Magistratura democratica

Questioni controverse in tema di mediazione

di Massimo Vaccari

L’Autore affronta, col supporto di ampi riferimenti alla giurisprudenza più recente, molti dei più rilevanti nodi pratici in tema di mediazione: mediazione e cumulo oggettivo e soggettivo di domande, domanda riconvenzionale e reconventio reconventionis, intervento, tutela cautelare, opposizione a decreto ingiuntivo, senza dimenticare le problematiche legate all’attuazione del principio del contraddittorio e le sanzioni per mancata partecipazione alla mediazione.

Premessa

Con il Dl 21 giugno 2013 n. 69, convertito dalla legge 9 agosto 2013 n.98 il legislatore ha introdotto alcune significative modifiche al procedimento di mediazione intervenendo in particolare, ancor più incisivamente rispetto alla scelta originaria compiuta con il dlgs 4 marzo 2010 n. 28, sul rapporto tra procedimento di mediazione e processo civile, attraverso previsioni quali quella dell’obbligo di assistenza tecnica per la parte che partecipa alla mediazione e la fissazione di un criterio di competenza per territorio dell’organismo di mediazione.

Con l’approvazione di tale disciplina si è però anche persa l’occasione per chiarire, in via normativa, altri profili del predetto rapporto che avevano già dato luogo a dubbi interpretativi e soluzioni eterogenee sia in dottrina che giurisprudenza e tra essi vi sono sicuramente quelli oggetto della presente trattazione.

Per contro molte delle nuove norme, frutto, ancora una volta, di una tecnica legislativa assai scadente che purtroppo, è divenuta una costante, risultano poco chiare, prestandosi così a differenti interpretazioni.

In questo scritto si esamineranno le questioni tuttora più controverse seguendo, come ordine di esposizione, quello derivante dalla scansione del procedimento di mediazione.

1. La natura del primo incontro davanti al mediatore

Secondo l’opinione della dottrina prevalente e di una parte della giurisprudenza[1], a seguito delle modifiche introdotte al dlgs n. 28/2010 ad opera dell’art. 84 del Dl 21 giugno 2013, n.69, l’assistenza difensiva è divenuta obbligatoria, fin dal primo incontro davanti al mediatore, perlomeno nei casi in cui la mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale, ivi compresi quindi quelli di mediazione demandata dal giudice (la questione è invece tuttora controversa con riguardo alla mediazione volontaria).

Il disposto normativo risulta quanto mai chiaro sul punto. Infatti l’art. 5, comma 1-bis, del Dlgs 28/2010 prevede che: «Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di… è tenuto, assistito dall’avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto…».

Data tale premessa, non si vedono ostacoli normativi a che la parte conferisca procura speciale al proprio difensore affinché partecipi per suo conto alla procedura al fine di conciliare la controversia. 

In giurisprudenza si sta affermando un orientamento[2] che, con specifico riguardo alla mediazione demandata dal giudice, ritiene, sulla base di una articolata ricostruzione della disciplina rilevante sul punto, che l’ordine del giudice possa considerarsi rispettato, e di conseguenza la condizione di procedibilità possa dirsi realizzata, solo se le parti siano comparse di persona davanti al mediatore e il tentativo di conciliazione sia stato effettivo.

2. Mediazione obbligatoria e cumulo oggettivo o soggettivo di domande

Il Dlgs 28/2010 non dedica nessuna disposizione a tali ipotesi nemmeno dopo l’intervento correttivo di cui al Dl 69/2013.

L’art. 5, infatti, fa riferimento alla parte che «intenda esercitare in giudizio un’azione»: e dunque parrebbe riferirsi all’attore, ovvero agli attori, nei casi di litisconsorzio attivo.

2.1 Pluralità di domande proposte dall’attore e domande nei confronti di una pluralità di convenuti

Nei casi di procedimenti complessi dal punto di vista oggettivo o soggettivo, parte della dottrina (Petta) reputa che la condizione di procedibilità debba essere soddisfatta per ogni domanda cumulata dall’attore ex art. 104 cpc e rientrante nella lista di cui al comma 1-bis dell’art. 5.

Altro autore (Battaglia) ritiene invece che occorra distinguere l’ipotesi del cumulo oggettivo di domande connesse, per oggetto o per il titolo, da quella di cumulo oggettivo unilaterale di domande non connesse. Nel primo caso, qualora una delle domande fosse stata oggetto del procedimento di mediazione, non vi sarebbe necessità di un nuovo procedimento di mediazione pena la lesione del principio di ragionevole durata del processo. Nella seconda ipotesi, invece, se una delle cause avesse implicato il preventivo esperimento del procedimento di mediazione ed esso non vi fosse stato, occorrerebbe rilevare il difetto della condizione di procedibilità separando la domanda da sottoporre a mediazione dalle altre.

