Magistratura democratica

Il giudice del Novecento: da funzionario a magistrato

di Giancarlo Scarpari
Una vicenda lunga un secolo. Come cambiò la magistratura nel passaggio dallo stato liberale a quello fascista e come divenne indipendente dopo il “disgelo” costituzionale degli anni sessanta. Un autogoverno faticosamente raggiunto, sostenuto dall’aumentata professionalità dei singoli e insidiato dalle pressioni e dalle degenerazioni corporative.

1. Il magistrato dello Stato liberale e la sua doppia dipendenza

Quando, all’inizio del secolo, Vittorio Emanuele Orlando, ministro del Governo Giolitti, varò la sua riforma dell’ordinamento giudiziario, ruolo, funzioni e status del magistrato, nell’ambito dell’articolazione istituzionale dello Stato, erano stati ormai fissati e definiti da tempo.

Se l’art. 68 dello Statuto albertino aveva stabilito che «la giustizia emana dal Re ed è amministrata in suo nome dai giudici che Egli istituisce», l’art. 6 della legge 6 dicembre 1865, n. 2626, «sull’ordinamento giudiziario» aveva disciplinato lo statuto giuridico dei giudici e dei membri del pubblico ministero cui era dato il compito di applicarla. E questi dovevano farlo operando all’interno di un’organizzazione piramidale, costruita attraverso una serie di gradi, gerarchie e controlli: quelli demandati ai giudici “superiori” sugli “inferiori”, innanzitutto, e quelli che il ministro, spesso tramite il funzionario che lo rappresentava, il pubblico ministero (art. 129), esercitava sull’intera corporazione. Di qui, per i giudici, una doppia dipendenza: quella interna, legata al rapporto gerarchico con i vertici dell’apparato, e quella esterna, dovuta al rapporto subordinato con l’esecutivo, realizzato tramite la figura ibrida del magistrato accusatore, portatore delle esigenze del governo e partecipe della giurisdizione al tempo stesso.

Per i giudici e i pm vi erano dunque “carriere parallele e distinte”, e solo vi era la possibilità di transitare, in alcuni casi, dall’una all’altra; la riforma Zanardelli del 1890 aveva mantenuto la distinzione di fondo, ma il giudice con tre anni di servizio, nel caso di «tramutamento» di sede, era «inamovibile» nel grado, prerogativa questa che non era invece riconosciuta al pm (art. 199 ordinamento giudiziario del 1965). 

Ma se l’ordinamento giudiziario prevedeva questa divisione orizzontale per ruoli, la stratificazione gerarchica ne aveva determinato una verticale per status: l’alta magistratura – presidenti di tribunali, di corte e procuratori generali – poteva vantare stipendi, onorificenze e rapporti col potere “romano” che la distanziavano nettamente dalla bassa magistratura dei pretori, dei giudici e dei sostituti procuratori, spesso confinati in sedi disagiate e sempre costretti a fare i conti con stipendi che rendevano ardua anche la semplice formazione della famiglia. Proprio queste perduranti condizioni di disagio, all’inizio del secolo, avevano reso sensibile questa fascia di giudici ai richiami provenienti dalle lotte sindacali condotte non solo più dalla classe operaia, ma ora anche dal ceto impiegatizio del pubblico impiego.

A seguito dell’iniziativa, 114 componenti della bassa magistratura di Trani, che avevano indirizzato al Governo e al Ministro della giustizia un accorato appello per una «riforma che assicurasse alla Magistratura indipendenza, prestigio e decoro», accompagnato dall’annuncio di un futuro congresso a sostegno della richiesta, il Governo reagì varando, col ministro Orlando, una riforma dell’ordinamento giudiziario all’insegna dello slogan «garanzie assolute, disciplina di ferro».

Le prime furono modeste con l’istituzione di un Csm con mere funzioni consultive e composto esclusivamente da membri dell’alta magistratura; una maggior cura fu destinata al procedimento disciplinare, con la costituzione di corti distrettuali e di una Suprema corte composta da sette “alti” magistrati e da sei senatori. Ribadita con forza fu, poi, la piena dipendenza del pm dall’esecutivo, ritenendo Orlando che quel funzionario non poteva essere il “rappresentante della legge”, essendo questa un’astrazione che non consentiva rappresentanti di sorta.

