Magistratura democratica

Quale giustizia penale?

di Livio Pepino
Negli ultimi cinquant’anni, il quadro di riferimento della giustizia penale è cambiato profondamente. Nonostante ciò, la giustizia penale è rimasta per lo più forte con i deboli e debole con i forti e il livello delle garanzie, almeno per i suoi clienti abituali, resta mediamente piuttosto basso. Lo dimostrano le presenze carcere, in continua crescita nonostante la diminuzione generalizzata dei reati. E lo confermano molti atteggiamenti di pm e giudici, soprattutto in tema di libertà personale. È tempo di analizzare come, con questa caratteristica risalente, si è confrontata la cultura giuridica progressista.

1. Un obiettivo irrealizzato: la democratizzazione della giustizia penale

Tra le speranze dei 27 magistrati che, il 4 luglio 1964, si riunirono a Bologna, nell’Aula magna del Collegio “Irnerio”, per dar vita a Magistratura democratica, c’era anche la democratizzazione della giustizia penale. L’obiettivo era di renderla coerente con la Costituzione repubblicana: in particolare, con i princìpi in tema di libertà e diritti e con l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge proclamata dall’art. 3. Quel che si voleva era una giustizia effettiva anche nei confronti dei forti (e non solo dei deboli) e, nello stesso tempo, rispettosa delle garanzie di tutti, superando così la distinzione di sempre tra il codice dei briganti e quello dei galantuomini. Fu un vero assalto al cielo, perseguito con rigore per anni e documentato da due riviste gloriose come Quale giustizia e Questione giustizia e dai congressi di Magistratura democratica degli ultimi decenni del secolo scorso (luoghi di confronto e dibattito alto della miglior cultura giuridica e politica). Molta strada è stata fatta da allora, ma cinquant’anni dopo, guardandosi intorno, occorre ammettere che quel sogno è rimasto in gran parte irrealizzato.

È importante capirne le ragioni. Anche perché ci saranno – non so quando, ma ci saranno – nuovi tentativi di conquistare la luna e la riflessione sui percorsi di questi anni sarà preziosa per i nuovi esploratori.

In cinquant’anni, il quadro di riferimento della giustizia penale è cambiato profondamente. Si può dire che è cambiato tutto. Il potere di incidere sulla libertà personale è stato sottratto al pubblico ministero e attribuito in via esclusiva al giudice; il diritto dell’indagato di essere informato dell’inizio di un procedimento a suo carico e di essere assistito sin ab initio da un difensore è diventato stringente e assistito da sanzioni di nullità in caso di violazione; è scomparso il mandato di cattura obbligatorio e si sono moltiplicati gli aggettivi per descrivere le condizioni che legittimano la limitazione della libertà personale; sono stati previsti termini stringenti per la custodia cautelare e (anche) per le indagini; è cambiato totalmente il processo, diventato da inquisitorio a (timidamente) accusatorio; sono scomparsi il pretore e il giudice istruttore; è stato in buona parte riscritto l’ordinamento giudiziario; l’odiosa espressione “libertà provvisoria” (triste ammissione che ad essere definitiva è solo la detenzione) è uscita dal vocabolario giuridico; c’è stata la riforma penitenziaria e, con essa, è stato travolto il mito della fissità della pena detentiva, a cui sono state affiancate diverse misure alternative; è stato riscritto l’art. 111 della Costituzione, stabilendo in dettaglio i princìpi del “giusto processo” e del contradditorio; sono state introdotte, per mitigare la durezza della custodia in carcere, diverse misure cautelari non detentive. E, poi, molto altro.

Nonostante ciò, la giustizia penale è rimasta per lo più forte con i deboli e debole con i forti e il livello delle garanzie, per chi in essa incappa (almeno per i suoi clienti abituali, i deboli), resta mediamente piuttosto basso. Intendiamoci, molto è cambiato – in meglio – anche nelle prassi giudiziarie e negli orientamenti giurisprudenziali. Cito alla rinfusa: con le indagini sulla loggia P2 e i processi di Tangentopoli, il controllo di legalità si è esteso all’operato dei poteri forti e degli apparati politici[1]; gli infortuni sul lavoro hanno cessato di essere considerati alla stregua di “tragiche fatalità” e la salute in fabbrica ha trovato tutela anche in sede penale[2]; la subalternità alle incursioni di servizi segreti italiani e stranieri ha trovato ostacolo e contenimento in processi come quello per il sequestro di Abu Omar; i frequenti abusi di polizia hanno avuto reazioni (ancorché parziali) in interventi giudiziari significativi come quelli per le torture nei confronti di alcuni sequestratori del generale James Lee Dozier e finanche – seppur tardivamente – per le violenze della scuola “Diaz” a Genova e i maltrattamenti che hanno provocato la morte di Stefano Cucchi; la repressione delle organizzazioni mafiose ha raggiunto livelli inediti per quantità e qualità[3]; molti pubblici ministeri e giudici – tra i quali mi piace citare, da ultimo, il Tribunale di Catania e la giudice per le indagini preliminari di Agrigento[4] ‒ hanno saputo reagire con rigore e senso di indipendenza a pressioni e intimidazioni tese ad ottenere un avallo alle politiche governative discriminatorie in tema di immigrazione. Potrei continuare, a dimostrazione che la situazione della giurisdizione è variegata e che ci sono anticorpi a opacità, abusi e quant’altro. Ma il quadro complessivo resta ancora lontano dalle speranze di cinquant’anni fa.

2. “Viva il carcere!”

Comincio dai dati. Il 31 dicembre 1964 (anno della nascita di Magistratura democratica) i detenuti erano 31.871, mentre il 30 giugno scorso erano quasi il doppio (60.522) dopo che, il 30 giugno 2010, si era raggiunto il picco di 68.258 (quasi prossimo al tetto di 71.693, raggiunto sul finire della Seconda guerra mondiale, nel 1945, e rimasto un unicum nella nostra storia nazionale). Non si tratta di un dato episodico. Le presenze in carcere sono cresciute, negli ultimi trent’anni, in maniera vertiginosa: dal minimo storico di 25.804 detenuti del 31 dicembre 1990[5] si è, infatti, passati a 47.709 al 31 dicembre 1996, 53.165 alla stessa data del 2000, 59.523 a fine 2005 e 67.961 al 31 dicembre 2010. Solo dopo il 2012, una serie di provvedimenti tampone, imposti dalle condanne in sede europea per il «trattamento disumano e degradante» di detenuti in conseguenza del sovraffollamento carcerario, ha ridotto gradualmente le presenze che, pur restando assai elevate, sono scese dalle 66.897 del 31 dicembre 2011, alle 65.701 di fine 2012 e poi, a seguire, a 62.536 (2013), 53.623 (2014) e 52.164 (2015) prima di riprendere nuovamente a salire, con 54.653 a fine 2016 e 56.436 a fine 2017 sino a superare di nuovo, oggi, le 60.000[6].