2.2 Mediazione obbligatoria e domanda riconvenzionale e reconventio reconventionis

Meno ovvio è l’operare dalla norma in esame rispetto alle domande fatte valere nel corso del processo dal convenuto, dai terzi intervenienti volontari, o su chiamata, e pure dallo stesso attore, sotto forma di reconventio reconventionis, a fronte di una domanda principale che sia stata preceduta dalla mediazione obbligatoria.

Secondo un autore (Petta), ove non si sia svolto tentativo di conciliazione rispetto alla domanda principale e la riconvenzionale sia soggetta a mediazione obbligatoria, nulla esclude che il tentativo di conciliazione possa avere luogo su quest’ultima.

Secondo altra lettura (Petta), invece, la proposizione di una domanda “incidentale” costituisce, come è ovvio, «esercizio del diritto d’azione», per quanto nell’ambito di un processo cominciato da altri, o comunque già in corso, e quindi non sotto forma di “azione” autonoma. Si può, dunque, pensare che la ratio legis sia limitata all’iniziativa processuale che dà vita ad un processo, senza estendersi anche ai fenomeni di ampliamento dell’ambito oggettivo del giudizio già avviato (Dittrich; Masoni). La posizione in esame osserva anche che l’applicazione dell’art. 5 alle domande proposte in corso di causa può portare ad una molteplicità di rinvii del processo e ad un aumento esponenziale dei costi per le parti.

In questo senso si è orientata anche parte della giurisprudenza di merito[3], che ha escluso dall’ambito della mediazione obbligatoria tutte le domande diverse da quella dell’attore proposta con l’atto introduttivo del giudizio, comprese le cd. riconvenzionali inedite, ovvero quelle emerse solo nella fase giudiziale della controversia e non nel corso del procedimento di mediazione.

A sostegno di tale soluzione sono state addotte varie ragioni, le principali delle quali sono le seguenti:

  1. la soluzione avversata determina un allungamento notevole dei tempi di definizione del processo in contrasto con l’art. 111 Cost;
  2. qualora il giudice, per non ritardare l’iter processuale sulla domanda principale, separasse da essa la riconvenzionale, tale operazione determinerebbero un aumento del numero dei fascicoli;
  3. le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga al diritto di azione, devono essere interpretate in senso restrittivo;
  4. art. 5 indica il solo convenuto come la parte legittimata a sollevare il difetto di previo esperimento del tentativo di conciliazione;
  5. occorre evitare che vengano formulare domande riconvenzionali al solo fine di costringere il giudice a mandare di nuovo le parti in mediazione.

Al predetto orientamento se ne affianca un altro (Buffone; Battaglia) che sostiene che, anche la riconvenzionale inedita, vale a dire quella emersa solo nella fase giudiziale della lite e non anche nel corso della mediazione, debba essere preceduta dal tentativo di conciliazione[4], e, al fine di giustificare questa conclusione, ai succitati argomenti contrappone i seguenti:

  1. la Cassazione[5] ha interpretato una norma analoga all’art. 5 comma 1, ossia l’art. 46 l. 3 maggio 1982 n. 3 in materia di controversie agrarie nel senso che l’onere del preventivo esperimento del tentativo di conciliazione, sia pure quale condizione di proponibilità della domanda, sussiste anche nei confronti del convenuto che proponga una riconvenzionale secondo uno dei criteri di collegamento previsti dall’art. 36 cpc;
  2. consentire la trattazione congiunta delle reciproche pretese davanti al mediatore potrebbe favorire una soluzione conciliativa, senza il paventato allungamento dei tempi di definizione del giudizio, e, in tale prospettiva, sarebbe opportuno, ed anzi necessario, che il giudice, anziché separare la riconvenzionale dalla domanda principale, suggerisse alle parti di riportare in mediazione anche la domanda principale, utilizzando a tal fine l’istituto della mediazione delegata;
  3. il termine convenuto, utilizzato dalla norma per indicare il soggetto che eccepisce l’improcedibilità della domanda, ben può essere riferito all’attore rispetto alla domanda riconvenzionale;
  4. l’esclusione della domanda del convenuto dall’ambito di applicazione dell’art. 5, comma 1-bis provocherebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra attore e convenuto del tutto illegittima.[6]

Questa ricostruzione, peraltro, muove dalla premessa dell’adesione dell’indirizzo della Corte di cassazione[7] che aveva interpretato l’art. 46 della l. 3 maggio 1982 n.3 nel senso di escludere la necessità del tentativo di conciliazione propedeutico alla riconvenzionale in presenza dei seguenti presupposti: le parti del giudizio fossero coincise con le parti del tentativo obbligatorio di conciliazione; la formulazione della domanda riconvenzionale non avesse comportato nessun ampliamento della controversia già oggetto della conciliazione perché fondata su questioni già esaminate in quella sede.

 

Tale soluzione risulta praticabile anche quando nel corso di un procedimento sommario venga svolta una domanda riconvenzionale che non richieda una istruzione non sommaria (art. 702-ter, quarto comma cpc), potendo ipotizzarsi che la separazione sia attuata dopo l’esperimento infruttuoso del procedimento di mediazione.

