Magistratura democratica

Lo studio del diritto tra sapere, fare e saper fare

di Irene Stolzi
Il contributo intende affrontare la questione del ruolo e della funzione della didattica innovativa, con riferimento sia alla missione dell’università quale istituzione vocata anzitutto alla ricerca, sia alla sua auspicata capacità di offrire una formazione (anche) professionalizzante. Tale obiettivo – si sostiene – dipende dall’utilizzo della didattica nel suo complesso quale strumento funzionale al confronto con l’importanza e la complessità del fenomeno giuridico, sempre legato a una certa visione della convivenza e, per questo, chiamato a stimolare non solo le capacità di lettura e di decifrazione dello studente, ma anche, e non meno, quelle di progettazione.

Epicentro della saga dell’era digitale è il garage, il quale campeggia con il fascino del mito…
(S. Mannoni e G. Stazi, Is competition a click away? Sfida al monopolio nell’era digitale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018)

Tutti ad Harvard inventano qualche cosa. I laureandi ad Harvard credono che inventarsi un lavoro sia meglio che trovare un lavoro
(dal film di D. Fincher, The social Network, Usa, 2010)

Die Rechtstechnik ist nicht nur Sache des Verstandes, sondern insobesondere auch der Phantasie
(Joseph Kohler, Lehrbuch des Bürgelichen Rechts, Carl Heymanns Verlag, Berlino, 1906)

 

Mi limiterò a fare qualche osservazione del tutto cursoria sul problema della formazione universitaria e sul legame che in essa può (o deve, o dovrebbe) instaurarsi tra sapere, fare, e saper fare, con specifico riguardo agli studi giuridici e al ruolo svolto dalle cd. “forme di didattica innovativa”.

Come noto, lo studio universitario si lega a doppio filo alla questione della professionalizzazione, ovvero alla capacità, che l’istituzione universitaria deve avere, di trasferire conoscenze e competenze che i laureati possano poi spendere nel mondo del lavoro, nel quale si chiede loro di sapere, ma anche di saper fare. Da un simile osservatorio, valorizzare il legame che passa tra queste due dimensioni non significa soltanto sottolineare la difficoltà di separarle con una linea divisoria netta; significa, più consistentemente, vedere in esse dimensioni che si definiscono anche (e soprattutto) a partire dalla loro relazione, dalla loro necessaria tensione. Una simile affermazione, del tutto banale, sembra però acquistare una particolare pregnanza in relazione all’universo giuridico e agli specifici rischi che si annidano tanto nelle modalità di insegnamento quanto in quelle di apprendimento del diritto. Prendere definitivamente congedo da un’impostazione formalistica, ribadendo l’impossibilità di separare o addirittura contrapporre (quella che un tempo si sarebbe chiamata) la voce della teoria dalla voce della prassi, impone infatti di prospettare modalità di rapporto tra i due universi che ne esaltino la eguale, irrinunciabile essenzialità, avverso gli estremi, entrambi perniciosi, dell’eccesso di empirismo, da un lato, e del nozionismo fine a se stesso, dall’altro.

Che non possa essere, soltanto o prevalentemente, quella empirico-casistica la cornice all’interno della quale si colloca lo studio universitario, è eloquentemente testimoniato dalla parziale retromarcia che, su questo fronte, sta facendo il mondo anglosassone, che ha promosso e sostenuto in maniera molto convinta l’utilità di questa modalità dell’apprendimento. Una simile formazione rischia, infatti, di assumere carattere iperspecialistico (si conoscono solo i casi/fatti/congegni etc. che si analizzano, che si sperimentano da vicino), lasciando sprovvisto lo studente di sufficienti risorse per capire e interpretare ciò che esce dal perimetro delle cose apprese. E questo appare vero anche per il sapere giuridico, che pure, in quelle realtà, ha un volto eminentemente casistico; “case law” non significa infatti diluizione casistica delle conoscenze; semmai, significa arrivare a possedere strumenti e categorie che, muovendo dall’esame dei casi, permettano di navigare nel mare magnum dell’esperienza.

Resta quindi decisiva la questione del “dosaggio” tra la dimensione pratico-applicativa e quella teorico-sistematica. Una formazione sbilanciata sul primo fronte, prevalentemente modellata, cioè, sulle caratteristiche della prassi o del mercato del lavoro in un determinato momento, tende a diventare presto obsoleta, in un mondo, come l’attuale, che corre veloce e che tende a modificare continuamente il profilo delle competenze di cui ha bisogno. Sotto questo aspetto, una buona formazione (e, quindi, anche una formazione professionalizzante) deve soprattutto insegnare a ragionare, favorendo la formazione di intelligenze versatili, intuitive, capaci di relazionarsi in maniera attiva, propositiva, nei confronti della realtà.