Il fatto più significativo e apparentemente sorprendente, peraltro – cito dal XV Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione (Il carcere secondo la Costituzione), presentato il 16 maggio 2019 – è che la crescita dei detenuti è avvenuta mentre diminuivano sia i reati denunciati all’autorità giudiziaria sia gli ingressi in carcere dalla libertà. Per limitarsi agli ultimi anni, nel 2017 si è assistito, in Italia, a un calo del 2,32% dei delitti denunciati rispetto all’anno precedente. Il decremento si è confermato nel 2018, quando i primi nove mesi hanno visto i delitti diminuire di un ulteriore e significativo 8,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La tendenza decrescente nei delitti commessi è proseguita anche nei primi quattro mesi del 2019, registrando un calo del 15%. In particolare, gli omicidi hanno registrato una diminuzione del 12,2%, i tentati omicidi del 16,2%, le rapine del 20,9%, i furti del 15,1%, le lesioni dolose del 21,8%, le violenze sessuali addirittura del 32,1% e l’usura del 47%. Negli ultimi dieci anni, mentre diminuivano in modo drastico gli omicidi – da circa 600 a circa 350 –, sono aumentati significativamente gli ergastolani, dai 1.408 nel 2008 ai 1.748 di oggi. Non c’è, dunque, alcun nesso tra indici di delittuosità, stato della criminalità e lunghezza delle pene.

Non solo, ma il numero degli ingressi in carcere dalla libertà è quasi dimezzato rispetto a dieci anni fa. A fronte di ciò, la crescita della popolazione detenuta è dovuta alla diminuzione delle uscite che corrisponde all’aumento delle pene scontate dai condannati in via definitiva, nonostante non si abbia un parallelo aumento della gravità dei reati commessi. Se nel 2008 l’11% dei condannati scontava una pena inferiore a un anno, nel 2018 ciò accadeva solo al 4,4%. Se nel 2008 il 47,1% dei condannati scontava una pena compresa tra 1 e 5 anni, nel 2018 ciò accadeva al 41,4%. Se viceversa nel 2008 il 18% dei condannati scontava una pena più lunga e compresa tra i cinque e i dieci anni, nel 2018 questa percentuale saliva al 26,8%. E ciò non riguarda solo le condanne di chi è detenuto. In generale, dal 2008 al 2017 le condanne inferiori ai cinque anni sono diminuite del 30%, passando da 143.783 a 100.661, mentre quelle più lunghe sono aumentate del 53%, passando da 2.585 a 3.954.

Facile trarre le conseguenze: l’aumento della carcerazione nel nostro Paese non dipende dall’aumento dei reati (che sono, anzi, in netta diminuzione) né – se non in misura ridotta – da inasprimenti delle pene edittali[7], bensì dagli orientamenti dei giudici, coerenti con «l’affermarsi di una nuova filosofia morale, di un determinato "punto di vista" sul bene e sul male, sul lecito e sull’illecito, sul meritevole di inclusione o di esclusione», come ebbe a scrivere, anni fa, Massimo Pavarini[8].

Superfluo aggiungere che i clienti del carcere, nonostante i rumors di ricorrenti indagini per tangentopoli nazionali o locali, sono oggi gli stessi di cinquant’anni fa, cioè, principalmente, barbari, marginali e ribelli[9], mentre le carcerazioni di “colletti bianchi” – salvo qualche misura cautelare (peraltro non sempre giustificata) – sono sostanzialmente sconosciute[10].  

3. I punti di sofferenza della giustizia penale: una ricognizione

I numeri e i dati dicono molto, ma non tutto. Altrettanto, e ancor più, dicono le sentenze, le ordinanze e le loro motivazioni. Di esse, dunque, conviene occuparsi. Con una precisazione, ovvia e tuttavia doverosa. La magistratura è un potere diffuso e plurale (come vuole l’art. 101, comma 2, Costituzione, secondo cui ogni giudice è soggetto soltanto alla legge) e, conseguentemente, la giurisdizione non è un pianeta omogeneo. Coesistono in essa – come già ricordato – scelte e orientamenti diversi, che bisogna cogliere evitando generalizzazioni improprie. Ma è possibile (e doveroso) individuare tendenze e segnali, particolarmente evidenti in quei settori sensibili a cui faceva riferimento, già molti anni fa, Achille Battaglia allorché ammoniva che «per comprendere veramente che cosa accada in una società durante un periodo di crisi poco giova l’esame delle sue leggi, e molto di più quello delle sue sentenze. Le leggi emanate in questi periodi ci dicono chiaramente quali siano state le volontà del ceto politico dirigente, i fini che esso si proponeva di raggiungere, le sue aspirazioni e le sue velleità. Le sentenze ci dicono anche quale sia stata la sua forza, o la sua capacità politica, e in che modo la società abbia accolto la sua azione, o abbia resistito»[11]. Si tratta – come è evidente – dei settori del conflitto sociale, dell’opposizione radicale, delle pratiche sgradite al potere e al pensiero dominante. In essi i destinatari dell’intervento penale sono principalmente i ribelli, cioè coloro che contestano in vario modo, in tutto o in parte, l’ordine costituito: spesso, oggi come ieri, soggetti a istruttorie sterminate, lunghe carcerazioni, imputazioni mirabolanti seguite, anni o decenni dopo, da ampie assoluzioni dibattimentali[12].

Ma andiamo con ordine.

Il tema è il rapporto tra processo penale e garanzie e gli snodi principali sono noti: le misure cautelari, i confini della responsabilità penale, la tassatività delle fattispecie, il quantum di prova richiesto per condannare (o per emettere provvedimenti restrittivi), il rigore della motivazione, la dilatazione del processo oltre i suoi obiettivi di accertamento di fatti specifici. In ciascuno di questi snodi ci sono state e ci sono rilevanti torsioni e forzature di sistema (che vanno, cioè, oltre i fisiologici errori o strappi di singoli)[13].

4. Le misure cautelari, ovvero controllare e punire

Cominciamo dalla libertà personale, la cui inviolabilità, proclamata dall’art. 13 della Carta, è spesso vanificata da prassi consolidate che vanno in tutt’altra direzione[14]. In parte, tali prassi sono indotte dalla lentezza generalizzata dei processi e dall’impossibilità di arrivare in tempi ragionevoli all’applicazione della pena, con conseguente spinta – soprattutto nei casi di arresto in flagranza e di reati di strada – alla trasformazione della custodia cautelare in pena anticipata (in violazione della presunzione di non colpevolezza e, talora, in contrasto con il giudicato finale). Ma a ciò si affiancano fenomeni ancor meno comprensibili in una prospettiva costituzionalmente corretta: dall’uso delle misure cautelari come strumenti per incentivare la confessione o la collaborazione processuale (oggetto di ripetute analisi e denunce fin dall’epoca di Tangentopoli[15]) a una diffusa sottovalutazione culturale del bene della libertà personale, espressa finanche in motivazioni a dir poco paradossali[16].

