Magistratura democratica

La vittima del reato nel processo penale

di Letizio Magliaro
L’attenzione e la cura alle vittime sono al centro di un lungo percorso di civiltà manifestatosi nello sviluppo del diritto penale e processuale, che trova pieno riconoscimento nella nostra Carta costituzionale e al quale le fonti internazionali hanno contribuito in maniera decisiva. Il fatto che la funzione stessa del processo – di garanzia per l’imputato – non possa renderlo il luogo destinato alla piena soddisfazione della vittima non rappresenta una constatazione di impotenza: al contrario, ciò costituisce il punto di partenza di un diverso percorso possibile per una piena tutela delle vittime dei reati.

1. Soggetti deboli e vittime del reato

La categoria dei soggetti deboli non ha, apparentemente, una immediata evidenza giuridica. La definizione non ricorre abitualmente nei testi normativi che pure tutelano soggetti astrattamente riconducibili a tale nozione.

Tuttavia, fuori dalle logiche definitorie, è del tutto evidente che il complessivo disegno costituzionale, solidarista e ugualitario, abbia ben presente l’esistenza di soggetti svantaggiati, in relazione agli specifici ambiti di interesse, e ponga al legislatore e all’interprete la necessità di operare per riconoscere tali soggetti, per offrire loro tutela, per permetterne l’emancipazione inverando il precetto dell’articolo 3, capoverso, della Costituzione.

In tal senso, la dottrina costituzionalistica ha individuato nel collegamento con il principio di uguaglianza il fondamento della tutela dei soggetti deboli.

I due concetti si legano indissolubilmente: un soggetto può dirsi debole solo in quanto “non uguale”. La “debolezza” può essere dunque definita in relazione a due elementi: il principio di uguaglianza e il patrimonio di diritti che è possibile riconoscere al soggetto debole.

Tra i soggetti svantaggiati devono essere ricompresi coloro che sono colpiti da un evento criminoso o comunque dannoso e illecito, in grado di generare non soltanto un pregiudizio di natura patrimoniale o economica, ma anche un senso di perdita e di offesa della propria dignità: è la particolare categoria di soggetti deboli che abitualmente definiamo “vittime”.

A tale categoria è possibile attribuire gli elementi sopra ricordati: da un lato una condizione di “minorità” che li rende diseguali, dall’altro il riconoscimento di diritti (diritto al risarcimento, diritto a essere presente nel corso del procedimento, etc.) rivolti a eliminare o contenere la situazione di diseguaglianza creatasi e anche a dare concretezza ai doveri solidaristici previsti dall’art. 2 della Costituzione.

In realtà, la nozione di vittima può assumere un significato più ampio, potendo essere riferita a qualsiasi soggetto danneggiato o che abbia subito un torto da altri, ma anche da eventi naturali, che percepisce se stesso come vittima con la conseguenza di avere necessità di aiuto, assistenza e riparazione, ovvero che viene riconosciuto come vittima dalla collettività e come tale è o dovrebbe essere assistito da agenzie o strutture – pubbliche o private – di supporto.

Ma se le vittime, in quanto soggetti deboli, devono suscitare una generale attenzione alla luce del precetto costituzionale, tuttavia è proprio nell’ambito del diritto e del processo penale che la loro esistenza assume una particolare visibilità e permette alcune considerazioni da parte del giudice che tali esistenze intercetta nel processo.

In questo senso, si può poi osservare come, da ultimo, sia sorto nel dibattito pubblico un particolare e specifico interesse alle sorti delle vittime, interesse che trova riscontro e anche amplificazione nello spazio dedicato dai media a tali destini. Particolari categorie di vittime, i minori, le donne oggetto di violenze fisiche e sessuali, ma anche le vittime di reati stradali, sono poste quotidianamente alla nostra attenzione, anche mediante l’impatto emotivo suscitato dalla narrazione delle loro storie tramite i mezzi di comunicazione.

Tale interesse si manifesta, poi, in una particolare attenzione alle decisioni dei giudici nei processi che coinvolgono queste tipologie di vittime. L’interesse riservato alle sentenze emesse in simili procedimenti non riguarda solo l’esito più specifico, vale a dire relativo all’accertamento di responsabilità dell’imputato, ma si estende alla valutazione di come quelle sentenze, e dunque quei processi, abbiano effettivamente soddisfatto le esigenze delle vittime: pertanto, la quantificazione della pena inflitta al colpevole, il modo in cui la vittima è stata presente nel processo, la descrizione delle sue caratteristiche nelle motivazioni dei provvedimenti sono diventati temi di specifico interesse.

Il taglio informativo, i commenti specializzati o generici di opinionisti vari, la raccolta di voci dell’opinione pubblica, conducono alla conclusione che, nella percezione comune, vi sia una chiara e abbastanza generalizzata insoddisfazione rispetto agli esiti processuali in relazione alla tutela delle persone offese dal reato.

Questo sentimento di insoddisfazione è dunque strettamente collegato agli esiti dei processi che vedono la partecipazione della vittima del reato e, quindi, sono espressione della tendenza a concentrare l’attenzione sulla tutela della vittima principalmente – e, in alcuni casi, quasi in via esclusiva – nel contesto del processo penale.

Questa tendenza porta, però, alla luce una duplice criticità.

In primo luogo, tende a oscurare la molteplicità di possibili interventi a protezione e tutela delle vittime da realizzarsi fuori dal contesto del processo penale; in secondo luogo, affida tale protezione e tutela a un istituto che non è nato né è funzionale a tale specifico scopo, con la conseguenza di mostrare inevitabilmente una serie di aspetti critici quando è chiamato a svolgere una funzione diversa da quella cui è ontologicamente rivolto.

Da qui, l’attualità di una riflessione sui limiti e le possibilità di soddisfazione delle richieste di quel particolare soggetto debole che è la vittima del reato offerte dal processo penale.

2. La dimensione complessiva della vittima

Per cogliere pienamente come il riduzionismo processual-penale sia uno dei principali ostacoli alla piena tutela e al sostegno della vittima, occorre ricordare come l’attenzione sulla medesima, e la conseguente nascita nel panorama delle scienze dell’uomo del relativo campo di studio, la vittimologia, avvenuta oltre mezzo secolo fa, abbiano progressivamente sottratto il tema della vittima alle discipline giuridiche, fornendone definizioni più vaste e comprensive, e quindi non necessariamente legate alle categorie giuridiche tradizionali di “persona offesa”, “parte lesa”, “parte civile”.