La riforma non convinse, ovviamente, una gran parte dei magistrati e ancora una volta, nel 1909, 44 di essi – quasi tutti facenti parte della bassa magistratura – dettero vita, a Milano, all’Agmi (Associazione generale dei magistrati italiani), avente lo scopo di «cooperare per le guarentigie della magistratura e la tutela degli interessi morali ed economici dei suoi membri»; i 44 diventarono 894 l’anno successivo e 1700 nel settembre del 1911. Con l’andar del tempo, i promotori si convinsero dell’utilità di poter indicare tra i dirigenti anche personaggi di spicco dell’alta magistratura (i vari Antonio Raimondi e Lodovico Mortara, prima; Pasquale De Notaristefani, poi) e questi ultimi aderirono all’Associazione, garantiti, da un lato, dalla dichiarata apoliticità della stessa e interessati, dall’altro, agli obiettivi “morali e materiali” che quell’attivo gruppo di funzionari intendeva perseguire.

Il cemento corporativo oscurò dunque la distinzione dei ruoli e le differenze di status, e fornì uno scudo verso l’esterno alle critiche aspre che avevano subito accolto la costituzione dell’Associazione, assimilata con spregio ai sindacati dei ferrovieri e alle varie leghe proletarie, laddove i dirigenti rivendicavano di essere l’élite tra i pubblici funzionari, sostenendo di chiedere aumenti economici per vedersi riconosciuto un prestigio pari alla centralità della funzione esercitata.

Tuttavia, all’interno dell’Associazione, quelle distinzioni di ruoli e quelle differenze alla lunga cominciarono a pesare.

All’inizio, giudici e pm marciarono uniti nel chiedere l’estensione della inamovibilità del grado e della sede anche ai magistrati della pubblica accusa, e nel primo congresso nazionale del 1911 l’Associazione votò compatta perché il pm fosse riconosciuto quale «rappresentante della legge, investito di funzioni esclusivamente giudiziarie» e, perciò, «circondato da tutte le garanzie di cui devono godere i magistrati, compresa l’inamovibilità». Ma questa richiesta, avanzata con forza altalenante negli anni successivi e sempre rimasta inascoltata, non fu accolta neppure nella “riforma Rodinò” del 1921 – pure per altri versi apprezzata – e fu poi accantonata nel 1923, dopo la marcia su Roma. Pur confermando il principio, i dirigenti dell’Agmi, con un memoriale al guardasigilli Aldo Oviglio, si dichiararono allora disposti ad accettare una soluzione di ripiego (il ministro, se voleva, poteva sollevare il pm da ogni incarico, purché non lo trasferisse in altra sede): la subordinazione all’esecutivo veniva definitivamente accettata e l’«inamovibilità», da bandiera dell’indipendenza, rimaneva una guarentigia meramente corporativa.

Anche l’aspirazione di alcuni ad abbattere le barriere tra l’alta e la bassa magistratura, avventurosamente agitata all’inizio, si rivelò subito inconsistente.

Sempre in quel primo congresso del 1911, tra i temi da trattare fu posta, al primo punto: «l’abolizione di ogni grado e gerarchia, salvo l’esercizio delle funzioni direttive», ma la proposta, superficiale e improvvisata, fu in quello stesso Congresso lasciata cadere.

Nel primo dopoguerra, quell’aspirazione fu diversamente modulata e le proposte di riforma puntarono alla riduzione dei gradi: questo creò, nel 1919, una contrapposizione all’interno della stessa Associazione, tra chi puntava a una tripartizione (giudici, consiglieri d’appello e cassazione) e chi, più radicalmente, rappresentando le istanze della bassa magistratura, prospettava una secca distinzione tra magistrati di merito e di legittimità.  Senonchè, anche queste proposte fecero poca strada. Quando, con la riforma Rodinò, i magistrati poterono designare, con una elezione di secondo grado, i componenti del nuovo Csm consultivo, l’elettorato passivo fu riservato solo ai componenti dell’alta magistratura; per giunta, in tale occasione, non solo alla lista dell’Anm si contrappose, con minor forza, una nuova lista di “non associati”, sostenuta dal filo-fascista Giornale d’Italia, ma gli eletti in entrambe, in silenzio, si accordarono poi tra loro per conferire i maggiori poteri a Giovanni Appiani, da tempo uscito dall’Associazione e candidato eletto nella lista minoritaria, che il 31 dicembre 1923 sarebbe diventato il primo procuratore generale del nuovo regime.

