Magistratura democratica

L’età dei diritti e la tutela giurisdizionale effettiva nel dialogo tra le corti

di Pasquale D’Ascola
Lo scritto dà conto del potenziale conflitto tra le corti che si è profilato, a partire dalla sentenza della Corte costituzionale n. 269/2017, in ordine alla configurabilità di un accentramento necessario e ineludibile presso di essa del controllo di legittimità di una disposizione di diritto interno che diverga da norme dell’Ue prive di effetti diretti e involga tanto il riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue in ambito di rilevanza comunitaria.

1. Premessa

Due o tre lustri fa, allorquando si discuteva intorno al consolidarsi della teorica delle questioni doppiamente pregiudiziali, per le quali cioè la questione pendente davanti al giudice richiede l’intervento sia della Corte di giustizia sia della Corte costituzionale, la dottrina osservava come la Corte costituzionale (ordinanza n. 249/2001) avesse cercato di riservarsi un diritto all’ultima parola che rischiava, arrivando ella a cose fatte, di farla rimanere muta per sempre[1].

A quel tempo c’era chi[2] era facile profeta nel prevedere che la Carta dei diritti fondamentali europei, varata a Nizza nel 2000, avrebbe costretto presto la Corte costituzionale a rifare i conti, perché due testi normativi concorrenti, contemporaneamente in vigore, avrebbero costretto a ripensare quello che veniva definito il rapporto tra ordinamenti.

In quegli stessi anni 2006-2007 la dottrina[3], anche solo pensando al caso delle cosce di pollo (il trattamento fiscale delle cosce di pollo più favorevole rispetto a quello dei pezzi di pollo, negato alle “cosce con pezzi” della ditta Heitz e riconosciutole con una sentenza destinata a intervenire sul giudicato già formatosi), era già consapevole dei tormenti che la particolarità del sistema giurisdizionale comunitario avrebbe indotto sui giudici degli Stati membri, soprattutto su quelli di ultima istanza.

Ed era consapevole, in quanto immaginava una rilevanza non solo verticale, ma anche orizzontale (cioè nei rapporti intersoggettivi tra i privati e non solo in quelli verticali tra cittadini e Stati) delle possibili situazioni di conflitto o concorrenza tra diritti fondamentali. Qualcuno[4] aveva intuito che molte situazioni di tutela dei diritti fondamentali avrebbero potuto atteggiarsi in posizione non di concorrenza della tutela, ma di contrasto; avrebbero quindi richiesto un bilanciamento, che significa – se si evitano ipocrisie – un potere di stabilire quale fosse la tutela prevalente, cosicché la domanda cruciale sarebbe stata portata sull’allocazione di questo potere; stabilire chi sceglie tra diritti fondamentali contrastanti.

2. La sentenza n. 269/2017 della Corte costituzionale

Da allora, molte vicende sono fluite e neanche un intero corso di formazione ben fatto potrebbe farsi carico di ciò che è già patrimonio dei nuovi studenti universitari, nonchè di giudici e avvocati aggiornati.

Si può, però, dare conto delle ricadute più recenti, cercando di fornire tutti gli strumenti di accrescimento del sapere e, ancor più, del saper fare. Si tratta di inverare, se ci poniamo in un’ottica di formazione permanente del giudice, gli insegnamenti di Carlo Verardi, uno dei fondatori della formazione, oggi affidata alla Scuola della magistratura e alle sue articolazioni territoriali decentrate.

L’attenzione è catturata dalla sentenza n. 269/2017 della Corte costituzionale, che, forse al di là delle proprie intenzioni, ha stimolato un dibattito i cui passaggi vanno comunque richiamati per capire quale sia il ruolo del giudice comune di merito o di legittimità.

La questione risolta da questa sentenza era sorta dal ricorso tributario di un contribuente assoggettato al contributo per il funzionamento dell’Agcm, imposto agli imprenditori aventi fatturato superiore ai 50 milioni di euro.

Al paragrafo 5.1, la Corte costituzionale ha così argomentato: «5.1.- In primo luogo va osservato che il contrasto con il diritto dell’Unione europea condiziona l’applicabilità della norma censurata nel giudizio a quo e di conseguenza la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale che si intendano sollevare sulla medesima (da ultimo, ordinanza n. 2 del 2017) soltanto quando la norma europea è dotata di effetto diretto. Al riguardo deve richiamarsi l’insegnamento di questa Corte, in base al quale “conformemente ai principi affermati dalla sentenza della Corte di giustizia 9 marzo 1978, in causa C-106/77 (Simmenthal), e dalla successiva giurisprudenza di questa Corte, segnatamente con la sentenza n. 170 del 1984 (Granital), qualora si tratti di disposizione del diritto dell’Unione europea direttamente efficace, spetta al giudice nazionale comune valutare la compatibilità comunitaria della normativa interna censurata, utilizzando se del caso il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, e nell’ipotesi di contrasto provvedere egli stesso all’applicazione della norma comunitaria in luogo della norma nazionale; mentre, in caso di contrasto con una norma comunitaria priva di efficacia diretta contrasto accertato eventualmente mediante ricorso alla Corte di giustizia e nell’impossibilità di risolvere il contrasto in via interpretativa, il giudice comune deve sollevare la questione di legittimità costituzionale, spettando poi a questa Corte valutare l’esistenza di un contrasto insanabile in via interpretativa e, eventualmente, annullare la legge incompatibile con il diritto comunitario (nello stesso senso sentenze n. 284 del 2007, n. 28 e n. 227 del 2010 e n. 75 del 2012)” (ordinanza n. 207 del 2013).

Pertanto, ove la legge interna collida con una norma dell’Unione europea, il giudice fallita qualsiasi ricomposizione del contrasto su base interpretativa, o, se del caso, attraverso rinvio pregiudiziale applica direttamente la disposizione dell’Unione europea dotata di effetti diretti, soddisfacendo, ad un tempo, il primato del diritto dell’Unione e lo stesso principio di soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.), dovendosi per tale intendere la disciplina del diritto che lo stesso sistema costituzionale gli impone di osservare ed applicare.

Viceversa, quando una disposizione di diritto interno diverge da norme dell’Unione europea prive di effetti diretti, occorre sollevare una questione di legittimità costituzionale, riservata alla esclusiva competenza di questa Corte, senza delibare preventivamente i profili di incompatibilità con il diritto europeo. In tali ipotesi spetta a questa Corte giudicare la legge, sia in riferimento ai parametri europei (con riguardo alle priorità, nei giudizi in via di azione, si veda ad esempio la sentenza n. 197 del 2014, ove si afferma che «la verifica della conformità della norma impugnata alle regole di competenza interna è preliminare al controllo del rispetto dei princìpi comunitari (sentenze n. 245 del 2013, n. 127 e n. 120 del 2010)».

Con lo sguardo rivolto alle modifiche indotte nel sistema dal Trattato di Lisbona, che ha attribuito effetti giuridici vincolanti alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (da ora: Cdfue), equiparandola ai trattati (art. 6, paragrafo 1, del Trattato sull’Ue), la Corte costituzionale ha precisato che:

«Fermi restando i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione europea come sin qui consolidatisi nella giurisprudenza europea e costituzionale, occorre prendere atto che la citata Carta dei diritti costituisce parte del diritto dell’Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale. I principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri). Sicché può darsi il caso che la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione, come è accaduto da ultimo in riferimento al principio di legalità dei reati e delle pene (Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, sentenza 5 dicembre 2017, nella causa C-42/17, M.A.S, M.B.).

Pertanto, le violazioni dei diritti della persona postulano la necessità di un intervento erga omnes di questa Corte, anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.). La Corte giudicherà alla luce dei parametri interni ed eventualmente di quelli europei (ex artt. 11 e 117 Cost.), secondo l’ordine di volta in volta appropriato, anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali, pure richiamate dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea e dall’art. 52, comma 4, della CDFUE come fonti rilevanti in tale ambito. In senso analogo, del resto, si sono orientate altre Corti costituzionali nazionali di antica tradizione (si veda ad esempio Corte costituzionale austriaca, sentenza 14 marzo 2012, U 466/11-18; U 1836/11-13).

Il tutto, peraltro, in un quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia (da ultimo, ordinanza n. 24 del 2017), affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico (art. 53 della CDFUE).

D’altra parte, la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE a quelle previste dalla Costituzione italiana può generare un concorso di rimedi giurisdizionali. A tale proposito, di fronte a casi di "doppia pregiudizialità" vale a dire di controversie che possono dare luogo a questioni di illegittimità costituzionale e, simultaneamente, a questioni di compatibilità con il diritto dell’Unione , la stessa Corte di giustizia ha a sua volta affermato che il diritto dell’Unione “non osta” al carattere prioritario del giudizio di costituzionalità di competenza delle Corti costituzionali nazionali, purché i giudici ordinari restino liberi di sottoporre alla Corte di giustizia» – qui si  coglie il mutamento sopraggiunto, nel corso del tempo, rispetto al 2001 – «“in qualunque fase del procedimento ritengano appropriata e finanche al termine del procedimento incidentale di controllo generale delle leggi, qualsiasi questione pregiudiziale a loro giudizio necessaria”; di “adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione”; di disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione (tra le altre, Corte di giustizia dell’Unione europea, quinta sezione, sentenza 11 settembre 2014, nella causa C-112/13 A contro B e altri; Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, sentenza 22 giugno 2010, nelle cause C-188/10, Melki e C-189/10, Abdeli).

In linea con questi orientamenti, questa Corte ritiene che, laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudizialeper le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE».

2.1. La sentenza n. 20/2019 della Corte costituzionale

Come in sede di formazione si è subito osservato (ricordo, tra gli altri, il corso P18090 sulla Carta dei diritti fondamentali, Scandicci, novembre 2018), la sentenza n. 269 ha contrapposto: «i sostenitori della soluzione proposta dalla Corte costituzionale che hanno salutato con favore l’introduzione di un meccanismo che consenta di pervenire alla rimozione con efficacia erga omnes delle norme interne contrastanti con diritti garantiti (oltre che dalla CDFUE anche) dalla Costituzione italiana agli avversari della suddetta soluzione, che hanno evidenziato come l’introduzione dell’obbligo di sollevare l’incidente di costituzionalità in relazione a norme interne delle quali si sospetti il contrasto tanto con la CDFUE quanto con la Costituzione italiana vulneri il cuore del primato del diritto dell’Unione europea (e, come sopra si è cercato di evidenziare, la ragione del suo “successo”), ossia la diretta applicabilità di tale diritto da parte del giudice comune nazionale, pur quando esso risulti incompatibile con una norma interna (che tale giudice, conseguentemente, dovrebbe disapplicare, senza essere tenuto ad attenderne la caducazione ad opera della Corte costituzionale). Non è peraltro mancato, anche tra quanti si sono espressi criticamente nei confronti di detta sentenza, chi» (vds.A. Ruggeri, Svolta della Consulta sulle questioni di diritto eurounitario assiologicamente pregnanti, in Rivista di diritti comparati, 18 dicembre 2017)«ha apprezzato che la Corte costituzionale, ai fini del riconoscimento della efficacia diretta delle norme euro unitarie nell’ordinamento interno, abbia sostituito il criterio strutturale vale a dire, l’autoapplicatività o la non autoapplicatività delle norme, che dipende dal modo di essere dei relativi enunciati e dal loro vario prestarsi per le esigenze della pratica giuridica con “il criterio  assiologico-sostanziale, che attiene alla capacità delle norme d’incarnare i valori fondamentali dell’ordinamento, di darvi voce ed assicurarne l’inveramento – il massimo possibile alle condizioni oggettive di contesto – nell’esperienza”; detto altrimenti, il criterio del carattere “materialmente costituzionale” di una norma»[5].

Enrico Scoditti, nel suo commento[6], ha peraltro avvertito che il giudizio di legittimità muta a seconda che il parametro interposto nella denuncia di violazione dell’art. 117, comma 1, sia rappresentato da una norma della Cdfue o da altra norma dell’ordinamento unionale.

Nel primo caso, può porsi problema di bilanciamento «cui provvede il giudice costituzionale»; nel secondo, va apprezzata l’esistenza di un contrasto tra norma interna e norma dell’Unione e verificata la possibilità di diretta applicazione da parte del giudice comune ovvero il suo interpello interpretativo alla Corte di giustizia, previo se del caso esito negativo del controllo di costituzionalità interno.

Lo spazio non consente di dire oltre sulla n. 269, perché occorre prima dar conto del suo superamento, o meglio dell’evaporazione di alcune (forse eccessive, forse no) preoccupazioni dovuta ai successivi pronunciamenti, ma soprattutto delle ricadute sul ruolo del giudice nazionale e, quindi, dell’atteggiamento assunto dalla Corte di cassazione e di come esso possa fungere da orientamento coerenziatore per i giudici di merito.

Con la sentenza n. 20/2019, resa in tema di contrasto tra diritto di accesso ai dati patrimoniali dei dirigenti della pubblica amministrazione e diritto di questi ultimi alla riservatezza, la Corte costituzionale ha chiarito che il giudice comune può sollevare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia anche per gli stessi profili su cui si sia già pronunciata la Corte costituzionale e non solo su altri profili, come sembrava proporre la n. 269. Questo chiarimento non ha pacato il dibattito, che è rimasto vivace tra chi vede con disfavore la riaffermazione da parte della Corte costituzionale di una propria valutazione, alla luce soprattutto dei parametri costituzionali interni, su disposizioni pur soggette a disciplina europea che incidano sui principi e sui diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione.

Anche se l’intento è quello di concorrere all’effettività dei diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo, da interpretare in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri richiamate dall’art. 52, par. 4, della stessa Cdfue, ciò continua a dispiacere agli europeisti più puri (G. Bronzini, P. Mori), che riconoscono solo alla Corte di giustizia il compito di enucleare la “definizione condivisa” dei diritti fondamentali.

Non dispiace a chi (Scoditti), nel commentare la n. 269, ha osservato che sindacato di costituzionalità del giudice costituzionale e controllo, da parte del giudice comune, di conformità alla norma dell’Unione esprimono il concorso di ordinamenti distinti rispetto al medesimo oggetto, cioè al diritto fondamentale, e assolvono una funzione diversa: da un lato, il controllo di costituzionalità efficace erga omnes con la salvaguardia, però, delle «prerogative del giudice comune in funzione di garanzia del diritto dell’Unione»; dall’altro, la fissazione della regola della fattispecie controversa.

Restava peraltro, dopo la sentenza n. 20, una seria perplessità su cosa possa succedere  dopo il rinvio pregiudiziale e l’eventuale dichiarazione di collisione tra norma nazionale e parametro della Carta Ue: ci si è chiesti se ciò sia sufficiente per disapplicare la norma interna o imponga di rivolgersi comunque alla Corte costituzionale, così vulnerando il ruolo della Corte di giustizia.

Restava, inoltre, il sospetto[7] che fosse stato in ogni caso riaffermato il riaccentramento del sindacato di costituzionalità, perché la Corte costituzionale si era comunque pronunciata nel merito, pur in presenza di violazione di norme eurounitarie di carattere autoapplicativo, già riconosciuto nel 2003 dalla Cgue.

2.2. Ulteriori sviluppi

La sentenza n. 63 del 21 marzo 2019 si è mossa nel senso di una revisione-integrazione della problematica dei rapporti.

Il caso riguardava la sanzione amministrativa pecuniaria addebitata da Consob per abuso di informazioni privilegiate e l’esclusione di un trattamento più mite previsto dal d.lgs 2015 rispetto all’art. 187 Tuf: di qui il sospetto di incostituzionalità per mancata previsione della retroattività delle nuove disposizioni sanzionatorie.

La Corte costituzionale, che ha ritenuto irragionevole sul punto la norma sospettata, perché ha riconosciuto i caratteri di punitività della sanzione amministrativa secondo i criteri Engel, ha con l’occasione affermato che «a questa Corte non può ritenersi precluso l’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti; e ciò fermo restando il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e - ricorrendone i presupposti - di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta».

In questo modo – come ha osservato Vincenzo Sciarabba[8] – la Corte costituzionale ha in parte disinnescato la portata più temuta della sentenza n. 269.

Lo stesso Autore, prima diffidente verso la sentenza n. 20, ha osservato che la facoltà di rivolgersi direttamente alla Corte di giustizia potrebbe portare, in caso di risposta volta alla disapplicazione della norma interna, a escludere un ruolo del giudice costituzionale, salvo che si prospetti una lesione dei cd. “controlimiti”.

Ancora, A. Ruggeri si fa carico della possibilità che il giudice comune potrebbe, nondimeno, pavidamente rivolgersi comunque alla Corte costituzionale, entrando in un cortocircuito che lo porta a dover applicare la norma eurounitaria e, contemporaneamente, a sollevare la questione di costituzionalità. Egli confida, tuttavia, nella saggezza del giudice costituzionale che, in un caso del genere, dovrebbe considerare doverosa la applicazione della pronuncia della Cgue che abbia come fondamento una violazione della Cdfue che esprime medesimi valori[9].

2.3. L’ordinanza n. 117/2019 della Corte costituzionale

Prima di esaminare le ricadute sul comportamento del giudice comune, occorre dar conto di una più recente puntata della parabola partita con la n. 269/2017, costituita dall’ordinanza n. 117/2019, resa dalla Corte costituzionale perché investita, in modo diretto, dalla Cassazione con l’ordinanza n. 3831/2018, su cui tra poco tornerò.

La Consulta era chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di una norma che sanziona, per opera di Consob, il soggetto che non cooperi nel corso di un’indagine per abuso di informazioni privilegiate relativa alla società quotata di cui era amministratore. Il confronto tra diritto al silenzio (nemo tenetur se detegere) e obblighi funzionali ai procedimenti amministrativi volti a irrogare sanzioni punitive è stato inquadrato dalla Corte costituzionale nell’ambito della normativa unionale, che sembra prevedere il dovere degli Stati membri di sanzionare il silenzio serbato in sede di audizione dall’autore delle operazioni sospette. La Corte costituzionale ha fatto una scelta apparentemente in senso del tutto opposto alla opzione del riaccentramento, della quale era stata accusata in relazione alla n. 269: ha, cioè, scelto di rivolgersi prioritariamente alla Cgue per chiederle un chiarimento sull’esatta interpretazione della norma e sulla sua validità alla luce degli artt. 47 e 48 Cdfue, nonché dell’art. 30 del regolamento (UE) n. 596/14. E lo ha chiesto anche in relazione ai richiami agli ordinamenti nazionali contenuti nella direttiva in materia. La Corte si è chiesta, in caso di soluzione nel senso che lo Stato può non sanzionare chi si rifiuti di rispondere, se una eventuale propria declaratoria di incostituzionalità non sarebbe stata in contrasto con il diritto dell’Unione; nel caso contrario – di risposta favorevole al mantenimento della sanzione – di dire se la sanzionabilità del diritto di rispondere sia compatibile con gli artt. 47 e 48 Cdfue, alla luce della giurisprudenza Cedu e delle tradizioni costituzionali degli Stati comuni.

Sembrerebbe così raggiunta una soluzione di segno opposto alla sentenza n. 269/2017, che lascia, cioè, al giudice europeo l’ultima parola e risolve il quesito formativo che è stato posto sulla Carta di Nizza: a chi spetti la prima parola e l’ultima (corso SSM 18090).

Non è così. È solo una puntata di un percorso che è oggettivamente complesso, di cui, come dicevo, ci interessa soprattutto il ruolo del giudice comune di merito o di ultima istanza.

3. L’atteggiamento della Corte di cassazione

È utile rivolgere l’attenzione proprio all’ordinanza interlocutoria della Corte di cassazione n. 3831/2018.

In essa, la Corte ha dato pienamente seguito alle indicazioni fornite nella sentenza n. 269/2017. Come ha spiegato il suo estensore[10], «con l’ordinanza della Seconda Sezione n.  3831 del 16.2.2018 la Corte di cassazione di fronte un duplice caso di doppia pregiudizialità, concernente due distinte ed autonome disposizioni del decreto legislativo n. 58/1998 (T.U.F.), entrambe sospettate di ledere diverse disposizioni della CDFUE e della Costituzione italiana ha sollevato la questione di legittimità costituzionale.

In tale ordinanza la Cassazione dopo aver evidenziato come, alla stregua della giurisprudenza costituzionale anteriore alla sentenza n. 269/2017, nelle cause rientranti nell’ambito applicativo del diritto dell’Unione europea, la disposizione interna della quale si accertasse (eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia) il contrasto con una norma auto applicativa di diritto UE, anche di contenuto materialmente costituzionale, dovesse essere disapplicata (con conseguente irrilevanza della questione di legittimità costituzionale di tale norma con riferimento a parametri interni) ha ritenuto che, alla luce della sentenza n. 269 del 2017, la segnalata doppia pregiudizialità andasse risolta privilegiando, in prima battuta, l’incidente di costituzionalità.

Nel sollevare la questione di costituzionalità, peraltro, la Cassazione prospetta, per il caso che le disposizioni sospettate di illegittimità costituzionale superino il vaglio della Corte costituzionale, l’eventualità di attivare essa il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE (ove già non attivato dalla Corte costituzionale nel giudizio incidentale), sottolineando il proprio dovere “dare al diritto dell’UE un’applicazione conforme alla decisione conseguentemente adottata dalla Corte di Giustizia”. In vista di tale evenienza, la Cassazione – con un quesito la cui portata va evidentemente ben oltre la questione specifica – chiede alla Corte costituzionale di precisare se il potere del giudice comune di disapplicare una norma interna che abbia superato il vaglio di legittimità costituzionale (anche sotto il profilo della conformità alla CDFUE) sia limitato a profili diversi da quelli esaminati dalla Corte costituzionale o, al contrario, si estenda anche al caso in cui (secondo il giudice comune o la Corte di Giustizia UE, dal medesimo adita) la norma interna contrasti con la CDFUE in relazione ai medesimi profili che la Corte costituzionale abbia già esaminato (senza attivare essa stessa il rinvio pregiudiziale).

La Cassazione, con l’ ordinanza 3831/18 (definita “atto di sfida, mascherato da atto di obbedienza” da Lucia Serena Rossi, Il “triangolo giurisdizionale” e la difficile applicazione della sentenza 269/17 della Corte costituzionale italiana, in federalismi.it, on line), ha in sostanza aperto un tavolo di discussione con la Corte costituzionale, segnalandole le criticità che essa ravvisa nel percorso argomentativo della sentenza n. 269/17».

Secondo Cosentino:

«La via del dialogo diretto tra Corte di cassazione e Corte costituzionale non è stata, invece, scelta dalla Sezione Lavoro della stessa Cassazione, che, con due pronunce pubblicate a pochi giorni di distanza l’una dall’altra (sentenza n. 12108 del 17.5.2018 e ordinanza n. 13678 del 30.5.2018), ha tracciato una strada alternativa a quella percorsa dalla Seconda Sezione della Suprema Corte», perché«con la sentenza n. 12108/18 la Cassazione ha ritenuto immediatamente disapplicabile, senza necessità di sollevare l’incidente di costituzionalità, una normativa interna contrastante con il divieto di discriminazione tra uomo e donna».

In tal modo, la Cassazioneavrebbe «in effetti, eluso il tema posto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 269/17, sostanzialmente affermando che  la relativa pronuncia - oltre che di per se stessa non vincolante, in quanto espressa in un obiter - non era comunque rilevante nella fattispecie sottoposta al suo esame».Inoltre, sempre secondo l’estensore dell’ordinanza n. 3831/2018:

«Se con la sentenza n. 12108/18 la Cassazione ha sviluppato il proprio ragionamento su un piano che le consentiva di evitare il confronto diretto con la sentenza n. 269/17, con la successiva ordinanza n. 13678/18 quel confronto si è invece aperto in maniera chiara. Il giudice di legittimità, infatti, dubitando della compatibilità di una norma interna con il divieto di discriminazione per età contenuto nella direttiva 2000/78 e nell’articolo 21 CDFUE, ha proposto il rinvio pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia dell’ Unione europea evocando non soltanto la direttiva 2000/78 ma anche l’articolo 21 CDFUE e dando espressamente atto di non ritenere necessario seguire le indicazioni rivolte dalla Corte costituzionale al giudice ordinario nella sentenza n. 269/2017».

Nel gennaio 2019, la sezione lavoro (ord. n. 451, Bronzini presidente) ha parimenti ritenuto di rivolgersi direttamente alla Corte di giustizia in tema di diritto alle ferie, per chiedere se l’art. 7, par. 2, della direttiva 2003/88/CE e l’art. 31 della Cdfue debbano essere interpretati nel senso che ostino a disposizioni o prassi nazionali, in base alle quali vada perso il diritto al pagamento di indennità pecuniaria compensativa delle ferie non godute a causa della cessazione del rapporto di lavoro e dell’impossibilità del lavoratore di goderne prima, determinata da licenziamento illegittimo del datore di lavoro.

Anche in questo caso, la Corte si è riferita alla natura di obiter del contenuto critico della n. 269 e ha proclamato il proprio dovere di rivolgersi alla Corte europea, qualora si sia in tema di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione.

4. I dubbi del giudice

Il giudice comune, immerso in questa varietà di accenti, ha il dovere di ispirare le sue scelte a criteri di prudente individuazione della soluzione più coerente con la situazione data.

Può investire la Corte costituzionale; può rivolgersi alla Corte di giustizia per far interpretare prioritariamente il diritto dell’Unione; può – ed era questa l’incertezza maggiore all’indomani della sentenza n. 269 – affidarsi al potere di disapplicazione immediata (previo eventuale rinvio pregiudiziale).

La Corte costituzionale non ha ancora dato le istruzioni per l’uso che la dottrina chiede.

Roberto Mastroianni[11] si domanda quali siano i principi di fondo ai quali ispirare le scelte e suggerisce, condivisibilmente, al giudice comune di ispirarsi al principio di prossimità, cioè di valutare – in presenza di fattispecie che possano in ipotesi essere sottoposte a entrambi i sistemi di tutela dei diritti fondamentali e, quindi, a entrambe le Corti – di rivolgersi all’ordinamento più vicino.

Nel caso di disposizioni interne attuative di una direttiva, se la norma italiana le è fedele, conviene rivolgersi al giudice europeo (sentenza Fotofrost); se la norma interna attuativa è stata invece manipolata da una manovra del legislatore nazionale, sarà più naturale rivolgersi al sistema interno, cioè alla Corte costituzionale .

Resta il potere di misure provvisorie e di disapplicazione dopo l’intervento della Corte costituzionale (sentenza Melki e Abdeli).

Rimane da aggiungere una riflessione.

C’è un compito del giudice europeo: di non fermarsi alle fatiche della procedura, di non attendere che le questioni gli piombino addosso, ma di verificare la conformità dell’ordinamento al diritto dell’Unione e soprattutto alla Cdfue, rinnovata e parallela fonte costituzionale che legittima il suo indagare.

Penso agli spazi offerti dal diritto civile e indico alcuni istituti che la dottrina ha già cominciato a esplorare.

In tema di prescrizione, i giudici lussemburghesi si occupano di conformità tra termini europei e termini interni e ragionano in termini di effettività a proposito di termini che siano, per la loro irragionevolezza, difficilmente rispettabili per l’esercizio dei diritti: in tema di “conti dormienti” e doveri di informazione e asimmetrie contrattuali, c’è da riflettere.

In tema di locazione, Fabio Padovini[12], interrogandosi sulla Cedu, ha ricordato che molto c’è da fare sul versante del godimento del bene locato al conduttore disabile, alla successione per causa di morte, al confronto con il diritto all’abitazione quale diritto della persona in rapporto con gli statuti proprietari.

Guido Alpa[13], a proposito della tutela giurisdizionale dei diritti umani in rapporto alla Cdfue, ha ricordato il “caso Glatzel”, relativo al cittadino tedesco avente alcune disabilità, che si era visto negare la patente di guida con provvedimento sospetto di violare il principio di non discriminazione.

In tema di usucapione – la si pensi in relazione ai beni culturali acquistati in buona fede [14] –, viene in risalto la direttiva contro l’importazione clandestina di beni culturali.

Insomma, il giudice che si vorrebbe, stando alla distinzione di Isaiah Berlin evocata da Giuseppe Vettori[15], è il giudice «volpe», che cerca molti fini senza fermarsi a una visione unica, contrapposto al giudice «riccio», che riferisce tutto a una visione centrale ed è ripiegato su se stesso.

4.1. Il senso dei conflitti

A mo’ di conclusione, una considerazione venata di ottimismo della storia, se è consentito dirlo.

Il 16 luglio 1944, in una lettera all’amico Eberhard Bethge, Dietrich Bonhoeffer ricordava che, a distanza di alcuni secoli, i conflitti tra il papato e l’impero, conflitti ingaggiati per simboli come il pastorale o l’anello, per chi dovesse avere la prima parola o l’ultima, potevano sembrare adiaphora, realtà indifferenti.

Quel conflitto tra papato e impero ha portato al gesto simbolico di Enrico IV nel 1077, rimasto incancellabile per lo spirito dei popoli europei; all’esilio di Dante, senza il quale non sarebbero nati forse i canti della Commedia e il suo fruttuoso soggiorno a Verona; al sacco di Roma, con la rinascita barocca e i meravigliosi palazzi della Capitale.

Ebbene, diceva Bonhoeffer, in qualunque modo si valutino i grandi conflitti, non è vero che, come si insegna a scuola, siano stati solo una fonte di calamità per l’Europa.

Il sommo teologo della Chiesa luterana confessante scriveva[16], con la forza profetica di chi sa che sta per salire ingiustamente al patibolo per ordine espresso di Hitler, che in essi in realtà si nasconde l’origine di quella libertà spirituale che ha fatto grande il Continente.

Nel nostro piccolo, con la fortuna di tempi di conflitti democratici, cerchiamo di far crescere l’Europa apprendendo da essi la forza spirituale che fa del giudice un intellettuale critico e un infaticabile ricercatore della coincidenza tra diritto e giustizia.

* Il testo riproduce, con modifiche e adattamenti, la relazione svolta il 31 maggio 2019 presso la Corte di cassazione, nell’ambito dell’incontro di studi omonimo organizzato dalla Struttura di formazione decentrata della Corte.

[1] M. Cartabia e A. Celotto, La giustizia costituzionale in Italia dopo la carta di Nizza, in Giur. cost., n. 6/2002, p. 4477.

[2] T.E. Frosini, Brevi note sul problematico rapporto fra la Corte costituzionale italiana e le Corti europee,  in G.F. Ferrari (a cura di), Corti nazionali e Corti europee, Esi, Napoli, 2006, p. 376.

[3] A. Rovagnati, Fragilità e forza di un sistema giurisdizionale sui generis. I rapporti tra Corte di Giustizia delle Comunità europee e giudici nazionali di ultima istanza alla luce della più recente giurisprudenza comunitaria, in N. Zanon (a cura di), Le Corti dell’integrazione europea e la Corte costituzionale italiana, Esi, Napoli, 2006, p. 387.

[4] V. Sciarabba, Rapporti tra Corti e rapporti tra Carte : le “clausole orizzontali” della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, in N. Zanon (a cura di), op. ult. cit., p. 444.

[5] Così A. Cosentino, Il ruolo del giudice nazionale nel futuro dell’integrazione europea, intervento presso la Scuola superiore della magistratura, Scandicci, 16 maggio 2018.

[6] E. Scoditti, Giudice costituzionale e giudice comune di fronte alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dopo la sentenza costituzionale n. 269 del 2017,in Foro it., n. 2/2018, p. 406.

[7] A. Ruggeri, Rapporti interordinamentali, riconoscimento e tutela dei diritti fondamentali, crisi della gerarchia delle fonti, in Rivista di diritti comparati, n. 2/2019 (www.diritticomparati.it/wp-content/uploads/2019/04/Ruggeri-RDC-2-2019.pdf.).

[8] Vds. V. Sciarabba, intervista a cura di R.G. Conti, La Carta UE in condominio fra Corte costituzionale e giudici comuni. Conflitto armato, coabitazione forzosa o armonico ménage?, in Giustizia insieme, 8 maggio 2019.

[9] Vds. utilmente A. Ruggeri, nell’intervista a cura di R.G. Conti, Giudice o giudici nell’Italia postmoderna?, in Giustizia insieme, 10 aprile 2019.

[10] Cfr. A. Cosentino, La Carta di Nizza nella giurisprudenza delle Corti italiane, relazione a corso di formazione presso la Scuola superiore della magistratura, 22 novembre 2018.

[11] Vds. R. Mastroianni, intervista a cura di R.G. Conti, La Carta UE dei diritti fondamentali fa gola o fa paura?, in Giustizia insieme, 27 aprile 2019.

[12] F. Padovini, Locazione ad uso abitativo e diritti fondamentali, in Nuova giur. civ. comm., n. 1/2016, pp. 101 ss.

[13] G. Alpa, La tutela giurisdizionale dei diritti umani, ivi, p. 108.

[14] Cfr. A. Guarneri, Usucapione, acquisti a non domino e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ivi, p. 171.

[15] Cfr. G. Vettori, Regole e principi. Un decalogo, ivi, p. 124.

[16] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Queriniana, Brescia, p. 492.