Magistratura democratica

Il Progetto Nausicaa del Tribunale di Firenze: esperienza virtuosa di invio in mediazione

di Luciana Breggia

Nell’ambito dei sistemi di risoluzione dei conflitti diversi dalla giurisdizione, la mediazione è, negli ultimi anni, quello di cui più si discute, con toni variegati e contrastanti.

Il Progetto Nausicaa del Tribunale di Firenze, grazie alla sinergia tra Osservatorio sulla giustizia civile e Università, propone una pratica riflessiva che consente di conoscere la mediazione “sul campo”.

L’Autore ne propone una lettura ragionata dei presupposti e delle ricadute culturali e pratiche.

Premessa

Nel cantiere delle riforme sulla giustizia civile, sempre aperto da vent’anni, anche la mediazione procede secondo un percorso non sempre lineare, nel tentativo di offrire un nuovo sguardo sui conflitti, una riflessione sull’accesso alla giustizia e quindi anche sulla giurisdizione. Nella consapevolezza del carattere relativo dei sistemi di risoluzione delle liti, l’individuazione degli ambiti della mediazione si accompagna infatti alla domanda su quale sia il ruolo del giudice e dell’avvocato nel ventunesimo secolo. Il Progetto Nausicaa del Tribunale di Firenze rappresenta il tentativo di affrontare i problemi posti dal raccordo tra iter giudiziario e mediazione e nel contempo di stimolare una riflessione sui conflitti, sul modo in cui le persone, le istituzioni e le professioni li affrontano, che è poi il grande tema posto dalla mediazione[2].

1. Il Progetto Nausicaa: le origini

Prima di soffermarsi sulla tappa importante che attualmente attraversa la sperimentazione avviata con il Progetto Nausicaa, è utile rileggerne la storia partendo dai primi passi. Il Progetto Nausicaa nasce alla fine del 2009 come progetto sulla “conciliazione delegata dagli uffici giudiziari”. Allora si usava quell’espressione, oggi si parla di “mediazione demandata dal giudice”: già il linguaggio denota la strada percorsa, che, come tutti i percorsi di cambiamento, non è stata scevra di difficoltà, di inciampi, di silenzi. Nel progetto erano ricompresi, tra l’altro, un protocollo per affrontare alcuni snodi processuali e indicare buone prassi, e questionari rivolti a giudici, avvocati e mediatori. La firma del primo progetto avvenne il 1° dicembre 2009, nel Tribunale, allora situato nel centro della città, in piazza San Firenze. Enti firmatari erano l’Osservatorio sulla giustizia civile di Firenze[3], la Regione Toscana, la Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Firenze, la Camera di commercio di Firenze e l’Organismo di conciliazione di Firenze–Ocf. Già prima, il 29 ottobre 2009, il Protocollo d’intesa aveva ricevuto il sostegno del presidente della Corte di appello, del presidente del Tribunale di Firenze, dell’Ordine degli avvocati di Firenze e dell’Ordine dei dottori commercialisti ed esperti contabili di Firenze, che avevano siglato una lettera d’intenti di apprezzamento dell’iniziativa promossa dall’Osservatorio.

Si impegnavano a seguire e sostenere la sperimentazione della “conciliazione delegata dal giudice” secondo le linee del protocollo, con la diffusione del progetto, la partecipazione alle attività di formazione e informazione, compresa la creazione di sportelli informativi, auspicando che fosse possibile realizzarne almeno uno presso i locali del Tribunale. Il progetto mirava al corretto impiego della mediazione, sistema ritenuto più adeguato della procedura giudiziaria per soddisfare gli interessi delle parti in certi tipi di conflitto. Non era ancora stato approvato il Dlgs n. 28/2010, ma era richiamata la direttiva europea 52/2008/CE e l’idea, ribadita da numerosi fonti europee, secondo cui «la qualità della giustizia non è monopolio dell’apparato giudiziario, ma il risultato di procedure per risolvere dispute che sono adeguate al caso».

Secondo le intenzioni dei firmatari del Protocollo d’intesa, la prima fase del Progetto avrebbe dovuto concentrarsi sulla formazione e in generale sulla promozione di una «cultura della mediazione» tra tutti gli operatori coinvolti (magistrati e professionisti) nonché sulla successiva sperimentazione, i cui risultati sarebbero stati monitorati ed analizzati dall’Università. Il progetto fu presentato pubblicamente il 9 febbraio 2010, quando ancora non era stato approvato il Dlgs 4 marzo 2010, n. 28. Dopo il decreto, fu necessario l’aggiornamento alla luce delle nuove norme, e il nuovo Protocollo fu presentato, tra l’altro, ad un incontro di formazione decentrata del Consiglio superiore della magistratura il 24 febbraio 2011. Il Progetto è stato poi al centro dei lavori degli Osservatori sulla giustizia civile a livello nazionale (all’Assemblea di Torino del 2011, a quella Catania del 2012, a Rimini nel 2014), ha attraversato i tempi difficili delle questioni di costituzionalità della mediazione obbligatoria, lo strano periodo dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 272/2012 e di nuovo ha affrontato le novità introdotte dal Dl n. 69/2013. Per la costante opera di aggiornamento, si è proposto di chiamarlo Progetto Penelope, tanti sono i fili tessuti e disfatti in questo periodo in tema di mediazione. In realtà, proprio la sperimentazione e il dialogo tra tante professionalità diverse hanno costituito il binario stabile dove è stato possibile accogliere le novità, gli arresti, i rallentamenti, le riprese. L’impegno sul piano culturale ha mantenuto la sua rilevanza a dispetto dei continui sommovimenti normativi e giurisprudenziali[4] ed ha permesso di superare diffidenze o indifferenze tra le varie categorie coinvolte.