Questa vicenda dell’estate del 1922 è rivelatrice, perché fotografa il cambiamento in atto in quel delicato apparato dello Stato. Se, dal punto operativo, i singoli funzionari, appartenenti o meno all’Associazione, avevano nei fatti assecondato i vari esecutivi, processando con zelo – tranne poche eccezioni – socialisti, comunisti e «Arditi del Popolo», e omettendo sistematicamente di perseguire i crimini dello squadrismo, per quanto riguarda l’Anm questa aveva registrato, al suo interno, una serie di slittamenti progressivi.

I suoi dirigenti, infatti, da Roberto Cirillo a De Notaristefani, avevano cercato di orientare i soci in senso genericamente liberale e non pregiudizialmente antisocialista (e questo aveva loro attirato l’accusa di “bolscevichi”). Peraltro, sotto l’impulso della stampa dominante e del progressivo schierarsi a favore del fascismo di autorevoli giuristi del tempo, da Vincenzo Manzini a Luigi Lucchini, erano cresciuti i dissenzienti, si erano verificati nel 1920-21 tentativi di scissione e ora le elezioni, con la chiamata a raccolta della “minoranza silenziosa”, avevano alla fine documentato la consistenza reale delle forze in campo.

Dopo di allora, comunque, non ci furono più elezioni. L’avvento del fascismo cancellò subito con Oviglio, nel 1923,  le aperture conseguite con la riforma Rodinò; il neo-ministro promosse un’epurazione di oltre 300 magistrati, riformò l’ordinamento giudiziario intensificando il sistema della carriera e dei gradi, in collegamento con la “riforma De Stefani”, che ridefiniva le gerarchie degli impiegati civili sul modello della carriera militare; soppresse, inoltre, numerose sedi giudiziarie, sostituì Mortara e De Notaristefani ai vertici della Cassazione con Mariano D’Amelio e Giovanni Appiani e trasferì d’ufficio Cirillo, inviandolo a Trani.

2. Il ruolo del magistrato funzionario sotto il fascismo e oltre

Alfredo Rocco, dopo il 3 gennaio 1925, provvide a chiudere il cerchio: e poiché Vincenzo Chieppa, successore di Cirillo, aveva mantenuto l’Associazione e il giornale su posizioni di autonomia rispetto al sorgente regime, Rocco vietò per legge ogni “associazione di magistrati”. Chieppa, però, non attese il provvedimento esecutivo del Governo e, col gruppo dirigente compatto, decise l’autoscioglimento dell’organizzazione. Nel silenzio ormai calato attorno ai magistrati, Rocco, nel 1926, dispose infine la destituzione «per antifascismo» di 17 funzionari, scelti tra i maggiori esponenti dell’ormai defunta Associazione, Chieppa e Cirillo per primi.

Non tutti i magistrati, però, rimasero muti. Nello stesso anno, infatti, più di 600 pretori manifestarono in un libro pensieri di “devozione” a Mussolini («A te, o Benito, queste pagine che racchiudono il canto passionale dei Pretori d’Italia»), che consegnarono al Duce in una solenne cerimonia, alla presenza di Rocco e di D’Amelio. Ma anche tra coloro che non si lasciarono andare a simili atti di servilismo, molti parteciparono attivamente alla «trasformazione dello Stato», sia affiancando direttamente il ministro (come Gaetano Miraulo, Giovanni De Falco e Carlo Saltelli), sia perché cooptati nelle commissioni per la riforma dei codici (come Ugo Aloisi, Silvio Longhi e Antonio Albertini). Ma, soprattutto, l’intera magistratura penale, riunita in assemblee distrettuali, fornì il suo contributo, così come le università e gli ordini degli avvocati, ai progetti preliminari dei codici Rocco; e nelle celebrazioni di quel decennale, nel 1942, Raffaele Gioffredi, con un lungo saggio, ne rivendicava puntigliosamente l’operato.

