Magistratura democratica

Sovranità vs. Diritti fondamentali

di Gaetano Silvestri

Secondo l’autore la sentenza n. 238 del 2014 nel riconoscere che l’avvento della Costituzione democratica del 1948 – dopo la dittatura, gli orrori della guerra e la Resistenza al nazifascismo – ha sostituito il fondamento di valore a quello di autorità ed ha scardinato, di conseguenza la nozione tradizionale di sovranità, spiega come il favor Constitutionis, che presiede a tutto il sistema di giustizia costituzionale, imponga l’eliminazione progressiva di tutte le “zone d’ombra”, nelle quali si producono ed hanno efficacia norme giuridiche in grado di incidere sul livello primario del sistema normativo ed esprime infine i propri dubbi sul dispositivo interpretativo di rigetto, dato che le norme interne di adeguamento alle consuetudini internazionali esistono, ancorché non scritte, in quanto frutto del processo di “adattamento”, che implica perciò la formazione “automatica” di norme non scritte interne.

1. L’antefatto: le vittime delle atrocità naziste alla ricerca di un giudice

Per comprendere correttamente il senso e la portata della sentenza in commento si deve partire dalle vicende, normative e giudiziarie, che l’hanno preceduta, in quanto gettano luce sugli aspetti non solo giuridici in senso stretto, ma soprattutto umani e morali di gravissime lesioni di diritti fondamentali, le cui vittime sono andate per anni “alla ricerca di un giudice”.

Due cittadini italiani e gli eredi di un terzo avevano adito il Tribunale di Firenze per ottenere il risarcimento dei danni subiti in occasione della deportazione in Germania di tre militari italiani – in seguito a cattura degli stessi, sul territorio italiano, da parte di forze militari tedesche – avviati al lavoro forzato, in condizioni di schiavitù, in alcuni Lager, dove avevano patito atroci sofferenze e uno di loro era stato ucciso.

La domanda risarcitoria era stata presentata ad un giudice italiano, giacché nell’ordinamento tedesco si erano chiuse tutte le porte praticabili per ottenere una riparazione per gli atti compiuti dalle truppe naziste sia in territorio italiano che, successivamente, in Germania.

Vale la pena ricordare, al proposito, che una legge federale tedesca del 2 agosto 2000 ha istituito una Fondazione dal nome significativo: Erinnerung, Verantwortung und Zukunft (Memoria, Responsabilità e Futuro) dotata di fondi destinati alle persone assoggettate a lavori forzati o vittime di “altre ingiustizie”, nel periodo del regime nazionalsocialista. L’art. 11 della suddetta legge, come interpretato dalle autorità germaniche, aveva posto alcune limitazioni, una delle quali produceva la conseguenza dell’esclusione dal diritto al risarcimento di coloro che rivestivano, all’epoca dei fatti, lo status di prigioniero di guerra. La ragione di tale esclusione fu motivata con l’argomento che le norme internazionali vigenti all’epoca dei fatti consentivano che i prigionieri di guerra fossero avviati al lavoro.

A nulla è valsa la circostanza che alle migliaia di militari italiani internati in Germania fosse stato negato tale status dalle autorità tedesche del regime nazista, giacché le autorità della attuale Repubblica federale tedesca hanno ritenuto illegale e quindi nulla quella negazione. È stato sufficiente quindi che i militari italiani deportati avessero avuto astrattamente titolo, in quei tempi, al riconoscimento dello status di prigioniero di guerra, indipendentemente dal rifiuto delle autorità dello Stato nazionalsocialista, concretamente operativo, ma solo a posteriori ritenuto nullo, perché illegale, dalla Repubblica federale tedesca.

In definitiva, i militari italiani deportati in Germania non avevano effettivamente goduto dei diritti attribuiti dalle convenzioni internazionali ai prigionieri di guerra, ma non hanno – secondo la vigente legge tedesca, come interpretata dalle competenti autorità – neppure oggi diritto ai risarcimenti, giacché virtualmente essi erano prigionieri di guerra all’epoca dei lavori forzati. Su questa base interpretativa, i giudici tedeschi rigettavano le domande di risarcimento presentate da molti italiani, ritenendo che i richiedenti dovessero essere considerati, ora per allora, prigionieri di guerra e quindi esclusi dai benefici della legge federale del 2000. Tale orientamento fu confermato dal Tribunale costituzionale germanico con sentenza del 28 giugno 2004.