Gli studi di vittimologia hanno preso in considerazione la categorizzazione e le reazioni di soggetti danneggiati, includendo quindi nella nozione di vittima non soltanto le vittime di reato, ma anche coloro che hanno riportato un danno a causa del contesto sociale, dello sviluppo tecnologico, dell’ambiente naturale o anche dell’ambiente endogeno, inteso come il panorama bio-psicologico della vittima stessa.

Appare, perciò, di immediata evidenza che, per tali categorie di vittime, non si può rinvenire un immediato riferimento al contesto penale e processuale: gli eventi che ne hanno determinato il danno o la sofferenza non sono necessariamente affrontabili in un contesto di accertamento di responsabilità penale. Ciò non significa che dietro alle conseguenze dannose di calamità naturali, dello sviluppo tecnologico o delle condizioni sociali degli individui non possa essere rinvenuta, talvolta, una responsabilità umana, ma non sempre e non necessariamente ciò si verifica. Questo comporta che un’attenzione a tutto tondo sulla vittima non può esaurire il proprio raggio di osservazione sulle vittime del reato. Esistono dunque vittime la cui cura prescinde necessariamente dalla dimensione penalistica, si può essere vittima “di qualcosa o di qualcuno”, senza che ciò determini un ingresso del soggetto danneggiato sul palcoscenico del processo penale.

Ai fini del discorso che qui si sta svolgendo, tuttavia, è opportuno concentrare l’analisi sul profilo giuridico penale, trascurando le vittime dei fatti penalmente non rilevanti.

Tuttavia, anche volendosi limitare all’osservazione delle dinamiche riguardanti le vittime che subiscono un torto, un’ingiustizia, un’offesa in conseguenza di un fatto che configura un illecito penale, occorre comunque sottrarsi alla suggestione per cui qualsiasi vittima di un fatto di reato può trovare nell’accertamento penale il luogo di emancipazione dalla sua condizione di minorità. Ed invero, tale conclusione presupporrebbe una perfetta coincidenza tra la condizione di vittima da reato e l’accertamento penale del fatto che ha determinato tale condizione, ma una simile coincidenza, in realtà, non esiste.

Si vuole dire che non ogni fatto di penale rilevanza che determini la condizione di vittima ha, come inevitabile destinazione, quella del processo penale. L’evento che rende un soggetto vittima può rimanere del tutto estraneo al sistema penale, ad esempio quando il soggetto decide di non denunciare, o sia impossibilitato a farlo.

Ma ancora, e in maniera ancor più significativa, la vittima non trova ingresso nel sistema dell’accertamento penale tutte le volte in cui l’autore del reato rimane ignoto: tali casi, come è ben noto, rappresentano la grande maggioranza degli illeciti denunciati.

Un ulteriore elemento che incrina la piena corrispondenza tra essere vittime ed essere soggetti del processo penale è costituito dalla categoria delle cd. “vittime collettive”, costituita da un numero di soggetti non predefinito, il cui processo di vittimizzazione avviene in base alle loro caratteristiche personali, all’appartenenza a un gruppo sociale o tecnico, o al fatto di essere vittime di reati ambientali o economici. Come si è detto in precedenza, non sempre gli eventi che determinano la vittimizzazione di un soggetto assumono rilevanza penale. Peraltro, preme qui sottolineare che, anche quando questa rilevanza penale sussiste, non sempre essa viene riconosciuta, con la conseguente esclusione del soggetto passivo dal circuito penale dell’accertamento. Si pensi ai casi di malattie derivanti da inquinamento provocato dalla produzione industriale: il soggetto danneggiato diventerà vittima in un contesto di accertamento penale soltanto ove tale inquinamento assuma determinate caratteristiche, mentre, in caso contrario, pur permanendo tutte le conseguenze dannose, la condizione di vittima non potrà essere fatta valere all’interno del processo penale.

Volendo trarre le conclusioni dalle precedenti considerazioni, si può dunque osservare come immaginare il processo penale quale momento risolutivo e centrale della reazione dell’ordinamento finalizzata alla tutela e all’emancipazione della vittima dalla sua condizione, significa non rendere un buon servizio alle vittime stesse.

Proprio perché la sofferenza e il disagio presenti nelle vittime possono essere stati cagionati da eventi che non trovano approdo nel processo penale, enfatizzare il ruolo del processo ritenendo che, in esso, si giochi esclusivamente o principalmente la tutela della vittima significa distogliere l’attenzione da tutti quei soggetti la cui condizione di debolezza è stata determinata da circostanze sulle quali il processo penale non può incidere, o sotto profilo del loro accertamento, ovvero sotto il profilo della sanzione da erogare a un soggetto determinato.

Il rilevare che non esiste un nesso indefettibile di indissolubilità tra vittima e processo penale non significa, dunque, avviarsi in direzione di una minor tutela della vittima, ma, al contrario, riconoscere che una piena tutela di questo soggetto debole può e deve avvenire anche su sentieri diversi da quelli del processo penale.

3. Prevenzione e riparazione

Osservare la vittima attraverso la finestra del processo penale significa, necessariamente, puntare l’attenzione su un soggetto determinato, – la persona fisica presente in quel contesto. Non vi è dubbio che proprio la concretezza di tale presenza sia il dato di fatto che invoca una altrettanto concreta tutela di quel determinato soggetto. È, però, altrettanto vero che, rispetto a tale soggetto, gli interventi possibili sono sostanzialmente finalizzati a una tutela ex post, cioè necessariamente successiva al fatto che ha determinato la condizione di minorità.

Deve essere chiaro che tali interventi, in effetti, sono da considerarsi indispensabili nella prospettiva di un’emancipazione di quel particolare soggetto debole che è la vittima dalla sua condizione di afflizione e sofferenza. Peraltro, anticipando lo sviluppo del ragionamento, si vedrà come il processo penale non risulti strutturalmente il luogo adeguato ove poter sviluppare tale processo di emancipazione.

Nondimeno, ciò che qui si vuole sottolineare è il pericolo sottostante alla sovraesposizione della vittima nel processo penale. Focalizzare l’attenzione sulla persona che entra nel processo come soggetto danneggiato potrà anche comportare la predisposizione di accuratissimi e straordinari strumenti di tutela che, però, svolgeranno il loro effetto principalmente proprio nei confronti di quello stesso soggetto.