2. Una nuova fase: ufficio di orientamento, borsisti e incontri di informazione con i giudici

Su questo binario si svolge la nuova fase, particolarmente importante, avviata dal 2013 grazie alla collaborazione del Laboratorio congiunto Un Altro Modo dell’Università di Firenze.

Tre sono gli aspetti da sottolineare per la loro particolare rilevanza nella promozione di una diversa mentalità di giudici e avvocati, presupposto essenziale per l’impiego della mediazione demandata.

I. L’Ufficio di orientamento. Dopo molti anni, finalmente si è realizzata la previsione del 2009 circa l’apertura di un Ufficio di orientamento e informazione sulla mediazione nel Tribunale: al di là della concreta e utile attività dell’ufficio[5], va sottolineato anche il valore simbolico dell’apertura di un luogo destinato a promuovere una giustizia diversa da quella giudiziaria proprio nello spazio dedicato a quest’ultima. Una breccia che veicola un messaggio di pari dignità delle forme di giustizia mite e di apertura dell’istituzione rispetto all’esterno.

II. I borsisti della mediazione. Un punto qualificante di questo lavoro di approfondimento e ricerca è la collaborazione dei giovani borsisti del Laboratorio Un altro Modo dell’Università specializzati sul tema della mediazione, che hanno affiancato i giudici del Tribunale per l’analisi del contenzioso. I borsisti si sono trovati spesso ad interagire con i tirocinanti delle convenzioni ex art. 37, Dl n. 98/2011 con i quali era già stato avviato un percorso di formazione e di assistenza al giudice, con la previsione, tra l’altro, della redazione di una scheda del processo: la scheda indica, in estrema sintesi, la posizione dell’attore, la posizione del convenuto, eventuali vicende processuali rilevanti (tra cui, ad es., il tentativo di conciliazione svolto). Con l’affiancamento dei borsisti l’analisi si arricchisce della sezione dedicata ai “rilievi circa l’invio in mediazione”: questa sezione è quella dove, con un’attenzione particolare ai fatti e agli interessi delle parti - non solo alle posizioni di diritto -  si possono dare indicazioni sull’opportunità o meno dell’invito, già in base a ciò che emerge dagli atti scritti. Dopo l’udienza si hanno ulteriori elementi e la scheda si arricchisce della sezione relativa all’“esito dell’udienza”, che serve a verificare se si è andati avanti o meno con l’invio in mediazione e per quali motivi.

Il contatto dei giovani borsisti con i tirocinanti, i funzionari di cancelleria, i giudici togati ed onorari alimenta anche sotto questo peculiare punto di vista (la soluzione del conflitto migliore per le parti) la sinergia che caratterizza l’Ufficio per il processo: un modo diverso di lavorare negli uffici, fondato su rapporti di reciproca interazione e di collaborazione tra soggetti differenti per il raggiungimento di obiettivi comuni; sulla condivisione della riflessione (preziosa per il giudice monocratico, che ha perso quella offerta dalla camera di consiglio); sul coordinamento con le cancellerie, l’apertura verso le Università, i consigli dell’Ordine, gli enti locali.

Se intorno al giudice si delinea uno staff di sostegno, come avviene negli altri Paesi europei, si evidenziano potenzialità imponenti di raccordo di tanti fattori che incidono sulla qualità della giurisdizione: dal controllo statistico dei ruoli alla costruzione progressiva della decisione, al miglioramento della comunicazione con le parti e il foro, alle banche dati, la semplificazione dei moduli di trattazione e decisori e, appunto, l’analisi qualitativa del contenzioso dove può utilmente svolgersi l’invito del giudice alla mediazione.

Avviato sperimentalmente a Firenze sin dal 2008, l’Ufficio per il processo è stato di recente previsto per la prima volta sul piano normativo dall’art. 50, Dl n. 90/2014, che introduce l’art. 16-octies, Dl n. 179/2012[6]. Per ora, in verità, l’Ufficio per il processo è più un’affermazione che una realtà, dal momento che la previsione legislativa non si è accompagnata all’indispensabile incremento dell’organico del personale amministrativo e alla radicale revisione dei tradizionali compiti di cancelleria; inoltre, è ambiguo il riferimento ai giudici onorari di Tribunale che, nell’attuale configurazione, costituiscono una risorsa del tutto disomogenea e instabile. Infine, non può negarsi che i tirocinanti abbiano esigenze formative che vanno soddisfatte perché il tirocinio ex art. 73 cit., costituisce un titolo per l’accesso al concorso in magistratura, e quindi, vista la durata di 18 mesi, deve anche fornire gli strumenti per poterlo affrontare. Le esigenze formative rendono evidente che gli stagisti non possono svolgere pienamente la funzione di assistenza al giudice che invece è fondamentale per gli uffici. Le esigenze del giudice o meglio “del processo”, richiedono una nuova figura professionale: quella di un assistente stabile e retribuito. La retribuzione rende il ruolo di quest’ultimo dignitoso e efficace, mentre la sostanziale gratuità dello stage è un ulteriore motivo per evitare di confondere figure diverse.