E non c’è solo questo:

- tra le finalità delle misure cautelari, la fa sempre più da padrona, quantitativamente e qualitativamente, quella di cui alla lett. c dell’art. 274 del codice processuale, finalizzata al contenimento della pericolosità sociale, con l’effetto di trasformare l’intervento cautelare in una sorta di misura di sicurezza provvisoriamente applicata[17] o di misura di polizia tout court[18];

  • nei procedimenti relativi al conflitto sociale (e non solo), l’individuazione dei destinatari delle misure avviene, in misura elevata, in base al principio del tipo d’autore la cui pericolosità è tratta, per di più, da elementi incontrollati come segnalazioni di polizia risalenti anche a molti anni addietro (senza verifica dell’esito dei conseguenti processi)[19];
  • il principio secondo cui la custodia cautelare in carcere o gli arresti domiciliari non possono essere applicati quando è prevedibile che, in caso di condanna, sarà concessa la sospensione condizionale della pena (art. 275, comma 2-bis, cpp) è, complice la frequente riduzione della motivazione a formula di stile[20], tra i più disapplicati del sistema. Esemplare è il caso della misura della custodia in carcere per resistenza e violenza a pubblico ufficiale applicata, con ordinanza 20 gennaio 2012 del giudice per le indagini preliminari di Torino, a 25 imputati per i già ricordati scontri avvenuti in Val Susa il 27 giugno e il 3 luglio 2011 in occasione dello (e in reazione allo) sgombero del cantiere della Maddalena[21]: come era prevedibile nonostante il clamore degli inquirenti e dei media, all’esito del giudizio di cassazione (definito con sentenza 27 aprile 2018), ben quattro imputati sono stati assolti per ragioni di merito e otto hanno beneficiato della sospensione condizionale della pena, mentre per dieci è stato disposto un nuovo giudizio per una più compiuta valutazione circa la sussistenza, con riferimento ad alcune delle imputazioni, della causa di non punibilità di cui all’art. 393-bis cp (che sussiste allorché «il pubblico ufficiale abbia dato causa al fatto, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni»)[22];
  • le misure cautelari non detentive sono aumentate a dismisura e, lungi dal porsi come alternative alla custodia in carcere (secondo la loro ratio originaria), si sono trasformate in misure applicate in casi in cui mai si farebbe ricorso al carcere, con conseguente aumento dell’area della riduzione della libertà personale (e, spesso, con un’afflittività sproporzionata e priva di ogni connessione con i reati contestati[23]).

5. L’uso improprio della giustizia penale

Superfluo dire che quello della libertà personale non è l’unico settore di sofferenza della giustizia penale. Particolarmente rilevante, a fianco, è – tra gli altri – quello della dilatazione di fatto dell’area della responsabilità:

  • l’estensione del concorso di persone nel reato sta diventando un classico: in alcuni campi specifici (come il concorso esterno in associazione mafiosa, già di per sé carente dei necessari requisiti di tipicità) ma, soprattutto, nei processi relativi al conflitto sociale in cui si assiste spesso – sia in sede cautelare che nel giudizio di merito – ad affermazioni di responsabilità dei partecipanti a manifestazioni nel corso delle quali sono stati commessi reati di resistenza o violenza a pubblico ufficiale, pur in assenza di specifiche condotte individuali antigiuridiche[24]. L’impostazione sottostante a questo orientamento, ineccepibile in caso di accertato accordo tra i manifestanti per aggredire le forze di polizia, si fonda invece, nel caso in cui l’intenzione comune ai dimostranti (risultante dall’espressa rivendicazione dei protagonisti e/o da fatti concludenti) sia solo quella di compiere azioni dimostrative o di protesta, su una sorta di proprietà transitiva estranea al diritto penale che viola il principio del carattere personale della responsabilità, introduce nel sistema un’anomala “responsabilità da contesto”[25] e dilata il potere discrezionale di polizia e pubblici ministeri nella scelta di chi perseguire e di chi lasciare indenne nella moltitudine dei manifestanti;
  • si moltiplicano, sempre in tema di conflitto sociale, interpretazioni nelle quali il codice penale viene anteposto, nella gerarchia delle fonti, alla Costituzione. È il caso delle contestazioni dei reati di resistenza o violenza a pubblico ufficiale e di violenza privata nel corso di manifestazioni di piazza o di picchetti in occasione di scioperi in cui viene indicata, come elemento costitutivo del reato, la «minaccia implicita determinata dal numero di persone schierate»[26], espressione che sembra evocare la possibilità di manifestazioni o picchetti realizzati da una sola persona (sic!), così vanificando diritti fondamentali costituzionalmente garantiti[27];
  • sempre più frequente è il ricorso a contestazioni palesemente abnormi, effettuate per stigmatizzare i fatti e realizzare un surplus di criminalizzazione degli autori, più che per darne una qualificazione giuridica tecnicamente corretta. Il fenomeno ha, nella sua versione recente, un inizio preciso: la variante romana del processo “7 aprile”, nella quale, il 30 marzo 1981[28], venne emessa – preceduta da alcuni mandati di cattura ‒ ordinanza di rinvio a giudizio nei confronti di diversi esponenti dell’autonomia padovana, tra l’altro, per il delitto di insurrezione armata contro i poteri dello Stato (art. 284 cp), reato contestato in epoca repubblicana solo in due precedenti occasioni (sempre senza riscontri dibattimentali)[29] e la cui sussistenza sarà successivamente esclusa – com’era facile prevedere – sia dalla Corte d’assise d’appello di Roma sia, in via definitiva, dalla Corte di cassazione. Ma la strada era tracciata e sarebbe stata seguita in molte altre eterogenee situazioni. Anche qui, solo alcuni esempi alla rinfusa: la riscoperta, in occasione delle manifestazioni del luglio 2001 contro il G8 di Genova, del delitto di devastazione (applicato in luogo del ben meno grave danneggiamento aggravato)[30] e la sua successiva utilizzazione a man bassa[31]; la contestazione operata dalla Procura di Locri al sindaco di Riace, Domenico Lucano, del delitto di associazione per delinquere «allo scopo di commettere un numero indeterminato di delitti (contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica e il patrimonio)» orientando i progetti di accoglienza finanziati dallo Stato «verso il soddisfacimento di indebiti e illeciti interessi patrimoniali privati» (con criminalizzazione non di singoli fatti, ma dell’intero progetto di accoglienza realizzato nel comune dei Bronzi); l’invenzione, da parte della Procura della Repubblica di Ragusa, del delitto di violenza privata a carico del comandante della nave “Open Arms”, reo di avere rifiutato di consegnare 218 naufraghi raccolti in mare alla Guardia costiera libica e di essersi diretto verso il porto di Pozzallo, «costringendo così le autorità italiane a concedere l’approdo della nave in territorio italiano»[32]; la fantasiosa contestazione di traffico illecito di rifiuti mossa dalla Procura di Catania (con l’avallo del Tribunale) ai responsabili della nave “Aquarius” di Medici senza frontiere e Sos Méditerranée per avere «qualificato, conferito e smaltito come rifiuti solidi urbani o speciali non pericolosi indumenti contaminati indossati da extracomunitari, scarti degli alimenti somministrati agli stessi e materiali sanitari utilizzati a bordo per l’assistenza medica»[33]. Una segnalazione particolare, in questo elenco, merita la contestazione mossa, con ordinanza cautelare 5 dicembre 2013, a quattro attivisti della Val Susa dei delitti di «attentato per finalità terroristiche» (art. 280 cp) e di «atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi» (art. 280-bis cp) in relazione a un “assalto” al cantiere della Maddalena realizzato mediante il superamento delle reti e l’incendio di un compressore da parte di alcuni, mentre gli altri impedivano l’intervento degli operai e degli agenti di polizia con il lancio di artifici esplosivi e incendiari, senza lesioni di sorta per alcuno. Evidenti i reati di danneggiamento aggravato e di violenza a pubblico ufficiale, ma cosa c’entra il terrorismo?[34]. La sorte comune di queste operazioni è stata prevalentemente (e sarà, con ogni verosimiglianza, in futuro) lo sgonfiamento in sede dibattimentale (o di controllo di merito), ma i loro effetti sono stati (e sono) numerosi e devastanti, in termini – volta a volta – di modifica delle regole sulla competenza territoriale, di custodie cautelari prolungate in condizioni di isolamento, di possibilità di procedere a intercettazioni telefoniche altrimenti non consentite, di massacro mediatico degli imputati, di condizionamento dei giudici (spinti da processi psicologici automatici, seppur inconsci, ad applicare, nel momento in cui escludono il delitto, livelli di pena più elevati del consueto per i reati residui) e via seguitando;
  • non di rado, soprattutto nei procedimenti contro i cosiddetti “antagonisti”, la struttura e gli elementi costitutivi del reato associativo vengono affrontati con una disinvoltura incurante della logica e delle stesse caratteristiche politiche dei soggetti inquisiti[35] mentre, parallelamente, il processo si dilata oltre i suoi obiettivi di accertamento (e di eventuale sanzione) di fatti specifici, trasformandosi in una sorta di indagine permanente, senza luogo né tempo, anche grazie ad accorgimenti e forzature come i ritardi nella iscrizione nei registri di reato (con conseguente venir meno dei termini per le indagini). L’obiettivo – tipicamente di polizia[36] – non è, all’evidenza, quello di accertare la responsabilità di specifici imputati per specifici fatti, ma quello di mantenere un monitoraggio investigativo continuo su un’area politica, il cui risultato potrà eventualmente essere utilizzato successivamente in altri processi[37].