Si tratta di una vicenda cui ben si adatta l’antico aforisma latino summum ius summa iniuria: l’illegalità a suo tempo commessa dalle autorità tedesche giova oggi all’attuale Stato germanico per negare le riparazioni alle vittime ed ai loro eredi! La stessa Corte internazionale di giustizia, pur nel contesto di una decisione sfavorevole per l’Italia e favorevole per la Germania (sentenza 3 febbraio 2012) ha stigmatizzato questo atteggiamento attuale delle autorità tedesche, esprimendo “sorpresa” e “rammarico”[1].

2. La risposta dei giudici italiani

Le vittime delle atrocità naziste si trovarono quindi di fronte all’alternativa di adeguarsi, con una rassegnata rinunzia, alla paradossale situazione creata dal contorto sofisma giuridico adottato dalle autorità tedesche, o di tentare di avere giustizia dai giudici italiani, anche in considerazione che l’atto di violenza iniziale da loro subito – all’origine di tutti quelli susseguenti – era avvenuto in territorio italiano.

In un primo momento, la magistratura italiana diede una risposta positiva alla richiesta risarcitoria delle vittime. Con alcune importanti sentenze, la Corte di cassazione superò in modo argomentato l’eccezione di difetto di giurisdizione fondata sull’immunità degli Stati che agiscono iure imperii. L’antinomia tra quest’ultima e il principio della tutela delle vittime di crimini internazionali o di gravi violazioni di diritti umani deve essere risolto – affermò la Suprema corte – in favore del secondo. Nella sentenza “Ferrini” del 2004[2] si affermò, tra l’altro: «Il rispetto dei diritti inviolabili della persona umana ha invero assunto, ormai, il valore di principio fondamentale del diritto internazionale». Nella motivazione di tale pronuncia furono richiamate le opinioni dissenzienti della minoranza (otto contro nove) della Corte di Strasburgo, la cui maggioranza aveva invece riaffermato, con tre sentenze del 2001, l’inderogabilità del principio di immunità degli Stati dalla giurisdizione di altri Stati per atti compiuti iure imperii[3]. I giudici rimasti in minoranza avevano ricordato infatti che l’art. 12 della Convenzione di New York 2 dicembre 2004 (al tempo della citata decisione della Corte Edu ancora allo stato di progetto), in cui è stabilita una deroga all’immunità giurisdizionale degli Stati in caso di lesione all’integrità fisica di una persona o danni ai beni[4], deve essere interpretato nel senso che, nei casi contemplati da tale norma, non ha valore la tradizionale distinzione tra atti commessi iure imperii e atti posti in essere iure gestionis, con la conseguente prevalenza dello ius cogens della riparazione dei crimini di guerra in tutti i casi.

In un’altra sentenza della Corte di cassazione, conforme all’orientamento prima ricordato, si legge una frase di estrema importanza, anche al fine di un aggiornato inquadramento teorico del problema: «[…] sarebbe a dir poco “incongruo” che la giurisdizione civile, che l’ordinamento internazionale già consente di esercitare nei confronti dello Stato straniero in caso di violazione ad esso addebitabili, resti, invece, esclusa a fronte di ben più gravi violazioni, quali quelle costituenti crimini addirittura contro l’umanità, e che segnano anche il punto di rottura dell’esercizio tollerabile della sovranità»[5].

Nella suddetta pronuncia del giudice di legittimità si mette a fuoco, con poche, incisive parole, il nucleo essenziale di tutta la problematica sollevata dai casi di riparazioni di crimini di guerra compiuti da militari tedeschi durante il secondo conflitto mondiale, non riconosciute alle vittime italiane dalle attuali autorità germaniche e pertanto richieste ai giudici italiani.

