Magistratura democratica

Alla ricerca di un’applicazione condivisa dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione

di Federico Girelli

L’Autore, esaminate le possibilità che il Tribunale di Firenze e la Corte costituzionale avrebbero avuto di risolvere diversamente la controversia, propone una lettura originale della pronuncia interpretativa di rigetto della questione di legittimità costituzionale della norma consuetudinaria. Secondo l’Autore essa avrebbe il senso di una proposta di collaborazione rivolta ai giudici comuni nazionali, alle Corti internazionali e di altri Stati, rivolta a promuovere la ricerca di una diversa nozione di immunità dalla giurisdizione compatibile con gli elementi identificativi dell’ordinamento costituzionale.

1. Una questione spinosa e le possibili vie di uscita

Le questioni sollevate dal Tribunale di Firenze, e decise dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 238/2014, hanno fatto sì che la Consulta prendesse posizione nell’ambito di una complessa vicenda dalle innumerevoli implicazioni.

Affaire veramente difficile da gestire, solo se si ponga mente al fatto che sulle decisioni che dovevano prendere il Tribunale di Firenze, prima, e la Corte costituzionale, poi, gravava un serio problema di ragion di stato; anzi, una ragion di stato grande come una casa, si potrebbe dire, o, se si vuole, grande (almeno) come la Repubblica federale di Germania.

Particolarmente spinosa, poi, si presentava quella parte del petitum, che postulava il sindacato su di una norma internazionale consuetudinaria. La portata di quest’ultima, peraltro, già era stata accertata dalla Corte internazionale di giustizia[1], che la Consulta stessa afferma essere interprete particolarmente qualificato del diritto internazionale seppure non esclusivo, come, invece, ritenuto dal giudice a quo[2]. Il Giudice delle leggi, in ogni modo, nel trattare la questione, ha comunque riconosciuto l’alveo applicativo dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione così come definito dalla Cig[3].

Neppure può dirsi che non ci fossero vie per liberarsi della questione: sia alla Corte costituzionale, che comunque ha reputato di decidere nel merito, sia, e a maggior ragione, al Tribunale di Firenze, II sezione civile, che ha effettivamente sollevato la questione, gli strumenti per uscire da questo ginepraio di certo non mancavano.

La Corte costituzionale, in verità, se avesse voluto liberarsi del problema, avrebbe potuto ben scegliere fra diverse opzioni, nemmeno poi così peregrine:

  1. poiché la Corte si pronuncia su norme, ma pel tramite di disposizioni, avrebbe potuto rilevare l’assenza di un atto da cui trarre l’oggetto del sindacato, la cui natura, in ogni modo, restava comunque incerta o la cui riconducibilità agli atti ex art. 134 Cost. risultava assai problematica;
  2. pur riconoscendo un qualche pregio alle argomentazioni del giudice a quo, avrebbe potuto affermare che l’eventuale accoglimento della questione avrebbe determinato una situazione di maggiore incostituzionalità rispetto a quella già propria del quadro normativo vigente, con conseguente esposizione della Repubblica ad una grave infrazione internazionale e violazione degli artt. 10, 11 e 117 della Cost.;
  3. avrebbe potuto affermare che non spetta al Giudice delle leggi effettuare “riforme di sistema”, sull’assunto che il giudice a quo, in sostanza, avrebbe chiesto alla Corte di mutilare il diritto internazionale di una regola fondamentale che ab immemorabili governa i rapporti fra gli Stati sovrani; si sarebbe trattato quindi di effettuare scelte di un tale tasso di politicità, così discrezionali, che non possono che competere al legislatore o, comunque, agli organi di governo.

 

In casi del genere, poi, vale sempre la regola aurea per cui, a volerlo cercare, un impedimento di tipo processuale per non decidere nel merito si trova sempre.

La Corte, invece, nonostante tutto, entra nel merito della questione sottopostale.

Il Tribunale di Firenze, II sezione civile, dal canto suo, si trovava ad operare all’interno di un quadro normativo e giurisprudenziale che, tutto, spingeva perché declinasse la giurisdizione: la norma internazionale consuetudinaria sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione; le due norme certamente interne e certamente promananti da fonti atto poi censurate dalla Corte costituzionale[4]; l’accertamento della regola internazionale consuetudinaria effettuato dalla Corte internazionale di giustizia, ritenuta, dallo stesso giudice a quo, interprete esclusivo del diritto internazionale[5]; l’avallo (rectius la presa d’atto) da parte della Corte di cassazione a sezioni unite della sentenza della Cig [6].