Tuttavia, la piena realizzazione dei principi solidaristici e di tutela della dignità della persona posti a fondamento degli interventi a favore delle vittime e finalizzati a rimuovere radicalmente la condizione di sofferenza connaturata alla condizione di vittima, presuppone che, accanto e prima di qualsiasi intervento posto in essere solo successivamente all’accadimento che ha reso un particolare soggetto vittima, devono essere pensati e attuati tutti gli strumenti possibili per evitare che una molteplicità di altri soggetti si possa ritrovare nella medesima condizione di vittima.

È il tema della prevenzione ex ante, vale a dire dell’individuazione e dell’applicazione degli interventi tesi a evitare la vittimizzazione.

Tradizionalmente, si è soliti distinguere tra interventi per prevenire la condotta delittuosa, e quindi destinati a svolgere i loro effetti nei confronti dei potenziali autori di reato, e prevenzione più specifica della vittimizzazione, diretta a incidere nel contesto in cui il reato è stato commesso o sulle abitudini e caratteristiche delle potenziali vittime.

Una politica della prevenzione della vittimizzazione, in primo luogo, può essere svolta incidendo sulle circostanze che hanno reso possibile la verificazione del reato, ovvero concentrando l’attenzione su determinati soggetti rispetto ai quali si riscontra un elevato rischio di assumere il ruolo di autori o vittime, in ragione di specifiche caratteristiche personali; o, ancora, con interventi diretti a prevenire i fenomeni di recidiva e di vittimizzazione.

Una simile opera di prevenzione implica l’intervento di diversi soggetti e agenzie pubbliche o private, e può interessare diverse discipline, come la criminologia, la sociologia e il diritto; in primo luogo, però, essa interpella le scelte della politica, intesa come luogo di individuazione e attuazione di tali possibili pratiche.

Tale panorama di interventi, che pure è oggetto di ampia analisi nei settori di studio sopraindicati, è necessariamente percepito come un orizzonte astratto e, tutto sommato, meno pregnante a fronte della concretezza di chi è già stato danneggiato da un fatto di rilevanza penale, che viene osservato dopo tale fatto e nello scenario del processo penale.

L’attenzione estrema ed esclusiva sulla vittima concreta può, pertanto, creare una fittizia contrapposizione tra le due diverse esigenze di una tutela ex post di tale soggetto e della tutela preventiva di tutti coloro che avrebbero potuto trovarsi nelle stesse condizioni di quel soggetto ed essere, a loro volta, vittime.

Ovviamente, le due esigenze non sono in contrasto tra loro e ben possono essere entrambe perseguite.

Ma quello che qui si vuole rilevare è come la sovraesposizione della vittima concreta all’interno del circuito del processuale penale sia lo strumento che, di fatto, concentra e assorbe ogni discorso di intervento a tutela non soltanto di quella specifica vittima, ma di tutti i soggetti deboli che potrebbero trovarsi nella sua stessa condizione. Ritenere che, nel processo penale, si possa dare piena soddisfazione alla vittima del caso specifico, occulta le responsabilità di tutti coloro – politici, amministratori, operatori della giustizia – che, nei diversi settori di intervento, sono chiamati a un compito ben più complesso, ma sicuramente più decisivo: incidere radicalmente in un’opera di riduzione delle situazioni che portano alla vittimizzazione.

È possibile un parallelo con quello che viene normalmente definito come “valore simbolico” del diritto penale: la costante tentazione della politica di intervenire in una situazione percepita come disvalore dai consociati, criminalizzandola con la sanzione penale, nell’incapacità, o peggio, nella mancanza di volontà di incidere radicalmente sulle condizioni che determinano quella situazione (si pensi, ad esempio, alla recente sostanziale reintroduzione del reato di accattonaggio).

4. La vittima e il processo

Dunque, per quanto finora osservato, non si può affermare che il processo penale sia il luogo elettivo deputato primariamente alla protezione e alla tutela della vittima, poiché non tutti coloro che possono essere definiti “vittime” entrano necessariamente nel processo e poiché la tutela di tali soggetti non si esaurisce nel processo stesso.

A questo punto, può essere utile verificare se l’istituto del processo penale in quanto tale si manifesti in concreto come strumento ontologicamente funzionale, dapprima, all’osservazione e, quindi, alla soddisfazione delle istanze del soggetto danneggiato dal reato.

In realtà lo sviluppo del processo, di matrice illuministico-liberale, segnala un percorso di progressiva marginalizzazione del ruolo della vittima.

Tale percorso, peraltro, corre parallelo a quello della nascita dello Stato moderno e al rapporto che, in tale contesto, corre tra lo Stato sovrano e il reo, tra chi detiene il potere e chi lo sfida o lo nega, violando le regole dal medesimo imposte.

Questo approdo costituisce una decisiva inversione di tendenza in ordine alla considerazione della vittima, proiettando le sue vicende in una dimensione sostanzialmente estranea al processo penale, inteso come luogo di accertamento della verificazione di un fatto, attribuzione di quel fatto a un determinato soggetto, irrogazione al medesimo di una sanzione in conseguenza del fatto commesso.

Si deve parlare di inversione di tendenza in quanto, in precedenza, era proprio il rapporto tra il danno cagionato a un soggetto e la reazione della vittima a tale evento che determinava l’interesse della collettività.

La reazione della vittima al danno, o comunque al torto subito, fonda il diritto penale.

Anche se il tema non può essere affrontato nella presente sede, per i suoi evidenti risvolti di carattere filosofico nonché antropologico, si può tuttavia sottolineare come, nell’elaborazione del pensiero giuridico, si sono susseguiti vari modelli per spiegare e giustificare tali reazioni. La costituzionalizzazione dei principi di eguaglianza e di rispetto della dignità della persona costituisce l’attuale approdo al quale si è giunti per collocare la reazione della persona danneggiata e la sua richiesta di giustizia in un contesto di tutela dei diritti fondamentali.

Ma al di là dell’aspetto assiologico della questione, rimane il dato storico per cui la formalizzazione delle reazione della vittima al torto subito è strettamente collegata all’origine e allo sviluppo del diritto e del processo penale.

La richiesta di risposta della vittima al danno subito determina i criteri di selezione rispetto ai torti che giustificano una reazione di carattere sanzionatorio da parte della collettività e implica una riflessione sul tipo di reazione necessario.