Durante il regime, quell’apparato di funzionari fu diretto con le circolari ministeriali e controllato dall’alto ad opera della Cassazione di Mariano D’Amelio, che curò l’uniforme applicazione del nuovo diritto fascista, con particolare attenzione per quello concordatario. I giovani funzionari, invece, per entrare in magistratura, dal 1934 dovettero esibire l’iscrizione al Pnf e, dal 1938, dichiarare anche di essere maschi di «razza ariana». L’alta magistratura, con Gaetano Azzariti, Antonio Manca e Giovanni Petraccone, fu designata a gestire il Tribunale della Razza; la bassa “non si accorse” che, nei tribunali, qualche collega ebreo non si recava più in ufficio, perché improvvisamente destituito.

Nel 1940, infine, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario, 240 alti magistrati in uniforme del Pnf inneggiarono ai discorsi di Dino Grandi, il quale li invitava a oltrepassare i limiti della legge per obbedire allo spirito del tempo e di Mussolini, che ribadiva l’intervenuta e definitiva fine della divisione dei poteri. Al termine della cerimonia, come ricordava Piero Calamandrei, tutti festanti abbandonarono Palazzo Venezia intonando l’inno della Rivoluzione.

Poco doveva perciò aggiungere Grandi alla situazione esistente, quando, a guerra dichiarata, varò l’anno successivo il nuovo ordinamento giudiziario: questo, infatti, “perfezionò” l’antico, rese ancora più stretti i rapporti del pm con il ministro e più incisive le ingerenze del guardasigilli nella carriera e nella disciplina dei magistrati.

Dopo lo sbarco degli alleati, l’armistizio, l’8 settembre 1943 e la costituzione della Rsi, i magistrati si divisero tra le “due Italie”, ma anche quelli rimasti al Nord, su prudente consiglio dei vertici della Cassazione romana, si astennero dal prestare il giuramento di fedeltà al nuovo ordinamento repubblicano; pochi parteciparono coraggiosamente alla Resistenza e, tra coloro che lo fecero, alcuni pagarono un contributo di sangue (assai tardivamente riconosciuto) e tutti si “riunirono” nel 1945, a guerra finita, a riprova di una sospesa – ma mai interrotta – continuità dello Stato.

Le dinamiche interne dei governi del Cln poco incisero sull’assetto di questi funzionari: il ministro della giustizia Umberto Tupini, nel 1944, conferì le cariche di vertice alla componente cattolica dell’alta magistratura, nominando presidenti di sezione della Cassazione Emanuele Piga, Vincenzo De Ficchy e Antonio Manca. Il ministro della giustizia Palmiro Togliatti, nel 1946, modificò parzialmente l’ordinamento giudiziario Grandi, attenuò la dipendenza del pm dall’esecutivo, sostituendo la «vigilanza» alla più cogente «direzione» ed estendendo a quel funzionario la guarentigia dell’immutabilità della sede; ma, quanto alla “dipendenza interna”, non furono toccate carriere e scala gerarchica, mentre fu ribadita la funzione meramente consultiva del Csm, i cui appartenenti all’alta magistratura vennero ora designati con una elezione di secondo grado.

La Cassazione, dunque, non solo rimase fondamentale per la gestione dell’apparato, ma acquistò inoltre, per convenienza o debolezza dei governi del Cln, un’inedita centralità nell’articolazione dello Stato: lungi dall’essere sottoposta a un’efficace azione di epurazione, fu chiamata infatti a gestire, con i processi penali, l’applicazione della normativa per i crimini fascisti. E così quella che era stata definita la «silenziosa, operosa, custode del Regime» assolse o prosciolse la grande maggioranza dei protagonisti della dittatura, ampliando fuor di misura quell’amnistia che Togliatti e i suoi collaboratori avevano varato nel ’46, assolvendo in primo luogo i membri della propria corporazione (perfino i giudici del Tribunale speciale andarono esenti da pena) e garantendo all’apparato anche una “continuità personale” oltre a quella, istituzionale, già conferita ad essa dai governanti.