Non solo; altri giudici del Tribunale di Firenze medesimo già avevano declinato la propria giurisdizione in casi simili: il Tribunale di Firenze, quindi, sul punto, e in questo senso, già si era pronunciato[7].

Con tali decisioni di rito, del resto, è stata applicata la legge, in linea, peraltro, con l’autorevole giurisprudenza appena richiamata. Il giudice, infatti, com’è noto, è soggetto «soltanto» alla legge (art. 101 Cost.)[8], ma alla legge sì; l’unica via che ha per sottrarsi a questo dovere incondizionato è sollevare la questione di legittimità costituzionale: via, appunto, intrapresa dalla II sezione civile del Tribunale di Firenze, le cui argomentazioni, va detto, hanno trovato sostanziale accoglimento da parte della Corte costituzionale, anche là dove la formula decisoria è quella del rigetto (non a caso) con rinvio alla motivazione.

2. Spirito di collaborazione

Nella sentenza emerge un particolare tentativo di ricerca di collaborazione ed il suo impianto motivazionale unitariamente sorregge tutti e tre i dispositivi.

Ci si soffermerà soprattutto sulla decisione interpretativa di rigetto, poiché ha ad oggetto la questione più complessa; le altre investono norme certamente interne e certamente poste da fonte atto, quindi qui, almeno sotto il profilo dell’oggetto del sindacato, particolari problemi non sembrano emergere.

La sentenza interpretativa di rigetto è la formula decisoria che maggiormente esprime la ricerca di collaborazione da parte del Giudice delle leggi nei confronti dei giudici comuni: ed è proprio questa la tecnica decisoria prescelta dalla Consulta per pronunciarsi sulla questione concernente la consuetudine internazionale sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione.

Nel caso in esame la ricerca di collaborazione è stata rivolta non solo verso il Tribunale di Firenze, e verso gli altri giudici che saranno chiamati ad operare in questo nuovo quadro normativo, ma anche verso la Corte internazionale di giustizia, cui, in effetti, è stato offerto un primo tassello per un nuovo futuro accertamento dell’alveo applicativo dell’immunità degli Stati, al momento, è chiaro, di là da venire.

L’intero impianto argomentativo sembra condurre ad una decisione di accoglimento (così com’è stato, del resto, per le altre questioni oggetto della sentenza), invece questa questione, relativa appunto alla consuetudine internazionale, viene dichiarata «non fondata, nei sensi di cui in motivazione»: più avanti si vedranno le ragioni per cui, in concreto, la via dell’accoglimento nel caso di specie non era (nemmeno auspicabilmente) percorribile.

Sebbene siano state utilizzate espressioni come, ad esempio, «pistola […] carica»[9], non pare che la Corte costituzionale abbia inteso collocarsi in una posizione di radicale opposizione rispetto al contesto internazionale, ma che in realtà, ferma l’estrema complessità della questione, si sia almeno sforzata di tener fede alle sue funzioni istituzionali.

Tutta la motivazione è improntata a spirito di collaborazione: la Corte mostra di voler contribuire alla definizione di un patrimonio costituzionale comune europeo ed internazionale, proprio nel ribadire la forza - e certamente per il nostro ordinamento l’irrinunciabilità - di quei diritti inviolabili e principi supremi, che connotano le fondamenta del nostro sistema costituzionale e che già sono parte di quel patrimonio condiviso a livello europeo ed internazionale.

3. Sussistenza (non scontata) dell’oggetto del sindacato di costituzionalità

Tale spirito vuol farsi emergere anche dalla tecnica decisoria prescelta.

La Corte afferma che la norma sull’immunità nella sua portata assoluta, tale da coprire qualunque atto, «non è entrata nell’ordinamento italiano» per la parte in cui coprirebbe anche crimini atroci, quali sono, appunto, quelli oggetto del giudizio principale[10].

A seguito di tale affermazione, legittimamente ci si poteva ben attendere una decisione di inammissibilità: se, infatti, la norma, su cui va esercitato il sindacato, «non è entrata», non c’è, non è presente nell’ordinamento, la questione di costituzionalità è inammissibile per mancanza dell’oggetto[11].

La Corte costituzionale, invece, decide la questione nel merito con una sentenza interpretativa di rigetto.