A quanto appena detto consegue che sarà la parte attrice che eccepisse la mancata realizzazione della condizione di procedibilità della riconvenzionale a dover allegare e dimostrare che i fatti oggetto di essa sono stati trattati nel corso della mediazione e, al fine di assolvere tale onere, essa potrà avvalersi o dell’adesione della controparte o della produzione dei verbali di mediazione, purché in essi siano state esplicitate le causae petendi della pretesa delle parti, e degli atti costitutivi (Buffone).

È anche vero che, come è stato evidenziato in dottrina (Battaglia), per valutare se la domanda nuova sia stata effettivamente assoggettata al tentativo di conciliazione è sufficiente che nel procedimento di mediazione già svolto siano stati in qualunque forma discussi l’oggetto e le ragioni della pretesa contenuta nella nuova domanda.

Occorre peraltro tenere presente che la verifica sul punto potrebbe non essere agevole, qualora l’istanza di mediazione non contenesse tutti gli elementi identificativi della pretesa ma solo quelli che richiede l’art.4, comma 2, Dlgs 28/2010 (indicazione dell’organismo, delle parti, dell’oggetto e delle ragioni della pretesa).

Le considerazioni sopra svolte dovrebbero valere anche per la reconventio reconventionis.

2.3. Mediazione obbligatoria e domanda trasversale

Per quanto riguarda l’ipotesi della domanda trasversale, ossia la riconvenzionale del convenuto nei confronti di altro convenuto, la dottrina ha osservato che, allorquando essa investa un rapporto soggetto mediazione obbligatoria, a rigore il tentativo di mediazione sarebbe sempre necessario, dal momento che non vi è coincidenza soggettiva tra le parti del rapporto processuale introdotto dalla predetta domanda.

È stato però parimenti osservato (Buffone) che la predetta soluzione porterebbe a risultati iniqui, ad esempio nel caso in cui la riconvenzionale del convenuto verso altro convenuto dipendesse dalla soccombenza nei confronti dell’attore, cosicché al fine di ovviare ad essi si è  proposto di recuperare un principio elaborato dalla Suprema corte con riguardo al rito agrario[8] e secondo il quale non vi è necessità di un nuovo tentativo di conciliazione, quando la parte non abbia il potere di evitare la controversia ad esempio stipulando una transazione: la conseguenza sarebbe che quando la domanda trasversale del convenuto prescinde dalla domanda dell’attore non deve essere preceduta dal tentativo di mediazione. 

2.4 Mediazione obbligatoria e domande proposte contro e da terzi

Nel caso di litisconsorzio necessario (art. 102 cpc), che sia stato preceduto dallo svolgimento del procedimento di mediazione nei confronti di solo alcuni dei litisconsorti, appare ragionevole la tesi di chi (Battaglia) esclude la necessità di un nuovo tentativo di conciliazione poiché la possibilità di un successo della conciliazione è escluso nel caso di specie dalla circostanza che già alcune delle parti hanno sottoposto la lite, soggettivamente inscindibile alla decisione di un giudice.

Diversamente, nel caso di litisconsorzio facoltativo (art. 103 cpc) è stato sostenuto che, se tutti i rapporti sono soggetti a mediazione obbligatoria, ciascuno di essi dovrà avere soddisfatto la condizione dell’art. 5 nei confronti di tutti gli eventuali convenuti (Petta).

Rispetto alle ipotesi di intervento di terzo può convenirsi con chi (Battaglia) ritiene che, qualora si tratti di intervento adesivo autonomo, poiché esso è svolto al fine di sostenere le ragioni di una delle parti, non vi sia la necessità di ripetere il tentativo di conciliazione già esperito dalle parti, quanto meno qualora il titolo dell’interveniente sia connesso al titolo dedotto in giudizio. Ad opposta soluzione deve invece pervenirsi rispetto all’ipotesi dell’intervento principale (art. 105, primo comma, cpc) poiché in questo caso il terzo fa valere nei confronti delle parti un diritto incompatibile con quello già oggetto di controversia (Buffone).

Altra tesi (Battaglia), invece, distingue a seconda che le domande siano tra loro connesse propriamente o impropriamente poiché solo in questa seconda ipotesi si può escludere che lo svolgimento della mediazione per solo una delle cause connesse abbia soddisfatto la condizione di procedibilità anche per le altre. 

Venendo a considerare le ipotesi di intervento di terzo ad istanza di parte, secondo certa dottrina (Battaglia), vanno distinte le due ipotesi considerate dall’art. 106 cpc della chiamata del terzo per comunanza di causa e dalla chiamata di terzo in garanzia.

La prima, analogamente alle altre sopra considerate, deve essere preceduta dal tentativo di conciliazione, sempre che riguardi uno dei rapporti di cui all’art. 5, comma 1-bis del Dlgs 28/2010, qualora il terzo vanti un diritto incompatibile con quello già oggetto di causa.