La nuova centralità dell’alta magistratura si affermò subito in varie direzioni. Sotto la sua guida, infatti, si ricostituì nel 1945 l’Associazione nazionale magistrati, formalmente apolitica e asindacale – Piga ne fu il primo presidente e Petraccone uno degli ideologi più seguiti. La Cassazione, quale vertice del terzo potere, presentò poi all’Assemblea costituente un progetto, condiviso anche dall’Anm, che puntava a una sua preminenza assoluta anche nel campo della giustizia amministrativa e nella composizione della futura Corte costituzionale: non ottenne l’autonomia e la supremazia richieste, ma sì la proroga dell’ordinamento giudiziario fascista e il potere «provvisorio» di sindacare la costituzionalità delle norme vigenti (art. VII disposizioni transitorie). Mantenendo intatta la piramide gerarchica, neppure la Costituzione, nell’immediato, riuscì dunque a trasformare quei funzionari in liberi magistrati.

In compenso, per il futuro, l’Assemblea fissò una serie di principi, configurando la magistratura come ordine autonomo e indipendente (art. 104, comma 1), nel quale i giudici erano soggetti soltanto alla legge (art. 101), si distinguevano solo per diversità di funzioni (art. 107) e potevano eleggere i loro rappresentanti in un Csm composto anche da membri laici, che decideva sulle loro promozioni (art. 105); ambigua rimaneva la posizione del pm, indipendente, ma sempre sottoposto alla struttura gerarchica interna (artt. 107, comma 3, e 108, comma 2). Questo il quadro istituzionale di riferimento entro cui si sviluppò, negli anni successivi, quella trasformazione.

Non nell’immediato, però. Per tutto il decennio successivo, quello contrassegnato dalla democrazia protetta, dal congelamento costituzionale e dal papato di Pio XII, l’alta magistratura e l’Anm invocarono la Carta del 1948 solo per ottenere la maggiore autonomia possibile, un’autonomia peraltro declinata in modo improprio, visto che l’apoliticità significava distacco e ostilità dichiarata coi partiti di sinistra, sintonia e rapporti stretti con quelli di governo; per non parlare, poi, della subordinazione manifestata dall’alta magistratura e dai dirigenti dell’Anm all’insegnamento della Chiesa, in piena continuità con la precedente gestione D’Amelio (i vari Ernesto Battaglini, Chieppa, Piga e Petraccone aderirono tutti, infatti, alla Unione dei giuristi cattolici).

Sotto questa egemonia culturale, i magistrati funzionari transitarono dal fascismo alla repubblica democratica. La Cassazione, grazie al potere «provvisorio» concessole da quella disposizione transitoria, mantenne in vigore per anni numerose leggi fasciste, sostenendo che gran parte delle norme della Costituzione erano solo «programmatiche» cioè non effettive, né vincolanti. Quando poi, dopo un decennio, per spinte diverse, la maggioranza parlamentare istituì la Corte costituzionale, il Presidente della Repubblica Gronchi e la Cassazione nominarono in essa esponenti dell’alta magistratura, quali Azzariti e Manca. E quando nel 1958, fu varata la legge istitutiva del Csm, la persistente sintonia tra il Governo e l’alta magistratura fece nascere un organo in cui ampi rimanevano i poteri del ministro e dominante al suo interno la posizione dei magistrati di cassazione.

Ma ormai una fase del dopoguerra stava per chiudersi e un’altra si stava faticosamente aprendo. Un terzo dei funzionari, cioè la nuova bassa magistratura, aveva preso servizio nel dopoguerra, non doveva trascinarsi il retaggio del passato e poteva respirare l’aria nuova che stava accompagnando la crisi del centrismo e la fine della democrazia protetta: i primi segni del cambiamento si registrarono proprio in vista dell’istituzione del Csm.