 

6. Quale responsabilità per la cultura giuridica progressista?

Le forzature sin qui esposte (tutt’altro che esaustive) sono – lo si ripete – una parte soltanto della realtà, ma il loro perdurare e la loro estensione mostrano che il sogno di una generalizzata democratizzazione della giustizia penale è rimasto tale.

Ciò è accaduto per una pluralità di ragioni: per il permanere di antiche incrostazioni dure a morire, perché lo status sociale dei magistrati ne condiziona le scelte e gli orientamenti, perché il pensiero dominante (a destra come a sinistra) è diventato in questi anni sempre più intollerante e forcaiolo[38], perché un diffuso corporativismo elitario ha prodotto tra i magistrati derive reazionarie e antigarantiste[39]. Fin qui, nulla di nuovo sotto il sole, se non la presa d’atto che la cultura giuridica progressista (e, in essa, quella di Magistratura democratica) non è riuscita a incidere più di tanto sul corpo sociale e sul pensiero diffuso di giudici e pubblici ministeri. Tuttavia, se ci si fermasse a questa costatazione, l’analisi sarebbe parziale e sostanzialmente consolatoria.

Alcune delle anomalie e delle cadute di garanzie evidenziate, infatti, non solo sono ascrivibili a pubblici ministeri e giudici gravitanti nell’area progressista della magistratura, ma affondano le radici nella cultura – pur malamente interpretata – di Magistratura democratica. Anche qui mi limito, per ragioni di spazio, a qualche spunto (su cui è auspicabile l’apertura di un confronto). Due in particolare:

  • l’interventismo giudiziario è inscritto nella storia e nella cultura di Magistratura democratica e corrisponde alla convinzione che la rimozione degli ostacoli all’uguaglianza dei cittadini predicata dall’art. 3 capoverso della Carta, pur avendo la sua sede naturale nel settore civile, passa anche attraverso un esercizio puntuale e rigoroso dell’azione penale. Ciò è stato necessario (ed evidente) soprattutto negli anni in cui l’inerzia delle procure di fronte ai poteri forti era la regola, al punto da indurre un osservatore misurato come Stefano Rodotà a definire la Procura di Roma “porto delle nebbie”, e ha prodotto risultati positivi di grande rilievo. Senza questa concezione non ci sarebbero stati molti processi in materia di corruzione politica, di mafia, di terrorismo, di tutela della salute sui luoghi di lavoro. E senza i “pretori d’assalto” la giurisdizione non avrebbe neppure tentato di affrancarsi dal ruolo tradizionale di strumento del potere. Di più, un sano interventismo giudiziario (espressione inevitabile, a ben guardare, del principio di obbligatorietà dell’azione penale) non comporta di necessità eccessi o strappi alle regole, e anzi si legittima proprio con un rigoroso garantismo. E tuttavia, guardando alla vicenda giudiziaria degli ultimi decenni con occhi sgombri da pregiudizi, è agevole cogliere come, sull’onda di questo interventismo, molti strappi sono stati (e sono) commessi, soprattutto da quando – complice la sindrome della cittadella assediata, determinata dalla lunga stagione del berlusconismo – si è ingenerata tra i magistrati la convinzione che le garanzie processuali siano dei trabocchetti e dei cedimenti a chi mal tollera il controllo di legalità ed è venuta meno la disponibilità al confronto permanente con l’opinione pubblica[40]. L’accantonamento di questi due altri capisaldi della cultura di Magistratura democratica (il garantismo e il riferimento al “punto di vista esterno”) ha prodotto, talora, un interventismo senza freni in cui il doveroso esercizio dell’azione penale si è trasformato in un panpenalismo controproducente, la cultura del risultato ha prevalso su quella della prova[41] e si è verificato un continuum tra polizia, pubblici ministeri e giudici della cautela che ha fatto venir meno il ruolo di controllo proprio della magistratura[42];
  • l’affermazione della politicità e della necessaria partecipazione dei magistrati alla vita civile del Paese[43] ‒ altro cavallo di battaglia di Magistratura democratica – ha contribuito a cambiare la magistratura, facendole cogliere gli interessi materiali sottostanti ai propri interventi e provocandone l’uscita dalle secche di un formalismo giuridico incompatibile con la complessità della società contemporanea. Senza questo passaggio, il dilemma posto da Giuseppe Maranini negli anni sessanta – «magistrati o funzionari?» – si sarebbe risolto con il perdurare della connotazione funzionariale del corpo giudiziario e la rivoluzione costituzionale non avrebbe avuto accesso alle aule di giustizia (come era accaduto, per oltre un decennio, dopo l’entrata in vigore della Carta). Aggiungo che questa consapevolezza e questo atteggiamento restano più che mai necessari in epoca di pensiero unico. E tuttavia, quando sono venuti meno il doveroso autocontrollo e la necessaria tensione culturale, si sono prodotti alcuni degli effetti negativi in precedenza segnalati: l’interpretazione del processo penale come lotta a fenomeni criminali anziché come luogo di accertamento garantito di responsabilità personali; un sostanzialismo che ha portato al soccombere (anche in punto tutela della libertà personale) i diritti dei singoli rispetto a un preteso interesse generale; l’assunzione, da parte di molti magistrati (soprattutto inquirenti), di un ruolo improprio di analisti di fenomeni sociali (quando non, addirittura, di opinion maker con la pretesa di indicare ai movimenti sociali o ai pubblici amministratori regole di comportamento efficace e opportuno); la sovrapposizione di analisi sociopolitiche alla ricerca di prove rigorose e così via.  