Tuttavia, di questa equipe ancora in divenire che chiamiamo Ufficio per il processo, dovranno far parte, oltre agli assistenti stabili, anche i tirocinanti, proprio per non perdere l’eredità più preziosa dell’esperienza degli stages e cioè l’occasione di “formazione preliminare comune” di magistrati e avvocati (aspiranti tali) e, in una dimensione inter-disciplinare, anche dei mediatori. La formazione dei tirocinanti, affidata ex lege alle strutture territoriali della Scuola superiore della magistratura, deve dunque arricchirsi dei temi della mediazione: l’esperienza dei borsisti fiorentini ha dimostrato quanto sia utile offrire ai giudici l’esame del contenzioso non solo dal punto di vista strettamente tecnico-giuridico, ma anche sotto il profilo della mediabilità del conflitto: anche per questa via, la giurisdizione e la mediazione divengono mondi che, pur diversi, sono comunicanti, almeno culturalmente.

III. Gli incontri di formazione nelle sezioni del Tribunale. Infine, nell’ambito della sinergia Tribunale, Osservatorio, Università una particolare efficacia va riconosciuta agli incontri organizzati dal Laboratorio Un altro modo volti a sensibilizzare i giudici, il personale amministrativo e il foro. La collaborazione dell’Università ha permesso una prima analisi delle caratteristiche del contenzioso, a seconda delle materie: ad es. per le cause in materia ereditaria si nota la particolare qualificazione dei rapporti di natura personale, familiare o affettiva, di durata nel tempo; la frequente separazione tra l’oggetto del conflitto e l’oggetto della controversia. Anche per i diritti reali si assiste alla frequente dissociazione tra oggetto del conflitto – personale – e oggetto della disputa – giuridico. Nelle locazioni si è in presenza di un rapporto di durata e vi è frequentemente divergenza tra l’oggetto della controversia e gli interessi concreti delle parti, non sempre giuridicamente rilevanti: è particolarmente sentito il bisogno di una ventaglio di soluzioni più ampio e flessibile di quello che offre la disciplina normativa. Possono essere indicazioni per la mediazione l’esigenza di soluzioni flessibili e rapide specie in casi con dinamiche psicologiche complesse (ad es. affitti di azienda, in genere il campo societario), dove c’è bisogno di ascolto e riconoscimento del danneggiato (certe cause in materia di responsabilità extracontrattuale, specie in campo medico; ma anche in certe controversie bancarie). Gli incontri dedicati in modo specifico a ogni sezione del Tribunale hanno permesso di approfondire le tematiche proprie della tipologia di contenzioso che i giudici erano chiamati a trattare, favorendo lo scambio di osservazioni, riflessioni e bisogni e si sono rivelati un ottimo strumento per avvicinare i magistrati alla mediazione e indurli ad usare un istituto che non solo è vantaggioso per gli interessi delle parti, ma costituisce anche un utile strumento per il governo del ruolo e del singolo procedimento.

La strada percorsa dal 2009 è servita a creare l’humus su cui è stato possibile accogliere, come vedremo, la nuova disciplina della mediazione. Sono passati quasi sei anni, e deve darsi ragione a chi attribuiva un’importanza “epocale” al Protocollo: epocale non per quello che diceva, ma perché, come tutti i protocolli degli Osservatori del resto, apriva la via a un metodo, quello del dialogo, su un tema dove il dialogo non era mai nato, non se ne sentiva nemmeno l’esigenza perché la mediazione, allora, sembrava un mondo a parte, poco conosciuto e estraneo al mondo della giustizia tradizionale.

3. La mediazione demandata dal giudice: dall’invito all’ordine

È nel corso della collaborazione dell’Osservatorio con l’Università, che arriva la novella introdotta dal Dl n. 69/2013, e nell’ambito del Progetto Nausicaa si è provveduto ad aggiornare il Protocollo e ad elaborare alcune Linee guida. Queste ultime, varate all’indomani della novella, mirano essenzialmente a semplificare le questioni procedurali che possono porsi, cercando tra l’altro di distinguere tra condizioni per la validità dell’accordo e condizioni relative all’assolvimento della condizione di procedibilità per i casi di mediazione obbligatoria. Lo scopo era ed è quello di alleggerire quanto più possibile le questioni procedurali, per concentrare l’attenzione sulla natura e le finalità della mediazione. Attenzione che ispira anche le modifiche al Protocollo originario sulla mediazione demandata dal giudice, rese necessarie dalle novità normative[7]. Se prima il giudice poteva “invitare” le parti ad esperire un tentativo di mediazione, il Dl n. 69/2013 gli attribuisce il potere di “ordinare” tale esperimento, prescindendo dal consenso delle parti[8]. In tal caso, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale e addirittura mantiene tale natura anche in sede di appello.