La domanda che sin d’ora ci possiamo porre è la seguente: quali sono i limiti della sovranità degli Stati, intesi come titolari di un mero imperium vuoto di contenuti sostanziali, di fronte al quale i valori fondamentali della civiltà umana sono irrilevanti?

3. La risposta della Corte internazionale di giustizia

La risposta della Corte internazionale di giustizia (Cig) è stata nel senso che la sovranità degli Stati, che implica la loro rigorosa eguaglianza nell’ordinamento internazionale, non tollera eccezioni. Essa ha accertato pertanto l’esistenza e la perdurante vigenza di una norma internazionale consuetudinaria, che esclude dalla giurisdizione di altri Stati l’accertamento della responsabilità di uno Stato per atti compiuti nell’esercizio della potestà di governo (iure imperii), qualunque sia il loro contenuto lesivo e dovunque gli stessi siano posti in essere.

La Corte non ha negato la natura delittuosa degli atti subiti dalle vittime che reclamavano risarcimenti, ma ha affermato, nello stesso tempo, che lo ius cogens, posto a fondamento del diritto alla riparazione delle lesioni dei diritti fondamentali procurate da atti criminali, ha natura sostanziale, mentre l’immunità ha natura processuale. I due princìpi pertanto operano, secondo la Corte, in due campi distinti, separati e non interferenti. La conseguenza pratica di tale dictum è stata che il diritto delle vittime ad ottenere una riparazione ed il dovere dei responsabili a prestarla, ancorché conclamato e giuridicamente riconosciuto, è di fatto inoperante a causa dell’immunità processuale degli Stati, conseguenza indefettibile della loro uguale sovranità[6].

Il risultato finale è quello della totale assenza, in tutto il mondo, di un giudice, nazionale o internazionale, che possa conoscere delle lamentate violazioni dei diritti fondamentali degli attori, deportati o eredi di deportati nei campi di lavoro schiavistico nella Germania nazista.

La Cig sembra rendersi conto della conclusione sostanzialmente ingiusta della vicenda processuale e non soltanto – come abbiamo accennato prima – esprime sorpresa e rammarico per l’atteggiamento delle autorità tedesche, ma auspica che abbiano luogo ulteriori negoziati diplomatici tra Italia e Germania per risolvere il problema (par. 104).

4. Le opinioni dissenzienti

La sentenza della Cig ha provocato – come era da aspettarsi – molti commenti, di cui non si tiene conto in questa nota, dedicata in via principale alla sentenza n. 238 del 2014 della Corte costituzionale italiana.

Per comprendere meglio la pronuncia del giudice delle leggi italiano, può essere utile ricordare tuttavia alcune notazioni critiche, tra le tante che sono state espresse rispetto alla decisione della Corte dell’Aja, da due giudici rimasti in minoranza.

La prima si trova nella dissenting opinion del giudice Cançado Trindade che osserva come, in rapporto a crimini contro l’umanità, non è appropriato parlare di acta iure imperii, dovendosi invece, più correttamente, adottare la definizione di delicta imperii, crimini internazionali in violazione dello ius cogens, in relazione ai quali non è possibile invocare l’immunità degli Stati[7].

La seconda si legge nella dissenting opinion del giudice Yusuf e si basa sulla necessità di ammettere una deroga al principio dell’immunità degli Stati, quanto meno in riferimento a circostanze eccezionali – come quelle delle atrocità naziste commesse dal Terzo Reich durante la Seconda guerra mondiale – e solo nell’ipotesi che le vittime non possano avvalersi di alcun altro strumento per ottenere riparazione. Si riconoscerebbe, in tal modo, secondo il giudice Yusuf, un’eccezione molto limitata alla perdurante consuetudine internazionale sull’immunità degli Stati e la tutela di diritti fondamentali, i cui titolari rimarrebbero, in caso contrario, privi di un giudice cui rivolgersi[8].

5. Controlimiti, fondamento di valore e fondamento di autorità

Da questa “notte dei diritti” prende le mosse la questione sollevata dal Tribunale di Firenze, con tre distinte ordinanze, e la susseguente sentenza n. 238 del 2014.

