ragioni politiche (tra le quali primeggia la divisione del mondo in blocchi). La Costituzione è restata così, sotto questo profilo, a lungo inattuata, anche dopo la conclusione della Convenzione di Ginevra del 1951, ratificata dall’Italia nel 1954 con efficacia limitata, temporalmente, alle persecuzioni anteriori al 1951 (sino al Protocollo addizionale del 1967) e, sul piano geografico, a quelle avvenute nei Paesi di provenienza europea, attraverso la riserva ritirata solo con il dl n. 416/1989.

Cosicché, quando il mutato contesto europeo – con l’adozione del Trattato di Maastricht nel 1992, e la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, unitamente all’espansione del nuovo diritto internazionale dei diritti umani – ha aperto la strada alla disciplina europea e nazionale del diritto di asilo[2], il nostro ordinamento era già pronto a favorire l’affermazione, attraverso l’art. 10, comma 3, Cost., di un nuovo tassello della rivoluzione copernicana che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento: in esso sono venuti a far parte dell’ordinamento internazionale, come “ius cogens”, tre valori tra loro intimamente connessi, costituiti dalla pace, dai diritti umani e dall’autodeterminazione dei popoli[3].

Un tassello grazie al quale la tenuta effettiva del diritto di asilo è garantita dalla sua natura, costituzionalmente vincolante, di clausola aperta, irriducibile a un elenco di ipotesi di minacce ai diritti umani determinate a priori.

In tale articolato contesto, le corti superiori, in primo luogo quelle europee e la Corte di cassazione, hanno offerto una traccia importante – anche se non sempre coerente – al giudice del merito, il quale è sempre costretto a confrontarsi con conflitti, persecuzioni, minacce che si presentano nella realtà quotidiana con i volti di vittime sempre differenti e sotto la veste di minacce sempre nuove: si pensi, ad esempio, alle mille forme della violenza di genere o per orientamento sessuale, perpetrata in contesti culturali molto differenziati e in continua evoluzione o involuzione. Un tale gravoso cimento si è dovuto e, ancora, si deve dispiegare su due piani giuridici tra loro connessi, ma non sovrapponibili.

Il primo è quello legato al fatto per cui i presupposti del riconoscimento dell’asilo, previsti dalla legislazione ordinaria, in gran parte di matrice eurounitaria, appaiono inadeguati e frammentari, talvolta anche incoerenti se non collocati dentro il nitido quadro dell’art. 10 Cost. Con la conseguente necessità di individuare, prima di tutto, nella Costituzione la fonte dell’obbligo normativo di garantire la forma più appropriata di protezione, inclusa quella per motivi umanitari nella sua funzione di clausola aperta, contenitore di un catalogo non predeterminabile di gravi minacce ai diritti umani (in questa veste, di recente espunta dalla disciplina sub-costituzionale). Il secondo si rinviene nella difficoltà dell’Ue di dare piena ed effettiva attuazione ai principi sanciti nelle proprie fonti, sia primarie che derivate, con la tendenza ad affermare soluzioni di progressiva chiusura delle porte del Continente, ispirate a un approccio prevalentemente intergovernativo.

Perciò, nella disamina dei fattori di impedimento concreto all’esercizio del diritto di asilo, è quanto mai necessario, ancora una volta, ricordare che il divieto di ingresso nel territorio dello Stato e della Ue è oggi usato non solo per regolare (melius, ostacolare) i flussi migratori, ma anche per negare ab origine il diritto di asilo, ostacolando la possibilità che esso possa esser esercitato anche solo con la mera presentazione della domanda di protezione di cui agli artt. 10 Cost. e 18 Cdfue. Anche da questo punto di vista devono essere giuridicamente valutati gli accordi, con la Libia o con altri Stati terzi, rivolti a ostacolare la fuga dei richiedenti asilo verso il nostro e gli altri Paesi Ue, e a favorire il respingimento in terra o in mare, o ancor prima a creare delle barriere esterne all’Ue (alle soglie del Sahara o in Turchia) che impediscono l’esercizio del diritto di cercare protezione.

Ancora oggi, di fronte alle proposte di “esternalizzazione” della protezione dello straniero e alla effettiva creazione di strumenti di contenimento esterni all’Ue (la Libia, con i suoi campi di prigionia, o la Turchia, qualificata come «Paese sicuro» per il rimpatrio), si rende purtroppo necessario ricordare che il diritto di asilo implica il divieto di refoulement, anche a fronte di ingresso irregolare, come necessaria conseguenza del fatto che, di fatto e di diritto, solo nel Paese di destinazione si può esercitare e tutelare in giudizio il diritto che ha per presupposto la minaccia o la persecuzione nello (o per opera dello) Stato di provenienza.