La prima codificazione conosciuta, quella di Hammurabi, del XVIII secolo a.C., già interveniva in ordine alle richieste di reazione della vittima, introducendo un principio di proporzionalità (la cd. “legge del taglione”: “occhio per occhio dente per dente”).

Successivamente, anche nella Atene del IV secolo a.C., si poteva assistere a un intervento dello Stato in materia penale calibrato sulle esigenze e le richieste della vittima. L’omicidio, infatti, era ritenuto un delitto non già contro la collettività, ma contro il privato che lo subiva, con la conseguenza che il processo non aveva uno scopo essenzialmente pubblicistico, ma era rimesso all’iniziativa dei parenti dell’ucciso, divenuta a un certo punto obbligatoria, in un senso diverso, però, da quello odierno di obbligatorietà dell’azione penale, rimessa sempre e solo allo Stato. L’intervento statale aveva un carattere del tutto sussidiario, essendo limitato ai casi in cui i privati aventi diritto non agivano in giudizio e, in ogni caso, non era dovuto – come oggi – alla potestà punitiva dello Stato (che, a sua volta, sottende una logica di dissuasione, prevenzione e rieducazione del reo), bensì all’esigenza di prevenire la punizione divina.

Anche nella Roma pre-imperiale, la legge di Numa ancorava la reazione al torto subito dalla vittima all’intervento della medesima, ovvero dei familiari dell’ucciso, ai quali veniva imposto di replicare all’offesa subita, trasformandoli in soggetti delegati all’esecuzione della pena di morte e ponendo, così, la vendetta sotto il controllo pubblico.

Il ruolo centrale della vittima nella reazione, da parte della collettività, alla violazione della regola posta all’interno della comunità che ha comportato un danno per la persona offesa risulta ancora più evidente in età medievale, dove tale ruolo viene formalizzato nella faida, istituto che prevedeva e formalizzava l’ingresso della vittima nel processo, assegnandole un ruolo ben preciso.

Dunque, si può assistere a un percorso molto prolungato nei secoli, nel quale il sistema della giustizia assegnava alla vittima un ruolo centrale rispetto all’accertamento del fatto e alla punizione del colpevole. Peraltro, il filo rosso che lega le tappe di tale evoluzione giunge, in alcuni casi, fino ai nostri giorni e può essere osservato in alcuni aspetti presenti in sistemi giuridici che non hanno incontrato la rivoluzione culturale dell’illuminismo e i relativi principi liberal-garantisti.

Così, si può ricordare come, fino alla riformulazione del sistema legislativo a metà dell’Ottocento, in Giappone la punizione del colpevole prevedesse l’intervento della vittima: in caso di morti violente, i familiari dell’ucciso, dopo aver ottenuto i documenti ufficiali e informato le autorità, potevano richiedere il permesso di cercare il colpevole e ucciderlo.

La posizione di centralità della vittima nel processo di accertamento della violazione e della punizione del colpevole subisce, però, un drastico ridimensionamento in concomitanza della progressiva affermazione degli Stati nazionali. La concentrazione del potere nelle mani del sovrano determina una diversa prospettiva, per la quale è essenziale che il medesimo assuma il controllo dell’ordine pubblico. Nel nuovo assetto, il reato è visto allora come evento che non offende più principalmente la vittima, ma proprio quell’ordine di cui il sovrano è padrone e garante. Nel mutato scenario in cui si accertano i reati e si punisce il colpevole, la partita si gioca tra il sovrano e l’imputato, secondo una rappresentazione che ha nella vittima non più un attore, ma, al massimo, una semplice comparsa. Questo nuovo modo di rapportarsi all’autore del reato si evidenzia anche nel passaggio, evidenziato da Michel Foucault, da una pena inflitta sul corpo del reo a quella prevista dalla contenzione carceraria: la pena non risulta più di immediata percezione da parte della vittima, che non può più osservare – trovandovi, in qualche modo, soddisfazione – la punizione del colpevole inflitta sul corpo dello stesso e ancora posta in correlazione al torto inflitto, ma si deve accontentare di una pena astratta e inflitta in un contesto a lui lontano.

In questo mutamento nel modo di concepire l’accertamento del reato e l’erogazione della pena, emerge un’evidente asimmetria tra chi detiene e può esercitare il potere di coercizione fisica sull’imputato (oltre che di decisione sul tipo e sulla modalità della sanzione) e il soggetto sottoposto a tale potere. Lo squilibrio tra il “sovrano”, ovvero lo Stato e l’apparato giudiziario, e il reo-imputato, pone quest’ultimo in una posizione di debolezza e minorità: nel processo moderno, paradossalmente, la nuova vittima è proprio l’imputato, possibile oggetto di soprusi e violenze.

Dunque, la storia del diritto penale e del processo diventa la storia dei rimedi e delle garanzie previste per limitare questo potere: un cammino lungo e tortuoso per l’affermazione dei principi di legalità e delle garanzie processuali quali siamo abituati a riconoscere nella contemporaneità.

Tuttavia, in questo percorso di ricerca ed estensione delle garanzie poste a tutela dell’imputato, la figura della vittima “evapora” progressivamente. Ne abbiamo riprova nell’elaborazione teorica degli esponenti della cd. Scuola classica (Locke, Rousseau, Beccaria), per cui si sostiene che il potere punitivo è affidato dal singolo – e quindi dalla vittima – allo Stato per mezzo del contratto sociale, che trasforma lo Stato di natura in Stato civile: proprio nella violazione del contratto sociale consiste il delitto. Centrale in questo sviluppo è la categoria di bene giuridico, un bene astratto che viene leso dal comportamento del reo e si contrappone, invece, al diritto soggettivo, che è quello concretamente leso in capo alla vittima stessa. Da tali premesse, è del tutto logico che la vittima possa aspettarsi solo un risarcimento in ordine al torto subito, con sua sostanziale estraneità al procedimento di accertamento del fatto e di erogazione della sanzione. Anche nella successiva prospettiva della Scuola positiva, la vittima non riacquista alcuna centralità, dal momento che il maggior spazio riservato al risarcimento, secondo i pensatori di tale corrente di pensiero, ha a che vedere proprio con la funzione pubblica del risarcimento, inteso come strumento di intervento nella prospettiva della difesa sociale tipica di tale scuola.