Tutto questo non sta nella cultura e nel progetto di Magistratura democratica, e tuttavia si è verificato e si verifica. La questione è centrale per comprendere il passato, ma anche per guidare il futuro.

[1] I processi per la Tangentopoli del 1992-93 sono stati indicati – e continuano ad esserlo – come segnali di parità di trattamento dei cittadini nel processo. Il rilievo è indubbiamente esatto, anche se è bene non enfatizzare. È di uno dei pubblici ministeri protagonisti di “Mani pulite”, Piercamillo Davigo, la puntualizzazione che, a partire dal 1994, il numero dei delitti di corruzione e/o concussione denunciati è tornato al livello del 1991 e chei conseguenti processi hanno avuto un andamento a macchia di leopardo, con realtà come la Calabria in cui, nei vent’anni a cavallo del nuovo millennio, ci sono state solo tre condanne definitive per corruzione (P. Davigo e G. Mannucci, La corruzione in Italia. Percezione sociale e controllo penale, Laterza, Roma-Bari, 2007).

[2] Anche in questo caso il fatto è pacifico e importante, ma non va enfatizzato, se è vero che una rilevazione effettuata nel circondario del Tribunale di Firenze (non certo l’ultimo in termini di sensibilità nel settore) con riferimento ai primi anni del millennio ha accertato che solo nel 15-20% dei casi di infortunio mortale il processo penale arriva alla fase del dibattimento, e solo nel 2-3% dei casi si conclude con sentenza di condanna (così B. Deidda, Storia e prospettive dell’intervento giudiziario a tutela della salute in fabbrica, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 2/2012).

[3] Il salto qualitativo dall’epoca in cui tutti i grandi processi di mafia si concludevano (quando erano iniziati) con assoluzioni per insufficienza di prove è stato epocale, anche se non sono mancate le omissioni (penso, per esempio, al mancato tempestivo accertamento delle ragioni reali della mancata perquisizione del covo di Riina dopo l’arresto), che proiettano tuttora ombre sinistre su una stagione antimafia.

[4] Il riferimento è alla richiesta 7 dicembre 2018 del Tribunale di Catania – sezione reati ministeriali – di autorizzazione a procedere contro il ministro dell’interno Matteo Salvini (vds. www.questionegiustizia.it/doc/trib_catania_decreto_salvini.pdf) e all’ordinanza 2 luglio 2019, con cui la giudice per le indagini preliminari di Agrigento ha respinto la richiesta di convalida dell’arresto di Carola Rackete (leggibile in www.questionegiustizia.it/doc/gip_Ag_ordinanza_rackete_rigetto_convalida.pdf).

[5] Il dato è, in verità, “drogato”dagli effetti dell’indulto concesso con il dPR 22 dicembre 1990, n. 394, ma abbastanza prossima è la rilevazione del 31 dicembre dell’anno precedente, in cui le presenze erano 30.421.

[6] L’area della contenzione negli ultimi anni svela la sua ben più ampia entità se si tiene conto delle misure alternative alla detenzione (passate da 18.393 nel 1996 a 54.682 nel 2018) e, soprattutto, delle condanne la cui esecuzione è sospesa in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza, ai sensi dell’art. 656 cpp (come modificato con legge 27 maggio 1998, n. 165), il cui numero non è noto ma, secondo le stime più accreditate, è prossimo a 80.000. I condannati in carcere e quelli in misura alternativa o in attesa di definizione del tipo di pena da scontare sono dunque, oggi, poco meno di 200.000, pari a più di 3 su 1000 abitanti (compresi vecchi e bambini).

[7] L’inasprimento (eccessivo e irrazionale) delle pene edittali è un fenomeno in atto, ma la situazione è tuttora (anche se è difficile dire fino a quando) incomparabile con quella del 1964, quando ancora non era possibile il bilanciamento tra attenuanti e aggravanti a effetto speciale, la continuazione era applicabile esclusivamente tra reati della stessa specie e la sospensione condizionale della pena era concedibile solo fino a un anno di pena (situazione modificata, con un effetto di riduzione della penalità senza precedenti, solo dieci anni dopo con la l. 7 giugno 1974, n. 220).

[8] M. Pavarini, Processi di ricarcerizzazione nel mondo. Ovvero il dominio di un «certo punto di vista», in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, nn. 2-3/2004, p. 415.

[9] Al riguardo, mi permetto di segnalare che tali categorie sono significativamente richiamate nel titolo del mio Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli (Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2015).

[10] Un dato per tutti. Il 31 dicembre 2017 i detenuti per peculato, corruzione, concussione, malversazione e altri delitti di pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione erano 370 su 57.608, pari allo 0,6%. Una cifra insignificante, soprattutto se si tiene conto che rientrano in tale categoria – e sono la maggioranza – le corruzioni di pochi euro dell’ultimo impiegato dell’ufficio comunale del commercio o reati come quelli dei cosiddetti “furbetti del cartellino” (che con i delitti dei colletti bianchi hanno assai poco a che vedere). Altrettanto è a dirsi per i reati fiscali o economici (a cominciare dalla bancarotte). Non amando il carcere non me ne dolgo, ma non posso fare a meno di sottolineare il carattere di classe della detenzione, tanto più evidente se si considera che i crimini dei colletti bianchi «producono maggiore sofferenza e morte di tutti i criminali comuni messi insieme» (così A. Cottino, «Disonesto ma non criminale». La giustizia e i privilegi dei potenti, Carocci, Roma, 2005, p. 16).