Come è noto, la Corte costituzionale italiana ha precisato, nella sua pluridecennale giurisprudenza, che le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute – di cui all’art. 10, primo comma, Cost. – non possono produrre l’effetto di adeguamento previsto dalla citata norma costituzionale, nel caso in cui violino i princìpi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano (sentenze n. 48 del 1979, n. 15 del 1996, n. 73 del 2001). La dottrina ha coniato l’espressione “controlimiti”, ora entrata, con la sentenza in commento, anche nel linguaggio del giudice costituzionale, per indicare complessivamente la necessaria chiusura dell’ordinamento giuridico italiano nei confronti di norme esterne (internazionali e sovranazionali) in contrasto con i princìpi (e i diritti) fondamentali.

La ratio generale dei controlimiti (al di là delle differenze relative alle singole fonti esterne cui, di volta in volta, ci si riferisce) è desumibile dal secondo comma dell’art. 1 Cost., che subordina la stessa sovranità popolare alle “forme” ed ai “limiti” della Costituzione. Ciò significa che nessun soggetto istituzionale, e neppure lo stesso popolo, può deliberare atti lesivi delle basi stesse dell’ordinamento costituzionale, senza incorrere nel vizio di contraddittorietà, derivante dall’uso di un potere conferito dalla Costituzione contro la Costituzione medesima. Quest’ultima non è immodificabile, ma può essere rivista solo ed esclusivamente nelle “forme” (vedi art. 1) dell’art. 138 e nei limiti (vedi sempre art. 1) dell’art. 139 della Carta (comprendendosi nella “forma repubblicana” il nucleo essenziale dei princìpi). Questa logica costruzione è stata resa esplicita dalla sentenza n. 1146 del 1988, che ha escluso che con lo stesso procedimento di revisione costituzionale si possa arrivare alla violazione dei princìpi e dei diritti fondamentali su cui poggia tutto l’edificio costituzionale.

La sentenza n. 238 del 2014[9] parte quindi dal riconoscimento, da parte del giudice delle leggi, che l’avvento della Costituzione democratica del 1948 – dopo la dittatura, gli orrori della guerra e la Resistenza al nazifascismo – ha sostituito il fondamento di valore a quello di autorità ed ha scardinato, di conseguenza la nozione tradizionale di sovranità, intesa come potere illimitato, indivisibile e insindacabile attribuito allo Stato-soggetto. Alla luce della tradizionale nozione di sovranità, e dell’altrettanto tradizionale positivismo legalistico, sarebbero difficilmente giustificabili sia i “controlimiti” all’efficacia interna delle norme internazionali e sovranazionali, sia lo stesso limite posto dalla citata sentenza n. 1146, che apparirebbe (ed a taluno continua ad apparire!) un controsenso giuridico.

Se non si fosse d’accordo con questa premessa generale e si ritenesse invece che ancor oggi si possa concepire soltanto il fondamento di autorità del potere, non solo la sentenza n. 238 del 2014 sembrerebbe “eretica”, ma tutta la giurisprudenza della Corte sui “controlimiti” non avrebbe consistenza giuridica.

6. Sindacabilità di norme non scritte

La finalità di non lasciare privi di tutela giurisdizionale diritti fondamentali gravemente violati ha indotto la Corte a compiere un altro passo nella sua ormai consolidata – ma prudente e non priva di oscillazioni – tendenza ad allargare le vie di accesso al giudizio di costituzionalità.

Il “filo rosso” che collega le pur caute aperture, da parte del giudice delle leggi, delle vie d’accesso alla giustizia costituzionale è il perseguimento della miglior tutela dei diritti fondamentali, l’intento di limitare al minimo l’incidenza di preclusioni formali sull’effettività di tali diritti, quando questi siano lesi o minacciati da atti normativi di grado primario.