La previsione dell’art. 5, comma 2 ha reso efficace la possibilità di collegare il percorso mediativo rispetto a quello giudiziario e ha rilanciato il progetto sulla mediazione demandata dal giudice che offre un’occasione di “formazione sul campo” non ancora sfruttata sufficientemente dai magistrati e dagli avvocati. La mediazione su ordine del giudice si presta in modo particolare all’individuazione di buone prassi condivise tra giudici, avvocati, e mediatori, affinché di tale potere del giudice sia fatto un buon uso. I criteri già elaborati circa l’invito a mediare da parte del giudice (a seconda della natura della causa, dei rapporti tra le parti e molti altri criteri) si sono rivelati molto utili: prima del dl n. 69/2013, avevamo osservato che solo se si instaurano relazioni di fiducia, il giudice è in grado di motivare le parti alla mediazione e può invitarle in modo credibile. Ora che questo invito è diventato un’imposizione, non cambia la sostanza di questa riflessione: ci sarà sempre differenza tra un’imposizione che cala dall’alto, senza coinvolgimento delle parti e senza un ruolo persuasivo del giudice e dei difensori, e l’imposizione basata sul colloquio e la collaborazione tra giudice e parti. La chance di un uso corretto dell’istituto resta fondato non sull’imposizione immotivata, ma sulla persuasione delle parti, veicolata dalla specifica motivazione del provvedimento e dal colloquio processuale, altrimenti la mediazione sarà svilita e vissuta dalle parti come un inutile dilazione del percorso giudiziario da loro scelto. Per questo, il Protocollo del Progetto Nausicaa prevede che il provvedimento del giudice con cui si dispone la mediazione sia succintamente motivato, con indicazione dei motivi per cui il giudice ritiene opportuno inviare le parti dinanzi al mediatore con riferimento alla fattispecie concreta.

4. Natura della  mediazione e presenza delle parti ‘‘di persona’’

Negli ultimi tempi la mediazione demandata ha conosciuto due importanti affermazioni da parte dei giudici: la necessità della presenza personale delle parti in mediazione e la necessità che, quando il giudice ordina la mediazione, questa sia svolta davvero e non possa essere limitata ad un preliminare incontro informativo. I primi provvedimenti in tal senso sono stati pronunciati dal Tribunale di Firenze[9], queste affermazioni sono state poi recepite dal protocollo annesso al Progetto Nausicaa nell’ultima versione, e sono poi stati seguiti da molti altri provvedimenti giudiziari analoghi[10].

Tale orientamento si fonda sull’esigenza di accogliere  il messaggio principale che la mediazione ci trasmette: è un messaggio rivolto principalmente ai litiganti, l’offerta per loro di un’occasione di consapevolezza delle dinamiche profonde dei propri comportamenti e di responsabilizzazione. La mediazione, in primo luogo, vuole restituire la parola alle persone, finora inserite in un sistema che le disattiva, magari a fini protettivi, ma che comunque le considera “poco capaci”. Il ruolo tradizionale di giudici e avvocati porta a togliere la parola alle parti; se la logica è puramente tecnico-giuridica, quello che le parti dicono o vorrebbero dire può essere addirittura d’intralcio. Oggi però il panorama è – o dovrebbe essere – completamente rovesciato: il giudice non è un liquidatore di conflitti, così come l’avvocato non è un condottiero che va alla pugna; le persone non sono soggetti incapaci di gestire i propri conflitti, ma sono proprio loro che, per prime, dovrebbero essere in grado di riconoscere, “leggere” i conflitti in cui sono coinvolte, divenire autrici del percorso di soluzione, giudiziario o meno.

È la natura della mediazione, dunque, che richiede la presenza delle parti, per permettere l’indispensabile interazione tra queste e il mediatore, con uso di abilità e competenze varie da parte di quest’ultimo: particolarmente rilevanti quelle volte a riaprire un dialogo tra le parti, a riattivare una comunicazione interrotta, che richiedono un contatto personale, l’ascolto, l’attenzione al linguaggio non verbale. Inoltre, il mediatore deve comprendere quali siano i bisogni, gli interessi, anche i sentimenti dei soggetti coinvolti, e questi sono profili che le parti possono e debbono mostrare con immediatezza, senza il filtro dei difensori. La mediazione può dar luogo ad un negozio o ad una transazione, ma l’attività che porta all’accordo ha natura personalissima e non è delegabile (il giudice, naturalmente, valuterà caso per caso se la mancata presenza personale sia giustificata).

5. Colloquio processuale e mediazione effettiva

Un’altra affermazione importante dell’orientamento giurisprudenziale ricordato, recepito dal Protocollo del Progetto Nausicaa, si riferisce alla necessità che la mediazione demandata dal giudice sia effettivamente svolta: i difensori non possono limitarsi a presentarsi dinanzi al mediatore solo per ricevere informazioni e manifestare l’indisponibilità a svolgere la mediazione.