Rispetto alle ipotesi di chiamata in garanzia del terzo che involga un rapporto soggetto a mediazione obbligatoria la stessa dottrina sopra citata distingue la fattispecie della garanzia cd. propria da quella di garanzia impropria atteso che quest’ultima non si fonda sullo stesso rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio ma deriva da un collegamento di mero fatto senza che tra le domande sussista alcuna connessione. Solo nel caso di garanzia propria quindi può escludersi la necessità del preventivo esperimento del tentativo di mediazione che si sia già svolto rispetto alla domanda principale.

In tutte le ipotesi, esaminate nel presente paragrafo, nelle quali va rinnovata la mediazione rispetto ad una delle domande o dei rapporti processuali cumulati è opportuno che in mediazione sia demandata l’intera controversia, perché solo in tal modo essa potrà essere definita in via conciliativa[9].

Il giurisprudenza[10] al problema è stata data una soluzione molto pragmatica, consistente nel rimettere alla mediazione tutte le controversie, in applicazione del disposto di cui al comma 2 dell’art. 5, Dlgs 28/2010, e ciò al fine di favorire la conciliazione. 

Nel caso esaminato la domanda originaria, avente ad oggetto risarcimento danni conseguenti ad un intervento chirurgico, non era soggetta a mediazione, in quanto introdotta in data antecedente l’entrata in vigore del decreto cd. del fare; mentre le ulteriori domande avanzate dalle altre parti (la casa di cura nei confronti del medico per manleva e quest’ultimo, a sua volta, contro la propria assicurazione tenuta per la responsabilità civile), in tesi, erano soggette all’obbligo di conciliazione, la prima in quanto afferente a garanzia impropria e la seconda, contratto assicurativo.

Orbene il giudice è giunto alla predetta conclusione sulla base del rilievo in considerazione che la separazione della causa soggetta a mediazione obbligatoria da quella che non vi è sottoposta potrebbe pregiudicare un esito conciliativo della fase di mediazione poiché il convenuto della prima ben difficilmente sarebbe propenso a valutare soluzioni transattive con la propria compagnia assicuratrice, senza sapere se e a quali condizioni potrebbe raggiungere un accordo bonario con la propria chiamante.

3. Tutela cautelare ante causam e onere di instaurazione del giudizio di merito

L’art. 5, comma 3, nel testo vigente e non modificato dall’intervento normativo del Dl del fare, prescrive che «Lo svolgimento della mediazione non preclude in ogni caso la concessione dei provvedimenti urgenti e cautelari (…)».

La formula normativa non è delle più felici, poiché con il termine «svolgimento» la disposizione sembrerebbe disciplinare le sole ipotesi di procedimento di mediazione nel corso del quale sorga l’esigenza di rivolgersi al giudice per ottenere la concessione di provvedimenti cautelari. In realtà, è fuor di dubbio che la tutela cautelare ante causam sia assolutamente svincolata anche dalla previa instaurazione del procedimento di mediazione, finanche nei casi in cui questo assurga a condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Tra le questioni applicative poste dalla operatività della mediazione obbligatoria nelle materie indicate dall’art. 5, comma 1-bis, Dlgs 28/2010 che il legislatore delegato non ha disciplinato, una delle più delicate riguarda l’individuazione della strada percorribile dalla parte, che avendo ottenuto un provvedimento cautelare abbia l’onere di promuovere il giudizio di merito, la cui procedibilità sia condizionata, ex lege o ex contractu, al previo esperimento del procedimento di mediazione.

Il problema non si pone per i provvedimenti cautelari a strumentalità attenuata di cui all’art. 669-octies, 6° co., cpc (provvedimenti d’urgenza ex art. 700 cpc o emessi a seguito di denunce di nuova opera e danno temuto, cautele anticipatorie in genere), giacché, in assenza di un onere, per la parte che ne abbia beneficiato, di instaurare il giudizio di merito in un termine perentorio, tale parte può presentare istanza di mediazione (obbligatoria o volontaria) e riservarsi all’esito di agire in giudizio, senza alcun pregiudizio per la perdurante efficacia della cautela.

Allo stesso modo non vi è questione rispetto ai procedimenti di istruzione preventiva di cui agli artt. 692 ss. cpc che, pur avendo natura cautelare, sono da sempre “sganciati” da un rigido collegamento temporale con il giudizio di merito. 

Discorso diverso invece va fatto per le cautele a carattere conservativo, in quanto la loro concessione ante causam impone, ai sensi dell’art. 669-octies, primo comma, cpc, alla parte che le abbia conseguite di instaurare il relativo giudizio di merito nel termine fissato dal giudice o, in mancanza, entro sessanta giorni, pena l’inefficacia della misura. In questo caso, infatti, l’obbligatoria attivazione del procedimento di mediazione anteriormente all’instaurazione del giudizio contenzioso potrebbe determinare la decorrenza di quel termine nelle more della procedura stragiudiziale, con conseguente vanificazione della tutela ottenuta dalla parte istante.