Una particolare attenzione anche sul piano dell’ermeneutica va, quindi, riservata alla necessità tecnico-giuridica di separare il tema della protezione dello straniero dal tema delle politiche dell’immigrazione: il diritto costituzionale di protezione dei diritti umani dello straniero non può esser bilanciato con altre esigenze nazionali, quali quelle del contenimento dei flussi migratori. Può esserne condizionato nel contenuto della protezione offerta, ad esempio circa la durata della protezione o con riguardo allo standard dei diritti riconosciuti «secondo le condizioni stabilite dalla legge», come recita l’art. 10, comma 3, Cost., ma non nella sua sostanziale inderogabilità dei presupposti costitutivi del diritto. Certamente l’impatto delle domande di asilo sui flussi migratori può anche imporre ai Paesi europei di trovare regole comuni di gestione interna di tali flussi, ma non consente e, anzi, dovrebbe impedire la costruzione di muri od ostacoli giuridici.

In questo ambito di riflessione, la norma costituzionale in materia di asilo merita attenta considerazione anche in funzione ricognitiva di un diritto fondamentale opponibile come controlimite, eventualmente, anche al diritto internazionale o al diritto europeo che dovesse imboccare la strada dell’armonizzazione in pejus delle discipline nazionali[4].

Di qui la domanda – per nulla velleitaria – che si pone di fronte al giurista contemporaneo: in quale momento nasce il diritto di asilo e l’obbligo di protezione? Esso si esaurisce nel principio di non respingimento o presenta un contenuto minimo in termini di accoglienza e apertura dei confini alle persone gravemente minacciate nei Paesi di origine? Qual è il contenuto in termini di obbligo di accoglienza che discende dal riconoscimento del diritto di asilo nel catalogo dei diritti umani? E come si può dare attuazione al diritto di asilo prima dell’approdo nel Paese di destinazione se la richiesta di asilo non può essere presentata presso le rappresentanze diplomatiche dei Paesi europei?

Tali domande richiamano l’impegno profuso da Carlo Verardi nel distinguere interpretazioni rigorose e, dunque, corrette, da interpretazioni restrittive, del tutto inadeguate al compito costituzionale affidato al giudice. Un impegno volto anche a guardare oltre l’ostacolo frapposto dalle contingenze politiche o dai rapporti di forza, per ricostruire il sistema con gli strumenti adatti a garantire la tutela effettiva del diritto, proclamato ma negato, nel confronto con la realtà in una prospettiva di media e lunga durata, ben oltre la contingenza politica.

4. Quale cultura della giurisdizione nella protezione internazionale

4.1. Gli aspetti peculiari del giudizio sulla protezione internazionale

Per individuare il ruolo della giurisdizione nella protezione internazionale occorre sempre ripartire dalla disciplina dell’asilo come rafforzata dalla rigidità della Costituzione; disciplina che si fonda su clausole aperte, perché destinata a offrire protezione ai diritti umani nella moderna temperie dei conflitti politici, sociali, religiosi ed etnici.

Inoltre, sul piano tecnico-giuridico, è significativo tornare a ricordare che, probabilmente, nessun diritto soggettivo nel nostro ordinamento risulta essere, come quello di asilo, tanto esposto a un tasso così elevato di variabilità nei suoi presupposti materiali, nella dinamica concreta dei fatti storici, delle vicende della vita che lo giustificano giuridicamente.

Ulteriore peculiarità del giudizio di protezione internazionale è quella per cui esso presenta, fisiologicamente, la struttura logica del giudizio cautelare con un onere della prova particolarmente attenuato e una dimensione prognostica della valutazione del  pericolo di pregiudizio particolarmente sensibile alla difficoltà di riconoscere le fonti della minaccia e di prevedere l’attualità del rischio in altri contesti socio-culturali.

A ben vedere, non è solo la struttura del giudizio, ma è proprio il diritto di asilo a mostrare un contenuto strutturalmente cautelare. Perché esso ha la funzione del diritto di protezione di altri beni giuridici: l’integrità psicofisica, la dignità, la libertà politica, la libertà di orientamento sessuale, etc.

La dimensione delle peculiarità del processo di protezione e degli altri procedimenti in materia di immigrazione non può essere, però, sovrastimata e anzi è opportuno cogliere gli elementi di continuità della cultura giurisdizionale del giudice civile contemporaeo in tutte le sue dimensioni operative. Con la consapevolezza che la necessaria specializzazione del giudice della protezione, la sua nuova e diversa professionalità, se ben coltivata, può contribuire ad alimentare una diversa cultura della giurisdizione nel suo complesso.

Un approccio antiformalistico e non cartolare, un ascolto dialogico e cooperativo nel processo di costruzione della decisione[5]: tutte finalità già perseguite dalle migliori prassi della giurisdizione civile cui Carlo Verardi diede un impulso notevolissimo, ma che, da una parte, trovano sede elettiva nel processo della protezione internazionale e, dall’altra, possono e devono essere ridefinite alla luce delle peculiarità di tale sistema, contribuendo ad accrescere la salute e la qualità della giurisdizione civile nel suo complesso. Tema, quello della specializzazione (senza specialismi) al quale, con particolare riferimento alla formazione dei giuristi, si è spesso soffermato Carlo Verardi.