Al Congresso dell’Anm del 1957, a Napoli, la tradizionale rivendicazione di stipendi più elevati si saldò con la richiesta egualitaria dell’abolizione dei gradi, cui era agganciata, da sempre, la progressione economica: ora, legando gli stipendi non più alla funzione, ma all’anzianità di servizio, i dirigenti dell’Anm fecero leva su un’istanza particolarmente sentita dalla bassa magistratura; ma molti vi scorsero anche la via per scardinare la dipendenza interna, e come tale fu subito avvertita dagli esponenti della Cassazione, che, riunitasi eccezionalmente in Assemblea generale, rivendicò il suo ruolo di guida non solo nella giurisdizione, ma anche nell’amministrazione delle carriere.

3. La faticosa marcia verso l’autonomia e l’indipendenza

Inizialmente fu un confronto culturale, apertosi tra chi si rifaceva al filone tradizionale fascista o prefascista di Orlando e chi si riconosceva nel filone liberale di Giuseppe Maranini o in quello azionista di Piero Calamandrei. Presto, però, il confronto si trasformò in uno scontro politico, con la rottura della corporazione, spaccata dalla scissione operata dai magistrati di cassazione (che poi si riunirono nell’Umi) e con la contestazione della legge elettorale del Csm (criticata dalla bassa magistratura, ivi ampiamente sottorappresentata).

Dapprima si trattò di voci individuali che si affacciarono all’esterno, con gli scritti di Marco Ramat e Dino Greco sul Mondo o sul Ponte negli anni cinquanta; quindi vi furono riflessioni interne di piccoli gruppi raccolti attorno ai magistrati più attivi: Pasquale E. Principe a Napoli, Adolfo Beria d’Argentine a Milano. A queste voci seguì, poi, la riflessione collettiva tenutasi in un grande convegno del 1961 a Firenze, organizzato da Maranini: qui la bassa magistratura, di fronte all’interrogativo – “magistrati o funzionari?” – si confrontò con le esperienze di altri Paesi europei e scelse la via dell’attuazione costituzionale, che voleva un giudice libero da vincoli e non più un funzionario dalla doppia dipendenza. Coloro che, dall’alto, patrocinavano la soluzione contraria, gli scissionisti dell’Umi, si sottrassero al confronto continuando a gestire il potere sull’intero apparato, avendo ai vertici della Cassazione due magistrati già operanti nella Rsi, Luigi Oggioni e Mario Comucci, e potendo per giunta contare sulla maggioranza assoluta che la legge aveva loro conferito nel Csm.

Ma dopo il luglio 1960, con l’inizio della fase di centro-sinistra, il risveglio dell’antifascismo, il nuovo corso del papato giovanneo, per l’azione innovatrice della bassa magistratura si aprirono spazi nuovi.

Il circuito virtuoso che cominciò a instaurarsi tra quest’ultima e la Corte costituzionale consentì un primo parziale successo nel 1963, quando l’eccezione sollevata dal pretore di Bologna Federico Governatori portò alla dichiarazione di illegittimità della norma che conferiva al ministro il potere di dirigere l’attività del Csm (e, in quella occasione, a sostegno dell’eccezione si schierarono Maranini, Lelio Basso e Leopoldo Piccardi). Peraltro, fu proprio sull’assetto interno del Csm che, non a caso, si sviluppò successivamente la lotta tra alta e bassa magistratura, dopo che la prima consiliatura l’aveva configurato come organo amministrativo, quasi di “consulenza del ministro”, anziché organo autonomo di rilevanza costituzionale, come voluto invece dalla Carta del ‘48. Fu nel Congresso dell’Anm di Gardone, nel 1965 (cui prese parte Gabriella Luccioli, fresca vincitrice del primo concorso aperto alle donne), che i giovani magistrati emergenti, i vari Beria d’Argentine, Pasquale Emilio Principe, Marco Ramat, riuniti sotto le sigle di Magistratura democratica e di Terzo potere, votarono una mozione in cui il magistrato si impegnava ad applicare la legge alla luce dei principi costituzionali e in cui si sosteneva la necessità di «togliere alla Cassazione l’attuale preponderanza in seno al Csm».

Il nuovo clima creatosi tra la maggioranza dei giovani magistrati, una Corte costituzionale via via rinnovata nei suoi componenti, una cultura giuridica – da Paolo Barile, a Stefano Rodotà a Giuliano Amato – sempre più schierata per l’attuazione della Costituzione, trovò alla fine parziali consonanze coi governi di centro-sinistra; e cominciarono a cadere, una dopo l’altra, le principali assi portanti anche del vecchio ordinamento giudiziario.

Una legge del 1967 eliminò la rappresentanza per categorie nel Csm, ampliando i poteri dell’elettorato attivo (ma solo con la riforma del 1975 una legge elettorale proporzionale consentirà l’affermarsi di un vero pluralismo, riducendo in tale organo la presenza dei magistrati di cassazione); un’altra legge del 1966 abolì, in pratica, la carriera per i consiglieri d’appello e una seconda, del 1973, stabilì i ruoli aperti anche per le promozioni in Cassazione, per cui gli avanzamenti economici vennero a dipendere dall’anzianità di servizio e non più dalle funzioni effettivamente svolte.

Il raggiungimento di un obiettivo “sindacale” e corporativo fu perciò, al tempo stesso, lo strumento che consentì alla bassa magistratura di liberarsi dal conformismo sempre osservato per conseguire le promozioni e di rimuovere, così, le fondamenta “non scritte” su cui era strutturata la tradizionale dipendenza interna.

Questo processo non fu né breve, né indolore. La consapevolezza di una raggiunta autonomia spinse infatti, progressivamente, i giovani magistrati – i pretori, ma non solo – a dare piena attuazione al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale (con la possibilità, quindi, di procedere in tutte le direzioni, come fecero i pretori di Genova Mario Almerighi, Carlo Brusco e Adriano Sansa quando processarono i petrolieri che versavano tangenti ai partiti di governo per ottenere aumenti sul prezzo della benzina) e a promuovere una giurisprudenza “costituzionalmente orientata” (e fu il pretore di Imola Gabriele Cerminara a sollevare, con esito positivo, l’eccezione della illegittimità costituzionale del mancato interrogatorio garantito dell’imputo nel procedimento condotto con rito sommario); Magistratura Democratica, ruppe così l’ultimo tabù corporativo, non solo approvando la critica politica pubblica delle sentenze, ma promuovendo poi una rivista, Quale giustizia, in cui la giurisprudenza veniva vagliata e criticata alla luce dei principi costituzionali, da molti giudici frequentemente disattesi. E questo nuovo strappo spaccò, ovviamente, la corporazione e la stessa Anm.

Le reazioni non si fecero attendere. Al centro, la Cassazione utilizzò lo strumento tradizionale della legittima suspicione per sottrarre i processi più delicati ai giudici “naturali” (da quello del “golpe Borghese” a quello della strage di Piazza Fontana), per pilotarli in sedi più accomodanti; l’alta magistratura “periferica” – procuratori e presidenti di tribunale, dirigenti di pretura – cercò di prevenire analoghi pericoli, scegliendo in sede i magistrati “sicuri” cui affidare i “casi delicati” (e molti di questi riguardarono, non a caso, l’applicazione del nuovo Statuto dei lavoratori): affollate assemblee di ufficio, ordini del giorno di protesta, articoli di motivata critica furono altrettante occasioni per promuovere procedimenti disciplinari, colpendo i giudici più esposti per intimidirne altri. Così quegli alti magistrati, che sempre avevano operato in sintonia coi governi dal ‘48 in poi, sempre affermando una loro pretesa neutralità, cominciarono a perseguire e delegittimare i “giudici politicizzati”, sostenuti in questo anche da quella componente dell’Anm che ne condivideva appieno l’ideologia, malgrado le impietose smentite della realtà (i dirigenti di Magistratura indipendente che più degli altri inalberavano la bandiera dell’apoliticità, alla metà degli anni settanta risultarono essere infatti iscritti non a un partito, ma alla loggia segreta di Licio Gelli).

4. Puntare sulla professionalità per difendere l’autogoverno dai possibili ritorni al passato

Tutto questo avvenne in un decennio che vide altri apparati dello Stato impegnati a occultare le loro compromissioni con l’eversione fascista e stragista (da Piazza Fontana a Piazza della Loggia, dall’Italicus alla strage del “2 agosto”), depistando e opponendo il «segreto di Stato» alle indagini di quei pochi magistrati che cercavano, in solitudine, di individuare, con pochi mezzi a disposizione, gli esecutori e i mandanti.

Ma queste resistenze, indebolite dai mutamenti della politica e anche dall’inevitabile ricambio generazionale, via via si attenuarono, rimanendo presenti in alcune procure generali e permanendo a lungo soprattutto negli apparati, anche giudiziari, della Capitale. Altrove, magistrati ben più “liberi” dei loro predecessori, tramite un Csm finalmente pluralista, cominciarono a dar corpo a un’autentica indipendenza, si  “auto-organizzarono”, innovando l’ordinamento giudiziario per via “tabellare”, introducendovi soluzioni che solo in un secondo tempo avrebbero ottenuto, in parte, consacrazione legislativa: così fu per l’attuazione del principio del giudice naturale (ora predeterminato e non più sottoposto alle scelte discrezionali dei dirigenti), per la formazione dei pool nelle procure (sperimentati per le indagini sul terrorismo e sulla mafia), per la valutazione della professionalità dei magistrati (regolamentata da circolari emesse dal Csm, nella persistente assenza di interventi legislativi).

Quando si trattò di far fronte al terrorismo rosso e alla mafia, i governi delegarono il compito alla magistratura e nessuno si lamentò del fatto che quei magistrati operavano senza vincoli e che professionalità e impegno erano indipendenti dai “gradi” e dalle “promozioni” conseguite (e tutti resero omaggio, spesso tardivo, all’opera di chi, per quei processi, era stato ferito o ucciso); ma quando i magistrati cominciarono a esercitare, con crescente sistematicità, il controllo della legalità anche sui settori della criminalità economica e politica, la reazione fu immediata e molti, da Bettino Craxi in poi, tornarono a lamentare la loro “politicizzazione” e la scarsa professionalità dei  “giudici ragazzini”.

Su quest’ultimo punto, ancora una volta, fu Md a fornire la risposta più efficace e puntuale. E se Pino Borrè, Livio Pepino e poi Carlo Verardi, con la rivista Questione giustizia, fornirono al pubblico la dimostrazione di come quei magistrati aggregassero attorno a sé i migliori frutti della cultura giuridica del tempo (nessun’altra “corrente” di magistrati è mai riuscita in una simile impresa), furono Elvio Fassone e ancora Verardi a dar concretezza al principio secondo cui “senza cultura e professionalità non c’è indipendenza nella magistratura”: Fassone, con l’intuizione della necessità di una Scuola centrale di formazione in grado di garantire l’aggiornamento professionale di giudici e pm, attraverso continui seminari di studio; Verardi con la creazione di un “sapere decentrato” – attraverso la rete dei formatori distrettuali e gli osservatori per la giustizia civile – e col ruolo propulsivo da lui svolto nell’ambito del Comitato scientifico del Csm per la realizzazione della suindicata Scuola.

Dopo la prima generazione di magistrati che aveva scardinato le varie dipendenze, ve n’era dunque una seconda che, in piena continuità con la prima, mostrava in concreto quali risultati si potevano conseguire con la raggiunta autonomia.

Così, alla fine del Novecento, il magistrato non più dipendente dall’esecutivo, libero da subordinazioni gerarchiche, consapevole del proprio ruolo, garantito da un Csm pluralista e supportato da una professionalità mai assicurata dai passati concorsi, aveva creato i presupposti istituzionali per archiviare definitivamente il funzionario del passato. La soluzione conseguita non era ancora ottimale, ma, tenendo sotto controllo le ricorrenti spinte corporative, poteva essere ulteriormente migliorata. In caso contrario, queste avrebbero favorito forme di delegittimazione e rafforzato i propositi di rivincita dell’esecutivo.

La questione rimaneva aperta: il magistrato del Novecento aveva superato le “fatiche delle montagne”; al suo successore restavano da affrontare “le fatiche delle pianure”: diverse dalle prime, ma non per questo meno impegnative.

Come, puntualmente, si sarebbe visto in seguito.