Si potrebbe sostenere che il rischio di caducazione del provvedimento conservativo ante causam sarebbe minore, in virtù delle modifiche normative introdotte dal Dl 69/2013 che consentono alla mediazione di arrestarsi subito dopo il primo incontro (nel caso di verificata impossibilità di giungere all’accordo conciliativo), e di quelle che hanno ridotto la durata del procedimento, ex art. 6 Dlgs n. 28/2010, da quattro mesi a tre mesi . In realtà, anche a fronte di tale mutato contesto normativo, il rischio di veder sfumata la tutela cautelare ottenuta non è del tutto escluso poiché nessuno dei termini del procedimento di mediazione è perentorio, in quanto non espressamente qualificato come tale.

Secondo una prima tesi (Minelli) sarebbe applicabile analogicamente, in caso di mediazione obbligatoria ex lege, il quarto comma dell’art. 669-octies, cpc, il quale, con riferimento al previo tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di controversie di lavoro pubblico, dispone tuttora che il termine per la proposizione della causa di merito successivamente alla concessione di misura cautelare «decorre dal momento in cui la domanda giudiziale è divenuta procedibile o, in caso di mancata presentazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione, decorsi trenta giorni».

A tale ricostruzione è stato però obiettato, in primo luogo, che la predetta disposizione può ritenersi tacitamente abrogata, essendo stata introdotta con riferimento ad una fattispecie di tentativo di conciliazione la cui obbligatorietà è venuta meno a seguito della riforma recata dalla l. 4 novembre 2010, n. 183 (cd. “collegato lavoro”). In secondo luogo, è stato giustamente osservato che è di ostacolo alla possibilità di una estensione in via analogica della norma il suo carattere speciale, dal momento che si riferisce allo specifico ambito delle controversie relative a rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni (così Tiscini).

Una seconda opinione (Dalfino) ha ipotizzato l’applicabilità dell’art. 5, ult. comma, Dlgs 28/2010, ritenendo che l’effetto impeditivo della decadenza collegato dalla citata norma alla comunicazione dell’istanza di mediazione alle altre parti possa intendersi come riferibile, in senso più ampio, anche alle decadenze connesse alla decorrenza di termini processuali, come quello previsto dall’art. 669-octies, 1° e 2° co., cpc.

Sulla base di tale premessa, quindi, la parte che abbia richiesto ed ottenuto una misura cautelare conservativa potrebbe evitare la perdita di efficacia della stessa anche comunicando alla controparte (o alle altre parti) la sola istanza di mediazione entro il termine previsto dal codice di rito per l’introduzione del giudizio contenzioso, fermo restando che, in caso di fallimento del tentativo, la domanda giudiziale dovrebbe essere proposta entro il medesimo termine, decorrente dal deposito del verbale negativo presso la segreteria dell’organismo[11].

Anche questa soluzione si espone ad alcuni rilievi.

In primo luogo, già ponendo attenzione al termine previsto dall’art. 669-octies cpc non appare agevole prospettarne un inquadramento come termine di decadenza in senso proprio.

A conforto di tale interpretazione occorre aggiungere che l’art. 5, comma 6, Dlgs 28/2010 ricalca il disposto dell’art. 410, secondo comma, cpc, rispetto al quale non si è mai dubitato che qualifichi in termini di decadenza sostanziale il periodo di tempo occorrente per l’espletamento del tentativo di conciliazione. Entrambe le norme infatti estendono alla domanda di conciliazione gli stessi effetti della domanda giudiziale.

In secondo luogo, anche nell’ottica specifica della disciplina contenuta nel Dlgs 28/2010, risulta problematico riconoscere all’istanza di mediazione (che avvia un procedimento di natura pur sempre stragiudiziale) effetti processuali diversi ed ulteriori rispetto a quelli cui il legislatore delegato ha espressamente riconosciuto rilevanza ai fini della valutazione giudiziaria della procedibilità del giudizio contenzioso (così Gasperini).

Nel dubbio, mi pare maggiormente condivisibile la tesi, sia dottrinale (Lupoi; Cuomo Ulloa) che giurisprudenziale[12], secondo cui la parte che ha chiesto e ottenuto un provvedimento ante causam per una controversia rientrante in una delle materie per cui è prevista la mediazione obbligatoria, pur volendo esperire il procedimento di mediazione, non può esimersi dall’istaurare il giudizio di merito ex art. 669-octies cpc, in quanto il termine della durata della procedura di mediazione può spingersi fino a tre mesi, ed è dunque più ampio rispetto al termine perentorio di cui all’art. 669-octies, comma 1, cpc.

Tale ricostruzione comporta, quindi, che la parte che abbia ottenuto la tutela cautelare possa optare per l’introduzione del giudizio di merito e attendere che la controparte sollevi l’eccezione di improcedibilità, o che il giudice ne rilevi la mancanza, per instaurare il procedimento di mediazione e in tale ipotesi non sosterrà costi maggiori di quelli che avrebbe sostenuto comunque (Fanelli).