La sostanziale sedimentazione di questa impostazione ha comportato che le successive evoluzioni legislative in materia di processo abbiano avuto ad oggetto la progressiva definizione e previsione di istituti processuali posti a garanzia dell’imputato, ad esempio disciplinando i limiti degli strumenti probatori possibili per l’accertamento del fatto ed escludendo la tortura, ovvero – più attualmente – prevedendo il contenimento dello stato detentivo prima della sentenza di condanna.

Peraltro, come si diceva, in tale quadro il ruolo della vittima ha finito per assumere una sempre minor rilevanza, il che è plasticamente evidenziato dall’assenza, nel nostro codice di procedura penale, della nozione di “vittima”, laddove vengono usate le definizioni di «offeso dal reato», «persona offesa», «persona offesa dal reato». Simmetricamente, per molto tempo, le elaborazioni teoriche in materia penalistica hanno preso in considerazione non la vittima ma il “soggetto passivo del reato”: mentre la prima nozione porta alla luce con evidenza la concretezza del soggetto danneggiato, la seconda lo collega al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, ponendo quindi l’accento non tanto sul soggetto che subisce il danno, ma su quel bene giuridico, la cui tutela è posta nell’interesse di tutta la comunità.

5. La perdita di centralità della vittima nel processo

Si è detto come la reazione e l’aspettativa della vittima al danno o al torto subito fondino il diritto penale.

Occorre, però, evidenziare come la socializzazione della risposta al reato comporti uno spostamento di prospettiva.

Se la condotta di colui che ha provocato un danno a un soggetto, ponendolo quindi in una posizione di minorità, viene realizzata in violazione di una regola di comportamento stabilita nella comunità e posta a presidio della sicurezza, del benessere, dell’integrità psico-fisica delle persone, allora quell’evento non diventa più soltanto una vicenda privata tra chi lo ha determinato e chi ne subisce le conseguenze. Esso assume importanza agli occhi di tutta la comunità, perché la violazione della norma che ha determinato l’evento pregiudizievole per la vittima provoca una reazione che interessa non soltanto la vittima stessa, ma l’intera collettività degli associati: la storia della reazione della collettività alle condotte realizzate violando le norme di convivenza è la storia del diritto penale e del processo.

In questo senso, si può dunque affermare che il processo penale rappresenta un’istanza per la quale una vicenda che interessa due soli soggetti – autore del reato e vittima – fuoriesce dalla loro specifica sfera di interesse per assumere una rilevanza che interessa invece tutta la collettività, quindi la comunità dei consociati rappresenta il “convitato di pietra” del processo.

Lo sguardo pubblico sul processo si manifesta sotto molteplici prospettive.

La nascita e l’evoluzione del processo penale riguardano la creazione di uno strumento per raggiungere un obiettivo di interesse di tutta la comunità di riferimento, sostanzialmente la punizione di chi ha violato una regola di particolare rilevanza. È proprio la natura di tale interesse che rende la collettività necessariamente interessata al processo. Sappiamo come si siano succedute varie ipotesi di spiegazione per giustificare l’interesse collettivo alla punizione del colpevole. Le più diffuse fanno riferimento alla necessità di contenimento della violenza derivante dalla possibile reazione delle vittime, affidando allo Stato la repressione dei reati e la punizione dei colpevoli. Altre analisi, meno legate alle dottrine giuridiche e più all’aspetto antropologico, hanno rilevato come il mancato rispetto delle regole di convivenza, da parte di quel consociato che provochi un danno a un altro, sia tale da minare il patto sociale fondato sul rispetto delle regole condivise di cui si è dotata la comunità stessa, con la conseguenza che la punizione del colpevole è attesa dalla comunità non solo in una prospettiva giuridica di riequilibrio formale, tramite la sanzione della norma violata, ma soprattutto come rassicurazione relativa alla “tenuta” del patto sociale.

Non è ovviamente possibile, in questa sede, approfondire le suggestioni che derivano da queste e dalle altre prospettive legate all’interpretazione del diritto e del processo penale. Quello che invece interessa è osservare come, in ogni caso, quali che siano l’interpretazione e la valutazione date alla necessità di infliggere una sanzione al trasgressore, essa implica un interesse imprescindibile della collettività a che lo strumento deputato a tale funzione, cioè il processo, porti a compimento proprio fine.

Tuttavia, tale premessa non conduce soltanto alla conclusione che esiste una generica aspettativa di effettività dello strumento processuale.

Nel momento in cui la comunità provvede a dotarsi di un istituto finalizzato agli obiettivi che si sono indicati, quell’istituto assume una vita propria, che prescinde da quelle dei soggetti che nel processo si muovono. Il processo deve arrivare a una conclusione e il giudice, al termine del processo, non può astenersi dalla decisione, ma dovrà necessariamente affermare la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato.

Il processo è, dunque, un percorso la cui destinazione è la decisione. Ma, in questa prospettiva, i soggetti che si incontrano nel tragitto assumono importanza principalmente in quanto funzionali a garantire il buon esito del viaggio. L’imputato, la vittima del reato, ma anche i testimoni, i giudici, gli accusatori e i difensori, sono gli attori presenti sul palcoscenico del processo, ma il loro ruolo è strumentale alla buona riuscita della rappresentazione: ciò significa che assumono rilievo solo per la parte che recitano, mentre risulta estraneo alla logica del processo lo specifico interesse alla persona concreta, nascosta dietro la maschera dell’attore, sia esso l’autore del reato o la sua vittima.

Ovviamente, la brutalità di questa strumentalizzazione deve trovare dei limiti, che si riscontrano laddove esistano regole a tutela dei diritti inviolabili delle persone che si trovano nel processo: ad esempio, per quanto riguarda l’imputato, il divieto di estorcere la sua confessione, o, per quanto riguarda la vittima, l’attenzione a non peggiorarne la condizione proprio in virtù della sua permanenza nel processo. Nondimeno, la presenza di questi limiti non nega, e anzi conferma, la conclusione per cui il processo è, per sua struttura e funzione, sostanzialmente indifferente alla concretezza delle persone che rimangono “impigliate” nelle sue reti: il processo ha lo sguardo rivolto verso il suo risultato, e non può osservare con particolare attenzione i soggetti che sono solo funzionali a tale scopo.

Questa funzionalizzazione del processo si ritrova pienamente disegnata nelle regole che lo governano.