Una questione, s’è detto, spinosa sotto molteplici profili, non ultimo quello relativo alla scelta del tipo di decisione da adottare, specie se, come in questo caso, sono a disposizione molte chiavi per aprire le porte dell’inammissibilità.

Quando la Corte afferma che la norma non entra, in realtà, vuole (con forza) precisare che è esclusa dall’orizzonte ermeneutico dell’art. 10, comma 1, Cost. una norma che possa confliggere con i diritti inviolabili o i principi supremi.

Pur in astratto concepibile una norma di tale portata (ne ha disegnato i contorni la Cig ed il giudice a quo si è ritenuto vincolato a tale interpretazione), la Corte costituzionale, nella logica propria delle sentenze interpretative di rigetto, dà una lettura diversa da quella prospettata nell’ordinanza di rinvio.

Il sistema costituzionale non tollera che l’art. 10, comma 1, Cost. possa rappresentare la base testuale di norme in contrasto con valori fondanti del sistema medesimo; diversamente, si aprirebbe la via alla declaratoria d’incostituzionalità in parte qua dell’art. 10, comma 1, Cost., non, quindi, di una comune disposizione di rango costituzionale, ma di una disposizione della Costituzione: ipotesi estrema, che, se ritenuta in concreto percorribile, porterebbe a pensare che la cura sia forse peggiore della malattia.

La Corte, appunto, ha voluto escludere in radice questa evenienza, volendo, però, decidere comunque nel merito la questione; di qui il ricorso alla interpretativa di rigetto, che, da un lato, rappresenta la tecnica decisoria più incisiva che si sarebbe mai potuta utilizzare in un caso del genere, e, dall’altro, rivela, in quanto decisione di merito, e non di rito, anche all’esterno, sul piano formale, il chiaro intento della Corte di occuparsi di questa complicata vicenda implicante profili capitali di tenuta del nostro assetto costituzionale.

È pur vero, come detto, che la motivazione adottata avrebbe plausibilmente potuto condurre ad un dispositivo di inammissibilità, ma tale formula decisoria avrebbe, come dire, indebolito le statuizioni della motivazione medesima, dando un non voluto tono pilatesco alla decisione: la Consulta, pur al prezzo di qualche forzatura, ha deciso (è il caso di dirlo) di impedire che solo potesse insorgere il dubbio circa una sua qualche presa di distanza dalla questione sottopostale.

Ed è proprio la formula decisoria adottata, che rivela la consapevolezza della Corte della sussistenza dell’oggetto del sindacato.

Fermo che la consuetudine in sé, a prescindere dalla sua natura, non può venir sindacata in quanto norma esterna all’ordinamento, il “funzionamento” dell’art. 10, comma 1, Cost. si potrebbe, in sintesi, intendere in due modi: o determina la «creazione indiretta» di una norma «nella sostanza» di contenuto corrispondente alla regola internazionale sull’immunità[12] oppure pone una norma sulla normazione che consente alle regole esterne di dispiegare efficacia all’interno dell’ordinamento.

Sia che si aderisca all’una o all’altra tesi, resta astrattamente possibile assoggettare a sindacato di costituzionalità una norma: o quella creata indirettamente, di contenuto sostanzialmente corrispondente alla consuetudine internazionale, o quella sulla normazione che consente alla consuetudine medesima di dispiegare efficacia all’interno del nostro ordinamento.

Bisognerebbe ora chiedersi di che tipo di norma si tratti.

Secondo la Corte costituzionale questa norma interna è di rango costituzionale[13], secondo la teorica della «creazione indiretta del diritto» è una norma primaria, ma di una specie particolare perché si tratterebbe di norma interposta[14].

L’ordinanza del giudice a quo, al riguardo, tradisce un’insistita preoccupazione nel sottolineare la primarietà della norma censurata; il Tribunale di Firenze, forse, temeva che, se ne avesse affermato il rango costituzionale, sarebbe sorto qualche problema sul piano dell’ammissibilità della questione sollevata.

In realtà, però, quando sono in gioco principi supremi e diritti inviolabili della persona umana, sin dalla sentenza n. 1146/1988 la Corte costituzionale ha affermato la propria competenza a sindacare anche le norme di rango costituzionale.

L’appartenenza al livello costituzionale della norma, dunque, non poteva di per sé costituire un ostacolo al suo controllo, che poi, come si è visto, si è effettivamente esplicato in termini di intervento interpretativo chiarificatore.