È a partire da queste considerazioni che il «garage» – menzionato nella prima citazione riportata in epigrafe – tende a diventare un luogo mitico. Il self made man, oggi come ieri, è infatti la persona capace di leggere il proprio tempo, di intercettarne le esigenze o addirittura di anticiparne (ma non troppo, come la triste sorte di tanti profeti dimostra) la rotta di evoluzione. E spesso, per realizzare la sua “corsa all’oro”, ciò che sembra servirgli, almeno per partire, è soltanto un computer; resta, caso mai, da capire – ci venga passata la boutade – perché questa ricorrente narrazione sulle origini delle fortune odierne elevi il garage a luogo nevralgico, e non, per dire, un soggiorno o una camera. A differenza delle vecchie fortune, che spesso richiedevano di sporcarsi le mani e che, quindi, avevano il proprio epicentro nell’officina, un’analoga esigenza di localizzazione non sembra imposta dalle caratteristiche di uno strumento lindo e asettico come il computer. O forse il garage serve, prima, a conferire quel tocco di cupezza e trasandatezza necessarie a descrivere il profilo socio-antropologico dell’odierno self made man, solitamente ritratto come un tutt’uno col suo apparecchio informatico, meglio se con tratti di asocialità, e, poi, a garantire l’adeguato salto di scenario dovuto alle ricchezze rapidamente accumulate.

Se la formazione, da sempre, può poco (o non troppo) di fronte all’intuizione e al talento assoluti, la frase su Harvard sembra voler dire che i bravi, sostenuti da una formazione di eccellenza, sono messi in grado di cavalcare il loro tempo dal lato dei condottieri, di chi contribuisce a tracciare il solco lungo il quale si dispone il futuro – anche se il film da cui la frase è tratta, The social network, è dedicato a ripercorrere l’ascesa di Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook (e dunque uomo da computer) e al tempo stesso studente di Harvard, ma solo a metà (lascerà dopo due anni per consolidare il suo progetto imprenditoriale e realizzare la sua vertiginosa ascesa sociale ed economica).

Non destano, perciò, particolare sorpresa neppure i risultati di una ricerca di qualche tempo fa, che metteva in risalto le spiccate attitudini manageriali mostrate dai laureati in filosofia e matematica, ovvero da intelligenze allenate al ragionamento astratto, a un tipo di ragionamento che, evidentemente, rappresenta una palestra di agilità mentale proficuamente spendibile nei più disparati settori. La salda padronanza di strumenti concettuali robusti, rigorosi, resta quindi una tappa irrinunciabile di ogni formazione; al tempo stesso, simile necessaria padronanza non va confusa con l’acquisizione di un sapere arido, mnemonico, nozionistico, che spegne – più che accendere – le intelligenze. È soprattutto a partire da qui, come si intuisce, che lo scivolo dall’orizzonte (necessario) della teoria a quello (asfittico) del nozionismo rischia di rappresentare una scorciatoia tanto nel modo di insegnare quanto in quello di studiare il diritto.

Tornando alle università, e a quello che sono chiamate a fare per offrire una buona formazione (e, quindi, una formazione anche professionalizzante), sembra necessario che esse non vengano distolte dalla loro vocazione originaria e preminente, quella di essere anzitutto istituzioni in cui si fa ricerca. È cioè indispensabile che il docente universitario resti anche uno studioso, un ricercatore nella materia che insegna: non solo e non tanto perché deve essere portatore di uno specialismo maggiore rispetto ai professori dei gradi precedenti di istruzione; ma soprattutto perché la ricerca, qualunque sia il suo territorio di esplicazione, è sempre un varco per guardare al futuro, per immaginarlo, per interrogarlo. È un punto di vista, articolato e faticoso, sul mondo. Essendo un osservatorio essenziale per avvicinare e decifrare la complessità del presente, per restituire il presente alla sua complessità, la ricerca – e questo vale per la stessa ricerca storica, quando è ben fatta – è anche, e sempre, una forma di intuizione del futuro.