La sentenza n. 238 del 2014 ha continuato tale percorso, comprendendo tra le norme che possono essere scrutinate dalla Corte costituzionale anche quelle non scritte, quali quelle poste in essere da consuetudini internazionali. Sarebbe stato inconciliabile con il ruolo della Corte, “guardiana” della Costituzione – e a fortiori dei princìpi e dei diritti fondamentali in essa enunciati e tutelati – rinunciare a valutare una norma giuridica, posta, per effetto dell’art. 10, primo comma, Cost. ad un livello del sistema delle fonti del diritto simile a quello delle norme internazionali pattizie, con la differenza della non necessità di atti interni di recepimento. Si tratta, anche in questo caso, di “norme interposte”, idonee ad integrare il parametro costituzionale, a condizione che non si pongano in contrasto, quanto meno, con i princìpi e i diritti fondamentali della Costituzione[10].

Come per le norme dell’Ue e per quelle della Cedu, anche per le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute il vero problema non è quello di individuare, con selezioni più o meno arbitrarie, le componenti interne del “nucleo duro”, che resisterebbero alle “modificazioni tacite” della Costituzione ad opera di fonti esterne, ma la valutazione, da effettuare caso per caso, dei limiti alla “contestualizzazione” delle norme esterne, alla loro possibilità di permanere nel sistema costituzionale italiano, senza creare stridenti dissonanze, che finiscono, in via diretta o indiretta, con il sacrificare o eccessivamente comprimere diritti fondamentali (civili, politici e sociali).

Una norma, il cui effetto pratico è quello di incidere in modo irreparabile sul diritto di difesa in giudizio, sul diritto, nella fattispecie, di far valere davanti ad un giudice la propria pretesa ad una riparazione per gravissime lesioni dei propri diritti umani, non poteva rimaner fuori dallo spettro del controllo di legittimità costituzionale affidato al giudice delle leggi. Il favor Constitutionis che presiede a tutto il sistema di giustizia costituzionale impone l’eliminazione progressiva di tutte le “zone d’ombra”, nelle quali si producono ed hanno efficacia norme giuridiche in grado di incidere sul livello primario del sistema normativo. Tale è la caratteristica delle norme internazionali consuetudinarie, che incidono, sul piano del diritto positivo, principalmente sulle norme legislative interne italiane ed integrano il parametro di cui all’art. 10, primo comma, della Costituzione.

L’introduzione di una specifica immunità dalla giurisdizione aveva inciso, in modo concreto e positivo – al punto da costringere i giudici italiani a prenderne atto esplicitamente nelle loro decisioni – sul sistema giurisdizionale italiano, costituito da norme scritte, di rango costituzionale e legislativo ordinario, che attribuiscono, nelle forme processuali previste, a tutti i cittadini il diritto di «agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi» (art. 24, primo comma, Cost.). Si rischiava di rimanere impotenti di fronte al paradosso di una lesione ad uno dei princìpi fondamentali, su cui si regge l’intero sistema costituzionale – in conformità ad uno dei classici princìpi del costituzionalismo moderno –, non riparabile dall’organo di giustizia costituzionale a causa di un ostacolo puramente formale, frutto peraltro di una interpretazione meramente letterale dell’art. 134, primo comma, della Costituzione.

Se l’effetto delle norme internazionali consuetudinarie si produce non soltanto sull’ordinamento positivo di livello primario, ma sulla stessa Costituzione o addirittura sui suoi princìpi fondamentali, il pericolo è che si verifichi ancora una volta, in assenza di un rimedio costituzionale, una situazione di summum ius summa iniuria, sempre in agguato nei tormentati percorsi giurisprudenziali del giudice delle leggi. La Corte ha dovuto evitare il paradosso di norme giuridiche “esterne” idonee a modificare, per “adattamento”, norme interne. Queste ultime rimarrebbero, in sé e per sé sindacabili dalla Corte costituzionale, ma non lo sarebbero le loro modifiche, in quanto prodotte da norme non scritte. La contraddizione logico-giuridica mi sembra evidente.

7. Perplessità sulla soluzione tecnica prescelta dalla Corte

Qual era l’oggetto del sindacato di costituzionalità, che ha condotto alla sentenza n. 238 del 2014? A tale quesito sembra di dover rispondere che l’oggetto sostanziale dello scrutinio fosse la norma interna di adeguamento, che si forma automaticamente in corrispondenza delle norme consuetudinarie internazionali.