Il sistema corre, però, il rischio ulteriore che le enormi difficoltà organizzative, ma anchedel contesto sociale e politico, determinino la scelta di separare la protezione internazionale dal resto della giurisdizione civile – come conseguenza non della valorizzazione delle sue peculiarità di tutela cautelare dei diritti fondamentali, ma di un approccio burocratico tendente a renderla mera propaggine del procedimento svolto davanti alle commissioni territoriali.

È un rischio che porta con sé quello della risposta routinaria e stereotipata, sospinta verso la massificazione seriale delle decisioni indotta da ritmi incompatibili con la qualità dell’istruttoria e della decisione, che dovrebbe invece essere individualizzata secondo i rigorosi canoni prescritti dalla più rigorosa giurisprudenza della Corte di cassazione.

Inoltre, a distanza di oltre un anno dall’entrata in vigore del dl n. 13/2017, si cominciano a vedere gli esiti negativi dell’abolizione del giudizio di appello in materia di protezione internazionale: non solo in relazione all’incremento vertiginoso del carico gravante sulla Corte di cassazione, in relazione al quale siamo ancora solo agli inizi della propagazione dell’“onda lunga” dei ricorsi, quanto in ordine alla perdita di efficacia del controllo sull’applicazione corretta delle regole del giudizio sulla credibilità del richiedente, controllo dal quale la Corte di cassazione sembra, talvolta, volersi ritrarre con una interpretazione restrittiva dei margini di valutazione che invece potrebbero essere ancora attivati.

Un aspetto peculiare del giudizio di protezione internazionale è costituito dal fatto che, per il suo tramite, entrano nelle aule di giustizia, violentemente e spesso con scioccante intensità, storie di grande sofferenza, che attendono di essere raccontate a un giudice, ascoltate e comprese dopo esser state, ancor prima, valutate da un organo decisionale amministrativo.

Non c’è nulla di compassionevole nel ricordare questi dati obiettivi. Nessun ricatto morale.

Al contrario, è assolutamente necessario porre l’attenzione sul fatto che non sia affatto agevole, per un giudice tenuto ad ascoltare centinaia di vicende umane ogni anno, sottrarre il proprio inconscio all’attivarsi di un meccanismo psicologico di autodifesa, di evitamento.

4.2. La questione della credibilità del richiedente protezione

Le caratteristiche peculiari del giudizio sulla protezione e i profili umani e professionali ad essa sottesi determinano la necessità di considerare in modo particolarmente scrupoloso la rilevanza istruttoria dell’audizione del richiedente, della sua presenza personale in udienza, della sua difficile, ma necessaria comunicazione diretta con il giudice[6].

In questo ambito, il terreno più accidentato per il giudice, come anche per il decisore amministrativo, è quello della valutazione della prova. Anche se l’ampia trama del ragionamento probatorio tessuta dal legislatore e integrata dalle corti impone di osservare un regime di particolare favore per il richiedente in ragione della sua vulnerabilità, i criteri di verifica della credibilità sono un cimento davvero impegnativo e denso di insidie.

Com’è noto, il sistema di valutazione della prova trova nella verifica della veridicità delle circostanze dichiarate dal richiedente, secondo la regola del beneficio del dubbio, lo strumento essenziale che impone al giudice di non lasciare alcunché di intentato per agevolare la prova dei presupposti materiali del diritto.

Di particolare rilievo è il fatto che le prime dichiarazioni sulla propria vicenda (di cui il giudice avrà cognizione nella fase giurisdizionale) siano rese dal richiedente davanti alla commissione territoriale senza ausilio di un difensore e senza la mediazione culturale di una persona che lo abbia in precedenza ascoltato, compreso, in una parola: conosciuto. L’esame affronta profili differenti della sua vita. Il contesto familiare, il contesto sociale, il contesto culturale e religioso, il contesto politico: dimensioni la cui comunicazione a un terzo, estraneo al contesto di provenienza qual è il giudice, può presentare molteplici difficoltà nel compito di verifica dell’autenticità della minaccia, di apprezzamento della sua portata effettiva, di accertamento della sua permanente attualità.

Alcuni richiedenti, in particolare i minori, ma anche i giovani vissuti in comunità agropastorali, non possono che identificarsi solo in una famiglia, forse in una etnia o una micro-comunità religiosa (al cui vertice di trovano capi famiglia, capi villaggio, consigli degli anziani, capi religiosi o potentati locali fondati sulla violenza o su tradizioni radicate, quindi autorità con un ambito territoriale di influenza circoscritto). Oltre i ristretti ambiti di tali comunità tutto, ma proprio tutto, è ignoto, talvolta anche la lingua: una volta spinti al di fuori della comunità di origine, ogni incontro si dimostra effettivamente o potenzialmente ostile, perché non c’è autorità in grado di riconoscere la persona migrante, che appare straniera anche nel proprio Paese, perde identità, diventa merce, oggetto di traffico e di sfruttamento. Al di fuori della loro comunità, i richiedenti asilo raccontano di vite da profughi, anche a poche miglia da casa, dove incontrano il fiume delle migrazioni endo-africane o dell’Asia che li porta, come noto, sulle spiagge del Mediterraneo o sulle rotte balcaniche, verso l’Europa.