In alternativa tale parte potrebbe proporre contemporaneamente il giudizio di merito ed il procedimento di mediazione ma è evidente che tale soluzione finirebbe per vanificare la finalità deflattiva propria della mediazione, anche se non esporrebbe a particolari costi, dopo che, con la modifica dell’art. 8 Dlgs 28/2010, si è previsto che se le parti non hanno intenzioni conciliative il procedimento si possa concludere già al primo incontro.

4. Mediazione obbligatoria e giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo

Al comma 4 dell’art. 5 il legislatore delegato ha previsto alcune ipotesi in cui il tentativo di mediazione obbligatoria non abbia luogo prima dell’inizio del procedimento ma in un momento successivo.

Si tratta di procedimenti (procedimento di sfratto, opposizione a decreto ingiuntivo e procedimento possessorio) tutti accomunati da una struttura processuale (solo eventualmente) bifasica rispetto ai quali la scelta del legislatore appare chiara: è congruente al significato complessivo della disciplina in tema di mediazione escludere il previo esperimento di tale incombente per questa tipologia di procedimenti che potrebbero risolversi senza l’insorgenza di alcun contrasto tra le parti e in modo consensuale.

Ad esempio nel caso di procedimento per convalida di sfratto esso può pervenire a conclusione se il convenuto non compare in udienza o, comparendo, non si oppone (art. 663 cpc), mentre è solo con l’opposizione spiegata dall’intimato che si realizza un contrasto di pretese che va risolto con la decisione.

Allo stesso modo, il giudizio possessorio può concludersi senza sfociare nella fase di merito e ai procedimenti per ingiunzione potrebbe non seguire la fase di opposizione. 

Con riguardo a questi ultimi il legislatore ha stabilito che la mediazione vada tentata dopo la pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione. In sostanza, libera la proponibilità del ricorso per ingiunzione, in caso di opposizione, il giudice dovrà dare i provvedimenti previsti dal comma 1-bis dell’art. 5 all’esito della prima udienza o comunque contestualmente all’ordinanza in cui decida in merito alla provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo.

Secondo un autore (Masoni), peraltro, qualora nessuna delle parti formulasse istanze relative alla provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo., non essendo applicabile il presupposto di legge, non vi sarebbe spazio per il tentativo di conciliazione. La soluzione è stata però criticata (Lupoi), a mio giudizio in modo condivisibile, sulla base del rilievo che appare incongruo escludere l’obbligatorietà della mediazione in base ad un elemento così occasionale.

Questa interpretazione trova riscontro nel passo della relazione illustrativa al comma 4, lett. a e b del Dlgs 28/2010 nel quale si legge che l’esclusione dei procedimenti in esame si giustifica per il fatto che essi sono caratterizzati «da un contraddittorio differito o rudimentale, e mira a consentire al creditore di conseguire rapidamente un titolo esecutivo. Appare pertanto illogico frustrare tale esigenza imponendo la mediazione o comunque il differimento del processo (sulla non applicabilità del tentativo obbligatorio di conciliazione al procedimento ingiuntivo v. del resto Corte cost. 6 febbraio 2001, n. 29; Corte cost. 13 luglio 2000, n. 276). È stato peraltro previsto che la mediazione possa trovare nuovamente spazio all’esito della fase sommaria, quando le esigenze di celerità sono cessate, la decisione sulla concessione dei provvedimenti esecutivi è stata già presa e la causa prosegue nelle forme ordinarie».

È evidente, quindi, che, anche qualora non dovessero esservi istanze del genere suddetto, nulla escluderebbe l’applicazione del meccanismo ordinario previsto dall’art. 5, con rilievo anche ufficioso, alla prima udienza, del mancato soddisfacimento della condizione di procedibilità.

Il problema che, nel silenzio anche della relazione illustrativa, può porsi rispetto all’ipotesi di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo integrante una controversia soggetta a mediazione obbligatoria, che non sia stato preceduto dalla mediazione, è quello di stabilire quale parte, tra opponente ed opposto, abbia l’onere di promuovere il giudizio di cognizione una volta che vi sia stata la decisione sulla provvisoria esecuzione o, più correttamente, se la mediazione costituisca condizione di procedibilità della domanda monitoria o della azione di cognizione.

A ben vedere essa si può presentare solo qualora nessuna delle parti del giudizio si sia attivata per proporre la mediazione, atteso che il termine per la proposizione della domanda di mediazione va assegnato dal giudice “alle parti”.

Due sono le proposte interpretative che sono state avanzate al riguardo.

La prima, di carattere letterale[13], fa leva sul dato normativo dell’art. 5, comma 1-bis, Dlgs 28/2010 che individua nella «improcedibilità della domanda» l’effetto del mancato esperimento della mediazione, con la conseguenza che tale domanda andrebbe ravvisata, ai sensi dell’art. 39 cpc, nel ricorso monitorio. A conforto di tale postulato si è osservato che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte[14], la fase di opposizione a decreto ingiuntivo non consiste in una azione di impugnativa nei confronti della emessa ingiunzione ma, essendo invece un ordinario giudizio sulla domanda del creditore, che si svolge in prosecuzione del procedimento monitorio, in essa il giudice dell’opposizione deve affrontare e decidere il merito, e cioè accertare sia l’an che il quantum della pretesa del creditore.