[11] A. Battaglia, I giudici e la politica, Laterza, Bari 1962, p. 3.

[12] Queste modalità sono ricorrenti e caratterizzate da una sintomatica ripetitività sin dall’epoca liberale. Illuminante – e drammaticamente corrispondente all’attualità – è la ricostruzione dei grandi processi di fine Ottocento contro gli anarchici effettuata da R. Canosa, Storia della criminalità in Italia 1845-1945, Einaudi, Torino, 1991, pp. 203 ss. Sul punto, mi permetto rinviare anche al mio Prove di paura, op. cit.

[13] Nella esemplificazione, farò particolare riferimento a una vicenda giudiziaria, quella della repressione del movimento “No TAV” in Val Susa, che per la sua omogeneità territoriale e per l’ampio arco temporale (dal 2011 ad oggi) assume le caratteristiche di un vero “caso di scuola”. In tale vicenda, nell’arco di otto anni, gli imputati sono stati poco meno di 2.000 (con una punta di 327, quasi uno al giorno, nel 2011) e le misure cautelari irrogate superano ampiamente il centinaio (con una stima prudenziale, non essendo mai stato fatto un conteggio completo). Per una più compiuta analisi della vicenda (e per ampi stralci di provvedimenti) rinvio a L. Pepino e M. Revelli, Non solo un treno... La democrazia alla prova della Val Susa, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2012 e a L. Pepino, Come si reprime un movimento: il caso Tav. Analisi e materiali giudiziari, Intra Moenia, Napoli, 2014.

[14] Scrive Paolo Ferrua, non certo pregiudizialmente ostile a giudici e giurisdizione: «Sarebbe arbitrario ipotizzare una generale tendenza all’abuso nel pronunciare sentenze di condanna. Ma si può ben parlare, invece, di un abuso dei provvedimenti coercitivi e, in specie, della custodia cautelare; il che, naturalmente, non esclude che in molti casi le misure siano correttamente applicate. L’abuso non riguarda una particolare tipologia di reati o di imputati, ma colpisce a destra e a manca, ricchi e poveri, sebbene a soggiornare più a lungo in carcere siano spesso gli emarginati, i quali, per le limitate risorse difensive, hanno di fatto minore accesso alle misure alternative» (P. Ferrua, Misure cautelari e tutela dell’ordine pubblico, in Associazione Giuristi democratici (a cura di), Conflitto, ordine pubblico, giurisdizione: il caso TAV, Giappichelli, Torino, 2014).

[15] Sul punto, mi permetto di richiamare le osservazioni da me svolte, all’epoca, nella relazione introduttiva del X Congresso nazionale di Magistratura democratica (Chianciano, 29 ottobre-1 novembre 1993), Legalità e diritti di cittadinanza nella democrazia maggioritaria (in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 2/1993, pp. 237 ss.). Merita segnalare che, stando ai dati disponibili (forniti dalla Procura di Milano in occasione del convegno sul processo penale organizzato dalla Commissione giustizia della Camera il 9 e 10 luglio 1993), nei processi di Tangentopoli allora in corso a Milano le persone sottoposte a indagini erano 880. Di esse 336, pari al 38%, erano state colpite da misure cautelari e 10 avevano subito una custodia in carcere superiore a 100 giorni.                  

[16] Valga, per tutte, quella – contenuta in alcune ordinanze del “Tribunale della libertà” di Torino dell’8 febbraio 2012, in procedimenti relativi agli scontri tra manifestanti e forze di polizia avvenuti in Val Susa, a Chiomonte, il 27 giugno e il 3 luglio 2011 ‒ secondo cui: «la custodia cautelare in carcere è il minimo presidio idoneo a fronteggiare in modo adeguato le consistenti ed impellenti esigenze cautelari» (sic!). Aggiungo un’altra perla: risale alla primavera del 2012 il decreto del gip di Agrigento che ha archiviato una denuncia per un prolungato trattenimento coatto – non previsto dalla legge – di alcuni migranti nel Centro di soccorso e prima accoglienza di Lampedusa con la sorprendente motivazione che «la mancata previsione di un termine massimo di permanenza e di un controllo da parte dell’autorità giurisdizionale per la stessa permanenza, unitamente agli oggettivi problemi organizzativi e di sicurezza legati al trasferimento in altre strutture dei cittadini stranieri ed all’adozione nei loro confronti dei provvedimenti amministrativi previsti dalla legge, non consentono di ravvisare gli estremi di alcun reato nei fatti portati a conoscenza di questo Ufficio». Detto in altri termini: la mancata previsione di termini e di controlli legittima una detenzione di fatto senza limiti di tempo. 

[17] L’efficace espressione è di P. Ferrua, Misure cautelari, op. cit.

[18] Ciò è, a volte, esplicitato, quasi con candore, negli stessi provvedimenti applicativi. È il caso dell’ordinanza 20 gennaio 2012 del gip di Torino, in cui viene attribuita alla misura applicata una valenza di diretta e immediata tutela dell’ordine pubblico (conseguente alla individuazione del movimento No TAV e della sua azione di protesta come pericoli incombenti): «I lavori per la costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione proseguiranno almeno altri due anni; pertanto, non avrà fine, a breve termine, il contesto in cui gli episodi violenti sono maturati; per altro, il movimento No TAV ha pubblicamente preannunciato ulteriori iniziative per contrastare i lavori».

[19] Si è arrivati persino ‒ in una ordinanza del gip di Torino del 20 gennaio 2012 ‒ all’individuazione della pericolosità di un indagato incensurato (ancorché gravato da tre denunce, due delle quali risalenti a oltre sette anni addietro) in base alla circostanza che «nel 1970» ‒ cioè 31 anni prima del reato in corso di accertamento ‒ «è contiguo ai movimenti della sinistra extraparlamentare “Lotta continua” e “Potere operaio” e partecipa a una manifestazione non preavvisata all’autorità di pubblica sicurezza, promossa dai predetti movimenti». Si noti che quell’imputato sarà condannato, nel giudizio di primo grado, a 2 mesi di reclusione.

[20] L’uso, nelle motivazioni, di espressioni tautologiche o suggestive in luogo della puntuale esposizione degli elementi di prova si accompagna spesso alla pubblicazione integrale e indiscriminata di interrogatori, deposizioni e/o intercettazioni (magari in centinaia di pagine).