Se si esamina il precedente più vicino alla fattispecie oggi definita, si può vedere che la Corte ha ben distinto tra l’oggetto formale, le norme di adattamento, e quello sostanziale, la norma consuetudinaria. Nella sentenza n. 48 del 1979 – non sempre a proposito evocata in questi ultimi tempi – si legge che «il vero oggetto del giudizio […] concerne la compatibilità, con gli invocati principi costituzionali, della norma interna di adeguamento alla consuetudine internazionale generale». Ciò significa due cose: a) l’ordine di esecuzione dato con legge statale è solo un plus rispetto ad una norma già entrata, per effetto dell’adeguamento automatico, nell’ordinamento giuridico italiano; b) esiste quindi una norma interna, avente efficacia giuridica, che si forma in corrispondenza di quella internazionale generalmente riconosciuta e che si modifica man mano che quest’ultima si trasforma.

Nella sentenza n. 238 del 2014, la Corte ha tentato di completare il quadro ed ha scelto, per quanto riguarda la norma consuetudinaria, la soluzione basata su una sorta di controllo automatico di legittimità costituzionale, che farebbe tutt’uno con l’adeguamento previsto dall’art. 10, primo comma, Cost., impedendo sin dall’origine l’ingresso della norma non compatibile con i principi costituzionali.

Si può nutrire qualche perplessità su questa scelta, che sembra viziata da un eccesso di virtualità. Il controllo di costituzionalità è sempre sulla “questione”, quale è posta dal giudice a quo e quale emerge dall’impatto della norma censurata con la situazione concreta dei rapporti su cui la stessa è destinata ad incidere. Tale verifica, non puramente astratta, sfocia in una decisione adottata all’esito di un processo, con la sua dialettica e la sua inevitabile parte di “concretezza”. Non a caso si dice comunemente che la Corte non si pronuncia in generale sulla norma, ma sulla questione e non a caso la stessa non dichiara mai le norme conformi a Costituzione, ma si limita a dichiarare fondata o non fondata una questione. Che tale complesso e sfaccettato giudizio possa essere sostituito da una sorta di controllo automatico e virtuale sembra non aderente al sistema italiano di giustizia costituzionale.

La conclusione più coerente sarebbe stata, a mio modesto avviso, una sentenza di accoglimento anche per la norma avente origine nella consuetudine internazionale, la quale, penetrata nell’ordinamento italiano, ne viene espunta, allo stesso modo in cui qualsiasi norma legislativa efficace sino ad una eventuale sentenza di accoglimento, viene espunta dal sistema perché ritenuta in contrasto con la Costituzione. La norma incostituzionale “esiste” così com’è, con i suoi vizi, e produce effetti sino ad un eventuale intervento del giudice delle leggi. La stessa cosa si può dire delle norme interne di adeguamento alle consuetudini internazionali, che esistono, ancorché non scritte, in quanto frutto del processo di “adattamento”, che non deve essere confuso con una sorta di efficacia diretta ed implica perciò la formazione “automatica” di norme non scritte interne[11].

Assumendo il diverso punto di vista dello sbarramento preventivo all’ingresso della norma consuetudinaria in contrasto con i princìpi fondamentali della Costituzione, la Corte non poteva che arrivare ad una decisione interpretativa di rigetto, poiché non poteva certo dichiarare costituzionalmente illegittima un norma rimasta puramente esterna, in quanto mai penetrata nell’ordinamento giuridico italiano[12]. Così facendo, però, ha dilatato oltre misura una fictio che finisce per indebolire l’efficacia della decisione, poiché – secondo la grande maggioranza della dottrina – le decisioni di rigetto non spiegano effetti erga omnes, ma solo inter partes. Resta aperta pertanto la non auspicabile possibilità che un altro giudice vada in contrario avviso, ritenendo perdurante la vigenza, nell’ordinamento italiano, della norma consuetudinaria internazionale mai divenuta oggetto di una pronuncia di accoglimento. Si tratta solo di una eventualità, ma non la possiamo scartare in partenza, vista l’incandescenza della materia e la diversità di opinioni che si sono manifestate a tutti i livelli.