Sotto un simile profilo, la stessa distinzione tra materie culturali e professionalizzanti tende a sfumare: possono infatti definirsi “professionalizzanti” tutte le materie che insegnano a pensare, ad auscultare il battito più o meno riposto della realtà, tanto più in quest’epoca che corre veloce e che sembra non lasciarsi afferrare. Se dunque una buona formazione, in un contesto come quello attuale, deve attrezzare alla decifrazione della complessità, l’incontro con la realtà non può, né deve essere eluso; fare e saper fare sono dunque i momenti nei quali si consuma il passaggio tra ciò che si è appreso nei libri e l’inesauribile, irriducibile ricchezza della realtà, di ciò che la realtà offre all’analisi dell’osservatore. È il momento che sollecita a cercare e inventare soluzioni, che impone di sperimentare idee e connessioni inedite (ormai si usa dirlo all’inglese: critical thinking e problem solving); è uno dei momenti che consente di fronteggiare i disguidi prodotti da qualche eccesso di pedagogia accuditiva e dalla tendenza, indotta dalla rivoluzione telematica, a considerare irrilevante o addirittura inesistente tutto ciò che non è a portata di “clic”.

Beninteso, tutta la didattica dovrebbe essere uno strumento non orientato a imboccare i discenti o a riempirli alla stregua di contenitori, ma a stanare idee, a mettere gli studenti a contatto con le proprie capacità e la propria autonomia. Tuttavia, alcune forme e modalità di didattica (la cd. “didattica innovativa”) sono espressamente pensate e orientate per sviluppare queste abilità. Con riferimento al diritto, e ai rischi specifici cui si accennava sopra, queste pratiche di insegnamento dovrebbero servire a debellare alcune idee fallaci che pure continuano a circolare: tra i non addetti ai lavori, ma anche tra chi il diritto ha deciso di studiarlo e insegnarlo. In particolare, l’idea che il diritto sia una dimensione arida risultante da un insieme di formule logicamente concatenate e concatenabili che si prestano, come tali, a essere astratte dal contesto che le esprime. Da una simile angolatura, la didattica innovativa rappresenta qualcosa di più e di diverso della risposta chiamata semplicemente a mettere in tensione teoria e prassi, ad incresparne la linea di confine. Essa diventa, o dovrebbe diventare, uno dei modi per ragionare sull’idea stessa di diritto, per riportare il diritto alla sua dimensione identitaria più essenziale. Dovrebbe essere, in poche parole, uno dei luoghi che permettono al diritto di palesarsi come esperienza, come dimensione viva che si incarna in molteplici guise e forme. Un esercizio di complessità e di ricchezza, ma anche, e insieme, il modo per confrontarsi con ciò che il diritto può essere, con quello che è diventato e con ciò che vorremmo che fosse. Dunque, un modo per sondare l’inesauribile pluralità di combinazioni che la realtà offre al giurista e, al tempo stesso, una via per cogliere potenzialità e limiti di un determinato sistema di regole.

Che alcuni tratti assunti dall’odierno ordinamento formale non siano particolarmente confortanti, è osservazione sulla quale non serve dilungarsi. I disguidi sono noti: una normazione ipertrofica, dai contenuti sovente pulviscolari, poco o nulla coordinata con il circostante tessuto regolativo; un rapporto tortuoso e a volte contraddittorio tra i diversi livelli di normatività e le diverse fonti che concorrono a disegnare ordinamenti, come gli odierni, particolarmente complessi. A emergere è una difficoltà di orientamento che sicuramente ha giocato un ruolo rilevante nel determinare una visione negativa del giuridico: sempre meno vissuto come risorsa ordinativa, chiamata a sostenere e orientare i movimenti di una determinata convivenza, e con sempre maggior frequenza percepito come dimensione lontana, se non addirittura ostile, il diritto pare aver perso la propria funzione di strumento hominum causa constitutum. E non sempre si tratta di esagerazioni o di percezioni distorte; sono piuttosto i riflessi che si producono “a valle”, sulla coscienza comune, di alcune difficoltà e tendenze che operano “a monte”: che caratterizzano, cioè, l’operato di chi il diritto lo scrive e lo immagina. Dietro le fattezze degli odierni sistemi regolativi sembra, infatti, operare un malinteso senso del ruolo e dei compiti del diritto, concepito come dispositivo chiamato soprattutto a limitare, vietare e correggere gli effetti di fenomeni che si producono nella realtà; anche quando non reca i segni della precaria composizione di istanze e interessi diversi, un diritto concepito soprattutto come strumento di contenimento e divieto tende ad arrivare in ritardo, a rincorrere affannosamente il ritmo incalzante della realtà.

Questo vale, chiaramente, per il diritto formale, ufficialmente posto, mentre molte regole, viceversa plasticamente aderenti alle mutevoli richieste della realtà, sgorgano dal territorio meno appariscente, ma non meno giuridico, delle prassi. Fucina perennemente attiva, la dimensione della prassi rinnova e conferma la natura del diritto come strumento che ha nella socialità una delle sue caratteristiche distintive, costitutive. Senza che questo, peraltro, consenta di conferire una connotazione necessariamente positiva alle regole che hanno una simile origine, specialmente in un contesto, come l’attuale, caratterizzato da un importante aumento delle asimmetrie socio-economiche e quindi particolarmente esposto al rischio che le regole, alla fine, le scrivano soprattutto i più forti.