Come esempio, possiamo pensare alla prospettiva nella quale, all’interno del processo, è osservato e valutato l’imputato nella sua concretezza. L’attenzione alle sue condizioni personali non viene in alcun modo in gioco nel momento in cui il processo deve stabilire la responsabilità dell’imputato: soltanto nel caso in cui egli sia poi riconosciuto effettivamente colpevole la sua dimensione personale diventa, in qualche modo, rilevante per il processo. Infatti, in questo caso, è prevista l’osservazione delle condizioni personali del reo e anche delle motivazioni che possono averlo condotto a commettere il reato: condizioni e motivazioni che devono essere prese in considerazione per determinare il trattamento sanzionatorio.

6. La tutela processuale della vittima...

Per quanto riguarda, poi, la figura che qui più interessa, va osservato che la vittima del reato assume una sua rilevanza nel processo principalmente per l’apporto che può fornire alla sua definizione, vale a dire per l’apporto di conoscenza dei fatti.

Gli interventi normativi che si sono succeduti a tutela della posizione della vittima sono stati i “gradini” di un percorso che ne ha emancipato la condizione da una posizione di mero strumento processuale utilizzabile ai fini dell’accertamento dei fatti, per poi riconoscere la necessità di una tutela legata proprio alla sua condizione di minorità, che nasce dall’aver subito un pregiudizio.

Tale percorso di tutela, tuttavia, si snoda lungo passaggi che vedono – comunque – la necessaria presenza della vittima nel processo come principalmente finalizzata a fornire ad esso il suo contributo e, quindi, a permetterne l’esito finale.

A questo riguardo, è essenziale l’osservazione per cui la tutela della vittima si è progressivamente imposta e inverata nelle legislazioni nazionali a seguito di prese di posizione e atti normativi di fonte internazionale, emessi da organismi quali l’Onu, il Consiglio d’Europa, l’Unione europea, fino ai rilievi delle corti penali internazionali.

Anche se l’approfondimento del percorso in oggetto riveste un grande interesse, in questa sede – e ai fini del discorso che si sta sviluppando – sarà sufficiente puntare l’attenzione sui suoi esiti attuali.

Un effettivo “approdo” riguarda il riconoscimento, da parte della nostra legislazione, di un ampliamento della gamma di facoltà e di poteri attribuiti alla persona offesa nella dinamica del processo penale, realizzato mediante l’offerta di strumenti di partecipazione consapevole al processo e di protezione dal processo stesso, fino al recente intervento normativo del d.lgs n. 215/2015.

Ai fini dell’analisi del ruolo e della posizione della vittima all’interno del processo, non è però indispensabile l’analisi tecnica degli snodi attraverso i quali si concretizza la presenza della persona offesa nell’ambito dello sviluppo processuale, essendo invece rilevante individuare le linee di tendenza lungo le quali si muove tale presenza.

Gli interventi normativi che si sono succeduti, fino all’ultimo sopra citato, hanno infatti perseguito gli obiettivi già individuati e indicati dalle fonti sovranazionali. In questo senso, si sono adottati strumenti idonei a garantire, in primo luogo, il diritto di informazione della persona offesa, da considerare vera e propria precondizione per la tutela dei successivi diritti: diritto all’informazione tanto della vicenda processuale quanto dei diritti e delle possibilità di intervento legati al proprio ruolo di persona offesa.

Il diritto di informazione deve, poi, ritenersi finalizzato a permettere l’accesso e la partecipazione al processo, prevedendo strumenti economici, laddove sia necessario, per consentire alla vittima di sostenere le spese relative alla sua presenza nel processo.

Infine – ma, forse, è l’aspetto più significativo – va sottolineata l’esigenza di garantire alla vittima la protezione dal processo, cioè di evitare la cd. “vittimizzazione secondaria”.

In questo senso, è utile ricordare come dalla commissione di un reato conseguano, nei confronti della vittima, diversi effetti immediati, alcuni conseguenze dirette derivanti dalle caratteristiche del reato stesso, come la gravità del fatto, le modalità della sua esecuzione, nonché le caratteristiche del soggetto passivo e ulteriori circostanze concorrenti; altre e ulteriori conseguenze, invece, sono solo indirettamente connesse al reato e derivano dall’impatto della vittima con l’apparato giudiziario. Come noto, si qualificano le prime come effetto di vittimizzazione primaria e le seconde come effetto di neutralizzazione e di vittimizzazione secondaria.

Le conseguenze negative per la persona offesa dal reato, legate allo svolgimento del processo, possono essere di vario tipo. Quelle che riguardano le conseguenze economiche sono generalmente affrontate e risolte nel punto sopra indicato come la garanzia alla partecipazione al processo, offrendo alla vittima un supporto economico che non le renda gravosa, da un punto di vista patrimoniale, la partecipazione alla vicenda processuale. Ma la vittima può subire altre e forse più significative conseguenze negative sotto un diverso profilo. Infatti, la sovrapposizione del ruolo di vittima con quello di fonte di prova nel processo, cioè di testimone che deve fornire al giudice le necessarie informazioni su quanto gli è accaduto, implica che la persona offesa sia costretta a riferire più volte la vicenda di cui è stata vittima, ripercorrendo fasi della vita e ricordi necessariamente dolorosi, se non traumatizzanti. Dunque, anche sotto questo profilo, gli interventi legislativi si sono susseguiti nella prospettiva di limitare il più possibile la sottoposizione della vittima a una molteplicità di esami e interrogatori, e di garantire che questi avvenissero comunque adottando tutte le misure più idonee, con modalità protette, a consentire il minor pregiudizio possibile per la vittima, in special modo se la medesima deve essere qualificata come “soggetto debole”.

La maggiore attenzione alla vittima del reato ha così comportato un progressivo adattamento anche degli strumenti processuali alla tutela della medesima, in una prospettiva sia di risarcimento, sia di idoneità dell’informazione, della permanenza e della tutela nel processo.

Il giudizio su tale percorso non può che essere positivo, dal momento che si fa carico di chi, in concreto, subisce gli effetti pregiudizievoli della condotta penalmente illecita. Anche se, come si è visto in precedenza, la vicenda processuale esprime un forte interesse della collettività all’accertamento del fatto e alla punizione del colpevole, e quindi un’altrettanto forte necessità di garantire che tale accertamento e punizione avvengano garantendo al reo un corretto procedimento di verificazione dei fatti e di applicazione della sanzione, tuttavia tali interessi non possono far dimenticare che la drammaticità della commissione di un reato si ritrova principalmente nelle conseguenze che esso ha per la vittima. Pertanto, il progressivo accendere i riflettori, all’interno del processo, sulla persona offesa dal reato appare un percorso di civiltà, garantito anche dal precetto costituzionale.