8. Dogma della sovranità dello Stato e forza universale dei valori

Al di là della precedente riserva, si deve dire che la sentenza n. 238 del 2014 ha fatto compiere un balzo in avanti ad una concezione della sovranità basata sui valori e non sull’autorità. Non avrebbe senso parlare di “controlimiti”, se non si disponesse di un criterio generale per valutare l’apertura o la chiusura dell’ordinamento italiano rispetto alle norme esterne. La caduta della sovranità impenetrabile dello Stato, posta alla base della tradizionale teoria dualistica, non ha portato con sé la rovina dei fondamenti assiologici del costituzionalismo moderno. Ciò che non è consentito alle norme interne non è consentito neppure a quelle esterne. L’intangibilità dei valori costitutivi della dignità umana si afferma soprattutto in contrasto con la forza dell’autorità, nazionale, sovranazionale o internazionale che sia[13]. La Cig ha fatto prevalere le ragioni della forza su quelle della ragione; la Corte costituzionale italiana ha ritenuto prevalenti i princìpi e i diritti fondamentali sul dogma della sovranità. Il cammino è ancora lungo e accidentato; è importante però che non si torni indietro.

[1] «The Court considers that it is matter of surprise – and regret – that Germany decided to deny compensation  to a group of victims on the ground that they had been entitled to a status which, at the relevant time, Germany had refused to recognize, particularly since those victims had thereby been denied the legal protection to which that status entitled them» (par. 99).

[2] Corte di cassazione (sez. un. civ.), 11 marzo 2004 n. 5004, Ferrini c. Repubblica federale di Germania.

[3] Corte europea dei diritti dell’uomo, Fogarty vs. United Kingdom, McElhinnery vs. Ireland, Al-Adsani vs. United Kingdom.

[4] Art. 12: «Sempre che gli Stati interessati non convengano diversamente, uno Stato non può invocare l’immunità giurisdizionale davanti a un tribunale di un altro Stato, competente in materia, in un procedimento concernente un’azione di riparazione pecuniaria in caso di decesso o di lesione dell’integrità fisica di una persona o in caso di danno o di perdita di un bene corporeo, dovuti a un atto o un’omissione presumibilmente attribuibile allo Stato, se tale atto o omissione si sono prodotti, interamente o in parte, sul territorio dell’altro Stato e se l’autore dell’atto o dell’omissione era presente su tale territorio nel momento in cui è prodotto l’atto o l’omissione». L’Italia ha aderito alla suddetta Convenzione in base alla legge 14 gennaio 2013 n. 5.

[5] Corte di cassazione (sez. un. civ.), 29 maggio 2008, n. 14201, Repubblica federale di Germania c. M. L. e altri.

[6] A titolo meramente esemplificativo (rinviando per una valutazione più organica alla lettura dell’intera sentenza della Cig) si possono ricordare due passi significativi: «The Court considers that there can be no doubt that this conduct was a serious violation of the international law of armed conflict applicable in 1943-1945. Article 6 (b) of the Charter of the International Military Tribunal, 8 august 1945 […] convened at Nuremberg included as war crimes “murder, ill-treatment, or deportation to slave labour or for any other purpose of civilian population of or in occupied territory”, as well as “murder and ill-treatment of prisoners of war”.» (par. 52). «[…] the law of immunity is essentially procedural in nature […]. It regulates the exercise of jurisdiction in respect of particular conduct and is thus entirely distinct from the substantive law which determines whether that conduct is lawful or unlawful» (par. 58).

[7] Dissenting opinion of Judge Cançado Trindade, spec. parr. 184 ss., ove è svolta un’ampia argomentazione a sostegno dell’assunto critico contro la rilevanza della distinzione tra acta iure  imperii e acta iure gestionis in presenza di gravi crimini contro i diritti umani. Lo stesso giudice critica tutta l’impostazione della sentenza, basata, secondo la sua valutazione, su una visione Stato-centrica dell’ordinamento giuridico internazionale (parr. 161 ss.).