[21] Le forzature insite in tale misura erano evidenti sin ab initio anche se, dato il clima imperante di caccia alle streghe, caddero nel disinteresse dei giuristi (con poche eccezioni, tra cui annovero il mio Gli arresti non tornano, Il Manifesto, 29 gennaio 2012). Non mancò, peraltro di segnalarle la Cassazione, investita del ricorso di due imputati. Nella sentenza 10 maggio-7 settembre 2012 (di annullamento della misura nei confronti dei due ricorrenti), si stigmatizza infatti l’uso, nell’ordinanza applicativa, «di affermazioni, rectius, di evidenziazione di circostanze che appaiono sovradimensionate ed eccedenti rispetto ai fatti esposti, quasi funzionali a sollecitare una diversa dimensione giuridica rispetto a quella oggetto dell’imputazione». Non così la sezione piemontese di Magistratura democratica che – caso forse unico nella sua storia – ritenne di intervenire a sostegno della misura con un comunicato in data 1 marzo 2012, in cui si legge che «l’andamento delle indagini, l’ordinanza cautelare del gip e le decisioni del tribunale del riesame dimostrano che non sono fondate le critiche secondo cui la magistratura torinese avrebbe avviato una “operazione” che intende contrastare il movimento No TAV e si sarebbe mossa con sudditanza ad esigenze di ordine pubblico, mentre consentono di affermare che essa ha operato in modo trasparente all’interno di una realtà difficilissima al fine di accertare responsabilità individuali per fatti di reato specifici, così adempiendo al mandato che la Costituzione affida alla giurisdizione».

[22] Un altro recente caso esemplare è quello di Domenico Lucano, già sindaco di Riace, sottoposto, nell’ottobre 2018, alla misura degli arresti domiciliari per i reati di cui agli artt. 353-bis cp e 12, comma 1, testo unico immigrazione, le cui pene edittali sono compatibili con la sospensione condizionale, resa praticamente certa, in caso di (tutt’altro che pacifica) condanna, dalle caratteristiche dei fatti (assegnazione diretta dell’appalto per la raccolta rifiuti e tentativo di favorire l’ingresso in Italia di un cittadino straniero senza titolo, commessi entrambi, anche in ipotesi accusatoria, in assenza di ogni interesse personale) e dalla personalità dell’imputato (amministratore pubblico del tutto incensurato e universalmente stimato). Tutto ciò è liquidato dal gip con la motivazione – se così può essere definita – che «allo stato può tranquillamente escludersi che al Lucano (seppur incensurato) possa essere concesso, in sede di prevedibile condanna, il beneficio previsto dagli artt. 163 e ss. codice penale» (sic!). Merita aggiungere che anche il seguito della vicenda cautelare di Lucano è un compendio impressionante di anomalie: l’applicazione, in luogo degli arresti domiciliari, della misura del divieto di far rientro a Riace (in atto, mentre scrivo, da dieci mesi nonostante il venir meno della sua qualità di sindaco che, sola, avrebbe potuto integrare l’asserito pericolo di commissione di nuovi reati della stessa specie), la ripetuta reiezione delle istanze di revoca della misura con formule di stile, la sostanziale elusione della sentenza della Cassazione di annullamento con rinvio della misura originaria.

[23] È il caso, per esempio, dell’applicazione dell’«obbligo di presentazione quotidiana alla polizia giudiziaria e, in particolare, al Commissariato di polizia competente per territorio in relazione al luogo di domicilio» ‒ distante da tale domicilio decine di km, pur esistendo in loco una stazione di carabinieri ‒ «tutti i giorni due volte al giorno» in relazione a un’ipotesi di violenza privata e resistenza commesse, in ipotesi accusatoria, in occasione di una protesta contro il regime turco di Erdogan (gip Torino, ordinanza 14 luglio 2016). Per un caso analogo, vds. C. Novaro, Repressione giudiziaria e movimenti. I processi, i media, la questura, in Volerelaluna, 24 luglio 2019 (www.volerelaluna.it/societa/2019/07/24/repressione-giudiziaria-e-movimenti-i-processi-i-media-la-questura).

[24] Tra i molti esempi possibili, ne cito due, ancora relativi alla repressione del movimento No TAV in Val Susa: «È ragionevole ritenere che nel caso in cui la G. avesse avuto intenzione di limitarsi a manifestare pacificamente, non appena la manifestazione ha assunto carattere violento si sarebbe allontanata» (Tribunale del riesame di Torino, 22 settembre 2011); «È superflua l’individuazione dell’oggetto specifico che ha raggiunto ogni singolo appartenente alle forze dell’ordine rimasto ferito, come lo è l’individuazione del manifestante che l’ha lanciato, atteso che tutti i partecipanti agli scontri devono rispondere di tutti i reati (preventivati o anche solo prevedibili) commessi in quel frangente, nel luogo dove si trovavano» (gip Torino, 20 gennaio 2012). Per altri, più risalenti esempi, rinvio al mio La giustizia, i giudici e il “paradigma del nemico”, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 4/2006, pp. 862-863.

[25] La definizione è tratta da M. Pelissero, Concorso di persone nel reato e responsabilità da contesto, in Associazione Giuristi democratici (a cura di), Conflitto, ordine pubblico, giurisdizione, op. cit.

[26] L’espressione, tratta dall’ordinanza 14 luglio 2016 del gip di Torino, citata in precedenza nella nota 23, ricorre in numerose ordinanze cautelari in tema di picchetti di fronte a fabbriche milanesi ed emiliane.

[27] Cfr., al riguardo, i lucidi rilievi svolti, già all’inizio degli anni ottanta, da G. Neppi Modona in Conflittualità operaia e repressione penale: il “delitto” di picchettaggio , in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 1/1982, pp. 67 ss.

[28] Ampi stralci dell’ordinanza possono leggersi in L. Pepino, Il delitto di insurrezione armata tra mito e realtà, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 3/1982, pp. 649-652.

[29] Il riferimento è ai moti di Abbadia San Salvatore (piccolo centro alle pendici del monte Amiata) all’indomani dell’attentato a Palmiro Togliatti del 18 luglio 1948 e agli scontri avvenuti a San Severo (Foggia) il 23 marzo 1950: nel primo caso, il delitto di insurrezione armata venne escluso nella sentenza di rinvio a giudizio; nel secondo, venne derubricato dalla Corte d’assise nella contravvenzione di radunata sediziosa aggravata (sic!). Le due vicende sono ricostruite in L. Pepino, Il delitto di insurrezione armata, op. cit., a cui si rinvia per riferimenti bibliografici e per un’ampia analisi dell’uso della norma (nella diversa versione del codice Zanardelli) in epoca liberale e fascista, degli elementi costitutivi del reato e degli orientamenti giurisprudenziali al riguardo e su alcune fattispecie affini.

[30] Merita ricordare che, dall’esame delle massime della Cassazione, risulta che, prima di Genova, il delitto di devastazione era stato oggetto di applicazioni limitatissime, con riferimento, essenzialmente, al terrorismo altoatesino, alle rivolte in carcere degli anni settanta e ad alcune “scorrerie” di hooligans

[31] Scorrendo le massime della Cassazione, si ritrova persino il caso di un’ordinanza cautelare del Tribunale di Napoli del 22 ottobre 2008 (annullata dalla Suprema corte) per il delitto di devastazione, ritenuto sussistere nel «ribaltamento di un furgone al fine di impedire il transito di autoveicoli delle forze di polizia».