Secondo questa tesi la medesima soluzione varrebbe per la domanda di convalida di sfratto che, dopo il mutamento di rito si converte automaticamente in domanda di risoluzione negoziale, con la conseguenza che la condizione di procedibilità è richiesta per quest’ultima.

La seconda interpretazione, che riprende argomenti già esposti in dottrina con riguardo alla identica questione del rapporto tra procedimento monitorio e tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro (Ronco), è di tipo teleologico in quanto valorizza la finalità deflattiva della disciplina della media-conciliazione e pone in luce la criticità della prima tesi che farebbe retroagire l’improcedibilità ex art. 5 all’azione esercitata con il ricorso originario, quale sanzione per il mancato adempimento di un obbligo che scatta in una fase successiva (Gasperini).

Quest’ultima soluzione, si fa osservare dai chi opta per la tesi ora in esame, finisce per configgere con il dato letterale invocato proprio dai propugnatori dell’improcedibilità della domanda monitoria, imponendo di giungere ad una pronuncia di revoca e/o nullità sopravvenuta e/o inefficacia (non codificata e perciò atipica) del decreto ingiuntivo.

A sostegno della seconda tesi è stato poi aggiunto che essa consente di salvaguardare il principio cardine del diritto processuale in tema di diritti disponibili: l’interesse ad agire ex art. 100 cpc. Infatti, tenuto conto che le fasi sommarie sono suscettibili di chiudersi con provvedimenti che diventano definitivi ove la fase successiva di merito non venga coltivata, l’opposto che fosse già munito di clausola di provvisoria esecutività ex art. 648 cpc non avrebbe interesse a promuovere la mediazione nella prospettiva di una bonaria riduzione del proprio credito. Stando a questa ricostruzione è l’opponente che ha davvero un interesse concreto ed attuale a che il processo “proceda” e, pertanto, è colui che ancora ha qualcosa da “domandare”, in senso sostanziale, al conciliatore, in prima battuta, e, in successione, al giudice.

Questa tesi, nell’onerare dell’incombente l’opponente, ha in pregio, ad avviso dello scrivente, di tener conto della caratteristica del giudizio di opposizione come un’unica ipotesi, ammessa dal nostro ordinamento, di giudizio ad iniziativa del convenuto.

A sostegno di essa recente giurisprudenza[15], ha addotto anche l’ulteriore e convincente argomento secondo cui la interpretazione delle disposizioni di cui al Dlgs n. 28/10 in materia di conseguenze dell’omessa mediazione in caso di giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo non possa prescindere dalla sua assimilazione ai giudizi impugnatori, atteso che, al pari di questi, il ritardo nella proposizione del giudizio ne determina la improcedibilità, con la conseguenza che nell’opposizione a decreto ingiuntivo, così come per i procedimenti di appello, la locuzione “improcedibilità della domanda giudiziale” va intesa alla stregua di improcedibilità/estinzione dell’opposizione (o dell’impugnazione in caso di appello) e non come improcedibilità della domanda monitoria consacrata nel provvedimento ingiuntivo. La stessa pronuncia ha poi osservato che la opposta interpretazione conduce, del tutto inopportunamente, a porre nel nulla una pretesa che è già stata scrutinata positivamente dall’autorità giudiziaria, sia pure non nel contraddittorio delle parti, con provvedimento idoneo al giudicato sostanziale.

5. Procedimento di mediazione e principio del contraddittorio

I provvedimenti di cui all’art. 5, comma 1-bis, Dlgs 28/2010, a rigore, devono essere presi in udienza, nel contraddittorio delle parti. Peraltro sia con riguardo ai giudizi di cognizione ordinaria che ai procedimenti che iniziano con ricorso (procedimenti soggetti al rito locatizio e procedimenti sommari di cognizione), alcuni interpreti ritengono che il giudice, verificato il mancato ottemperamento della condizione di procedibilità, li possa emettere d’ufficio, anche prima dell’udienza e dunque senza prospettare la questione alle parti. E, così, nell’ambito di procedimenti soggetti al rito locatizio ex art. 447-bis cpc, in sede di fissazione dell’udienza di discussione, alcuni giudici si sono orientati ad assegnare al ricorrente il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione[16], con contestuale fissazione dell’udienza (ai sensi dell’art. 420 cpc) per una data successiva alla scadenza del termine di quattro mesi (ora come detto ridotto a tre) previsto dall’art. 5, comma 1-bis[17].

La soluzione, che con tutta evidenza mira ad anticipare i tempi per l’esperimento del procedimento di mediazione, non è però del tutto condivisibile sotto il profilo pratico-applicativo, atteso che presuppone che la decisione sulla sussumibilità della controversia tra quelle soggette a mediazione obbligatoria possa prescindere dalla interlocuzione con tutte le parti del giudizio laddove questo momento può risultare utile anche al fine della compiuta qualificazione giuridica del rapporto.