4. Ricerca (necessitata) di collaborazione

È indubbio che le sentenze vadano interpretate e applicate secondo il cd. canone della totalità, per cui, per coglierne appieno la portata, non basta leggere il solo dispositivo, ma quest’ultimo va letto insieme alla motivazione[15]. Ciò non significa, però, che la formula decisoria perda poi ogni pregio.

Nella sostanza, è evidente, emerge a chiare lettere nel testo della sentenza, che nell’ottica della Corte costituzionale il giudice di Firenze (e non solo lui) sia munito di giurisdizione; anzi, il giudice ora deve dichiararsi munito di giurisdizione in vista della salvaguardia dei principi supremi e dei diritti inviolabili della persona umana.

Nondimeno, avendo pronunciato una sentenza interpretativa di rigetto, stricto iure la Corte non ha costretto il giudice di Firenze e gli altri giudici comuni a dichiararsi muniti di giurisdizione; lo avrebbe fatto se avesse esercitato l’«interpretazione decisoria», a lei riservata, se avesse cioè pronunciato la «cd. ultima parola»[16], disponendo l’annullamento della norma interna contrastante con il parametro dato dai valori irrinunciabili; ipotesi, che, nel caso di specie, come detto, è stata esclusa in radice per ragioni sistemiche.

L’opzione per l’interpretativa di rigetto rivela, quindi, la scelta del limite invalicabile di efficacia imposto dalla Corte alla propria decisione, che, comunque, doveva essere di merito, e la conseguente ricerca di collaborazione da parte dei giudici comuni nel dar seguito a quanto sancito in una sentenza per definizione non immediatamente vincolante per lo specifico profilo, è chiaro, attinente alla consuetudine internazionale.

Nel merito, poi, la Consulta fa affermazioni che, francamente, paiono dettate anche dal buon senso: uccidere civili inermi, mettere le persone in vagoni piombati, costringerle ai lavori forzati, torturarle, gettarle nelle fosse comuni sono «comportamenti che non attengono all’esercizio tipico della potestà di governo» e rispetto ai quali, quindi, non può essere invocata l’immunità dello Stato straniero dalla giurisdizione nazionale[17].

Con ciò non è stato certo cancellato l’equilibrio dei rapporti internazionali: gli atti di governo restano coperti dall’immunità; anche l’atto di governo il più odioso, quello che la Costituzione della Repubblica espressamente «ripudia», la guerra, rimane nell’alveo applicativo dell’immunità in parola.

La Corte costituzionale, ferma la via di collaborazione intrapresa, non ha assunto proditoriamente una posizione isolazionista rispetto al contesto internazionale o di sicura opposizione alla Germania; ha semmai affermato che nel nostro ordinamento, nel caso di crimini così odiosi, l’immunità dalla giurisdizione degli Stati non deve operare, poiché la sua applicazione indiscriminata determina la lesione di diritti inviolabili e principi supremi sanciti nella nostra Costituzione, degli «elementi identificativi dell’ordinamento costituzionale»[18].

Non si tratta, pertanto, di ostentare un’attenzione ai diritti umani in opposizione ad una asettica giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia, che medesima attenzione non dimostrerebbe; il punto vero è che i limiti fissati all’applicazione (indiscriminata) della regola consuetudinaria internazionale sono gli stessi limiti che l’ordinamento giuridico italiano ha dato a se stesso: alla nostra massima manifestazione di sovranità, ossia il potere di revisione costituzionale, non è consentito vulnerare i diritti inviolabili e i principi supremi.

Un impatto, che dall’esterno colpisse questa dimensione, sarebbe intollerabile per il sistema, in quanto la dimensione ascrivibile ai diritti inviolabili e ai principi supremi, rappresenta la condizione minima di esistenza dell’ordinamento costituzionale, così come lo conosciamo.

E la funzione istituzionale della Corte costituzionale consiste nel difendere questa Costituzione, non un’altra.

5. Salpare per Troia?

Quel che emerge nitidamente da questa intricata vicenda è una preoccupante debolezza, se non addirittura assenza, della politica[19]. Questioni dalle così articolate implicazioni non possono essere lasciate al solo apprezzamento della giurisdizione o di quella peculiare forma di giurisdizione che viene esercitata dalla Corte costituzionale.

Del resto, mettendo per un momento da parte la delicata questione relativa alla consuetudine internazionale, se si pensa al tenore testuale dell’art. 3 della legge n. 5/2013[20], dichiarato appunto incostituzionale dalla sentenza n. 238/2014, appare quanto mai difficile immaginare un esito diverso, una volta che una disposizione di tale fattura venga assoggettata allo scrutinio di costituzionalità.