[8] Dissenting opinion of Judge Yusuf, par. 42.

[9] Si sono ben presto moltiplicati i commenti su vari aspetti di tale pronuncia: cfr., tra gli altri, A. Ruggeri, La Corte aziona l’arma dei “controlimiti” e, facendo un uso alquanto singolare delle categorie processuali, sbarra le porte all’ingresso in ambito interno di norma internazionale consuetudinaria, in consultaonline.it; T. Groppi, La Corte costituzionale e la storia profetica. Considerazioni a margine della sentenza n. 238/2014 della Corte costituzionale italiana, ivi;P. Farraguna, La sentenza n. 238 del 2014 e i controlimiti in azione, in Quaderni costituzionali, 4/2014, pp. 899 ss.; L. Gradoni, La sentenza n. 238 del 2014: Corte costituzionale italiana “controvento” sull’immunità giurisdizionale degli Stati stranieri?, ivi, pp. 905 ss.; A. Tanzi, Sulla sentenza Cost. 238/2014: cui prodest?, in forumcostituzionale.it; A. Guazzarotti, Il paradosso della ricognizione delle consuetudini costituzionali. Note minime a Corte cost. n. 238 del 2014, ivi; S. Lieto, Il diritto al giudice e l’immunità giurisdizionale degli Stati nella sentenza della Corte costituzionale n. 238 del 2014, ivi; P. Passaglia, Una sentenza (auspicabilmnete) storica: la Corte limita l’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile, in diritticomparati.it; F. Fontanelli, I know it’s wrong but I just can’t do right. First impressions on judgement no. 238 of 2014 of the Italian Constitutional Court, ivi; D. Russo, La sentenza della Corte costituzionale n. 238 del 2014: la Consulta attiva i “controlimiti” all’ingresso delle norme internazionali lesive del diritto alla tutela giurisdizionale, in osservatoriosullefonti.it; P. De Sena, Spunti di riflessione sulla sentenza n. 238/2014 della Corte costituzionale, in sidi-isil.org.

[10] Si può prescindere, in questa sede, dalla controversia sulla consistenza e configurabilità separata dei princìpi fondamentali o “supremi” della Costituzione e sul quesito se la maggiore “durezza” di questi ultimi rispetto a tutte le altre norme costituzionali attribuisca alla Corte costituzionale un anomalo potere di “scegliere” quali parti della Carta sono sacrificabili e quali non: mi si consenta, su questa problematica, di rinviare a G. Silvestri, Fonti interne, fonti esterne e tutela integrata dei diritti fondamentali, in Studi in onore di Franco Modugno, Editoriale Scientifica, Napoli, 2011, IV, p. 3421; Idem, L’integrazione e la contestualizzazione dei principi e dei diritti fondamentali nei rapporti tra Ue, Cedu e ordinamento costituzionale italiano, in Scritti in onore di Giuseppe Tesauro, Editoriale Scientifica, Napoli, I, pp. 655 ss.

[11] La problematica delle norme non scritte interne, corrispondenti a quelle internazionali consuetudinarie è stata, in passato, affrontata da lungimiranti dottrine, sia con riferimento alla sindacabilità delle norme non scritte da parte della Corte costituzionale, sia con riferimento alla formazione istantanea di norme non scritte interne corrispondenti: cfr. S. Leone, Sul dispositivo della sentenza n. 238 del 2014: una soluzione preordinata ad accentrare il sindacato sulle consuetudini internazionali presso Palazzo della Consulta, in Quaderni costituzionali, 4/2014, pp. 902 ss., che ricorda le riflessioni magistrali di Antonio La Pergola e Antonio Cassese.

[12] Cfr. in proposito M. Longobardo, “Il non-essere non è e non può essere”: brevi note a margine della sentenza n. 238/2014 della Corte costituzionale rispetto all’adattamento dell’ordinamento italiano al diritto internazionale consuetudinario, in www.sidi-isil.org.

[13] Questo sembra essere il significato profondo della famosa sentenza Kadi della Corte di giustizia dell’Unione europea.