Altri giovani, uomini e donne, vissuti da sempre nella giungla urbana delle megalopoli africane o asiatiche, non hanno mai trovato neppure nella famiglia una forma di protezione adeguata. Hanno navigato già nel mare aperto delle periferie metropolitane, dove i poteri e le gerarchie sono provvisori, gli strumenti pubblici e privati di protezione del tutto aleatori e in permanente reciproco conflitto, spesso violento. Comunità precarie anche quando caratterizzate da risorse economiche considerevoli, ma aggregate intorno al – o comunque condizionate dal – crimine organizzato. In esse, le forme di violenza criminale si intrecciano con i conflitti politici e religiosi, con il dominio sulle risorse scarse, come la terra in Bangladesh, o preziose, come il petrolio in Nigeria. In questi contesti, i richiedenti asilo hanno spesso vissuto e, in qualche modo, anche partecipato a una realtà di violenza religiosa, politica, di strada, dove le forze di polizia sono in grande prevalenza al servizio di interessi privati. Si pensi ai gruppi criminali, prevalentemente giovanili e con struttura mafiosa, che si scontrano nei centri abitati dei Paesi dell’Africa subsahariana.

È, dunque, importante comprendere come sia del tutto naturale che il racconto reso dal richiedente davanti alla commissione territoriale appaia quasi sempre molto povero di dettagli, in particolar modo nel cosiddetto “narrato libero”, quello non orientato dalle domande dell’intervistatore. Perciò, si rivela molto fragile una valutazione che fondi il giudizio di inadeguata descrizione dei particolari della vicenda sulla povertà del racconto libero, non sollecitato dall’intervistatore nel corso dell’audizione.

La persona che racconta, ad eccezione di rari casi in cui è ospite in centri di accoglienza di qualità, che lo hanno aiutato a dare rilievo alla propria storia e a farne emergere tutti i tratti rilevanti, non ha la percezione di cosa sia importante raccontare, perché considera gran parte del retroterra di provenienza del tutto normale, quindi notorio, anche quando connesso alla incisività del pericolo.

È frequente, ad esempio, che il richiedente asilo individui una minaccia dalla quale è fuggito alla fine di un percorso e dopo tentativi di porsi diversamente in salvo, aggiungendo l’impossibilità economica di farvi fronte, perché solo con il denaro egli potrebbe ottenere protezione in numerosi contesti di provenienza. Rischia, così, di essere erroneamente etichettato come “migrante economico” anche quando l’indigenza è solo un fattore che concorre ad aggravare il rischio di trattamento inumano che il richiedente subisce a causa di minacce o violenze in grado di integrare i presupposti del diritto al rifugio, alla protezione sussidiaria o comunque tali da produrre una situazione di elevata vulnerabilità, dovuta alla privazione dei diritti fondamentali nei Paesi di eventuale rimpatrio. Quest’ultima ipotesi è quella che, frequentemente, si riscontra in presenza di fattori espulsivi che integrerebbero i presupposti delle protezioni maggiori, ma rispetto ai quali l’attualità del pericolo sia venuto meno, pur avendo essi prodotto uno sradicamento irrimediabile per la condizione dell’area di provenienza.

Nel valutare il racconto del richiedente, il giudice dell’asilo deve considerare che egli è stato ascoltato, da solo, dalla commissione territoriale, dopo un viaggio drammatico ed inconsapevole, e che chi lo ascolta proviene da un contesto culturale completamente diverso dal suo, che difficilmente comprende i contesti socio-familiari, le gerarchie etniche, le regole tradizionali e religiose. Inoltre, tale racconto è interpretato e tradotto da un interprete che lavora per la commissione territoriale che sarà chiamata a giudicarlo.

Per questo egli può, se non sollecitato a farlo, non spiegare adeguatamente quello che ritiene notorio nel suo contesto di origine. Come la violenza che si esprime con il ripudio familiare e sradica dal contesto di provenienza, come la rappresaglia per la trasgressione della decisione della comunità di appartenenza, come l’assenza assoluta di protezione statale nelle vicende quotidiane della vita (si pensi, ad esempio, al pericolo di linciaggio negli incidenti stradali).

Ne deriva che la qualità di un’intervista svolta dall’organo amministrativo (qualità dalla quale dipende anche la valutazione di credibilità, in seconda battuta, svolta dal giudice) vada perseguita con la paziente ricostruzione del contesto anche attraverso le domande che potremmo definire “di contorno”, quelle dirette a raffigurare i contesti con la descrizione dei luoghi di vita privata, dei luoghi di lavoro, delle relazioni sociali e di potere (ad esempio, per comprendere il diffuso fenomeno della minaccia religiosa/spirituale nelle comunità tradizionali africane). Tutte circostanze che raramente emergono dalle audizioni amministrative, anche se hanno spesso un rilievo molto significativo nel ricostruire aspetti essenziali, quali, ad esempio, la scoperta di un orientamento omosessuale, di una relazione proibita per motivi religiosi, di un conflitto endo-familiare o per ragioni successorie, o sorto in contesti di lavoro particolari, come quello nei campi arsi dalla siccità e soggetti a incendi disastrosi, quello dei conflitti per lo sfruttamento di piccole miniere, o connessi alla pastorizia spinta dalla siccità all’invasione dei terreni agricoli.