Gli interessi in gioco erano tali e tanti da dover in primis trovare allocazione e composizione (avveduta) nel dominio della politica.

Tale vicenda, per la verità, ha riportato alla memoria di chi scrive il mito di Ifigenia in Aulide.

Ifigenia, com’è noto, era la figlia di Agamennone, il quale era pronto a sacrificarla perché tornasse a soffiare il vento in modo che le navi dei greci potessero salpare alla volta di Troia.

Agamennone aveva organizzato un’impresa militare che il mito non aveva mai conosciuto né mai conoscerà; egli era ἄναξ, ossia signore e guida degli altri re greci: di norma riottosi a collaborare fra di loro, era riuscito a convincerli a seguirlo in quest’impresa grandiosa.

Sembra davvero ingenuo pensare che Agamennone avesse organizzato un’operazione di tali dimensioni (solo) per riscattare l’onore del fratello Menelao e della Grecia tutta, offeso per via del rapimento di Elena, oppure per inseguire l’idea romantica di liberare la donna più bella di tutti i tempi.

Il re di Micene, invero, aveva in mente un ambizioso piano politico-militare: voleva conquistare Troia, i suoi tesori ed aprirsi così la strada alle infinite ricchezze d’Oriente.

Intanto gli altri re Achei, bloccati in Aulide, perché lo stesso Agamennone aveva offeso la dea Artemide, premevano perché si potesse partire.

Era la ragion di stato, dunque, che spingeva Agamennone nella sua azione, fino al punto aberrante di decidere di far uccidere la figlia.

Eschilo precisa che Agamennone diede disposizioni perché, per essere sollevata sull’altare sacrificale, la povera Ifigenia venisse presa come «capra selvatica»: χιμαίρας, scrive Eschilo[21].

Nella complessa e delicatissima vicenda, che oggi ci occupa, sembra allora che in buona sostanza sia accaduto questo: che, una volta chiamate a pronunciarsi, la II sezione civile del Tribunale di Firenze, prima, e la Corte Costituzionale, poi, non se la siano sentita di sacrificare come «capra selvatica» sull’altare della ragion di stato le colonne portanti della Costituzione della Repubblica.

[1] Corte internazionale di giustizia, 3 febbraio 2012, Germania c. Italia (con intervento della Grecia).

[2] Vedi infra nota 5.

[3] Corte cost. 22 ottobre 2014, n. 238, n. 3.1 del considerato in diritto: «deve riconoscersi che, sul piano del diritto internazionale, l’interpretazione da parte della Cig della norma consuetudinaria sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati per atti ritenuti iure imperii è un’interpretazione particolarmente qualificata, che non consente un sindacato da parte di amministrazioni e/o giudici nazionali, ivi compresa questa Corte».

[4] Art. 3, legge n. 5/2013 (su cui vedi infra § 5) e art. 1, legge n. 848/1957.

[5] Trib. Firenze, II sez. civ., ordinanza 21 gennaio 2014: «al giudice italiano è sottratta la interpretazione della valenza imperativa e inderogabile delle norme di jus cogens di diritto internazionale, ambito nel quale la Corte internazionale di giustizia ha una competenza assoluta ed esclusiva». Invero le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate con «tre distinte ordinanze di identico tenore» (Corte cost. 22 ottobre 2014, n. 238, n. 1 del ritenuto in fatto), mentre quella oggetto di una quarta ordinanza di analogo contenuto, iscritta al n. 143 del registro ordinanze 2014, è stata decisa dalla Corte costituzionale con ordinanza n. 30 del 3 marzo 2015.

[6] Cass. civ., sez. un., ordinanza 21 febbraio 2013, n. 4284.

[7] Vedi Trib. Firenze, sentenze nn. 1080, 1081, 1086 3913 del 2012 e nn. 47 e 48 del 2013, richiamate dallo stesso giudice a quo nell’ordinanza di rinvio.

[8] In proposito, di recente, vedi S. Bartole, Il potere giudiziario, Seconda edizione, Bologna, 2012, 19 e ss. (spec. 25-27).

[9] Vedi P. Faraguna, Corte costituzionale contro Corte internazionale di giustizia:i controlimiti in azione, in www.forumcostituzionale.it (2 novembre 2014).

[10] Vedi Corte cost. 22 ottobre 2014, n. 238, n. 3.5 del considerato in diritto.

[11] Sul punto A. Ruggeri, La Corte aziona l’arma dei “controlimiti” e, facendo un uso alquanto singolare delle categorie processuali, sbarra le porte all’ingresso in ambito interno di norma internazionale consuetudinaria (a margine di Corte cost. n. 238 del 2014), in www.giurcost.it, 17.11.14, 2.

[12] È questa la tesi della «creazione indiretta del diritto» di S. M. Cicconetti, Le fonti del diritto italiano, Seconda edizione, Torino, 2007, 35 e ss. (spec. 38 e ss.), fatta propria in modo esplicito dal giudice a quo: «Ad avviso del giudicante per invocare l’intervento della Corte costituzionale, a fronte di un diritto vivente consolidato, non rileva probabilmente la distinzione se il meccanismo di recepimento di cui all’art. 10 Costituzione determini la semplice efficacia nell’ordinamento italiano delle suddette norme internazionali ovvero dia luogo al sorgere di norme interne ad esse corrispondenti (dando vita secondo una dottrina condivisa dal giudicante ad un fenomeno di creazione indiretta del diritto)» (Trib. Firenze, II sez. civ., ordinanza 21 gennaio 2014).

[13] Corte cost. 22 ottobre 2014, n. 238, n. 3.1 del considerato in diritto: «la norma internazionale da immettere ed applicare nell’ordinamento interno, così come interpretata nell’ordinamento internazionale, […] ha rango equivalente a quello costituzionale, in virtù del rinvio di cui all’art. 10, primo comma, Cost.».

[14] Vedi S. M. Cicconetti, Le fonti del diritto italiano, cit., 47.

[15] Vedi E. Lamarque, Relazione illustrativa della ricerca, curata dall’Ufficio studi della Corte costituzionale, su Il seguito delle decisioni interpretative e additive di principio della Corte costituzionale presso le autorità giurisdizionali (anni 2000-2005), in www.cortecostituzionale.it, 57.

[16] Vedi F. Modugno, Sull’interpretazione costituzionalmente conforme, in Il diritto fra interpretazione e storia, Liber amicorum in onore di Angel Antonio Cervati, Tomo III, a cura di A. Cerri, P. Häberle, I.M. Jarvad, P. Ridola, D. Schefold, Roma, 2010, 355.

[17] Vedi Corte cost. 22 ottobre 2014, n. 238, n. 3.4 del considerato in diritto.

[18] Corte cost. 22 ottobre 2014, n. 238, n. 2.1 del considerato in diritto.

[19] Anche la vicenda in esame, insomma, pare figlia di quel «lungo letargo progettuale», da cui la politica stenta a destarsi, vedi M. Luciani, Funzioni e responsabilità della giurisdizione. Una vicenda italiana (e non solo), in www.rivistaaic.it, n. 3/2012, 03/07/2012, 12.

[20] Art. 3, legge n. 5/2013, Esecuzione delle sentenze della Corte internazionale di giustizia: « 1. Ai fini di cui all’articolo 94, paragrafo 1, dello Statuto delle nazioni unite, firmato a San Francisco il 26 giugno 1945 e reso esecutivo dalla legge 17 agosto 1957, n. 848, quando la Corte internazionale di giustizia, con sentenza che ha definito un procedimento di cui è stato parte lo Stato italiano, ha escluso l’assoggettamento di specifiche condotte di altro Stato alla giurisdizione civile, il giudice davanti al quale pende controversia relativa alle stesse condotte rileva, d’ufficio e anche quando ha già emesso sentenza non definitiva passata in giudicato che ha riconosciuto la sussistenza della giurisdizione, il difetto di giurisdizione in qualunque stato e grado del processo. // 2. Le sentenze passate in giudicato in contrasto con la sentenza della Corte internazionale di giustizia di cui al comma 1, anche se successivamente emessa, possono essere impugnate per revocazione, oltre che nei casi previsti dall’articolo 395 del codice di procedura civile, anche per difetto di giurisdizione civile e in tale caso non si applica l’articolo 396 del citato codice di procedura civile». P. Faraguna, Corte costituzionale contro Corte internazionale di giustizia:i controlimiti in azione, cit., reputa tale disposizione frutto di «inusuale zelo» del legislatore.

[21] Eschilo, Agamennone, in Id., Orestea, traduzione di M. Valgimigli, introduzione di V. Di Benedetto, premessa al testo e note di F. Ferrari, Milano, 1980 (ristampa 1988), 82-83.