Al di là della motivazione tecnica di questo orientamento (rinvio al riguardo ai provvedimenti), va sottolineatala necessità di collegare l’orientamento interpretativo in parola al contesto complessivo in cui l’invio deve avvenire. Se l’ordine del giudice non cala dall’alto, ma è discusso con i difensori e, se presenti, con le parti, che consentono al giudice a valutare se la lite è “mediabile”, vuol dire che l’invio in mediazione avviene dopo un colloquio processuale nel quale già si sviscerano i profili relativi sia alla natura della mediazione, sia alla sua utilità in quel caso. Un confronto trasparente e ragionato sul materiale processuale nella fase preparatoria è possibile anche nel nostro modello processuale ed è il principale strumento non solo per un processo celere e giusto, ma anche per la soluzione che le parti possono ritrovare attivando la propria autonomia. Questo modo di trattare le controversie sarebbe grandemente favorito dalla possibilità del lavoro in equipe di cui abbiamo parlato in precedenza, perché il sostegno al giudice favorisce l’analisi della mediabilità del conflitto.

Se questo è il contesto in cui si opera, appare estremamente riduttivo l’invio del giudice in mediazione volto solo ad assumere informazioni dal mediatore. Se già emerge con chiarezza la reale e specifica impossibilità di mediare una lite, il giudice non può imporre la mediazione. Questo è un rischio molto attuale, perché la situazione poco gestibile della domanda di giustizia, in assenza – almeno fino ad ora – di scelte del potere politico per un investimento serio sull’organizzazione e una revisione dei compiti affidati alla giurisdizione, porta alla cd. giurisprudenza difensiva. La mediazione demandata non è tuttavia uno strumento deflativo: certo può avere un effetto deflativo indiretto, anche rilevante, data la mancanza di governo della domanda giudiziaria, ma la deflazione non è la sua ragion d’essere. Per un impiego corretto della mediazione occorre partire dall’idea che non sia la soluzione per decongestionare la giustizia civile (di cui pure abbiamo un grande bisogno), oppure un nuovo settore nel mercato dei servizi, ma la ricerca di una nuova centratura della giustizia: mettere al centro le persone, i cittadini, per far crescere la cultura della conciliazione, della ricostruzione dei legami comunitari e della regolazione pacifica dei rapporti sociali.

Proprio questa nuova centratura impone di prendere la mediazione sul serio: solo un tentativo effettivo, alla presenza delle parti oltre che dei difensori, costituisce una reale possibilità offerta alle persone ed è rispettoso di una ricostruzione teleologica del sistema normativo.

6. Il monitoraggio

Occorre dunque restituire alla mediazione la dignità che le spetta; e restituirla agli avvocati, che assistono la parte nella mediazione, accettando la sfida professionale di re-inventarsi un ruolo diverso da quello tradizionale; al giudice, che rinvia la causa perché è convinto che questa scelta sia migliore per le parti; infine ai mediatori, formati per svolgere mediazioni e non per sottoscrivere attestati.

La necessità della presenza effettiva delle parti in mediazione e dello svolgimento di un tentativo effettivo è collegata ad un’altro aspetto di vitale importanza perché solo  in tal caso avrà senso monitorare l’efficacia della mediazione. Altrimenti ogni verifica statistica sarà priva di significato perché effettuata non sulla mediazione, ma su una sua parodia. In tale prospettiva appare particolarmente prezioso il monitoraggio effettuato nell’ambito del Progetto Nausicaa dal Laboratorio Un altro modo[11], sia perché considera mediazioni effettivamente svolte, sia perché ha cercato di seguire il percorso circolare che dall’ordine del giudice conduce al deposito delle domande di mediazione presso gli organismi e poi di nuovo al processo nelle udienze di rinvio presso i giudici. Inoltre, l’elaborazione dei dati ha tenuto conto della modifica legislativa apportata nel settembre 2013 che ha attribuito al giudice il potere di ordinare lo svolgimento della mediazione, nonché l’ulteriore impulso dato all’istituto dai provvedimenti volti a rendere lo svolgimento effettivo. Dai dati raccolti nell’ottobre 2014 - relativi al periodo 30.6.2013/30.6.2014 - risulta che i giovani borsisti in affiancamento ai giudici hanno esaminato 2753 cause, ritenendo che vi fossero 1122 casi da inviare in mediazione. I giudici hanno inviato le parti in mediazione selezionando 507 casi: solo 164 sono le mediazioni svolte effettivamente[12]; di queste, il 39 % si è concluso con accordo; ma è importante sottolineare che nel 28 %  dei casi, pur non essendo stato raggiunto un accordo in mediazione, la causa non è più “tornata” nel ruolo del giudice. Si tratta dunque di dati positivi e ben diversi da quelli offerti dalle statistiche basate sulle mediazioni “apparenti”, cioè quelle ridotte ad un primo incontro in cui il difensore dichiara la mancanza di volontà della parte di svolgere la mediazione.