La giurisprudenza[18] si è occupata di una questione analoga, ossia se possa disporsi la rinnovazione della notifica dell’atto di citazione o l’integrazione del contraddittorio per una successiva udienza, con contestuale assegnazione del termine per lo svolgimento della mediazione, giungendo a darvi una risposta negativa.

È stato infatti osservato che tale iter comporta, per la parte chiamata in mediazione che si presenti al mediatore, la sopportazione di costi che avrebbe potuto evitare se avesse potuto argomentare nel giudizio sulla non necessità della mediazione e, per quella che invece preferisca non comparire in mediazione, la necessità di giustificare la propria assenza ai sensi dell’art. 8, comma 4-bis, Dlgs 28/2010.

6. Le sanzioni per la mancata partecipazione al procedimento di mediazione

Altra questione che è stata affrontata in giurisprudenza, e che riveste un certo rilievo, è quella se la sanzione, prevista dall’art. 8 comma 4-bis, secondo periodo del Dlgs 28/2010, per la parte che non sia comparsa davanti al mediatore senza giustificato motivo possa essere comminata dal giudice già alla prima udienza del giudizio di cognizione ordinario.

La risposta affermativa è stata data da alcune pronunce[19] che, però, ad avviso di chi scrive, non hanno considerato due aspetti che avrebbero dovuto condurre alla conclusione opposta.[20] Innanzitutto la parte che non abbia partecipato alla mediazione ha diritto di allegare e dimostrare la sussistenza del giustificato motivo di assenza nei termini previsti per la definizione del thema probadum non diversamente da tutti gli altri suoi assunti.

A conforto di tale interpretazione va poi evidenziato come la norma sopra citata sia immediatamente successiva a quella che, dalla stessa circostanza della mancata partecipazione alla mediazione della parte, consente di desumere anche argomenti di prova. Orbene, giacché quest’ultima valutazione non può che avvenire al momento della decisione, non si vede perché quella che può giustificare l’applicazione della sanzione pecuniaria debba avvenire in un momento anteriore.

[1] Trib. Modena, sez. II, 10 marzo 2012; contra Civinini.

[2] Trib. Firenze, sez. spec. Impresa, 17 marzo 2014; Trib. Firenze, sez. II, 19 marzo 2014; Trib. Roma, 30 giugno 2014, Trib. Monza, 20, ottobre 2014, Trib. Firenze, 26 novembre 2014; Trib. Cassino, 16 dicembre 2014.

[3] Trib. Palermo, sez. dist. Bagheria, 11 luglio 2011.

[4] Così in giurisprudenza: Trib. Roma – sez. dist. Ostia, 15 marzo 2012; Trib. Como, sez. dist. Cantù, ord. 2 febbraio 2012; Trib. Firenze 14 febbraio 2012.

[5] Cass. sez. III, 18 gennaio 2006, n.830.

[6] Cass. sez. III, 7 marzo 1992, n. 2753.

[7] Cass., sez. III, 27 aprile 1995 n.4651; Cass. sez. III, 14 novembre 2008, n. 27255.

[8] Cass. 7 luglio 1992, n.8290.

[9] Nei termini riportati nel testo si è espresso anche il protocollo dell’osservatorio veronese Valore Prassi sulla mediazione finalizzata alla conciliazione pubblicato su Questione Giustizia on-line; www.questionegiustizia.it/articolo/il-protocollo-sulla-mediazione-finalizzata-alla-co_25-07-2014.php.

[10] Trib. Verona, 4 novembre 2014.

[11] L’art. 5, 6° comma., Dlgs 28/2010, prevede infatti che «la domanda di mediazione impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all’art. 11 presso la segreteria dell’organismo».

[12] Trib. Brindisi, sez. dist. Francavilla Fontana, 9 gennaio 2012.

[13] In giurisprudenza: Trib. Varese, ord. 18 maggio 2012 (pronunciata all’atto della assegnazione alle parti del termine per proporre la mediazione).

[14] Cass, Sez. Un., 7 luglio 1993 n.7448; Cass. Sez. Un., 9 settembre 2010, n.19246.

[15] Trib. Firenze, sez. III, 30 ottobre 2014.

[16] Trib. Modena, 6 maggio 2011, il decreto peraltro assegna ad entrambe le parti il termine per la proposizione della domanda di mediazione laddove il resistente dovrebbe avere un interesse contrario a che il giudizio prosegua.

[17] Trib. Prato, 30 marzo 2011, decr..

[18] Trib. Palermo, sez. distaccata di Bagheria, ord. 30 dicembre 2011; Trib. Como sez. distaccata di Cantù, ord, 2 febbraio 2012.

[19] rib. Termini Imerese, 9 maggio 2012; Trib. Palermo, sez. dist., Bagheria, 20 luglio 2012 che ritiene irrogabile la sanzione, anche prima della decisione finale, quando sia sufficientemente chiaro il motivo della mancata partecipazione alla mediazione.

[20] Trib. Roma, sez. dist. Ostia, 5 luglio 2012.