Perciò, sotto questo profilo, occorre porre estrema attenzione al fatto che, nei provvedimenti amministrativi o giurisdizionali, si corre talvolta il rischio di impiegare in modo maldestro il giudizio di verosimiglianza logica, troppo esposto, nella comunicazione interculturale, al vizio di mancata comprensione del contesto individuale e sociale di origine.

È così che, per smentire la credibilità di una narrazione, può capitare di leggere in talune scarne motivazioni dei provvedimenti, non solo amministrativi, che il racconto non appare veritiero perché riferisce di un fenomeno che le fonti attestano essere molto raro; mentre, in altri casi, l’argomento logico (non meno fallace del primo) diventa esattamente quello contrario: la storia non potrebbe ritenersi verosimile perché conterrebbe elementi troppo simili ad altre analoghe vicende già ascoltate, ciò inducendo i decisori a ritenere stereotipate, perché connotate da serialità, le vicende ripetutamente raccontate e tra loro somiglianti[7].

Storie ritenute dai decisori o troppo rare o troppo frequenti e perciò considerate, sol per questo, comunque non veritiere.

È pacifico che la fase amministrativa possa e debba esser migliorata, tant’è che, di recente, si è investito su una nuova composizione, più attrezzata delle commissioni territoriali, anche se gli effetti della modifica sono ancora poco apprezzabili perché le sedi giudiziarie sono ancora impegnate nei procedimenti definiti dalle commissioni nella composizione precedente.

Tuttavia, il rimedio posto in essere non è, non può esser sufficiente perché l’opera di ricostruzione delle vicende del richiedente è molto complessa e non può essere unilaterale: il dovere di cooperazione istruttorio nella fase amministrativa non può essere assolto solo da funzionari, con il richiedente privo di alcun ausilio tecnico. Non può essere il richiedente da solo, persona normalmente priva di adeguata capacità di analisi e di comunicazione, a consentire al decisore amministrativo di compiere una valutazione pienamente consapevole. Anche davanti alla commissione egli dovrebbe avere assistenza tecnica.

Ma la stessa connessione organica e funzionale delle commissioni territoriali con il Ministero dell’interno, pur prescindendo dagli eccessi dell’attuale contingenza politica, meriterebbe di essere rimeditata verso una struttura dotata di maggiore autonomia decisoria e amministrativa.

Un passo avanti – talvolta piccolo, altre volte più significativo – verso la ricostruzione della storia si può compiere davanti al giudice, con l’ausilio necessario della nuova audizione del richiedente, nel contraddittorio con il difensore.

In merito alla necessità dell’audizione del richiedente davanti al giudice si sono spesi argomenti giuridici anche raffinati sul piano processuale, ma non sempre adeguati a valutare la posta in gioco.

La stessa Cgue ha rigorosamente delimitato l’esercizio della discrezionalità del giudice nel procedere senza audizione, consapevole che il rischio di erronea valutazione della storia del richiedente, esaminata in sua assenza, è elevatissimo. Al contrario, solo l’audizione, con le domande di chiarimento formulate dal giudice e le risposte direttamente da lui raccolte, possono ridurre l’alea di tale valutazione. L’audizione non è, infatti, solo un diritto connesso all’esercizio del contraddittorio, ma è un vero e proprio strumento probatorio, una prova tipica nel processo di protezione internazionale, spesso lo strumento principale, che può essere negato solo in caso di assoluta irrilevanza ai fini del giudizio – a seguito, cioè, della prognosi circa la sua non idoneità a condizionare la decisione, che è una valutazione tradizionale del giudice civile.

Perciò, oltre che nei casi, non rari, di accoglimento de plano, in caso di prognosi di rigetto della domanda di protezione, anche solo per valutare i profili di vulnerabilità rilevanti nel giudizio di protezione umanitaria, lo strumento dell’audizione appare necessario.

Né può negarsi il diritto a chiarire tramite audizione le incongruenze del racconto rilevate dal decisore amministrativo che, come spesso avviene, non sottopone al richiedente in audizione le incoerenze o le lacune del racconto, pur utilizzandole talvolta nel motivare il diniego e, con ciò, violando regole essenziali di tutela del contraddittorio.

E non può neppure esigersi che il ricorso contenga una confutazione del tutto adeguata, considerato il brevissimo tempo e la complessità degli strumenti di cui può giovarsi il difensore nella predisposizione delle ragioni della domanda giudiziale, pur dovendosi esigere che il ricorso prenda in considerazione le ragioni del diniego e non pretermetta le contestazioni alla credibilità, come talvolta pure si riscontra.

Va considerato che, rispetto alla fase amministrativa, nel processo opera il principio per cui i fatti posti a fondamento della domanda devono essere allegati.

Si può e si deve dare una interpretazione del principio funzionale al processo di protezione dove le vicende individuali, sociali, politiche, culturali, etniche o religiose sono spesso connesse, e il pericolo intimamente collegato a plurimi e concorrenti fattori, che possono integrare fattispecie differenti di protezione.