7. La centralità della prima udienza ex art. 183 cpc

L’articolo 5, comma 2, Dlgs n.28/2010 prevede che il giudice, al momento dell’invio, valuti la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti. Le indicazioni vanno lette in filigrana, per far emergere il principale obiettivo della valutazione: il giudice deve essere consapevole del modo in cui la parte percepisce il conflitto, cosa significa per lei, in quale ambito di relazioni si collochi: devono emergere i suoi interessi, l’eventuale iceberg sottostante, altri conflitti connessi.

La mediazione ripropone un tema centrale per il buon andamento del processo civile e cioè la grande importanza della fase preparatoria del processo e la trattazione della prima udienza. In questa fase si può sfrondare il procedimento dal troppo e il vano, si può delimitare la materia controversa e programmare gli sviluppi successivi secondo un iter calibrato sulle specificità della singola controversia anziché su moduli meccanici e astratti, uguali per tutti [13]; e in questa fase preparatoria si può anche sollecitare la consapevolezza che alla base della controversia vi è una crisi di cooperazione delle stesse parti che potrà essere risolta anche – probabilmente meglio – con accordi amichevoli, rinunciando a sottolineare torti e ragioni.

Lo snodo fondamentale, indicato anche nel protocollo del Progetto Nausicaa, è dunque il momento dell’udienza ex art. 183 cpc e il raccordo con il tentativo di conciliazione giudiziale che il giudice potrebbe disporre per tale udienza o quella successiva.

L’art. 185-bis cpc introdotto dal Dl n. 69/2013 prevede inoltre che il giudice possa formulare una proposta transattiva o conciliativa alla prima udienza ovvero sino a quando l’istruttoria è esaurita. La disposizione costituisce un forte richiamo ad un intervento attivo del giudice nel processo nella piena collaborazione con i difensori. La proposta infatti presuppone lo studio del fascicolo preventivo da parte del giudice, il colloquio con i difensori, il contatto con le parti, il recupero dell’oralità del processo. Vale dunque a sanare quel distacco tra parti e giudice che si è incrementato con la eliminazione del tentativo obbligatorio di conciliazione (operata dalla novella del 2006) e che invece va valorizzato anche al fine di ristabilire quel sentimento di fiducia su cui poggia la legittimazione dell’attività giudiziaria, secondo quanto sottolineato spesso anche dalla Commissione Europea per l’efficienza dei sistemi giudiziari (Cepej).

Su questa norma può dunque innestarsi la mediazione ordinata dal giudice, visto che, per l’esperienza avviata in questi anni, la maggior parte delle mediazioni su invito del giudice risultano generate dal tentativo di conciliazione del giudice, magari rivelatosi insufficiente ai fini conciliativi, ma propedeutico rispetto alla mediazione stragiudiziale endo-processuale. Gli esempi che possono trarsi dalla prassi attuativa del Progetto Nausicaa rivelano infatti un interessante intreccio tra processo e mediazione. In molti casi, la fase pre-processuale di mediazione obbligatoria, non è risultata un elemento ostativo ad un invio in mediazione, come potrebbe apparire in astratto, in quanto tale fase si era svolta in modo non effettivo e senza la partecipazione delle parti. In tali casi, si è rivelato utile riprendere la prospettiva di accordo amichevole con un tentativo di conciliazione giudiziale, prospettando alle parti anche quali sarebbero stati i futuri incombenti processuali. Altre volte, si è riscontrata l’utilità della conciliazione giudiziale, perché il conflitto nasceva da pretese economiche non soddisfatte o per impossidenza finanziaria (e allora si era rivelato determinante verificare come bilanciare altri aspetti rispetto alla remissione del debito), oppure per divergenti interpretazioni in diritto del contratto: in questi casi il giudice, insieme ai difensori, può discutere dell’alea processuale a seconda che vengano adottate le varie interpretazioni possibili o la chance di prova dei fatti. La valutazione ragionata del giudice sul materiale processuale è un fattore importante per le parti per meditare sull’opportunità di concludere l’accordo.

Se invece prevalgono profili della relazione andati in crisi, allora è del tutto evidente l’impotenza del giudice di portare sino in fondo, in modo fecondo, il tentativo di conciliazione, perché non ha le competenze  e il tempo  per riattivare la comunicazione tra le parti a qualche livello. Quello che può fare il giudice, però, è far riflettere la parte su questo aspetto della lite che è fondamentale per la soluzione del conflitto, cioè la rottura della relazione, l’incapacità conseguente di cooperazione. Un esempio tipico di questo tipo di controversie è dato da quelle che formalmente riguardano contratti tipici o meno (si pensi al comodato immobiliare), ma che invece nascondono liti di tipo para-familiare legate alla dissoluzione del rapporto di coppia. L’indicazione qui è l’invito alla mediazione stragiudiziale.