Da un simile osservatorio, la grande attenzione che da qualche lustro i diversi saperi giuridici dedicano al tema dei principi e dell’interpretazione sembra possa essere riportata all’esigenza di sollecitare una riflessione profonda sul senso e sul ruolo del diritto. A essere sollevato è, certo, un problema di razionalità e coerenza del sistema di regole e dei modi con i quali (ex ante o ex post, coi principi o coll’interpretazione) tali obiettivi possono essere raggiunti; ma è probabilmente anche la strada con la quale si cerca di riappropriarsi di un’idea di regolazione – che era stata decisiva nella costruzione delle democrazie del secondo dopoguerra – come risorsa non chiamata soltanto, o prevalentemente, a limitare e vietare, ma anche a progettare, orientare, guidare gli svolgimenti della realtà, a fornire ad essi una bussola, un ancoraggio forte a quell’insieme di valori ritenuti essenziali a qualificare un’esperienza come democratica.

Le stesse forme di didattica innovativa, viste da questa prospettiva, non servono tanto a simulare un incontro tra libri e realtà mettendo, per dir così, il diritto alla prova dei fatti; o meglio: nel fare questo, nel gettare un ponte tra astratto e concreto, esse dovrebbero servire a percepire che il diritto è una dimensione rilevante nelle esperienze minute e quotidiane, come nelle grandi questioni fondative. E che compito del giurista è anche quello di mettere in relazione queste diverse ampiezze (si potrebbe dire: il diritto anche alla prova delle idee). Mi sembra che tutte le forme di didattica innovativa attualmente sperimentate nel Corso di laurea che, in questo momento, mi trovo a presiedere tendano a doppiare un simile obiettivo, a rendere consapevoli gli studenti che micro e macro sono due orizzonti necessari e complementari, e che la riflessione sul diritto, sulle sue concrete condizioni di esistenza, è sempre un tipo di riflessione sul tipo di convivenza nella quale viviamo (o su quella nella quale vorremmo vivere). Mediazioni, simulazione del processo civile, cliniche legali, competizioni di argomentazione giuridica sulla base della visione di materiali multimediali, laboratori di scrittura e di drafting contrattuale costituiscono altrettante risorse per restituire al diritto la sua identità di dimensione vivente, che gli studenti devono imparare a decifrare e maneggiare, consapevoli dell’importanza e della delicatezza di ciò che hanno tra le mani[1].

Allora, se l’alta formazione ha anche il compito di formare cittadini o quelle che, con terminologia d’antan, si sarebbero dette “élite” o “classi dirigenti” (la terminologia è un po’ datata, ma riportare in auge il dibattito su tale tema sembra quanto mai urgente, dal momento che da esso dipendono, in buona parte, la salute di una democrazia e la sua capacità di tenere a bada le insidie populiste), se dunque è anche questo il compito dell’istituzione universitaria, una didattica consapevole dell’importanza del proprio ruolo è una didattica che non aspira soltanto a formare giuristi capaci di destreggiarsi nella selva crescentemente complessa di comandi e precetti, ma che coltiva l’ambizione di formare giuristi che sappiano, ognuno dall’osservatorio del proprio mestiere, contribuire a progettare e strutturare le regole di un determinato ordinamento. Il diritto non ha, infatti, poteri prodigiosi, ma una buona regolazione può far la differenza nel determinare la direzione che imbocca un ordinamento. Anche una regolazione di qualità può rappresentare un’importante forma di intuizione del futuro, la zona in cui si immagina e progetta il futuro di una convivenza. L’ultima frase riportata all’inizio di queste pagine, frase che, non a caso, un maestro italiano del diritto ha posto in esergo a una propria opera[2], vorrebbe essere un richiamo a questo lato “costruttivo” del lavoro giuridico. L’autore è Joseph Kohler, giurista poliedrico della Germania tra Otto e Novecento, convinto che la tecnica giuridica non fosse solo questione di intelligenza astratta, concettuale, ma anche di fantasia; che la tecnica giuridica richiedesse, insomma, un tipo di intelligenza che non rinuncia a progettare, a porsi in modo creativo, persino immaginifico, nei confronti della realtà.

[1] Vds. www.giurisprudenza.unifi.it/vp-354-didattica-innovativa.html.

[2] P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico – 1860-1950, Giuffrè, Milano, 2000.