Tuttavia, oltre certi limiti sul piano interpretativo dell’art. 112 cpc, il giudice civile non può andare: è il caso non infrequente delle donne vittime di tratta che negano l’assoggettamento sia in partenza dal Paese di origine, sia in Libia, dove invece subiscono trattamenti feroci, sia in arrivo sul territorio nazionale.

Pur a fronte di indici di tratta significativi, ad avviso di chi scrive, la protezione in astratto riconoscibile dagli organi giurisdizionali non potrà, in concreto, essere accordata con la forma dello status di rifugiato per l’appartenenza al gruppo di donna soggetta a tratta per sfruttamento sessuale, perché giustificabile solo sulla base di fatti, non solo non invocati, ma espressamente negati dalla richiedente.

Si tenga conto anche del fatto che, in questi casi, proprio perché la tratta è negata e nascosta, il diverso racconto delle ragioni di espatrio è particolarmente non credibile.

In questo particolare ambito, relativo alle donne soggette a tratta, è il giudizio di non credibilità della storia che dovrebbe indurre a ritenere integrato il presupposto del diritto, diversamente da quel che normalmente avviene.

Si può ovviare a questa incongruenza rispetto alla finalità del sistema con l’impiego non strumentale di altra forma di protezione, perché dalla quota di racconto credibile, dalla condizione psicofisica percepita in udienza o attraverso il referral, emerge comunque una condizione di vulnerabilità elevatissima che, verosimilmente, esige il riconoscimento della protezione umanitaria.

Di sicuro rilievo è, poi, la portata da conferire al requisito del ragionevole sforzo di circostanziare la domanda, considerato che tale impegno non può esser valutato sulla base solo del cd. “narrato libero”, quello che la commissione raccoglie prima di formulare le specifiche domande.

La ridotta capacità di cogliere gli elementi essenziali per il richiedente esige che lo sforzo di circostanziare debba esser preteso attraverso specifiche domande, e non meramente valutato all’esito di un’audizione senza impulsi. Solo l’interlocuzione dialettica consente di valutare se il richiedente abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, se tutti gli elementi pertinenti in suo possesso siano stati prodotti e se sia stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi.

Va considerato, infatti, che la credibilità del richiedente non è un elemento costitutivo del diritto d’asilo: quando e nella misura in cui la valutazione di credibilità è in parte negativa, ciò non comporta affatto che i presupposti del riconoscimento della protezione internazionale vengano, sol per ciò, meno. I presupposti del riconoscimento del diritto possono essere verificati sulla base di altri mezzi di prova, così da far ritenere o meno perfezionata efficacemente la fattispecie.

È quanto accade, ad esempio, per le storie di minaccia individuale ritenute non credibili, narrate da persone che, provenendo da aree geografiche pervase da violenza indiscriminata determinata da conflitto armato, hanno diritto comunque ad ottenere, per ciò solo, la protezione sussidiaria se dimostrano (con ogni mezzo, quindi, ad esempio, mediante la dimostrazione di conoscere la lingua del luogo, o per il tramite della prova dell’appartenenza etnica, o attraverso conoscenze specifiche dei luoghi di provenienza) la provenienza dall’area colpita dal conflitto armato idoneo a produrre violenza indiscriminata. Di talché, se si ritiene che le dichiarazioni del richiedente siano una delle prove tipiche del processo di protezione internazionale e che il giudizio di credibilità sia uno dei momenti del giudizio di valutazione della prova, esso solo come tale va considerato, privandolo di ogni differente profilo o funzione; perché quello di cooperazione gravante sul richiedente non è un obbligo, ma un onere: nella specie, un onere di rilevanza esclusivamente probatoria.

La Cassazione ha chiaramente affermato che non è corretto accendere i riflettori (per usare l’espressione di Cass., n. 26921/2017) «su talune imprecisioni riguardanti aspetti secondari del racconto del richiedente la protezione, senza tuttavia valutare le difficili condizioni personali in cui egli si trovava al momento della narrazione e senza escludere la sostanziale verità del fatto».

Quando in giurisprudenza e in dottrina si afferma che il giudizio di credibilità è unitario, non si vuole con ciò intendere che l’incoerenza di un profilo sia tale, di per sé, da incrinare il resto della narrazione (simul stabunt simul cadent). Si vuole, invece, intendere che la singola incongruenza può non minare l’intero racconto, tanto che la valutazione di credibilità nel suo complesso può superare anche la compresenza di circostanze non veritiere se non indispensabili, in fatto, a integrare la fattispecie costitutiva del diritto. Così come, naturalmente, la motivazione risulta meramente apparente quando «la mancanza di riscontri non equivale alla insussistenza dei fatti narrati (e solo la provata insussistenza di tali fatti potrebbe fondare una valutazione di contraddittorietà con altri fatti indicati dal narrante)» (Cass. n. 16201/2015). Occorrerà, dunque, chiarire cosa significhi che «il dovere istruttorio del giudice non sorga in presenza di dichiarazioni intrinsecamente inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva» (sez. 6-1, n. 16925/2018, Rv. 649607-01), perché questo principio può ritenersi corretto solo se la non veridicità concerne fatti la cui mancata prova ostacola il perfezionarsi della fattispecie costitutiva del diritto. Altrimenti, vi è il rischio di un uso scorretto del giudizio di credibilità, che viene trasformato da strumento di valutazione della prova in un giudizio sulla lealtà, anche solo sulla lealtà processuale, del richiedente.