Il circuito di riflessione-sperimentazione-riflessione è solo agli inizi ma si rivela molto proficuo. Lo snodo centrale resta il dialogo tra conciliazione giudiziale e mediazione stra-giudiziale delineato anche nel Protocollo del Progetto Nausicaa: non perché si tratti della stesso metodo, ma perché sono attraversate dalla stessa cultura conciliativa: anche il tentativo di conciliazione giudiziale è l’unico momento informale in cui si possono instaurare relazioni di fiducia e si può far emergere il conflitto dai paramenti della controversia giuridica in cui si è presentato nell’aule del Tribunale; è per questo che la conciliazione tentata dal giudice può preparare l’invio in mediazione; oppure, che la riattivazione della comunicazione tra le parti, l’abbassamento del livello di conflitto può favorire la successiva conciliazione in giudizio, anche in caso di fallimento della mediazione endoprocessuale.

8. Scavare nei fatti

Una conclusione che si trae dalla sperimentazione sin qui avviata è che, per un invio corretto in mediazione, occorre che giudice e difensori “scavino nei fatti” e questo comporta una modificazione del modo tradizionale di affrontare le liti civili: di solito, i giuristi tendono a privilegiare gli aspetti in diritto, la cd. fattispecie, i problemi di qualificazione. Sono tutte operazioni utili, ma per verificare se la controversia debba essere inviata in mediazione, il diritto ci dice poco: qualcosa, ma non tutto. È la realtà fattuale quella dove si annida l’interesse della parte, che ben può essere diverso dall’interesse tutelato dalla posizione di diritto. Lo storico Paolo Grossi, per fornirci una chiave per comprendere la non facile transizione che stiamo vivendo, ci avverte che il diritto come dimensione formale sovraordinata rispetto ai fatti ha ceduto alla riscoperta della fattualità del diritto, che permette il riavvicinamento tra diritto e giustizia[14].

La vicinanza alle persone rende i professionisti particolarmente vocati (specie gli ad-vocati) al ruolo di rilevatori della dimensione fattuale (Grossi aggiungerebbe: “carnale”), del diritto. La responsabilità sociale della professione forense già enunciata nel codice deontologico europeo sin dal 1988 e nelle Linee Guida del Ccbe (Consiglio degli ordini forensi europei) del 2002], è legata a questa opera di scavo nei fatti umani e sociali: sono gli avvocati che per primi selezionano i casi, indagano, prospettano soluzioni dentro e fuori delle Corti affinché si innalzi il livello di tutela dei diritti e dei bisogni. Il contatto dell’avvocato con il mondo della mediazione dovrebbe essere segnato da questa prospettiva, sia come assistente della parte in giudizio, nel processo e nello snodo che può far deviare il processo verso la mediazione, sia come mediatore, sia come avvocato che assiste la parte dinanzi al mediatore. Il giudice conosce i fatti attraverso filtri: il colloquio processuale con gli avvocati o l’interrogatorio libero delle parti, che però, per quanto libero, non avrà mai quei profili di riservatezza e di affidamento che ha il contatto tra difensore e parte. Il ruolo dell’avvocato non risulta dunque affatto sminuito, o defilato, ma è un ruolo protagonista di questa sperimentazione.

9. Una casa per la giustizia

Il Progetto Nausicaa è un progetto che si radica nel Dna degli Osservatori sulla giustizia civile, abituati a esaminare i problemi e cercare le soluzioni sotto i punti vista di tutti gli operatori della giustizia: avvocati, magistrati e funzionari di cancelleria e altri soggetti coinvolti, per una costruzione critica della giurisdizione in un’ottica non limitata alla visione separata delle singole professioni. In questa cultura delle relazioni che alimenta l’esperienza degli Osservatori ben si inserisce un progetto, quale quello sulla mediazione demandata, che allarga la visuale, incontra altre professionalità, altri mestieri che ben possono trovare spazio nella galassia delle tutele. Pensare alla giustizia come un bene comune[15] porta a responsabilizzare anche gli stessi cittadini, invitandoli a non delegare subito all’apparato statale la soluzione del conflitto, ma a scegliere e decidere la sorte del conflitto insieme all’altra parte. La mediazione si inserisce nella discussione sull’accesso alla giustizia e realizza un principio cardine della giustizia del XXI secolo, quella della prossimità, in senso attuale meglio declinabile come “accessibilità”, tecnologica o geografica a seconda dei casi. Per assecondare questa trasformazione epocale del modo di concepire la regolazione dei conflitti appare necessario ripartire dalle fondamenta e dunque, ben prima che la lite approdi in Tribunale, occorre lavorare nelle scuole e nelle università, rivedendo in modo particolare la formazione offerta dalle Scuole di giurisprudenza.

Il primo Progetto Nausicaa fu sottoscritto in Tribunale, circostanza significativa sia per il sostegno concreto all’opera di formazione e informazione che costituiva la prima fase del progetto, sia per l’icona offerta: quella di una casa della giustizia costruita da tutti, dove ognuno mette il suo mattoncino. Per lo sviluppo di una cultura della mediazione che possa radicarsi nella società, c’è bisogno della sinergia di tutti gli operatori, gli enti e i soggetti che sono coinvolti nella gestione delle relazioni e dei conflitti che le attraversano.