[32] Per una puntuale ricostruzione della vicenda e per una critica all’impostazione della Procura di Ragusa, cfr. A. Natale, Open Arms: l’avviso di conclusione indagini. Se la disobbedienza diventa violenza…, in questa Rivista online, 12 dicembre 2018, www.questionegiustizia.it/articolo/open-arms-l-avviso-di-conclusione-indagini-se-la-disobbedienza-diventa-violenza_18-12-2018.php.

[33] Sulla vicenda e sull’infondatezza della contestazione (in luogo, a tutto concedere, di quella della contravvenzione di gestione illecita di rifiuti), cfr. G. Amendola, Migranti e traffico illecito di rifiuti, in questa Rivista online, 29 novembre 2018, www.questionegiustizia.it/articolo/migranti-e-traffico-illecito-di-rifiuti_29-11-2018.php.

[34] L’abnormità dell’accusa di terrorismo – fondata sull’asserita idoneità del fatto ad arrecare un grave danno al Paese (con il venir meno della sua immagine, in ambito europeo, di partner affidabile) e sull’affermata attitudine dell’attacco al cantiere a intimidire la popolazione valsusina e/o a costringere i poteri pubblici ad astenersi dalle attività necessarie per realizzare la nuova linea ferroviaria Torino-Lione ‒ è stata evidenziata in modo lapidario dalla Corte di assise di Torino nella sentenza 17 dicembre 2014, che, nell’assolvere gli imputati da tale reato, usa parole di elementare buon senso: «pur senza voler minimizzare i problemi per l’ordine pubblico causati da queste inaccettabili manifestazioni, non si può non riconoscere che in Val di Susa – e a fortiori nel resto del Paese ‒ non si viva affatto una situazione di allarme da parte della popolazione e [dunque] se il contesto in cui maturò l’azione [degli imputati] non era oggettivamente un contesto di particolare allarme, neppure l’azione posta in essere rivestiva una “natura” tale da essere idonea a raggiungere la contestata finalità». Contro tale decisione hanno presentato appello i pubblici ministeri, ma l’insussistenza del reato di terrorismo è stata confermata dalla Corte di assise d’appello di Torino, con sentenza 21 dicembre 2015, e dalla Corte di cassazione, con sentenza 28 marzo-28 settembre 2017 (dopo analoga sentenza 15 maggio-27 giugno 2014, emessa in sede cautelare).

[35] Esemplare di tale tendenza è l’ordinanza del gip di Roma, 26 luglio 2004, L.M. e altri (citata in C. Novaro, I nuovi sovversivi: normativa antiterroristica e reati contro la personalità dello Stato nei processi a carico di anarchici e antagonisti, in Antigone, n. 1/2006, p. 141), che ritiene l’esistenza dell’associazione sovversiva, con una evidente contraddizione in termini, in presenza di «strutture non verticistiche ma collegate tra di loro da un forte vincolo associativo prevalentemente di natura personale e accomunate dalle cosiddette pratiche di attacco al dominio (...) con caratteristiche di imprevedibilità, immediatezza e spontaneismo». Nell’articolo citato, si segnala altresì il frequente utilizzo, ai fini della prova della partecipazione al reato associativo, di «elementi sintomatici di dubbia concludenza quali, ad esempio, i rapporti continuativi con persone ritenute inserite nell’ambito associativo, la partecipazione a manifestazioni di solidarietà nei loro confronti, la presenza a loro processi, insomma, di elementi che fanno riferimento alla storia personale dell’indagato e alle sue scelte politiche più che alla commissione di fatti specifici» (ivi, p. 145). Per altre analoghe contestazioni, rinvio al mio La giustizia, i giudici e il “paradigma del nemico”, op. cit., non senza aggiungere un riferimento alla definizione davanti al Tribunale di Trento, il 27 febbraio 2013, di un procedimento per associazione con finalità di eversione dell’ordine democratico, iniziato con squilli di tromba e misure cautelari, nei confronti di alcuni anarchici locali, con una imputazione in cui si evoca «un vincolo strutturale ed organizzato, in modo ampiamente compatibile con le peculiari caratteristiche dello “spontaneismo anarchico”, attraverso una struttura gerarchica»: l’esito assolutorio del processo dimostra che, nella giurisdizione, il confronto è aperto e non mancano gli anticorpi, ma conferma, quantomeno, una certa disinvoltura nella costruzione delle imputazioni.

[36] Indicativo della torsione dell’intervento giudiziario verso modelli di polizia è, per esempio, la costituzione presso la Procura di Torino, nel gennaio 2010, di un pool preposto ai processi relativi al TAV. La costituzione di tale sezione specializzata, infatti, è avvenuta non già come risposta organizzativa al moltiplicarsi dei procedimenti, ma prima dell’esplodere del conflitto e dei conseguenti reati, in un’ottica evidentemente preventiva.

[37] Emblematica di questo stravolgimento del processo è la testimonianza del difensore di alcuni imputati del processo denominato “Scripta Manent”, definito in primo grado dalla Corte di assise di Torino nello scorso aprile: «Un dato inquietante riguarda il controllo assiduo e continuativo sulla vita dei principali imputati emerso dalle indagini fatte: centinaia di appostamenti, controlli, pedinamenti sui loro spostamenti, ma anche sulla loro vita di tutti i giorni, anni di intercettazioni ambientali e telefoniche, e poi, dopo l’arresto, avvenuto nel settembre 2016, la censura di tutta la posta in entrata e in uscita e, incredibile a dirsi, nuove intercettazioni ambientali in carcere, nei parlatori, per registrare i colloqui con i familiari. Per esemplificare, i due imputati che ho difeso ‒ alla fine assolti da tutte le accuse, dopo una carcerazione durata oltre 2 anni e 7 mesi ‒ sono stati intercettati per alcuni anni tra il 2003 e il 2009 (in particolare tra il 2003 e il 2005 dalla Procura di Bologna e dal 2007 in poi da quella di Torino). Poi, a partire dal giugno 2012 e sino alla data dell’arresto, nel settembre 2016, sono stati nuovamente intercettati per oltre 4 anni di seguito, con una pausa di meno di due mesi tra il gennaio e il marzo 2015, sia telefonicamente che ambientalmente, con microspie posizionate nel loro appartamento da due distinte Procure della Repubblica (Torino e Napoli). Si tratta, in questo ultimo caso, di oltre 35.000 ore di registrazione ambientale, che vanno unite alle altre migliaia di ore delle intercettazioni precedenti, da cui gli inquirenti hanno estratto una sequenza della durata inferiore all’ora, formata da scampoli di dialoghi raccolti uno nel 2004, uno nel 2005, due nel 2013, due nel 2014 e due nel 2015, che, unita a una manciata di intercettazioni telefoniche, è stata utilizzata per avvalorare la tesi accusatoria» (così C. Novaro, in Volerelaluna, 9 luglio 2019, www.volerelaluna.it/societa/2019/07/09/repressione-giudiziaria-e-movimenti-gli-a