7. ... e i suoi limiti

Le conclusioni su come si è sviluppata ed è progredita nel tempo la tutela della vittima all’interno del processo penale, fino ai suoi approdi attuali, devono però coniugarsi con le precedenti osservazioni sul ruolo attualmente assunto dalla medesima nello scenario processuale.

Si è già avuto modo di osservare, adottando la prospettiva dell’accusato, che il processo, strutturalmente, non è “il luogo” della vittima, ma dell’imputato, nato ed evoluto per garantire a quest’ultimo un accertamento dei fatti garantito sia in termini di efficacia che di rispetto dell’imputato stesso.

Se tale considerazione viene, poi, coniugata con il percorso appena riferito, per cui la vittima solo faticosamente – e con un cammino secolare – diviene effettivamente “visibile” nel processo, allora diventa più facile comprendere i limiti che possiamo considerare strutturali nel riconoscimento del ruolo della persona offesa all’interno del processo.

L’aula del processo non è un luogo amichevole per la vittima, non solo in quanto vi è rievocata la vicenda che ha provocato la sua afflizione, ma anche perché il rito che viene celebrato in quell’aula è rivolto a un fine che non si identifica necessariamente con quello della persona offesa.

E infatti, se è vero che il processo assume una funzione fondamentale per la vittima, che è quella di riconoscerla come tale e di accertare la responsabilità di chi le ha provocato un pregiudizio, tuttavia per la persona offesa la richiesta di “giustizia” può non coincidere con le risposte che fornisce il processo. Le regole processuali, i limiti che riguardano le modalità di accertamento dei fatti, i possibili errori nell’attività di indagine sono elementi che, agli occhi della vittima, appaiono in contrasto con la propria esigenza di giungere a una conclusione per lei soddisfacente. Essi possono diventare incomprensibili, o addirittura assurdi, nella prospettiva di giustizia sostanziale che la vittima cerca.

Non può sfuggire, infatti, che chi ha subito un’offesa, nell’aula di giustizia può sovente guardare in volto colui che gli ha provocato quel danno ed è pienamente consapevole di tale circostanza, per cui gli è difficile comprendere le regole che, ai suoi occhi, si frappongono come un ostacolo per un’immediata affermazione di ciò che, soggettivamente, la vittima sa già, cioè la responsabilità dell’imputato.

Ma anche nei casi in cui la vittima del reato entri nell’aula di giustizia non conoscendo esattamente l’identità di colui che ha realizzato la condotta che l’ha danneggiata, la necessità di essere riconosciuta come vittima impone, simmetricamente, di richiedere che sia affermata la responsabilità di colui che nel processo si presenta come imputato.

In entrambi i casi, in ultima analisi, l’istanza punitiva di cui la persona offesa è portatrice è, di regola, tanto impellente da prevalere su altre e diverse dinamiche, fino a cancellarle. Qualsiasi tipo di relazione con l’autore del reato, anche in una prospettiva riconciliativa, o quantomeno risarcitoria, è fortemente limitata dal conflitto di interessi che si manifesta nel processo tra i due soggetti interessati alla vicenda. L’imputato ha l’obiettivo di uscire dal processo senza pregiudizio, ovvero limitando il più possibile tale pregiudizio; la persona offesa vuole, invece, vedere affermata la responsabilità dell’imputato e spesso applicata una sanzione afflittiva che desidera grave in proporzione al danno subito.

Raramente è dato vedere, all’esito di un processo che abbia portato all’assoluzione dell’imputato, una vittima che si dichiari soddisfatta dell’esito processuale, in quanto è stata pronunciata una sentenza di assoluzione per un innocente, ovvero una persona offesa che si dolga di una pena troppo elevata comminata al condannato. Il tema dell’aspettativa da parte della vittima all’erogazione di una pena particolarmente severa nei confronti del colpevole appare del tutto coerente in una prospettiva che risolve esclusivamente nel processo, e quindi nella punizione del colpevole, la possibilità di una piena tutela della vittima. Ma tale prospettiva risulta del tutto ingannevole, sia perché, come si è visto, il processo non è orientato in via principale a soddisfare la persona offesa dal reato – e, quindi, le istanze punitive della medesima possono non coincidere con quelle dell’interesse pubblico –; sia perché il collegamento tra la gravità della punizione del colpevole e la piena soddisfazione della vittima è stato più volte messo in discussione dai più approfonditi studi sulla psicologia della vittima.

Questa situazione di contrasto strutturale tra le posizioni dei due soggetti protagonisti della vicenda processuale pone, dunque, la vittima all’interno del processo in una condizione di conflitto, non solo nei confronti dell’autore del reato, ma dello stesso processo. Se a tale condizione poi si aggiunge la circostanza che il processo stesso diventa luogo di rivisitazione di una vicenda personale dolorosa, risulta allora del tutto evidente con quanta difficoltà la persona danneggiata dal reato viva la propria partecipazione al processo.

Deve, inoltre, essere evidenziato anche un ulteriore elemento, che conferma la situazione di disagio vissuta dalla vittima: la circostanza che nel processo, per le scansioni rituali e formalizzate del suo incedere, per gli aspetti di logica formale sottesi al ragionamento giuridico che deve portare alla decisione del giudice, per il suo dispiegarsi in un contesto temporale e cronologico lontano dalla drammaticità dell’evento lesivo, si crea un inevitabile diaframma tra le esigenze di accertamento e le necessità della vittima.