[1] Il testo è in gran parte frutto della rielaborazione del contributo La mediazione presa sul serio-Note sulla sperimentazione del Progetto Nausicaa, nel volume collettaneo Mediazione su ordine del giudice a Firenze - Prassi, problemi e linee guida di un modello, edito da Utet, in corso di pubblicazione nella collana Un altro modo, curata da R. Caponi, P. Lucarelli e I. Pagni. I contributi del volume consentono di approfondire la sperimentazione avviata presso il Tribunale di Firenze grazie alla collaborazione dell’Osservatorio sulla giustizia civile e l’Università di Firenze e analizza tra l’altro i fattori  più rilevanti che hanno contribuito a promuovere la mediazione demandata. L’intervento del Laboratorio Negoziazione e mediazione dei conflitti per le imprese e per le organizzazioni complesse - Un Altro Modo dell’Università di Firenze, come si  dirà oltre, è stato determinante per la formazione, l’affiancamento di giovani borsisti agli undici giudici che partecipavano alla sperimentazione e l’approfondito monitoraggio degli invii in mediazione.

[2] Un tema che esige necessariamente una formazione multidisciplinare: si veda al riguardo il dialogo tra giuristi e soggetti esperti in altri saperi accolto nel volume Mediazione e progresso – persona, società, professione, impresa, a cura di P. Lucarelli e G. Conte, Milano, 2012.

[3] Sugli Osservatori, si veda in generale il volume collettaneo a cura di Berti Arnoaldi Veli, Gli Osservatori sulla giustizia civile e i protocolli d’udienza, Bologna, 2011.

[4] Da ultimo, si veda Tar Lazio 23 gennaio 2015, n. 1351, che ha annullato l’art. 16, co. 2 e 9 e l’art. 4,co.3, lett.b, Dm n. 180/2010.

[5] I provvedimenti di invio in mediazione dei giudici invitano i difensori e le parti a svolgere sessioni informative presso tale Ufficio.

[6] La norma prevede che «sono costituite, presso le Corti di appello e i Tribunali ordinari, strutture organizzative denominate “ufficio per il processo”, mediante l’impiego del personale di cancelleria e di coloro che svolgono, presso i predetti uffici, il tirocinio formativo a norma dell’articolo 73 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, o la formazione professionale dei laureati a norma dell’articolo 37, comma 5, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111. Fanno altresì parte dell’ufficio per il processo costituito presso le Corti di appello i giudici ausiliari di cui agli articoli 62 e seguenti del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, e dell’ufficio per il processo costituito presso i Tribunali, i giudici onorari di tribunale di cui agli articoli 42-ter e seguenti del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12».

[7] Sia il Protocollo che le  Linee guida sono rinvenibili nel sito istituzionale del Tribunale di Firenze: www.tribunale.firenze.fsegiustizia.it.

[8] Conformemente alla previsione della Direttiva Ue n. 52/2008, art. 3, par. 1, lett. a) e art. 5, comma 1; v. anche i considerando nn. 12 e 13.

[9] Trib. Firenze, sez. II, ord. 19 marzo 2014; Trib. Firenze, sez. specializzata imprese, ord. 17 marzo 2014 e ord. 18 marzo 2014: i provvedimenti, rinvenibili in vari siti internet, sono pubblicati in Mediazione e processo, a cura di M. Marinaro, Roma, 2014.

[10] Trib. Roma, ord. 30 giugno 2014, in www.101mediatori.it; Trib. Bologna, ord. 5 giugno 2014, in www.adrmaeremma.it; Trib. Rimini, ord. 16 luglio 2014; Trib. Palermo, ord. 16 luglio 2014, in www.osservatoriomediazione.it. Da ultimo, Trib. Firenze, 26.11.2015, in www.adrintesa.it, afferma la necessità  della partecipazione personale delle parti e dell’avvio effettivo della mediazione anche per la mediazione obbligatoria prima del processo. Di questi temi si è discusso anche alla IX Assemblea degli Osservatori sulla giustizia civile di Rimini: si veda il Report del gruppo Mediazione e gli altri materiali in www.osservatoriogiustiziacivilerimini.it.

[11] Per l’analisi dettagliata dei dati raccolti durante la sperimentazione, si veda Guazzesi, I numeri della mediazione su invito/ordine del giudice a Firenze. nel volume indicato alla nota 1. Si veda anche M. Marinaro, Mediazione, il modello “fiorentino”: i dati di un anno di sperimentazione, in Guida al diritto, 3.12.2014.

[12] Va precisato che 72 mediazioni non erano concluse al momento dei rilievi.

[13] Nella prima udienza potrebbero innestarsi moduli differenziati, mentre la prassi per il processo ordinario registra spesso una meccanica concessione dei termini per le memorie scritte ex art. 183, comma 6. Al riguardo, mi permetto di rinviare al mio contributo Il processo di cognizione dopo la legge 28.12.2005, n. 263: un processo a raggiera?, in Giur. it., 2006.

[14] P. Grossi, Introduzione al novecento giuridico, Roma-Bari, 2012, XI-XII.

[15] La IX Assemblea degli Osservatori svoltasi a Rimini, 30 maggio-1° giugno 2014, si intitolava appunto Giustizia bene comune.