Ed è proprio il rischio che si rinviene nell’orientamento della Corte di cassazione (sez. 6-1, n. 4892/2019, Rv. 652755-01), quando ritiene che la valutazione di inattendibilità delle dichiarazioni del richiedente, alla stregua degli indicatori di cui all’art. 3 d.lgs n. 251/2007, impedisca di procedere a un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, anche nel caso di cui all’art. 14, lett. c).

È, infatti, certamente vero che, come si legge nella decisione, «la valutazione di coerenza, plausibilità e generale attendibilità della narrazione riguarda tutti gli aspetti significativi della domanda (art. 3, comma 1) e si riferisce, come risulta dagli artt. 3, commi 3, lett. b), c), d), e 4 del d.lgs. cit., a tutti i profili di danno grave considerati dalla legge come condizionanti il riconoscimento della protezione sussidiaria».

Ma, come negli altri casi, anche nella verifica dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. c, d.lgs n. 251/2007, l’ambito dell’accertamento della credibilità è circoscritto ai presupposti della fattispecie e, dunque, nel caso di conflitto armato con violenza indiscriminata desumibile dalle «Country of Origin Information» (COI), la prova del richiedente si esaurisce nella dimostrazione del Paese o dell’area di provenienza. Cosicché anche la valorizzazione della portata dell’art. 18 d.lgs n. 251 del 2007, che prevede la revoca dello status di protezione sussidiaria come conseguenza automatica del successivo accertamento che il riconoscimento della stessa protezione era stato determinato «da fatti presentati in modo erroneo o dalla loro omissione, o dal ricorso ad una falsa documentazione dei medesimi fatti», deve essere limitata ai presupposti di fatto della fattispecie di protezione ritenuta integrata. E solo a questi.

Nella recente ordinanza 24 maggio 2019, n. 14283, la prima sezione della Corte di cassazione si è espressa in questo senso.

Le norme e i principi del sistema giuridico della protezione internazionale non consentono di attribuire alla credibilità un connotato differente. Correttamente, perciò (secondo sez. 1, n. 10922/2019), il giudizio di parziale non credibilità del ricorrente, in relazione alla specifica situazione dedotta a sostegno della domanda di protezione internazionale, non può precludere la valutazione da parte del giudice, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, delle diverse circostanze che concretizzino una situazione di “vulnerabilità”, da effettuarsi su base oggettiva e, se necessario, previa integrazione anche officiosa delle allegazioni del ricorrente, in applicazione del principio di cooperazione istruttoria. Ciò in quanto il riconoscimento del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie deve essere frutto di valutazione autonoma, non potendo conseguire automaticamente al rigetto delle altre domande di protezione internazionale, attesa la strutturale diversità dei relativi presupposti.

Pertanto, se si colloca il giudizio di credibilità sul circoscritto piano della valutazione delle fonti di prova, l’accertamento della credibilità soggettiva del richiedente asilo – come tutte le altre prove tipiche –, nel processo di protezione internazionale non può che giovarsi del dovere di cooperazione istruttoria, perché la coerenza interna del racconto non può esser valutata senza uno studio approfondito della coerenza esterna supportato dallo studio delle COI.

In altre parole, l’approfondimento istruttorio officioso è il principale strumento di verifica della genuinità della dichiarazione del richiedente.

Si può, infine, rappresentare il tema dell’onere e della valutazione della prova nel giudizio di protezione internazionale come una manifestazione significativa del principio di vicinanza della prova che, negli ultimi decenni, ha orientato la giurisprudenza anche in altri ambiti della giustizia civile, nella distribuzione degli oneri processuali tra le parti.

5. Conclusioni

È questa la complessità che la giustizia civile è oggi chiamata ad affrontare, in primo luogo sul piano scientifico, culturale e formativo, piani a cui Carlo Verardi ha dato un ampio contributo.

Torna in rilievo la funzione generale che l’impianto del processo di protezione internazionale può svolgere nell’ambito della diffusione di una migliore cultura del processo e del diritto civile. Ad esempio, nella diffusione della cultura dell’ascolto della persona, un seme del dialogo processuale già coltivato dagli osservatori sulla giustizia civile, che in Carlo Verardi trovarono uno dei principali ispiratori.

L’analisi dei dati delle decisioni dimostra che la maggioranza delle domande trova accoglimento all’esito delle diverse fasi del processo decisorio (sommando gli accoglimenti amministrativi e quelli giudiziari)[8]. Inoltre, il numero di provvedimenti di protezione umanitaria, assai meno elevato di quanto normalmente si ritiene, rappresenta il divario attualmente esistente tra il diritto di asilo costituzionale e l’asilo di fonte internazionale o europea.