L’accertamento dei fatti avviene in base a una ricostruzione dei medesimi fondata sulle prove assunte in un luogo e in un tempo ben distanti da quelli nei quali la vicenda si è consumata e si sono manifestati e sviluppati il dolore e la sofferenza della vittima. Certo, gli aspetti emotivi della vicenda sottostante non possono scomparire completamente, ma la necessità di applicare regole di giudizio in una prospettiva di logica formale li pone necessariamente sullo sfondo. E dunque la vittima del reato, che è la rappresentazione plastica di quegli aspetti emotivi, viene percepita e apprezzata solo parzialmente, principalmente per l’apporto di conoscenza che può fornire all’accertamento dei fatti, mentre le emozioni che esprime possono essere percepite come interferenze in un processo di ricostruzione logica. Gli altri interpreti del processo – pubblico ministero, difensore, giudice – vedono nella sfera emotiva dei protagonisti – l’imputato e la vittima – un elemento di disturbo sotto due diversi profili. Il primo riguarda la consapevolezza di come gli aspetti emotivi possano “contaminare”, consapevolmente o meno, la ricostruzione dei fatti alla quale tende il processo penale, interferendo nei ricordi dei testimoni – quindi, in primo luogo, della vittima del reato. Il secondo riguarda la possibile influenza che la condizione emotiva dei protagonisti del processo può esercitare sulla correttezza dei processi decisionali, sul presupposto – peraltro tutto da verificare e, anzi, contestato da una buona parte di studi sul processo decisionale – della capacità delle emozioni di corrompere negativamente la logica formale del ragionamento giuridico. Occorre evidenziare come questi aspetti siano la conseguenza delle diverse aspettative dei protagonisti del processo e, in buona sostanza, della funzione stessa del medesimo, e che essi si manifestano nella sfera empirica e possono essere percepiti, ad esempio, nelle manifestazioni verbali o negli atti del processo che occultano completamente la dimensione emotiva della vittima per concentrarsi invece sull’apporto di conoscenza dei fatti da accertare. Appare, allora, del tutto evidente come questa limitazione del ruolo della persona offesa, che non è percepita nella sua interezza, configuri un ulteriore elemento di disagio per la stessa, con la conseguente percezione di sentirsi, in qualche modo, estranea e incompresa nel luogo che dovrebbe essere destinato a offrirle giustizia.

8. Prospettive

A questo punto, si possono trarre alcune conclusioni dalle precedenti osservazioni.

Il lungo percorso di attenzione e di cura alle vittime, intese come soggetti deboli che hanno subito un pregiudizio, è un percorso di civiltà che si è manifestato nello sviluppo del diritto penale e processuale, e che trova un pieno riconoscimento anche nella nostra Carta costituzionale, che si pone l’obiettivo della tutela dei soggetti deboli promuovendo l’eguaglianza sostanziale delle persone. Le fonti internazionali hanno contribuito in maniera decisiva a questo percorso, normativizzando principi e valori che sono stati poi accolti nei vari ordinamenti nazionali, tra cui il nostro. Una delle tappe fondamentali di questo cammino riguarda l’attenzione rivolta alla vittima nella vicenda inerente all’accertamento giudiziale del reato, con la previsione di norme che garantiscano l’informazione, la presenza e la difesa nel processo, nonché la tutela dalla vittimizzazione secondaria mediante strumenti processuali che limitino l’impatto negativo che può derivare dal processo.

Tuttavia, la funzione stessa del processo, di garanzia per l’imputato, fa sì che esso non possa trasformarsi nel luogo destinato alla piena soddisfazione della vittima, pur svolgendo nei suoi confronti una fondamentale funzione: quella del riconoscimento.

Proprio il riconoscimento della vittima in quanto tale rappresenta uno snodo essenziale per la sua tutela. La visibilità offerta a chi ha subito un danno dal reato oggetto di accertamento nel processo penale diventa il punto di partenza non soltanto per le pratiche risarcitorie, ma anche e soprattutto per una fuoriuscita dalla condizione di minorità in cui si trova il soggetto. L’importanza del riconoscimento della condizione di vittima costituisce un filo rosso che lega tutte le analisi in materia di vittimologia.

Il processo penale può, allora, svolgere una funzione essenziale in questa direzione, e costituire il punto di partenza per una compiuta tutela della vittima.

Al contempo, si è visto come, in tale luogo, il soggetto debole danneggiato dal reato difficilmente potrà trovare una completa soddisfazione al bisogno di uscita dalla sua condizione di inferiorità. Le pratiche risarcitorie di natura economica collegate al processo possono costituire senza dubbio un passo importante per la sua tutela, ma non esauriscono necessariamente il percorso di emancipazione dalla condizione di sofferenza nella quale si trova soggetto danneggiato.

È fondamentale, però, sottolineare come tale conclusione non rappresenti un’amara constatazione di impotenza, ma al contrario costituisca il punto di partenza di un diverso cammino.

L’assistenza e la tutela delle vittime nel processo possono essere considerate come necessari correttivi, frutto della sensibilità sociale, recentemente acquisita, nei confronti della vittima; tuttavia, questo tipo di assistenza e tutela non coincidono con la più profonda richiesta di giustizia della vittima. Un sistema veramente attento alla persona offesa dal reato si dovrebbe proporre – rendendola possibile – la realizzazione di quella che viene definita dai vittimologi la “closure”, il sentimento di “compimento” della vicenda.

Tale ambizioso obiettivo si pone nell’orizzonte della cd. giustizia riparativa.

Non è naturalmente possibile, in questa sede, nemmeno iniziare un discorso sul tema, per la vastità delle sue implicazioni; ciò nonostante, se si vuole concludere il discorso sui limiti della tutela della vittima nel processo, nella diversa prospettiva di un possibile sviluppo positivo, bisogna necessariamente portare l’attenzione sulle possibilità di una giustizia riparativa conciliativa quale moderno strumento di tutela delle vittime di reato.

Dobbiamo ricordare che la giustizia riparativa e il suo strumento principale, la mediazione penale, rappresentano la migliore risposta per evidenziare il ruolo della vittima nella definizione del conflitto generato dal reato e per rispondere concretamente ai suoi bisogni, in quanto essa si fonda sul presupposto che “reato” non è soltanto la violazione di una norma giuridica, ma costituisce una realtà molto più complessa, capace di generare una molteplicità di offese, in quanto molteplici sono i soggetti che possono riportare conseguenze negative dal fatto criminoso. Quindi, solo nel contesto della mediazione penale la vittima diventa protagonista e trova un luogo dove esprimere le proprie sofferenze e i propri bisogni: il che non può accadere nel processo penale, per le ragioni che si sono finora esplicitate.

Tutto ciò comporta, ovviamente, un’attenzione allo sviluppo di questo paradigma di giustizia. Lo studio del suo statuto teorico, delle sue manifestazioni pratiche e delle possibilità di concreta realizzazione nelle legislazioni nazionali apre uno scenario affascinante e complesso, con l’obiettivo – ambizioso, ma ineludibile – di una giustizia tesa verso una umanizzazione del diritto penale, in grado di collocarlo correttamente all’interno delle complesse dinamiche dei rapporti sociali nelle società a democrazia avanzata.