Non è, dunque, corretto porsi la domanda se questo divario possa esser colmato elevando lo standard della protezione in Europa verso il livello più elevato[9]?

E non è corretto chiedersi, perciò, se l’Italia possa impegnarsi nel chiedere all’Europa di dare attuazione alla sua Carta dei diritti fondamentali portando la soglia di protezione a un livello analogo a quello della nostra Costituzione?

Non è forse questo un obbligo, discendente dalla norma contenuta nell’intero art. 10 Cost., che vede l’Italia contribuire alla produzione del diritto sovranazionale, anche europeo, secondo il proprio progetto costituzionale, il quale fonda, unitamente agli ordinamenti degli altri Stati membri, le tradizioni costituzionali comuni in forza dell’art. 6, par. 3, Tue[10]?

Può sembrare una considerazione irrealistica se si pensa al tempo attuale e al conflitto politico che attraversa, anche al loro interno, i diversi Paesi europei, con i noti rischi di arretramento e chiusura.

Così come può sembrare irrealistico porsi il problema, sopra accennato, della estensione del diritto di asilo al di fuori dei confini nazionali, nella prospettiva di consentire la formalizzazione di domande di protezione anche ma non solo dall’estero, a partire dai Paesi di transito, in modo da avvicinare ai luoghi della minaccia gli strumenti della protezione internazionale, riducendo i pericoli che i perseguitati corrono per raggiungere Paesi nei quali chiedere tale protezione.

Ma le soluzioni pratiche ai problemi dell’oggi si rinvengono solo all’interno di questo apparentemente irrealistico scenario, che dunque è destinato a divenire un contesto necessario.

Perché solo con l’elevare in Europa gli standard di protezione internazionale secondo i nostri canoni costituzionali si consentirebbe di rendere più omogeneo il sistema di asilo europeo e di facilitare la circolazione dei titolari della protezione nello spazio Ue.

Perché solo consentire la tutela amministrativa e quella giurisdizionale del diritto di asilo, proposte anche oltre il Mediterraneo, potrebbe evitare viaggi letali per molti.

Non è, perciò, un’illusione pensare che la nostra riflessione e azione giuridica, con lo sguardo ampio che ha orientato Carlo Verardi, possa contrastare una visione di corto raggio, spingendo chi ha la responsabilità politica a interrogarsi sulla erronea tendenza a rendere la giurisdizione, in particolare in materia di principi fondamentali, dipendente dalle intermittenti contingenze politiche.

Anche in questo ambito, come in altri settori della tutela di beni fondamentali, il ridurre la discrezionalità politica del legislatore ordinario all’interno dei canoni – peraltro vincolanti – costituzionali, non mina l’autonomia della politica, ma ne esalta il ruolo di progetto, la dimensione strategica, la stabilità.

Con il pensiero all’impegno di Carlo, possiamo quindi augurarci che tutti i giudici civili non perdano, nei prossimi anni, l’occasione di migliorare la cultura della giurisdizione civile affrontando, anche solo per un tempo limitato della loro vita professionale, la materia del diritto di asilo.

[1] Vds. Ugo Grozio, De Iure Belli ac pacis, 1625.

[2] V. Onida, Lo statuto costituzionale del non cittadino, in Aa. Vv., Lo statuto costituzionale del non cittadino. Atti del XXIV Convegno annuale 2009 – Associazione italiana dei Costituzionalisti, Jovene, Napoli , 2010, p. 11.

[3] S. Senese, Corte costituzionale e sovranità, in questa Rivista trimestrale, n. 1/2015, www.questionegiustizia.it/rivista/2015/1/corte-costituzionale-e-sovranita_206.

[4] Sui controlimiti al diritto internazionale, anche di matrice consuetudinaria, si veda Corte cost., n. 238/2014.

[5] L. Breggia, L’audizione del richiedente asilo dinanzi al giudice: la lingua del diritto oltre i criteri di sintesi e chiarezza, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2018, www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2018-2_18.pdf.

[6] L. Breggia, ibid., par. 4.

[7] In questo errore sembra cadere anche la Corte di cassazione nella sentenza Cass., sez. I civile, 7 agosto 2019, n. 21142, laddove elenca una serie di vicende umane (banalizzate in poche righe) ritenute immotivatamente non plausibili oltre che stereotipate solo perché frequentemente allegate dai richiedenti asilo.

[8] Vds. M. Giovannetti, Riconosciuti e “diniegati”: dietro i numeri le persone, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2018, www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2018-2_05.pdf, in particolare la figura 9, relativa agli esiti delle decisioni delle commissioni, e la tabella 6, che elenca gli esiti delle decisioni dei tribunali nel 2017.

[9] Sul tema, vds. C. Favilli, L’Unione che protegge e l’Unione che respinge. Progressi, contraddizioni e paradossi del sistema europeo di asilo, ivi, www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2018-2_04.pdf.  

[10] Art. 6, par. 3, Tue, secondo il quale «I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali».